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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Scuola di formazione politica 2016

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PERCHE’ UNA SCUOLA DI FORMAZIONE POLITICA 

Una scuola di formazione politica: che idea vecchia e superata! O forse no: è questa la scommessa che la Fondazione De Gasperi gioca, puntando sui giovani per rigenerare la politica. È un’iniziativa che rientra in un percorso di formazione continua che si arricchisce durante l’anno con seminari e aperitivi di approfondimento, pubblicazioni e analisi, programmi internazionali e nelle scuole. Così nasce la nostra scuola di politica, per dar seguito a incontri fatti e farne di nuovi, con ragazzi che prendono sul serio l’invito di Papa Francesco: “Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico”.

A tema c’è proprio il mondo in cui viviamo e quale contributo ciascuno di noi e insieme possiamo dare. Un mondo in subbuglio, segnato da una profonda crisi, innanzitutto identitaria: è sempre meno chiaro chi siamo, quale sia il valore della nostra tradizione, e – di conseguenza – dove vogliamo andare. In un contesto dove tutto si mischia – etnie, religioni, ceti e culture – il problema dell’identità e dell’incontro diventa centrale per evitare che cresca la violenza e lo scontro in ogni ambito del vivere. E’ un mondo ferito da una miriade di guerre, tanto che il Santo Padre ha parlato di “Terza Guerra Mondiale a pezzi”. E’ un mondo globalizzato, scosso da crisi finanziarie cicliche che ribaltano gli equilibri non solo economici ma anche sociali. 

DI fronte a ciò i popoli e le istituzioni sembrano smarrite, i primi quasi vinti da un cinico distacco, le seconde ampiamente impotenti e delegittimate. Noi non vogliamo arrenderci a tutto questo ma intendiamo esserci con un contributo originale e costruttivo. Come fece De Gasperi che durante anni bui per l’Italia e l’Europa seppe proporre insieme a molti delle sua generazione una visione alta e concreta per la ricostruzione economica, sociale e democratica. Oggi come allora abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, che attinga a quei valori della centralità della persona, della libertà, della sussidiarietà e della solidarietà che hanno fatto grande la nostra comunità.

Lorenzo Malagola, Segretario Generale Fondazione De Gasperi

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Intervento del Prof. Markus Krienke alla presentazione della mostra “Unione Europea, storia di un’amicizia” Roma, 13 febbraio 2018

L’Europa e i suoi ideali cristiani – Adenauer, De Gasperi, Schuman

Markus Krienke (Lugano-Roma-Milano)

 

 

Quando Adenauer scrisse a Schuman il 23 agosto 1951 che «tutto il peso dei compiti è sulle spalle di uomini, che come Lei, il nostro comune amico Presidente del Consiglio De Gasperi ed io sono pervasi dalla volontà di sviluppare e realizzare una buona costruzione del mondo europeo su nuovi fondamenti cristiani», egli stesso dà una risposta sia a chi mette in dubbio che ci sia stata una forma di vera amicizia tra i tre “Padri fondatori” dell’Europa, sia a chi ritiene il riferimento ai valori cristiani come non essenziale nel processo della costituzione dei fondamenti di ciò che oggi è l’Unione Europea. La mostra che oggi viene inaugurata in Palazzo Montecitorio presenta non solo le biografie di tutti e tre statisti nonché autentici esponenti dell’idea di “Democrazia cristiana”, ma anche documenti d’epoca come lettere, discorsi e materiale fotografico, per evitare che l’oblio di questa “storia di un’amicizia” porti sempre più a vedere nell’Europa soltanto un colosso burocratico, amministrativo e di potere tendenzialmente ostile alle sovranità nazionali.

Per dare una risposta ai due dubbi appena citati, è senz’altro chiaro che i primi successi – e anche fallimenti – del progetto europeo sono stati sempre anche frutto di meri interessi nazionali: quello francese di acquisire attraverso i trattati un controllo sulla Germania, quello della Germania di rientrare nella famiglia dei popoli liberi, e quello dell’Italia di ampliare il suo influsso in Europa, impedendo di essere esclusa dall’interesse della Francia e dell’Inghilterra alla Germania. E certamente Adenauer, De Gasperi e Schuman, per quanto siano stati motivati dai loro ideali condivisi, erano realisti e consapevoli del fatto che gli interessi nazionali non portano nuovamente a una situazione di conflitto solo se vengono costretti dentro patti e istituzioni concrete a livello sovranazionale. E che ciò che spinge le nazioni a tali passi possono essere sempre e soltanto interessi nazionali. Per questo, sapevano senz’altro che la pace e una nuova solidarietà si lasciava realizzare soltanto attraverso un’integrazione degli interessi nazionali a un nuovo livello politico – quello che tutti e tre condividevano non a caso grazie alla loro comune fede cristiana: nati e cresciuti tutti e tre in “zone di periferia” delle loro rispettive nazioni, era la dimensione universale della fede cristiana e l’affermazione incondizionata della dignità umana, che li fece agire, ancora indipendentemente l’un dagli altri, contro il potere politico nazionale: mentre Adenauer da borgomastro di Colonia si opponeva alla predominanza prussiana in Germania, nel senso di un più articolato federalismo che avrebbe consentito di collocare la produzione dell’acciaio e del carbone nella Ruhr al di fuori di meri interessi nazionalistici, De Gasperi e Schuman combattevano contro l’unificazione del sistema scolastico e per la libertà di insegnamento nelle scuole cattoliche. Tutti e tre trovarono poi nel periodo dei totalitarismi accoglienza in strutture ecclesiastiche (De Gasperi nel Vaticano, Schuman ed Adenauer in monasteri benedettini), dove studiavano la Dottrina sociale della Chiesa con i suoi principi della dignità umana, della solidarietà universale (non nazionale o partitica), e della sussidiarietà. Le encicliche di riferimento furono la “Rerum novarum” di Leone XIII (1891) e soprattutto la “Quadragesimo anno” di Pio XI (1931). Capirono, così, che la fede cristiana si traduce in ideali non solo morali, ma istituzionali e politici, dove si rivelano universali, cioè come espressione di una visione dell’uomo in quanto persona che non dipende da una fede o Weltanschauung particolare.

Quando avvennero i primi incroci, per motivi storici ovviamente sempre tra due dei tre, nel secondo dopoguerra (in realtà un primo incontro tra Adenauer e De Gasperi risale già al periodo tra le guerre), allora si incontrarono già da leader dei loro partiti cristiano-democratici. Il loro linguaggio comune – oltre il tedesco che tutti e tre parlarono in modo “originario”, da madrelingua o comunque sin dall’infanzia – era allora questa antropologia cristiana, cioè l’idea cristiana del valore incondizionato della persona umana, e delle conseguenze di questa idea per la politica e le istituzioni. Ciò si traduceva in un rapporto che senz’altro si può chiamare “amicizia”, certamente un’amicizia politica, ma che come ogni amicizia esprime un sentire comune, una fiducia di base, un sapere di avere un alleato, una cosa di massima importanza in politica, soprattutto in una situazione di massima ostilità, dopo la guerra più terribile della storia, tra i popoli europei. In altre parole, la loro “amicizia” era una vera e propria relazione, certamente tra loro tre, ma che simboleggiava anche una nuova relazione tra i popoli. Una relazione resa possibile grazie ai loro valori condivisi. Relazione che nei termini della Dottrina sociale della Chiesa si chiama solidarietà, e per la quale i nostri tre spesso usavano la parola “pace”. E forse è questa relazione che oggi è venuta meno in Europa, per cui le forze centrifughe (che ci sono sempre stati) si sentono con nuova veemenza.

Tale rapporto di stima ed amicizia emerge senz’altro da innumerevoli documenti, dai quali in occasione di questa apertura della mostra abbiamo estrapolato soltanto alcune affermazioni che ci fanno capire senz’altro diverse sfumature con le quali i tre hanno vissuto e interpretato quest’amicizia, ma che in nessun caso si limitano a mere formule di cortesia o di protocollo internazionale. Forse si potrebbe descrivere ciò che emerge da queste affermazioni come una “stima amichevole”. Consideriamo ad esempio quanto Adenauer afferma su Schuman: «Forse noi due siamo chiamati da Dio di dare un contributo prezioso per i nostri fini comuni in un momento decisivo per l’Europa». Come si vede, anche se tutti e tre interpretano i “valori cristiani” da laici, i riferimenti ad essi sono espliciti. A De Gasperi lo stesso Adenauer scrive: «Si deve soprattutto alla Sua iniziativa se in questi giorni i deputati della Ceca a Strasburgo affrontano la grande opera, cioè il progetto della costituzione politica dell’Europa. Come difficilmente alcun altro, Lei ha dedicato la Sua vita alla costruzione di questa nuova Europa. Lei persegue una via che è stimolo agli stanchi ed agli indifferenti, è sprone ai contrari e sorgente di forza a tutti i benpensanti». Vice versa, De Gasperi affermò su Adenauer: «Se cade Adenauer, bisogna considerare disturbato il completo equilibrio continentale», ma poi fa anche trapelare che oltre l’intesa tra di loro nelle questioni politiche europee, c’è sicuramente l’appezzamento dell’uomo Adenauer: «Adenauer, che nelle occasioni ufficiali sembra così freddo e riservato, nei contatti diretti e negli incontri personali è di suprema cordialità e familiarità. Ciò ha molto facilitato le conversazioni, dalle quali risulterà, come credo, qualche beneficio concreto per l’Italia». Su Schuman, De Gasperi pronuncia l’uguale stima amichevole: «Come Schuman ha fatto notare, l’idea della solidarietà europea si è attuata in vari istituti in mezzo a difficoltà straordinarie, e noi sappiamo quanto dobbiamo alla sua iniziativa e al suo spirito di realizzazione». La solidarietà, quindi, si realizza tramite istituzioni, ecco un tratto fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa, ma certamente ciò presuppone persone coraggiose e piene di spirito di iniziativa. Su De Gasperi, Schuman invece rammarica che si sono «incontrati tardi nella vita, ma la nostra amicizia è stata profonda e senza riserve. […] Ella è stata spesso un mediatore efficace e disinteressato, sempre un animatore chiaroveggente e tenace». Ed anche di Adenauer, il politico francese ammira il suo spessore spirituale: «La Germania deve solo ad Adenauer, alla sua politica e alla sua personalità spirituale e morale, di essere tornata così presto e paritariamente nella famiglia delle nazioni».

Come emerge da queste affermazioni reciproche tra i tre “Padri fondatori”, la fede cristiana sta senz’altro alla base non solo della loro amicizia, ma anche del loro progetto europeo: non la fede ecclesiastica, che senz’altro era molto diversamente articolata in tutti e tre, ma le convinzioni dei valori dell’antropologia cristiana, cioè quale visione sulla persona e sulla politica deriva da essa. Per questo, loro non usavano un linguaggio “religioso”, “liturgico” o “spirituale”, ma usavano concetti politici, per esprimere, appunto, che questa loro visione, così la ferma convinzione di tutti e tre, non è espressione di una credenza individuale, ma presenta criteri universali per come impostare una futura politica per l’Europa. Non si deve dimenticare, infatti, che in parte dovevano realizzare le loro idee anche contro la resistenza della Chiesa e di alcuni vescovi. La loro convinzione dell’universalità della dignità umana come principio base della Dottrina sociale della Chiesa, emerge chiaramente da un’affermazione di De Gasperi nel 1954: «Voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che salda la figura e la responsabilità della persona umana col fermento di fraternità evangelica». Questa universalità della dignità umana per loro è non a caso la vera essenza della democrazia: «La democrazia è nata e si è sviluppata con il cristianesimo. Essa è nata quando l’uomo, secondo i valori cristiani, è stato chiamato a valorizzare la dignità della persona, la libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principi non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità».

Con queste parole, Schuman non vuole dire che la Chiesa sarebbe stata promotrice della democrazia, che nel contesto storico non corrisponderebbe certamente ai fatti, considerando che per l’intera modernità e in fondo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) essa ha condannato e rifiutato (fino all’inizio ’900) o, nel periodo che precede il Concilio, almeno parzialmente ostacolato la stessa democrazia. Schuman, con questa affermazione, infatti intende dire che con l’antropologia cristiana, cioè la visione cristiana dell’uomo com’è descritta nella Bibbia, è iniziata una nuova cultura che spinge verso la realizzazione di nuove forme politiche: in questo caso il superamento dei totalitarismi e nazionalismi verso la realizzazione europea della pace e della solidarietà. Tale dinamica corrisponde senz’altro alla convinzione di pensatori cattolico-liberali come Rosmini (1797-1855) o Sturzo (1871-1954), oppure quale viene espressa dai teoretici dell’economia sociale di mercato come Röpke (1899-1966), per il quale il «liberalismo» non è un’antitesi al cristianesimo, sebbene nella modernità si è realizzata la loro contrapposizione. Al contrario, esso sarebbe, sempre secondo Röpke, il «suo legittimo figlio spirituale», aggiungendo che si basa senz’altro anche su altre correnti di pensiero come la filosofia antica e l’illuminismo moderno. Ciononostante il cristianesimo ha amalgamato queste tradizioni e ha dato quella consistenza alla dignità della persona, alle idee di solidarietà e sussidiarietà, tale da costituire l’eredità spirituale-universale dell’Europa che ora, dopo l’esperienza dei totalitarismi e nazionalismi sarebbe finalmente l’ora di realizzarla.

Sta precisamente in questo punto, la comune convinzione degli “ideali cristiani” tra Adenauer, De Gasperi e Schuman. Infatti, proprio per quanto riguarda la solidarietà, Schuman afferma che proprio la sua realizzazione, come “ideale” cristiano e universale, è l’unica conseguenza possibile dalla storia bellica europea: «La solidarietà delle nazioni è il grande insegnamento del recente passato. […] Un’Europa forte e libera è la migliore garanzia per la propria sicurezza e per la pace in tutto il mondo. Nella nuova costruzione l’idea della pace e del lavoro in comune prendono una nuova forma concreta». E De Gasperi trovava le seguenti parole per questa convinzione: «lo spirito di solidarietà europea potrà creare, in diversi settori, diversi strumenti di salvaguardia e di difesa, ma la prima difesa della pace sta nello sforzo unitario che, comprendendo anche la Germania, eliminerà il pericolo della guerra di rivincita e di rappresaglia». Una nuova solidarietà per l’Europa, che però, non solo secondo la Dottrina sociale della Chiesa, ma anche secondo Adenauer, De Gasperi e Schuman, è inscindibile dall’idea di sussidiarietà, cioè quel valore che si traduce nel federalismo europeo e che è stato riconosciuto e affermato “ufficialmente” dal Trattato di Maastricht (art. 3B). «La realizzazione dell’integrazione europea non deve essere resa impossibile da una malattia dei nostri tempi: il perfezionismo. L’integrazione europea non deve essere rigida; deve essere per i popoli europei una corazza che striminzisca, ma al contrario deve essere per loro e per il loro sviluppo un appiglio comune, un sostegno comune per uno sviluppo sano che corrisponda agli interessi legittimi di tutti. Per questo motivo non ritengo necessarie le istituzioni sovranazionali […]. D’altro canto l’efficacia di una tale federazione non deve dipendere dagli interessi presunti di un unico membro». Ciò che Adenauer intende dire con queste parole è che non può esistere una perfezione istituzionale per l’Europa, per cui il suo sguardo deve essere sempre orientato alla singola persona: anche in Europa, la precedenza spetta alle istituzioni più vicine alla persona. Probabilmente è proprio questo principio che ormai abbiamo dimenticato nella burocrazia europea. Infatti, anche De Gasperi affermò: «Ho parlato da europeo, sì. Ma parlando da europeo, chi può credere che io non avessi in animo l’Italia?». La conciliazione di entrambe le dimensioni è la convinzione dei nostri tre statisti: e sono proprio gli ideali cristiani che rendono possibile per loro una tale sintesi. Per quanto riguarda Adenauer, rispetto a questa dimensione etica di fondo, che si esprimeva concretamente nell’intenzione di creare un’Europa dei popoli liberi contro la minaccia dell’Unione Sovietica – la quale nei suoi occhi rappresentava l’antitesi antropologica, cioè a livello degli “ideali” imprescindibili e non negoziabili – le concrete questioni istituzionali per lui erano decisamente di seconda importanza.

Queste dimensioni politiche degli “ideali cristiani” – dignità della persona, solidarietà, sussidiarietà, con le loro conseguenze per democrazia, federalismo e giustizia sociale – che sono quei valori universali affermati dai trattati europei fino ad oggi, senza che la “Costituzione europea” avrebbe voluto menzionare il riferimento a Dio, ma esprime senz’altro, almeno, il contributo storico delle radici cristiane, emergono – come è stato tentato di esplicitare – dai discorsi, dalle lettere e dall’agire di Adenauer, De Gasperi e Schuman. La mostra “Unione Europea – Storia di un’amicizia” mette pertanto a disposizione un pezzo da un discorso di tutti e tre che esprime proprio tale dimensione. Per concludere queste riflessioni, ne vorrei aggiungere altri tre pezzi, più brevi, e presi da tre altri discorsi di Adenauer, per confermare che abbiamo a che fare davvero con una costante delle loro convinzioni, e non soltanto di “ornamenti” aggiuntivi a qualche loro discorso “solenne”: Adenauer, certamente, non ha fatto riferimento agli ideali cristiani occasionalmente quando parlava in contesti cattolici. Magari in modo più “laico” e universale, ma cionondimeno con molto insistenza, ci si è riferito in modo costante e continuo.

In un discorso del 20 luglio 1952 Adenauer affermò: «Il nazionalismo, a prescindere dove e in quale forma esso appare, contraddice l’ordine divino. Rende lo Stato, o meglio in ogni popolo il proprio Stato, un idolo. Uno dei principi fondamentali del Cristianesimo è l’amore del prossimo e il rispetto del prossimo. Ora, questo principio non vale soltanto per l’individuo, ma anche per l’atteggiamento dei popoli gli uni nei confronti degli altri. Il nazionalismo offende questo principio del Cristianesimo». L’impatto degli “ideali cristiani” sulla politica e sulla futura forma politica dell’Europa sembra più che chiaro. Poi, il 16 aprile 1953 Adenauer viene a pronunciare: «Ma l’Europa non deve sprofondare. È il cuore della cultura occidentale-cristiana. Ha contribuito l’inverosimile per lo sviluppo dell’umanità. E sue forze spirituali, culturali, religiose, economiche e politiche non sono esaurite», certamente una frase che non ha perso niente della sua attualità, e andrebbe senz’altro riconsiderata. Infine, già il 20 ottobre 1950 aveva detto: «Stiamo vivendo in un tale periodo: in questo periodo si deciderà, se si salveranno per l’umanità la libertà, la dignità umana, il pensiero cristiano-occidentale, o se lo spirito delle tenebre e della schiavitù, questo spirito anti-cristiano sventolerà la frusta sopra l’umanità che sta indifesa a terra. Credetemi, amici, non esagero: parole sono troppo deboli per riportare ciò che minaccia i popoli liberi».

Sono questi gli ideali, espressi dalla penna di Adenauer, ma ritrovabili ugualmente negli scritti di De Gasperi e di Schuman, che segnano i primi passi dell’Europa, fino alla morte di De Gasperi nel 1954, con la quale chiude la “storia dell’amicizia” cioè anche la mostra. Schuman è uscito di scena già prima, consegnando il suo posto al suo successore. Adenauer, dal canto suo, porterà l’eredità di questo primo periodo di costruzione europea verso una nuova era di integrazione europea. Si potrebbe riassumere questo stile politico, che associa tutti e tre, e che si basava sulla “stima amichevole” reciproca, realizzandosi attraverso la traduzione degli “ideali cristiani” in politiche ed istituzioni concrete, anche con il termine “carità politica” (non a caso il titolo di una raccolta recentemente uscita, di discorsi politici di Papa Francesco, che ha definito la politica come «una delle forme più preziose di carità»): cioè una politica orientata non alla nazione e a interessi nazionali, ma – senz’altro attraverso questi – sempre orientata al valore ultimo della persona umana. E, certamente, soltanto guardando a persone, cioè politici, concreti, si possono scoprire queste dimensioni essenziali della politica. Per questo, la mostra che stiamo per inaugurare, rimedia ad un desideratum importante nell’attuale scenario politico europeo.

Quaderni Degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea

I Quaderni Degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea, a cura di Pier Luigi Ballini, sono una nuova iniziativa della Fondazione Alcide De Gasperi per favorire una migliore, più approfondita conoscenza di De Gasperi e del suo tempo. Negli anni scorsi, con lo stesso obiettivo, è stata promossa, in occasione del cinquantenario della scomparsa dello Statista – uno dei Padri Fondatori dell’Europa Unita – la Mostra Internazionale Alcide De Gasperi-Un europeo venuto dal futuro, presentata sinora in quattordici città, in Italia e all’estero; sono stati organizzati Convegni e Seminari su grandi temi della politica interna ed internazionale; si è pubblicata la biografia, in tre volumi, Alcide De Gasperi. Con i Quaderni si intende contribuire, in un largo arco tematico e cronologico, alla migliore conoscenza del pensiero e dell’opera degasperiani con la pubblicazione di carteggi e di altra documentazione inedita, di saggi e di note storiografiche per favorire un rinnovato dibattito sull’Italia contemporanea. Le ricerche archivistiche già avviate, in Italia e all’estero, sul movimento cattolico “dall’opposizione al governo”, sulla formazione di De Gasperi e sul suo impegno giovanile, sulla sua attività politica prima e dopo il fascismo consentiranno così – in un quadro europeo di temi e di riferimenti – approfondimenti sull’economia, sulla società e sulla cultura del secolo appena trascorso, sulle decisive scelte di politica internazionale da lui compiute, sulla sua politica europeistica, lucidamente anticipatrice, tenendo anche conto del più aggiornato dibattito storiografico. L’Italia, fra la fine dell’Ottocento e il primo cinquantennio del secolo appena trascorso, e la “nostra patria Europa” saranno sunque al centro delle ricerche e delle riflessioni che i Quaderni proporranno.

LA CRISI (DEL SETTANTESIMO ANNO) DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Quando i Padri costituenti hanno pesato, parola per parola, periodo per periodo, il testo della Costituzione, la immaginavano come la Legge fondamentale della Repubblica, come la (sola) Fonte della convivenza civile degli italiani, come l’unico pilastro della vita istituzionale del Paese, ma anche delle libertà e dei diritti dei cittadini (Calamandrei).
E’ vero che, agli artt. 10 e 11, era prevista un’apertura a fonti del diritto sovranazionali, ma è anche vero che quelle previsioni restavano confinate nell’ambito di un fisiologico riconoscimento degli effetti giuridici del diritto internazionale pattizio e alle limitazioni imposte dalla necessità di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni (Conforti).
Sennonchè, è accaduto, nel tempo, che la Costituzione ha progressivamente perduto quel carattere di “sacralità” (Ciampi) di cui sono connotate le Carte fondamentali di uno Stato e ha ceduto la sua “forza” originaria, per un verso, alle spinte di fonti sovranazionali e, per un altro, alle esigenze di un decisionismo governativo che non tollera più il rispetto delle procedure costituzionali.
La prevalenza delle fonti sovranazionali ha messo in crisi (perlopiù) la tenuta dei principi enunciati nella prima parte della Costituzione; le pressioni della c.d. fast democracy hanno stressato, piegandoli, i processi decisionali (fondati sulla centralità del Parlamento) descritti nella seconda parte della Carta.
Il difficile, ma mirabile ed equilibrato, compromesso raggiunto tra le diverse componenti culturali e politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente nella definizione dei principi fondamentali, dei diritti e delle libertà dei cittadini (Elia), che ha retto e governato per decenni, secondo uno schema ordinato e naturale, le relazioni tra lo Stato, i corpi intermedi e i cittadini, è entrato in crisi con l’affermazione del diritto sovranazionale come preminente o, comunque, equivalente, rispetto alle enunciazioni costituzionali.
Prima il diritto dell’Unione Europea e, poi, i principi consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) hanno, infatti, acquisito, in esito a un processo lungo e tormentato (governato, ma, allo stesso tempo, anche subìto, dalla Corte Costituzionale italiana), una “forza”, rispetto, non solo alla legislazione nazionale ordinaria, ma anche alla stessa Costituzione, che impone, ormai, di considerare quelle fonti prevalenti rispetto alla stessa Legge fondamentale della Repubblica.
O, comunque, di ritenerle, se non prevalenti in via automatica, oggetto di un giudizio di bilanciamento, affidato alla Corte Costituzionale, con i valori e i principi cristallizzati nella Carta (nello scrutinio di compatibilità con la stessa CEDU e con i Trattati europei delle disposizioni legislative nazionali sospettate di confliggere con essi).
I valori consacrati dai costituenti come fondativi della convivenza repubblicana hanno ormai perduto quel carattere di intangibilità e risultano sempre più destinati a soccombere a fronte dell’esigenza di assicurare l’attuazione dei principi europei (per come cristallizzati nei Trattati) o dei diritti della CEDU (che, è bene ricordarlo, non sempre coincidono con quelli costituzionali, soprattutto nella vincolante interpretazione che ne offrono le Corti legittimate a chiarire il senso e la portata dei rispettivi sistemi).
Come si vede, dunque, la Costituzione ha perso quel rango di Legge suprema, alla quale (sola) devono obbedire le leggi ordinarie, per acquisire quello, meno nobile, di legge cedevole, rispetto al diritto dei Trattati dell’UE, o di parametro equivalente e concorrente con le previsioni della CEDU nella verifica della costituzionalità delle norme ordinarie.
Per quanto mitigata dai principi del “margine di apprezzamento” (per come definito dalla Corte di Strasburgo) e dalla teoria dei “controlimiti” (Corte Cost., sent. n.238 del 2014), che escludono una preminenza assoluta e indefettibile dei Trattati europei e della CEDU su confliggenti valori costituzionali, la dialettica tra le predette fonti sovranazionali e la Carta si risolve, in ogni caso, in un indebolimento di quest’ultima e in una sua (inevitabile) degradazione dal rango di Legge suprema dell’ordinamento.
Né potrebbe validamente obiettarsi l’astratta inconfigurabilità di un conflitto tra le fonti confrontate: la diversa conformazione e declinazione, in esse, di alcuni principi e diritti fondamentali non solo non esclude profili di antinomia, ma, al contrario, li enfatizza, nella misura in cui proprio il carattere fondativo e generale di essi esige un loro pieno e incondizionato rispetto.
E’ vero che si è creato un “rapporto di benefica circolarità” (Caravita) tra i diversi sistemi di tutela (nazionale e sovranazionale) dei diritti fondamentali, ma è anche vero che l’idea originaria dei costituenti di disegnare un’architettura, anche valoriale, fondante, al quale avrebbe dovuto conformarsi, in via esclusiva, l’organizzazione e l’ordinamento della Repubblica è, comunque, naufragata sugli scogli del diritto sovranazionale che si è progressivamente affermato come prevalente, equiparato o concorrente, rispetto alla Costituzione.
Senza avventurarci in un giudizio politico sugli effetti di questo progressivo indebolimento della Carta fondamentale, ci limitiamo a registrare le conseguenze del processo giuridico, ma anche culturale, descritto, non senza mancare di rilevare che le nuove fonti non paiono sorrette dalla medesima legittimazione politica che ha ispirato l’Assemblea Costituente.
Ma la Costituzione è entrata in crisi anche per una diversa e ulteriore ragione.
Il fondamento parlamentare dei processi decisionali (che, secondo Kelsen, connota in maniera essenziale il carattere democratico di un regime), il pluralismo democratico, il ruolo dei corpi intermedi, il principio di rappresentatività che erano stati concepiti in un’ottica di amministrazione plurale e condivisa della Res Publica hanno progressivamente ceduto alle esigenze di un decisionismo rapido, imposto dai tempi stringenti della recente crisi economica, e alle nuove modalità di comunicazione implicate dalla diffusione dei new media (Urbinati).
Si tratta di fenomeni recenti che hanno, a loro volta, prodotto gli effetti della c.d. democrazia immediata e, in ultima istanza, della disintermediazione (Stringa), nell’attuazione di un processo di divaricazione tra la legalità procedurale e quella sostanziale, tra la Costituzione formale e quella materiale (secondo l’originaria formulazione di quest’ultima nozione da parte di Mortati).
Si assiste, in altri termini, a una divergenza che non intacca direttamente l’ossequio formale ai canoni procedurali descritti nella Carta, ma che incide profondamente, alterandola, sull’idea stessa di Repubblica che aveva ispirato i costituenti e sul funzionamento delle istituzioni, da essi immaginato secondo un modello di “democrazia mediata” (Duverger).
Si rivela, in particolare, tradito lo spirito di una democrazia parlamentare, plurale, partecipata, aperta al contributo delle società di mezzo (tra il cittadino e lo Stato), secondo l’archetipo della “democrazia consensuale” descritto da Lijphart.
L’utilizzo sviato e abnorme del decreto legge, l’abuso delle questioni di fiducia, l’interpretazione (sovente) monocratica dei poteri del Presidente del Consiglio, lo spostamento del baricentro decisionale dal Parlamento al Governo, la prevalenza della finanza sulla politica, la compressione, se non lo svuotamento, del ruolo dei corpi intermedi nei processi decisionali e, in definitiva, il sacrifico del pluralismo hanno, infatti, snaturato, nell’ambito di un “processo di presidenzializzazione” (Calise, Fabbrini), la concezione originaria, evincibile dall’assetto istituzionale disegnato nella Costituzione, della decisione politica come consacrazione di una democrazia autenticamente rappresentativa e fedele al principio maggioritario.
Sarebbe miope, tuttavia, ignorare che le torsioni appena segnalate sono il prodotto di un’esigenza di efficientamento e di semplificazione dei processi decisionali e, probabilmente, la conseguenza di una certa obsolescenza del loro disegno costituzionale, ma sarebbe altrettanto ingenuo trascurare di considerare come le citate deviazioni decisioniste finiscano, secondo la dinamica propria dell’eterogenesi dei fini, per compromettere il rapporto tra il cittadino e lo Stato, che non può che restare interpretato anche dagli organismi intermedi, e, in definitiva, per comprimere l’indefettibile esigenza di assicurare una gestione plurale e partecipata della Res Publica.
Le istanze, per lo più generate dalla crisi economica, di una democrazia decidente sono state, peraltro, aggravate dagli effetti più nefasti dell’uso dei social media da parte dei leader politici, che hanno pensato, così, di prescindere dalla mediazione della rappresentanza e di attingere, direttamente dagli utenti dei network, il consenso e la legittimazione per la loro azione politica, nell’ambito di una inedita forma di democrazia, definita, infatti, “ibrida” (Diamanti), in quanto snaturata dalla partecipazione diretta dei governati, via web, al dibattito pubblico.
Così come l’utopia di una democrazia diretta, e, cioè, senza rappresentanza, interpretata come “salvifica” da alcuni movimenti politici, rischia di conculcare ulteriormente lo “spazio di mediazione” (Campati) e quei processi di ascolto e condivisione, che, se rettamente intesi, permettono l’adozione di decisioni meditate, consapevoli, condivise e, perciò, più efficaci e socialmente sostenibili.
Ma è possibile prescindere dai meccanismi della rappresentanza e dal concorso plurale dei corpi intermedi nella formazione della decisione politica? O non si rischia, optando per un’esegesi diretta e sganciata dalla rappresentanza politica della volontà popolare, di aggravare la crisi della democrazia e di tradire lo spirito voluto dai costituenti di una partecipazione larga ai processi di public choice?
Sembra chiaro che il combinato disposto delle forzature connesse a un decisionismo spinto, all’accentramento nell’Esecutivo della decisione politica e alla disintermediazione nell’interpretazione e nella ricerca del bene comune producono l’effetto di una deviazione dallo schema di una democrazia parlamentare e plurale, che, per quanto “tarda” (Ornaghi), resta democrazia, consacrato nella Carta fondativa.
Così come appare difficilmente contestabile che le interpretazioni più azzardate di una democrazia decidente finiscono per conculcare le esigenze, pure cristallizzate nella Costituzione (o, comunque, implicite in essa), della partecipazione degli enti intermedi, sia pubblici, sia privati (nelle varie declinazioni dell’associazionismo), nell’amministrazione della Repubblica.
L’idea di contenere o annullare le spinte dell’anti-politica con l’immediatezza della relazione verticale tra governanti e governati e con l’uso (soprattutto, se non solo) mediatico della comunicazione politica si rivela, peraltro, illusoria, se non pericolosa.
Il concorso del cedimento della Costituzione alle pressanti esigenze di assicurare il rispetto delle fonti sovranazionali e del piegamento delle procedure istituzionali alle istanze della fast democracy hanno, in definitiva, certificato la crisi della Carta, sia per aver perso il carattere di Legge suprema dell’ordinamento, sia per essere concretamente disattesa, nella parte dedicata alle procedure di formazione della volontà politica.
Forse è, allora, arrivato il momento di ascoltare l’ammonimento di Luigi Sturzo, quando osservava che: “La Costituzione è il fondamento della Repubblica democratica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal parlamento, se è manomessa dai partiti, se non entra nella coscienza nazionale, anche attraverso l’insegnamento e l’educazione scolastica e post-scolastica, verrà a mancare il terreno sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà”.
Il grande pensatore e sacerdote siciliano aveva intuito molto lucidamente, con una riflessione ancora valida, che la Costituzione resta il baluardo della nostra libera convivenza civile e che ogni cedimento della sua architettura costituisce il più grave pericolo per la tenuta delle istituzioni, ma, ancor prima, per la dignità e le libertà della persona (sul cui primario rispetto si fonda la costruzione democratica consacrata nella Carta del 1948).
Non a caso Pietro Calamandrei ha definito la Costituzione “presbite”, proprio per la sua capacità di guardare lontano e di conservare la sua validità nel tempo, in ragione del carattere universale dei principi da essa consacrati.
Si tratta, allora, sia di ripristinare, sia di aggiornare, ma mai di rinnegare o di disperdere, la valenza fondativa e costituiva dell’architettura costituzionale.
Per un verso, occorre, allora, garantire il rispetto per i valori che i Padri costituenti hanno identificato come fondanti la convivenza repubblicana.
Spetterà, in questo senso, alla Corte Costituzionale, quale custode della Carta, assicurare, nel giudizio di bilanciamento con i principi sanciti dalla CEDU e dal Trattato di Lisbona, un’adeguata ed effettiva protezione dei diritti e delle libertà scolpiti nella prima parte della Costituzione (di guisa che non vengano traditi o snaturati).
Un uso accorto e saggio del “margine di apprezzamento” e dei “controlimiti” servirà, in particolare, ad arginare derive normative incoerenti con i valori costituzionali e, quindi, ad assicurare un’adeguata protezione delle regole e dei principi che i costituenti hanno concepito come indefettibili e costitutivi dell’ordinamento repubblicano.
Per un altro verso, e nonostante il fallimento dei diversi tentativi di riforma costituzionale già esperiti, si deve concepire una revisione condivisa della seconda parte della Carta, che assicuri un più efficace e agile funzionamento delle istituzioni e dei processi decisionali e una semplificazione dei meccanismi di rappresentanza, ma che, allo stesso tempo, non rinunci al pluralismo e al ruolo sussidiario dei corpi intermedi e delle autonomie.
Spetterà, inoltre, alle società intermedie, ivi compresi i partiti politici, infrangere lo schema di autoreferenzialità burocratica nel quale paiono imprigionati e recuperare una legittimazione rappresentativa e una nuova credibilità, anche mediante l’abbandono di stantìe liturgie concertative e un uso intelligente delle nuove tecnologie.
In una società complessa, come quella contemporanea, appare, infatti, impensabile l’assenza di uno spazio di mediazione e di interpretazione dei bisogni delle comunità di base, che non può che restare affidato, in via naturale, proprio ai corpi intermedi, secondo la concezione della necessità della c.d. “infrademocrazia” (de Tocqueville, Sartori).
La salvezza della democrazia non può essere consegnata a malintese e fallaci concezioni di una gestione solo diretta, immediata e telematica del rapporto tra governanti e governati o a leadership costruite al di fuori del circuito della rappresentanza democratica.
La convivenza libera e civile di un popolo è un valore troppo alto per essere svenduto ai tempi e agli interessi della finanza o confinato nell’agorà virtuale, irresponsabile e distorta dei social media e della rete.

di CARLO DEODATO

Bando per la partecipazione alla Scuola di formazione politica 2017

PERCHÈ UNA SCUOLA DI FORMAZIONE POLITICA

Una scuola di formazione politica: che idea vecchia e superata! O forse no: è questa la scommessa che la Fondazione De Gasperi gioca, puntando sui giovani per rigenerare la politica. È un’iniziativa che rientra in un percorso di formazione continua che si arricchisce durante l’anno con seminari e aperitivi di approfondimento, pubblicazioni e analisi, programmi internazionali e nelle scuole. Così nasce la nostra scuola di politica, per dar seguito a incontri fatti e farne di nuovi, con ragazzi che prendono sul serio l’invito di Papa Francesco: “Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico”.

A tema c’è proprio il mondo in cui viviamo e quale contributo ciascuno di noi e insieme possiamo dare. Un mondo in subbuglio, segnato da una profonda crisi, innanzitutto identitaria: è sempre meno chiaro chi siamo, quale sia il valore della nostra tradizione, e – di conseguenza – dove vogliamo andare. In un contesto dove tutto si mischia – etnie, religioni, ceti e culture – il problema dell’identità e dell’incontro diventa centrale per evitare che cresca la violenza e lo scontro in ogni ambito del vivere. È un mondo ferito da una miriade di guerre, tanto che il Santo Padre ha parlato di “Terza Guerra Mondiale a pezzi”. E’ un mondo globalizzato, scosso da crisi finanziarie cicliche che ribaltano gli equilibri non solo economici ma anche sociali.

Di fronte a ciò i popoli e le istituzioni sembrano smarrite, i primi quasi vinti da un cinico distacco, le seconde ampiamente impotenti e delegittimate. Noi non vogliamo arrenderci a tutto questo ma intendiamo esserci con un contributo originale e costruttivo. Come fece De Gasperi che durante anni bui per l’Italia e l’Europa seppe proporre insieme a molti delle sua generazione una visione alta e concreta per la ricostruzione economica, sociale e democratica. Oggi come allora abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, che attinga a quei valori della centralità della persona, della libertà, della sussidiarietà e della solidarietà che hanno fatto grande la nostra comunità.

Lorenzo Malagola, Segretario Generale Fondazione De Gasperi

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L’Unione Europea è a un bivio: o riesce a trovare un nuovo slancio creativo capace di proiettarla nei prossimi decenni oppure si trova davanti alla possibilità di non riuscire a risolvere la crisi che sta vivendo. La terza edizione della Scuola di formazione politica della Fondazione De Gasperi pone al centro della discussione questa duplice opzione fin dal titolo – Now or Never: un’occasione storica per cambiare l’Europa – nella piena convinzione che solo con un rafforzamento del senso di appartenenza al progetto europeo e con un consolidamento delle istituzioni europee si potranno trovare soluzioni concrete alle tante crisi che minacciano la stabilità di queste ultime.

La Scuola fa tesoro del passato per costruire il futuro: auspica una riflessione non banale sui valori che hanno ispirato i padri fondatori dell’Europa per capire in che modo possano ancora essere «utili» oggi e, allo stesso tempo, ha come obiettivo un dibattito franco e vivace con alcuni protagonisti delle attuali istituzioni europee sulla possibilità di ridare vigore a progetti accantonati che potrebbero essere funzionali al nuovo slancio creativo che si auspicava (l’obiettivo di una Comunità europea di difesa è un esempio in tal senso?).

L’Europa si trova a un bivio perché ha lasciato ancora in sospeso alcune questioni cruciali: il deficit di rappresentanza democratica, l’indipendenza delle fonti di informazione, la gestione dei flussi migratori, le novità della quarta rivoluzione industriale. Tutti questi temi saranno affrontati in un’ottica interdisciplinare e in prospettiva comparata per costruire con i giovani europei di oggi – e quindi con le classi dirigenti di domani – una piattaforma valoriale e un panel di proposte politiche per alimentare un’azione europea responsabile e solidale.

PUBBLICHIAMO DI SEGUITO I RISULTATI DEL BANDO (in ordine alfabetico)

Alessandro Bacaloni
Luca Barone
Alessandro Bifulco
Adna Botticelli Borgia
Vito Bufano
Ludovico Cecere
Edoardo Coianti
Anita csabai
Sara D’Aquanno
Michelangelo Di Castro
Luca Di Cesare
Matteo Dominidiato
Giuseppe Gabriele Finocchiaro
Federica Fraulini
Elia Frignani
Niccolò Giambitto
Cesare Giovetti
Attila-Tamás György
Mátyás  Horváth-Kovács
Olivér Imbrea
Gabriele Laffranchi
Valeria Leoci
Emanuele Lepore
Emanuele Lorenzetti
Serafino Masoni
Girolamo Matera
Gabriele Mele
Nándor-Péter Nyiri
Péter Olcsvári-Barta
Pál-Milán Petki
Vincenzo Piazza
Alessio Quarantelli
Francesco Rotunno
Leonardo Maria Ruggeri Masini
Federica Sasso
Gian Marco Sperelli
Mátyás Sztojka
Franciska-Leonóra Török
Nicoló Tozzi
Tekla-Anna Vadadi

TRA IMMEDIATEZZA E COMPLESSITÀ: LE ELEZIONI TEDESCHE RESTITUISCONO VALORE ALL’ARTE DELLA MEDIAZIONE?

Dodicesima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati

Le recenti elezioni tedesche hanno certificato ancora una volta le difficoltà nel definire con nettezza le tendenze di lungo periodo della politica interna e internazionale. Gli scenari ipotizzati prima del voto hanno rispecchiato solo in parte gli effettivi esiti e non tanto perché in alcuni casi i partiti non hanno ottenuto le percentuali di consenso attese, ma soprattutto perché non sono riusciti a focalizzare appieno il quadro politico-istituzionale venutosi a creare dopo la chiusura delle urne. In effetti, sarebbe stata necessaria una dose non indifferente di capacità analitica per ipotizzare quello che oggi abbiamo davanti agli occhi dal momento che l’esito delle elezioni tedesche apre una riflessione che va ben oltre il mero risultato ottenuto dalle singole formazioni politiche in corsa.

La vittoria annunciata di Angela Merkel si è effettivamente verificata, ma con un calo di consensi che, nonostante consacri la CDU/CSU come il primo partito, non le consente di formare un governo con una sola delle due forze che alla vigilia del voto erano considerate le papabili alleate dei democristiani tedeschi, ossia i socialdemocratici e i liberali. È allora molto probabile che la Merkel provi a costruire una colazione di tre partiti CDU/FDP/Verdi – ribattezzata “coalizione giamaica” per via dei colori rappresentativi delle tre forze politiche (nero, giallo, verde) – che già nella sua composizione segna un cambiamento di non poco conto, in quanto appunto composta da tre partiti e non da due, come invece è consuetudine in Germania.

I risultati elettorali, dunque, confermano la centralità della CDU/CSU (che tuttavia, nonostante il calo di consensi, ha stravinto la competizione maggioritaria conquistando 231 collegi su 299), determinano un calo drastico dei socialdemocratici della SPD che ottengono il risultato più magro dal 1949, fanno emergere come terzo partito per numero di consensi Alternative für Deutschland, la formazione euroscettica, nata sull’onda della crisi economica e della critica alla gestione dell’immigrazione, che già nelle elezioni del 2013 aveva sfiorato l’ingresso nel parlamento. Il dato di rilievo, per così dire, strutturale è dunque l’ingresso per la prima volta nell’arena parlamentare di ben sei partiti (CDU/CSU, SPD, AfD, Die Linke, Grüne, FDP), i quali rappresentano posizioni politiche molto distanti, ben evidenti anche tra i tre che dovrebbero andare a costituire la prossima coalizione governativa. Pertanto, come è stato sottolineato, dai dati elettorali emergono due tendenze principali: l’erosione dei partiti tradizionali (se nel 1998 i due partiti principali – SPD e CDU/CSU si spartivano più del 75% dei suffragi, oggi questa percentuale si è ridotta a poco più del 50%); e la spinta alla polarizzazione, ossia la propensione degli elettori a scegliere formazioni politiche poste alle estreme dello spettro politico (D. Palano, Anche la Germania perde il centro in CattolicaNews, 25 settembre 2017).

In un quadro piuttosto complesso e in parte inatteso, queste considerazioni possono apparire legate alla stretta contingenza elettorale, ma in verità saranno utili nell’immediato futuro, specialmente rispetto a due elementi sui quali si dovrà tornare a riflettere e che, per ora, accenniamo. Il primo non può che riguardare la Cancelliera uscente. Angela Merkel ha dato prova in più occasioni di esercitare una leadership decisa all’interno e all’esterno (Europa) del suo paese e ne è conferma la sua quarta vittoria elettorale consecutiva. Ma proprio i successi conquistati con tanta determinazione in uno scenario così eterogeneo come l’attuale – e a maggior ragione dopo il recente risultato elettorale – fanno tornare alla luce una delle più antiche qualità che dovrebbero appartenere a ogni capo politico, quella della mediazione. Se vorrà costruire un governo stabile, la Merkel dovrà ancor più mettere in gioco le sue capacità di mediazione per trovare una sintesi convincente tra posizioni spesso diametralmente opposte. Nell’era dell’immediatezza e della tempestività delle decisioni, abbiamo finalmente riscoperto una delle più importanti qualità del leader politico, quella che concentra nelle sue mani la capacità di saper trovare sintesi tra attitudini e aspettative differenti. Il che ovviamente non significa che il capo di governo debba necessariamente trovare soluzioni compromissorie capaci soltanto di indebolire i disegni di legge costruiti seguendo una precisa determinazione ideale. Bensì, ci ricordano che la capacità di mediare è una delle caratteristiche indispensabili per un capo dell’esecutivo e, prima ancora, per un leader politico di una democrazia parlamentare, dove è nella dimensione del confronto dialettico tra le forze politiche che risiede gran parte del processo decisionale.

Pertanto – ecco il secondo aspetto – le elezioni tedesche ci hanno ricordato come l’immediatezza politica che sembra essere la cifra distintiva delle democrazie contemporanee debba fare i conti con la complessità delle assemblee parlamentari. Una complessità, per così dire, naturale poiché figlia di una conformazione istituzionale che è intrinsecamente costruita attorno alla rappresentatività e al confronto partitico. Inoltre, l’aumento di cinque punti rispetto alle elezioni del 2013 della percentuale di votanti (che si è attestata al 76,2%) e il quasi conseguente ingresso di sei partiti nel Bundestag sono solo i due principali fattori che smentiscono le fin troppo facili profezie sull’inesorabile caduta del tasso di partecipazione politica. Il regime democratico rappresentativo – anche quello che si vorrebbe costruire sulla partecipazione attraverso un clic o con un like inviato tramite lo smartphone – richiede una particolarissima capacità di sintesi proprio in quanto le decisioni nazionali e internazionali sono sempre più complesse e quindi il capo di governo deve essere sempre più in grado di comprendere e di mediare le aspettative degli elettori e, poi, di renderle effettive con la necessaria dose di immediatezza.
Come ha rilevato Riccardo Pennisi, il sistema politico tedesco esce scosso da queste elezioni in misura talmente evidente da poter decretare la fine di quella “eccezione tedesca” basata su un sistema di partiti e di istituzioni stabile e inossidabile (R. Pennisi, La fine dell’eccezione tedesca in Aspenia online, 26 settembre 2017). Se questa analisi venisse confermata nelle prossime settimane, si potrà dire con ragionevole certezza che queste elezioni, da un lato, hanno svelato un disagio nei confronti dei partiti tradizionali anche nel paese europeo che più di ogni altro sembrava non volerne fare a meno e, dall’altro, hanno indotto gli osservatori e – allo stesso tempo – gli attori politici a interrogarsi sull’impellente necessità di trovare nuove forme di azione politica in grado di coniugare la necessaria mediazione parlamentare (e non solo) con l’altrettanto necessaria esigenza di offrire risposte governative immediate. In sostanza, le elezioni tedesche possono rappresentare l’occasione per portare alla luce alcune fondamentali dinamiche politiche e istituzionali oggi ben nascoste dal confuso dibattito animato da quello che Byung-Chul Han ha definito lo «sciame digitale» e che invece sono indispensabili per una riflessione più completa sul futuro delle nostre democrazie.

* Assegnista di ricerca in Filosofia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?
  10. | Ettore PrimoPetrolio, da motore delle guerre a carburante del cambiamento

Il ruolo della cultura nella scelta di emigrazione

Di Riccardo Turati, studente del Dottorato in Economia presso l’Université Catholique de Louvain (Belgio).

Estratto:

“I nostri risultati mostrano che chi vuole emigrare dai paesi MENA (Middle East and North Africa) ha norme e valori simili ai paesi OCSE per quanto riguarda l’importanza della religione ed il ruolo della donna nella società: essi sono meno religiosi e hanno una visione liberale sul ruolo della donna, in particolare i giovani.

Da un lato dunque informare l’opinione pubblica a riguardo potrebbe influire positivamente sull’atteggiamento dei cittadini (europei e non) nei confronti dei migranti. Allo stesso tempo questo risultato non deve essere sopravvalutato, in quanto la distanza culturale tra nativi OCSE e potenziali migranti è solamente 9% inferiore alla distanza culturale tra nativi OCSE e la popolazione dei paesi MENA.

Per quanto riguarda i paesi d’origine, se i potenziali migranti (meno religiosi e più aperti sul ruolo della donna) riescono effettivamente ad emigrare, la distribuzione dei valori di questi paesi si potrebbe spostare verso una maggiore religiosità ed una visione più conservatrice del ruolo della donna, in quanto chi emigra porta con sé il proprio bagaglio di valori. Tale processo di selezione culturale degli emigranti potrebbe dunque avere un impatto negativo sulla discriminazione del donna, sul processo di modernizzazione e su altri fattori che possono influenzare la loro crescita economica. Tuttavia il nostro studio mostra che data la percentuale di potenziali migranti verso i paesi OCSE (12% in media) e la ridotta differenza culturale in diversi gruppi della popolazione, i tratti culturali nei paesi d’origini non vengono modificati in maniera sostanziale. Inoltre la presenza di migranti nei paesi OCSE può favorire la trasmissione nei paesi d’origine di norme e valori presenti nei paesi di destinazione, i quali possono avere un’influenza positiva sullo sviluppo dei paesi MENA”.

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A CHE PUNTO E’ LA NOTTE ?

Sono davvero la Russia e l’Islam i (soli) nemici dell’Occidente? O piuttosto, i pericoli dell’Occidente vengono dal suo interno?

L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e della società, e non tollera visioni riduttive della libertà.

La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nel sue varie e tragiche declinazioni).

L’Uomo occidentale non riconosce più alcuna Autorità, e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo.

Le misere vicende politiche nazionali impediscono (ai più) una visione lar­ga della crisi profonda, e, per certi, versi, irreversibile, in cui è sprofondata la ci­viltà occidentale. L’architettura politica e culturale su cui si sono rette le società europee e quella americana, pur con i rivolgimenti degli ultimi secoli, è stata edificata su architravi solide e stabili, che, tuttavia, cominciano a mostrare pro­fonde crepe e inquietanti segni di cedi­mento. Il Presidente Trump ha recente­mente avvertito l’esigenza di difendere l’Occidente dal pericolo della Russia. Co­sì come si sente ripetere, come un man- tra, che la civiltà occidentale è minaccia­ta dal fondamentalismo islamico. Ma so­no davvero la Russia e l’islam i (soli) ne­mici dell’Occidente? 0, piuttosto, i pericoli per l’Occidente vengono (soprat­tutto e innanzitutto) dal suo interno?

Prima di rispondere a queste domande, si deve comprendere l’essenza dei valori dell’Occidente. Con l’eccezione delle aberrazioni totalitarie, la civiltà occiden­tale, nei suoi naturali e più recenti appro­di, si è costruita sui valori della libertà e del primato della persona (e della sua dignità) sullo Stato; della sacralità della vita e della universalità dei diritti; sul principio di responsabilità e su quello della rappresentanza democratica (tem­perato dal canone della sussidiarietà).

La sintesi mirabile, che si è consolidata nel pensiero dell’Occidente, tra filosofia greca, diritto romano e fede cristiana ha condotto alla costruzione di un sistema culturale e di pensiero che è riuscito a coniugare la più autentica espressione della natura dell’uomo con lo sviluppo di una società ordinata e libera.

Le vette raggiunte dalla speculazione dei filosofi greci hanno, in particolare, aperto uno squarcio su una dimensione ideale dell’esistenza dell’uomo e delle sue relazioni; le regole del diritto roma­no, incentrate sulla responsabilità perso­nale e civica del pater famìlìas, hanno con­solidato l’idea che ogni convivenza uma­na ordinata deve fondarsi sul principio di giustizia delVunicuiqm suum (già presen­te nelle opere di Platone e di Aristotele e poi consacrato da Ulpiano come uno dei cardini del diritto); la rivelazione e la tra­dizione cristiana hanno illuminato di una luce soprannaturale l’armonia delle civil­tà classiche, con cui si sono coniugate, stabilendo un legame inscindibile e vir­tuoso tra la centralità della persona e i suoi doveri verso il prossimo e verso la Res Publica.

Il connubio di fede e ragione (già indi­cato come indissolubile da sant’Agostino, da san Tommaso, da Pascal e, infine, ri­preso da Benedetto XVI nella celebre Lectio ìnagistralis tenuta a Ratisbona) ha costituito, in particolare, il fondamento dell’elaborazione e dell’attuazione di un sistema che si fonda sì sulla logica e sul diritto, ma anche su una prospettiva salvi­fica dell’esistenza umana.

Si è così sviluppata, seppur con un per­corso non sempre lineare (il sonno della ragione ha anche prodotto i mostri della degenerazione giacobina della Rivoluzio­ne francese, del collettivismo socialista e ateo e del totalitarismo pagano dello Sta­to nazionalsocialista), un’idea di società e di persona che trascende ogni approccio meramente organizzativo e orizzontale e che si nutre, al contrario, della naturale aspirazione dell’uomo a valori universali e immutabili.

L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e, insieme, della società, e non tollera visio­ni riduttive della libertà dell’uomo o in­terpretazioni materialistiche della convi­venza civile.

La cultura occidentale presuppone e genera una insopprimibile ricerca, che Oswald Spengler (ne “Il tramonto dell’Oc­cidente”, troppo spesso oggetto di esegesi deviate e ideologiche) definiva (prima) apollinea e (poi) faustiana, della dimen­sione ideale, ma non per questo utopisti­ca o irrazionale, del benessere (meglio: della felicità) dell’uomo.

Per questa sua visibile aspirazione in­cessante verso il bene della persona e della società l’Occidente ha assunto il ruolo di guida nella diffusione nel mondo del valore della libertà e, senza idealiz­zarne la storia o sminuirne gli errori (che pure non sono mancati), ha garantito l’as­similazione globale e, spesso, la stessa protezione dei diritti naturali dell’uomo.

Sennonché, la civiltà occidentale sem­bra, ormai da tempo, aver abdicato a que­sta sua naturale missione, avendo ceduto ai germi interni della dissoluzione e al morbo intestino della disgregazione della sua struttura ontologica. E’ vero che, come osserva Umberto Ga­limberti, l’Occidente contiene già nella sua radice lessicale l’idea del tramonto, ma sembra che recentemente il crepusco­lo della luce che esso diffondeva si sia fatto sempre più scuro (tanto che il socio­logo Harold Bloom ha definito l’America come “terra dell’imbrunire”), secondo la regola (della fisica aristotelica) consacra­ta nel motto motus infine velocior.

La società occidentale contemporanea ha, infatti, da tempo rinunciato alla ricer­ca del significato dell’esistenza, ha abdi­cato a ogni prospettiva salvifica della vi­ta, ha smarrito il senso del sacro (come mirabilmente argomentato da Ida Magli in “Dopo l’occidente”), ha bandito Dio dalla vita pubblica e si è chiusa in un’or­ganizzazione materialistica e, in fondo, disperata delle relazioni umane.

Il sistema su cui si reggono, ormai, le convivenze occidentali si fonda sul solo predominio della tecnica e della finanza sulla dignità e sulla libertà dell’uomo.

L’uomo occidentale, soprattutto quello metropolitano, è schiacciato da una rego­lazione ossessiva di ogni aspetto della sua esistenza, oppresso da una presenza inva­dente e pervasiva dello Stato.

E’ stordito dagli smartphone e inebeti­to dai social network.

Non crede più a niente e a nessuno. Anzi, peggio, è pronto a credere al primo politicante che gli promette, con misera­bili tecniche illusionistiche, un frammen­to di felicità.

A ben vedere, tutti i pilastri su cui è stata edificata l’architettura della civiltà occidentale stanno cedendo o si sono già sgretolati (in un processo di crisi già in­tuito, nella prima metà del secondo scar­so, da Paul Hazard, “La crisi della co­scienza europea”, e Robert Musil, “L’uo­mo senza qualità”).

La dignità della persona è vilipesa e mortificata dalle preminenti e oppressive regole della scienza e dell’economia (ap­plicate senza alcuna considerazione delle istanze insopprimibili e naturali dell’in­dividuo), in tutti gli ambiti dell’esistenza umana.

La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nelle sue varie e tragiche declinazioni).

La libertà (anche di pensiero e finan­che di parola) dell’uomo (nell’espressio­ne più pura del pieno sviluppo della per­sonalità e nei rapporti con lo Stato) è con­culcata dall’attuazione indefessa dei dog­mi orwelliani di una nuova religione civile, i cui riti si celebrano nel main- stream del pensiero unico (con le aberra­zioni già stigmatizzate da Robert Hughes, “La cultura del piagnisteo”), e da una di­sciplina minuziosa e invasiva delle attivi­tà economiche, oltre che da una innatura­le oppressione fiscale.

Il principio di responsabilità, su cui so­no stati edificati gli assetti più virtuosi delle società contemporanee, è oscurato da una malintesa e incessante rivendica­zione di (soli) diritti, così assordante da provocare l’oblio dell’etica dei doveri.

La ricerca del significato della vita e la prospettiva della sua redenzione sono or­mai tristemente sostituite da un’affanno­sa brama di divertimenti, beni materiali, sballo, svago, sesso, droghe, che pare esaurire, in sé, il senso dell’esistenza, tanto che l’individuo, avendo smarrito la sua dignità, è ormai svilito al rango di un consumatore seriale di piaceri.

L’uomo occidentale è confuso da una girandola vorticosa di informazioni e di notizie, così da disconoscere persino l’i­stanza più intima della ricerca della veri­tà. Ha sostituito l’affermazione di principi assoluti con un relativismo fiacco e steri­le, che rinuncia in radice all’idea stessa della verità.

E’ così indebolito da non essere più in grado di sacrificarsi per niente e per nes­suno, da ignorare lo stesso concetto di sacrificio, nelle sue espressioni più nobi­li.

Non riconosce più alcuna Autorità e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo, irretita come appare, nella sua guida temporanea, in una visione (solo o soprattutto) orizzontale, sociale e imma­nente del mondo.

D’altra parte il rifiuto per l’Autorità, anzi: il disprezzo per essa (recentemente indirizzato verso quella politica), era già stato indicato come una delle cause prin­cipali della crisi della società contempo­ranea e della sua conseguente (o presup­posta?) anarchia strisciante da Christofer Lasch (“La cultura del narcisismo”).

L’uomo occidentale non riesce nean­che più a immaginare il suo futuro, tanto che non fa più figli, che sono il primo e il più chiaro segno della vitalità di una so­cietà. La denatalità impedisce, così, il na­turale rinnovamento della vita e delle energie della comunità e ne accelera il crepuscolare e malinconico invecchia­mento, in un’agonia (che pare) senza spe­ranza.

L’Occidente, così come lo abbiamo co­nosciuto, si sta tristemente, ma inesora­bilmente, spegnendo, in un processo di dissoluzione interna che ricorda, per molti versi, il declino dell’Impero Roma­no, quando la degenerazione morale, l’ar­rivo dei barbari, la crisi demografica, la corruzione hanno prodotto il disfacimen­to di un’organizzazione che pareva incrol­labile e spalancato le porte al Medioevo.

Sembra un percorso irreversibile di decomposizione, lento ma inesorabile, di un organismo (sempre meno) vitale (lo storico americano Andrew Michta la defi­nisce decostruzione dell’Occidente), cela­to ai più dall’ebrezza dei consumi o, per converso, dalle preoccupazioni economi­che.

Quando l’uomo e la società in cui vive perdono il senso della loro esistenza, rin­negano la loro identità e la loro tradizio­ne (come accade simbolicamente, e tragi­camente, con l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, così come con la rinuncia della principali Università sta­tunitensi allo stesso insegnamento obbli­gatorio della Western Civilization) e non hanno più fede in alcun valore che tra­scenda la dimensione solo materiale del consumo e del piacere, appare difficile immaginare una palingenesi.

Quando il denaro vale più dell’uomo, sembra impossibile scongiurare il collas­so del sistema.

Ed è arduo non pensare a un suicidio (o a una strana forma di eutanasia).

I nemici, per rispondere ai quesiti in- ziali, sono, infatti, figli degeneri e spuri dello stesso Occidente.

Si dirà che è una visione (troppo) pessi­mistica del presente (e del futuro) e (trop­po) ottimistica del passato. Forse è vero.

Ci sono ancora luci (oggi) che possono giu­stificare una speranza, così come ci sono ombre tragiche nella storia dell’Occiden­te, ma il processo è quello indicato: lo smarrimento, la confusione, la paura, la debolezza hanno preso il posto di quella energica tensione ideale verso il bene dell’uomo che ha animato, per secoli, la vita della civiltà europea.

E’, quindi, tutto perduto?

La civiltà occidentale è, dunque, desti­nata a essere sostituita da oscure, ma più forti e più vitali, culture, che, tuttavia, ignorano i principi di libertà, democra­zia, dignità dell’uomo, sacralità della vita, rispetto per la donna?

Difficile a dirsi. Sembra che manchi la forza per una rinascita. Sembra che l’Oc­cidente non abbia più l’energia, da solo, di rigenerarsi, annullato com’è da un ni­chilismo senza speranza.

Forse è necessario uno scatto traumati­co della Storia, perchè l’Occidente risco­pra i suoi valori, i suoi ideali, il senso della sua missione. Forse, come nella vita delle persone, è necessaria una tragedia, per un nuovo inizio.

La rigenerazione dell’Occidente non può, tuttavia, che passare da un nuovo umanesimo. Un umanesimo cristiano.

Non indistinto e politicamente corretto.

Ma cristiano, che si fondi, cioè, sul ricono­scimento della persona come essere natu­ralmente libero e destinato alla felicità (e alla salvezza) per mezzo della verità e dell’amore.

“Sentinella, a che punto è la notte?”

(Isaia, 21,11).

di CARLO DEODATO

pubblicato su “IL FOGLIO” inserto, 13 settembre 2017

PER SALVARE LA SINISTRA GUARDATE AL LABOUR PARTY BRITANNICO

RACHEL SHABI | AL-JAZEERA | 10 GIUGNO 2017

Gli inaspettati risultati delle elezioni britanniche della scorsa settimana sono un segnale importante per i movimenti politici di sinistra in Europa e USA. Il partito laburista britannico non ha vinto, ma nessun partito ha avuto abbastanza sedute per formare una maggioranza e governare il Paese. Contro tutte le statistiche, il partito ha acquisito più del 40% dei voti.

Il partito laburista è guidato da Jeremy Corbyn, un candidato atipico, eletto a capo dello stesso nel 2015: sessantasei anni, troppo barbuto, troppo disordinato e troppo radicale secondo gli standard. La scorsa estate il suo stesso partito l’ha sfiduciato. E’ stato costantemente soggetto a critiche e, quando sei settimane fa Theresa May ha indetto le elezioni anticipate, i laburisti erano indietro di 20 punti secondo i sondaggi.

Poi, durante le settimane di campagna elettorale, mentre Corbyn girava il Paese, il numero di elettori cresceva e le persone rimanevano affascinate dalla sua integrità, dal suo rifiuto di attaccare gli oppositori e, più di tutto, dal suo messaggio di speranza, ottimismo e possibilità di cambiamento. La sua campagna è stata energica, innovativa ed ha utilizzato i social media per portare entusiasmo, con tanto di video ed immagini spesso diventate virali. Al centro della Campagna, comunque, vi è stata la politica del partito che Corbyn ha riportato convintamente a sinistra. Egli, inoltre, ha restituito fascino al partito, muovendolo maggiormente in direzione di un socialismo democratico, proponendo tasse alla classe più ricca, a beneficio dei più. Il pubblico, e i giovani in particolare, per molto tempo strozzati da salari stagnanti, insicurezza lavorativa e costi di vita sempre crescenti, sono stati trascinati dalla visione ottimistica di una società più giusta. Il partito laburista sembra anche aver goduto del supporto di quelli che precedentemente avevano scelto di non votare. Chiaramente, ci sono stati anche molti fattori in aiuto dei laburisti, come la terribile Campagna dei conservatori, con la sua leader, Theresa May, che si è mostrata debole ed arrogante, dando per scontati gli elettori. Inoltre, si  pensava che i due attentati terroristici a Londra e Manchester, avrebbero potuto creare difficoltà ai laburisti. In realtà la politica estera di Corbyn si basa sulla critica della vendita di armi all’Arabia Saudita, ipotizzando l’incremento del terrorismo proprio a causa dell’intervento britannico in Medio Oriente. Il partito, oltre a ciò, ha fatto leva sui tagli che i conservatori hanno attuato alle forze di polizia, che lo stesso capo delle Autorità aveva ipotizzato potessero avere conseguenze negative sulla sicurezza del Paese.

Insomma, il partito laburista sotto la guida di Corbyn ha dimostrato come riacquisire rilevanza politica. Per ottenere il supporto popolare sembra che la sinistra avesse bisogno di ricordare, semplicemente e senza vergogna, di essere la sinistra.


To save the left – look to Britain’s Labour Party

The shock result of Britain’s general election this week should be a message of hope to the ailing left wing across Europe and the United States. The UK Labour party did not win  but no party has enough seats to form an overall majority and govern. Against all odds, the party took just over 40 percent of the vote.

The UK Labour party is led by Jeremy Corbyn. He came to Labour’s helm unexpectedly in 2015. He was a 66-year-old candidate, whom conventional wisdom cast as too beardy, too scruffy and too radical. Last summer, his own parliamentary party took a vote of no confidence against him. He has been subjected to constant criticism and by the time the ruling Conservative party, under Theresa May, called a snap election six weeks ago, Labour’s political fortunes did not look good: it was 20 percentage points behind in the polls.

Then, during the Britain’s six-week election campaign, as Corbyn toured the country, his rallies swelled in numbers, as people were drawn to his integrity, his refusal to attack opponents and, most of all, his message of hope, optimism and the possibility of change. He run also an energetic, innovative and youthful campaign, using social media to drive up enthusiasm and support with video clips and memes that swiftly went viral. At the heart of the campaign were the party’s politics, which under Corbyn’s leadership tacked firmly to the left. He refashioned the party, making it more about democratic socialism, taxing the most-wealthy few to benefit the many. A public, and young people in particular, that has for some time been struggling with stagnating wages, work insecurity, spiraling living costs, grabbed this optimistic vision of a fairer society. The Labour party seems also to have gained support from those who have not previously voted. There were, of course, many more factors to the Labour surge: the Conservative Party ran a terrible campaign, its leader Theresa May exposed as weak and arrogant. She had taken voters for granted. It was thought that two deadly terror attacks during the campaign – in London and the northern city of Manchester – would have an adverse affect on the fortunes of the Labour party. In reality, the party’s principled foreign policy – criticising the government’s arms sales to Saudi Arabia; speaking of the increased threat of terror that came with Britain’s destabilising interventions in the Middle East – The party also chimed with the public mood in its attacks on Conservative cuts to police numbers, which police chiefs had warned might have an effect on security.

In sum, the Labour party under Corbyn has shown how to regain political relevance. To win back popular support, it seems that the left needs to simply remember that it is, unashamedly, the left.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

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LA FORZA COMUNICATIVA DEI TERRORISTI E LA NOSTRA IMPREPARAZIONE AGLI ATTACCHI

Questi mesi sono drammaticamente punteggiati di eventi che hanno a che fare col terrorismo islamista. Il ritmo è di oltre un caso a settimana legato a quel terrorismo: ciò conferma la diffusività e la pervasività della guerra ibrida in corso; l’efficacia della propaganda di Daesh e la sua attrattività; l’elevata probabilità di accadimento associata a una equivalente imprevedibilità del manifestarsi di queste minacce. Vale la pena soffermarsi soprattutto sulle novità delle ultime 48 ore. “La misura è colma” sembra essere il nuovo mantra della politica nazionale e internazionale. Il primo ministro May lo ha affermato con un “quando è troppo è troppo” che mostra la decennale incapacità britannica di governare la multietnicità imperiale, concentrata nelle città dell’Isola madre. La novità di questa affermazione sta nel riconoscimento di essere andati troppo oltre, per avere concesso quanto dal terrorismo è stato sfruttato, e di proporre una riorganizzazione securitaria della società britannica.

Il medesimo senso, di misura superata, si ritrova nella rottura tra Emirati, egiziani e sauditi con i vecchi amici qatarini. A quanto pare questi ultimi hanno flirtato troppo con il terrorismo. Il wahabismo che lega Arabia Saudita e Qatar è all’origine della stagione di terrorismo islamista che stiamo vivendo ed entrambi i paesi sono responsabili della crescita e del sostentamento di al Qaida, Daesh e compagini jihadiste. La novità sta nell’accusa di vicinanza all’Iran mossa al Qatar dai suoi ex amici: le relazioni pericolose con il Satana iraniano, additato come la causa di tutti i mali nella recente visita di Trump proprio ai sauditi, sembrano consumare un tradimento sunnita-salafita-wahabita. Di certo questa frattura ha un impatto rilevante sui circuiti economici e può riorganizzare il terrorismo nel braccio armatissimo di una guerra sempre meno per procura, ma più diretta, più globale e più efficace nel consumare la recente disponibilità di armi acquisita dai sauditi.

Gli altri due eventi delle ultime 48 ore sono l’attentato di Londra e il disastro di Torino legati dal filo rosso della “falsa informazione”. A Londra l’attacco con l’automobile scagliata sulla folla da parte dei terroristi non rileva nulla di nuovo eccetto l’impiego di false cinture esplosive. Armi inutili a uccidere ma utili a provocare paura e rendere più facile un’azione con coltello. False cinture che non richiedono competenza tecnica ma inventiva comunicativa e possono essere realizzate rapidamente. False cinture il cui unico risultato certo è la morte degli attaccanti come martiri, uccisi dall’intervento delle forze speciali. Eccoci ai terroristi fai da te, decisi e frettolosi nell’organizzarsi, ma che introducono la comunicazione al livello tattico della azione.

A Torino, centinaia di feriti di cui un paio gravissimi, per un’onda di folla che schiaccia e travolge, lanciata da un falso allarme, forse un botto, che materializza la paura e la reazione. Non mettiamoci a discutere di psicologia delle folle: quanto questa disciplina insegna è chiaramente scritto nella descrizione dell’evento. La folla ha reagito come prevedibile a seguito di un segnale di allarme che è interpretato nel quadro ampio della paura di essere vittime di un attacco terroristico. Il tentativo di decontestualizzare il meccanismo interpretativo attivatosi a Torino dallo scenario di chi ha negli occhi Londra e Parigi è una “pippa” mentale che genera vulnerabilità. Non si tratta neppure di psicosi ma di una reazione a una attenzione diffusa, la possibilità di un attacco terroristico, in assenza di competenze specifiche. Anche a Torino una informazione falsa produce effetti nel quadro di quello che diventa un “attacco”: il primo in Italia dovuto alla vulnerabilità della gestione di questo tipo di eventi. Complici istituzioni silenti perché infingarde. Insomma due false comunicazioni, due risultati diversi, un comune denominatore: il terrorismo. Per il futuro non possiamo fare altro che aspettarci, senza potere prevedere, questo genere di eventi: Londra e Torino. Il dramma è che il pubblico è consapevole del rischio ma non ha i mezzi per gestirlo e le istituzioni non rispondono a questo bisogno. La sicurezza non si gestisce solo con lo splendido lavoro preventivo delle agenzie e con quello seguente dei servizi di emergenza. La sicurezza si promuove fornendo ai cittadini sia i codici interpretativi sia i codici operativi per comprendere e poi attivarsi in caso di evento. I cittadini lo chiedono e sono disponibili a considerare questa (in)formazione. Insomma, le ultime sono 48 ore che, malgrado gli sforzi che troppi fanno per disconnettere gli eventi che le punteggiano da una lettura coerente con lo scenario drammatico della “Terza Guerra Mondiale a capitoli”, ci riportano inevitabilmente all’attualità del conflitto diffuso. Il dato positivo è che l’aumento della consapevolezza di questo scenario tra i cittadini riduce la possibilità di inganno e dissimulazione finora perpetrata dai governi.

a cura di Marco Lombardi DIRETTORE C.E.T.Ra

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