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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

SUICIDIO E TRAMONTO DELLA QUINTA REPUBBLICA

Le elezioni presidenziali del 2002 furono considerate una sorta di “11 settembre” politico per la Francia: tuttavia in quel caso il Presidente gollista Chirac riuscì ad arginare il fenomeno elettorale e mediatico del Front National grazie ad una vittoria schiacciante al secondo turno, facendo tirare un sospiro di sollievo all’Europa intera. Lo spettro dell’ondata populista ed estremista sembrò allontanarsi. In realtà, quel terremoto politico di 15 anni fa si è manifestato nella sua reale potenza distruttiva soltanto ai giorni nostri.

Oggi, come allora, si cerca di correre ai ripari mobilitando un vasto movimento repubblicano, guidato dall’acerbo e politicamente inesperto Macron, capace di unire tutte le forze partitiche francesi per salvare soprattutto il destino del Vecchio Continente. Ma è qui che si annida il grande fraintendimento. Fatta eccezione per il Front National, queste elezioni hanno dimostrato la totale mancanza di fiducia degli elettori francesi nei confronti dei vecchi partiti di appartenenza.

Il partito neo-gollista (“Les Républicains”) ha compiuto il proprio seppukuanteponendo all’unità del partito stesso le mire personali dei capi-corrente. Le disavventure giudiziarie di Fillon hanno depotenziato notevolmente le possibilità di quest’ultimo. Abbandonato dal proprio partitoa pochi mesi di distanza dall’investitura trionfale delle primarie dello scorso novembreFillon è riuscito comunque ad ottenere un ragguardevole 20% di preferenze, a dimostrazione della tenacia dimostrata in questa lunghissima campagna elettorale.

Lo stesso copione si è ripetuto in maniera ancor più radicale con il candidato socialista Benoît Hamon, che è riuscito a raccogliere solamente un misero 6%Hamon ha dovuto pagare la perdita di credibilità del Partito Socialista dopo il quinquennio disastroso all’Eliseo di Hollande, oltre alle feroci lotte interne al partito che ne hanno minato fortemente l’unità.

“Meglio sbagliare stando dalla parte dei lavoratori che aver ragione contro di essi”: le parole di Pietro Nenni sintetizzano abbastanza fedelmente lo spirito con cui l’elettorato socialista disilluso ha virato in modo deciso verso il candidato “post-comunista” Jean-Luc MélenchonQuest’ultimo ha sbaragliato la debolissima concorrenza di Hamon, raccogliendo oltre il 19%. Fillon e Hamon sono stati penalizzati enormemente – con sviluppi ed evoluzioni diverse per i due casi – dalla propria appartenenza ad un partito tradizionale. Questa è la prima conclusione che si può trarre dal primo turno delle presidenziali francesi. La politica nelle democrazie contemporanee diviene sempre più focalizzata sulla personalità dei candidati. Il partito – per quel che ne rimane – s’identifica sempre più strettamente con il proprio leader. 

“I miei elettori mi hanno dato un mandato per il primo turno, non per il secondo”: Questa è stata la dichiarazione con cui lo stesso Mélenchon ha annunciato la totale di libertà di coscienza per il proprio elettorato in vista del secondo turno. Nei giorni successivi il suo entourage ha trovato una forma di mediazione, consigliando l’astensionismo al ballottaggio pur di non favorire Macron e la Le Pen. Ma lo spirito del tempo sembra andare in una direzione differente, che è quella della democrazia diretta o, per dirla con il compianto Sartori, del “direttismo”.

Persino la Le Pen, pur di intercettare l’elettorato neo-gollista, in questi giorni ha lasciato la leadership del Front National: “Non sono la candidata del Front National, sono la candidata sostenuta dal Front National. Mi sento libera e soprattutto al di sopra della politica dei partiti”. Per una incredibile eterogenesi dei fini la Le Pen potrebbe diventare il vero candidato “gollista” in previsione del ballottaggio? Sembrerebbe alquanto improbabile, ma per il fronte europeista guidato da Macron le cose non saranno così semplici. Soprattutto alla luce delle prossime elezioni legislative. Non a caso, dopo il primo turno delle presidenziali l’attenzione si è spostata alle elezioni parlamentari, che si terranno l’11 e il 18 giugno 2017. La vera incognita rimane, in caso di vittoria al ballottaggio, la capacità e la reale possibilità di formare una coalizione di governo guidata dal neonato movimento di Macron.

Il paese è letteralmente spaccato in dueIl primo turno delle elezioni presidenziali francesi mette il sigillo quasi definitivo – dopo le elezioni americane e l’esito del referendum nel giugno scorso nel Regno Unito – sul vero effetto di divario sociale scaturito dalla globalizzazione e dall’incapacità di formulare una risposta vincente a tale questione da parte delle classi dirigenti europee. Si ripropone la frattura, teorizzata negli anni sessanta da Rokkan, socio-geografica, ancor prima che politica, tra centro e periferia, tra grandi aree urbane e piccoli centri. Naturalmente la teoria delle fratture socio-politiche (cleavages) di Rokkan deve essere contestualizzata, perché la politica – come ci ha insegnato Sartori – non è soltanto un mera proiezione di queste divisioni, bensì è soprattutto esercizio di “traduzione” e di analisi concreta di tali fratture culturali e politiche. Macron dovrebbe tenerlo a mente, perché altrimenti rischierebbe, in ogni modo, di consegnare la vittoria alle presidenziali del 2022 alla Le Pen.

Gian Marco Sperelli

TANGENTOPOLI, 25 ANNI DOPO

“Sarà la politica stessa che tornerà e porrà un fine agli strafalcioni che hanno falsato la storia e le verità, e che ricondurrà le soluzioni tecniche o pseudo-politiche sul loro binario senza uscita e le cose politiche invece sul loro. Esse stanno del resto ben al di sopra, perché hanno dato e danno alla società la misura delle loro possibilità, delle loro capacità, delle loro debolezze e delle loro grandezze” ( Bettino Craxi)

25 anni dopo Tangentopoli, quale bilancio si può stilare? Dall’implosione del sistema politico italiano all’inizio degli anni ’90 dopo la tempesta giudiziaria di ‘’Mani pulite’’, molte cose sono cambiate nel nostro panorama politico, ma altrettante sono rimaste intatte. Anzi, nel corso di questi venticinque anni alcuni tratti peculiari negativi del popolo italiano sono cresciuti in maniera esponenziale: sfiducia completa nelle istituzioni dello Stato e un odio crescente e viscerale per le formazioni partitiche – di ciò che ne rimane – senza distinzioni di schieramenti o bandiere. L’ondata di antipolitica nel nostro paese non solo sembra non avere fine, ma addirittura nella sua folle rincorsa verso il nulla ci mostra nuove sfumature, e in alcuni casi, ci ripropone forme mai del tutto scomparse di risentimento della società italiana nei confronti della propria classe politica.

Marx, nel commentare il colpo di Stato del 1851 in Francia di Luigi Napoleone Bonaparte, affermava che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in forma di tragedia, la seconda in guisa di farsa. Il consenso “grillino” si colloca in una direzione già battuta nel corso della nostra storia come partito anti-casta, ma con una differenza sostanziale – e per certi versi geniale – rispetto ai movimenti antipolitici che lo hanno preceduto (qualunquismo e in parte anche il berlusconismo): offrire ai propri militanti e simpatizzanti la possibilità, almeno in apparenza, di riprendere il controllo sull’attuale situazione politica e soprattutto di riprendere in mano le proprie vite. Lo strumento grillino per la ri-politicizzazione in senso identitario della comunità politica è la piattaforma web: la suggestione rousseauiana della democrazia diretta torna assoluta protagonista, contrapponendosi ad una democrazia rappresentativa irrimediabilmente corrotta e incapace di rispondere alle sfide politiche del nostro tempo. E poco importa se, in realtà, la tanto decantata utopia rousseauiana del Movimento 5 Stelle cela dietro di sé una struttura organizzativa oligarchica e autoritaria. L’unico dogma da rispettare e venerare nell’universo “pentastellato” è l’abbattimento della classe politica. E non ha alcuna importanza che l’intellighenzia grillina non abbia una reale proposta politica da realizzare dopo la distruzione dell’attuale classe dirigente. L’unico obiettivo è ricostruire una comunità politica a misura d’uomo che sia onesta e incorruttibile, secondo lo schema – ribadito più volte dallo stesso Grillo – della cosiddetta “decrescita felice” (espressione presa in prestito impropriamente dal grande scrittore Goffredo Parise).

Italian Fininvest president Silvio Berlu

Vi è un abisso tra l’antipolitica dei giorni nostri del Movimento 5 Stelle e quella berlusconiana di metà anni ’90. La proposta politica berlusconiana, per dirla con Giovanni Orsina, è stata una felice e riuscita emulsione di elementi dell’antipolitica qualunquista con ideali di matrice liberale, incarnati alla perfezione nel suo leader carismatico. Se per oltre 50 anni il nostro paese fu attraversato da profonde divisioni ideologiche come l’anticomunismo e l’antifascismo, il berlusconismo rappresentò una via d’uscita a quella mistificazione ideologica, già denunciata in parte dal qualunquismo all’inizio della storia repubblicana d’Italia. Questa via d’uscita fu parziale, perché il berlusconismo riuscì a cavalcare pur sempre in maniera straordinaria la retorica anticomunista, puntando sulla diffidenza mai sopita di buona parte degli elettori moderati nei confronti dell’ex Partito Comunista. In questo senso il berlusconismo rimase un fenomeno politico per certi versi ancora novecentesco. Ma ebbe pur sempre l’intuizione e il merito di sdoganare definitivamente il vecchio MSI, poi evolutosi in  Alleanza Nazionale, in un alleato stabile nella coalizione di governo.

Questa trasformazione epocale del nostro sistema politico, con un’implicita riconfigurazione anche del sistema valoriale repubblicano, da quale evento scatenante fu resa possibile? Tangentopoli spazzò con i suoi processi di piazza, nel giro di pochi anni, gran parte della classe dirigente della Prima Repubblica, lasciando un enorme vuoto politico, pronto ad essere sfruttato da nuove formazioni partitiche. Certamente questa svolta venne favorita ed influenzata dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla fine del bipolarismo globale. Gli italiani si sentirono nel biennio finalmente liberi di poter punire la vecchia compagine governativa nelle elezioni politiche tra il 1992 e il 1994, e soprattutto con i referendum abrogativi del 1991 e del 1993 che trasformarono il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, pur sempre con aggiustamenti in chiave proporzionale. In realtà l’odio e l’insofferenza che esplose per i politici nel biennio 1992-1993, sproporzionato per veemenza in confronto ai demeriti concreti di quella classe politica, affondavano le proprie radici storico-politiche già negli albori della neonata repubblica. Furono gli elettori della compagine governativa – in particolar modo quelli della DC – a prendersi la tanto agognata rivincita decretando la fine di un pezzo fondamentale della storia politica italiana.

Per gli elettori, infatti, non c’era stata altra via se non sopportare la “conventio ad excludendum” in ottica anticomunista, che ruotava attorno alla “Balena Bianca”. A farsi interpreti dell’euforia giustizialista e giacobina di quei giorni furono senz’altro i magistrati di Mani Pulite. La smania di cambiamento e di risoluzione immediata dei problemi dello Stato fu il lascito maggiormente negativo di quell’ondata irrazionale e per certi versi, inspiegabile di antipolitica. Ne facciamo ancora oggi i conti. In fondo la rivoluzione liberale berlusconiana fu travolta da questa spasmodica ricerca di risultati immediati da parte di una massa di elettori, sempre più insofferenti e insoddisfatti da tutto ciò che riguarda la politica. La speranza nella società civile – ingrediente essenziale della proposta ipo-politica berlusconiana – si infranse contro i limiti oggettivi e strutturali del nostro Paese. L’Italia non è mai stato in fondo un paese liberale. Oltre a questo vi furono errori macroscopici dello stesso Berlusconi, nella selezione della classe dirigente del proprio partito.

Dell’entusiasmo e dell’euforia di quel berlusconismo post-Tangentopoli non vi è più traccia nella nostra società politica. Ormai nel nostro panorama politico regna sovrano il catastrofismo riguardo a qualsiasi scenario futuro. Forse si rincorre a folle velocità un possibile cataclisma politico, capace di redimere l’intera società italiana da quel peccato originale di 25 anni fa. A quel punto, forse, la politica potrebbe tornare al posto di comando che le spetta e da cui ha abdicato un quarto di secolo fa. Proprio perché, per dirla con Gasset, l’uomo massa in fondo può imparare solo sulla propria pelle.

Gian Marco Sperelli

DOPO L’ATTACCO IN SIRIA, COSA RESTA DELL’ONU?

Era chiaro da tempo a molti che la presidenza Trump avrebbe cambiato lo scacchiere geopolitico, ma in pochi avrebbero potuto dire che ciò sarebbe passato attraverso un confronto con la Russia. Forse, il nuovo scenario geopolitico che ci eravamo immaginati prevedeva una nuova fase nei rapporti tra USA e Putin, una sorta di nuovo restart delle relazioni fra le due potenze, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. E invece no. Nulla è sicuro quando si ha a che fare con Trump.  Per l’ennesima volta, infatti, il tycoon newyorkese ci ha smentito oppure, più semplicemente, noi non l’abbiamo ancora capito bene.

L’attacco a Bashar al-Assad ha stravolto tutto quello che credevamo sulla presidenza Trump e, come oramai spesso accade quando si parla del 45esimo Presidente statunitense, abbiamo imparato qualcosa di nuovo. Su di lui e su di noi. Giovedì 6 aprile, di notte, abbiamo intuito che, forse, le Nazioni Unite non funzionano più come tutti noi auspicavamo. A dire il vero qualcosa si era già mosso quando Nikki Haley, ambasciatrice americana all’ONU, mostrando le drammatiche immagini dei bambini siriani colpiti dalle armi chimiche, aveva ammonito il Consiglio di Sicurezza con parole molte dure: “Questo Consiglio di Sicurezza si considera il difensore della pace, della sicurezza e dei diritti umani. Non meritiamo questa descrizione se oggi non agiamo.” La posizione americana era chiara: ci sono momenti in cui l’azione collettiva è richiesta ed altri in cui, non solo è difficile portarla avanti, ma è persino sconsigliata. Sconsigliata perché il problema è che la Carta delle Nazioni Unite è stata pensata nel caso di un conflitto tradizionale, uno stato contro un altro stato. Negli ultimi anni, invece, ci troviamo di fronte all’esplodere di conflitti irregolari, dove persino bande armate sono in grado di minacciare una potenza internazionale.

Il documento che sta alla base dell’ONU sarebbe, dunque, antiquato e incapace di rispondere alle necessità moderne. Quasi dieci anni fa John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali del 2008, sottolineava come l’allargamento indiscriminato delle Nazioni Unite ai paesi non occidentali e non ancora democratici aveva paralizzato il Consiglio di Sicurezza, incapace di agire persino di fronte alla minaccia terroristica. Il candidato repubblicano, infatti, riteneva fallita l’esperienza multilaterale dell’ONU a causa delle ambizioni di Mosca e Pechino, interessate a limitare la sfera d’azione statunitense in politica estera.

Nel caso di Assad, infatti, l’impasse creata ad hoc dall’ambasciatore russo nel Consiglio di Sicurezza ha agitato, e molto, gli Stati Uniti. L’attacco chimico non poteva essere ignorato: immagini di uomini, donne e bambini uccisi lentamente dai gas erano troppo persino per le posizioni isolazioniste di Trump. “Ci rivolgiamo alla sapienza di Dio mentre affrontiamo le sfide di questo mondo travagliato. Preghiamo per le vite dei feriti e per le anime di quelli morti. Finché l’America si batterà per la giustizia, speriamo che la pace e l’armonia, alla fine, prevarranno”.  All’appello di Trump hanno risposto in molti. Uno su tutti: Benjamin “Bibi” Netanyahu che, all’indomani dell’attacco, ha affermato che “Israele supporta completamente e inequivocabilmente la decisione del Presidente e spera che il chiaro messaggio riecheggi non solo a Damasco ma anche a Tehran, Pyongyang e in altri posti”. Israele combatte da anni in Medio Oriente e sta cercando di limitare l’influenza di Hezbollah nella regione. Innanzitutto limitando Assad, sponsor, anche economico, dell’organizzazione libanese.

Sono lontani i tempi dell’America first. The Donald si è risvegliato dal sogno isolazionista e ha capito che non può restare a guardare, incurante di quello che accade in Medio Oriente sotto l’influenza dell’ex amico Putin. Un nuovo protagonismo a stelle e strisce pare stia prendendo forma e, una volta finito con la Siria, il passo successivo potrebbe essere la Corea del Nord dello spavaldo Kim Jong-un. Di fronte a tutto questo c’è un solo spettatore pagante, inerme: l’Organizzazione delle Nazioni Unite, paralizzata ora più che mai.

Nicola Bressan

LA SUSSIDIARIETA’ COME CRITERIO DI ORGANIZZAZIONE DI UNA SOCIETA’ LIBERA E ORIENTATA AL BENE COMUNE

[Articolo pubblicato sul n.90/2016 della rivista “L’Arco di Giano”]

di Carlo Deodato

La riflessione su un parametro di organizzazione della Res Publica che valorizzasse, allo stesso tempo, le esigenze di efficacia dell’esercizio dei poteri pubblici e quelle di rispetto dell’autonomia delle società intermedie ha condotto alla individuazione del principio di sussidiarietà come quello più capace di coniugare il valore di un’efficiente disciplina dell’autorità dello Stato con quello della libertà e della dignità della persona, nelle sue esplicazioni associative.

Il canone della sussidiarietà è stato, in particolare, identificato come quello più idoneo a garantire la ricerca e la realizzazione del bene comune e può essere definito, in via generale, come quel paradigma che impone di favorire i corpi intermedi e le istituzioni pubbliche più vicine alla persona. 

Il suo fondamento logico ed etimologico può essere rintracciato nel lemma subsidium (Hoffner), originariamente utilizzato nel lessico militare per indicare le truppe di riserva incaricate di soccorrere le coorti impegnate sul fronte di guerra, che esprime semanticamente l’idea del sostegno che le società maggiori devono garantire a quelle minori e che, implica, a sua volta, il concetto di solidarietà (di cui costituisce una delle più vistose declinazioni).

In altre parole, si tratta dell’aiuto che la comunità deve garantire a tutte le membra del suo corpo sociale (Von Nell-Breuning).

Ovviamente la nozione di sussidiarietà, che comprende, in sé, il concetto dell’aiuto che le istituzioni più grandi devono assicurare a quelle intermedie, è stata, poi, intesa come riferita anche all’idea complementare dell’autonomia delle seconde dalle prime.

In quest’ultima accezione, quindi, la sussidiarietà esige che lo Stato rispetti e garantisca l’autonomia sia degli enti pubblici inferiori, sia delle formazioni private che operano per l’interesse generale.

Si tratta di un principio che attiene all’ordine naturale delle relazioni non solo tra il potere dello Stato e l’autonomia delle collettività minori, ma anche di quelle tra l’autorità pubblica e la libertà dei cittadini.

Il principio di sussidiarietà rileva, in altri termini, sia nella distribuzione delle funzioni tra le istituzioni pubbliche sia nella regolazione dei rapporti tra queste ultime e i soggetti privati.

E, in quest’ottica, opera in una duplice direzione: verticale e orizzontale.

La sussidiarietà verticale si esplica nell’ambito dell’allocazione di competenze amministrative tra diversi livelli di governo territoriali ed esprime la modalità d’intervento – appunto, sussidiario – degli enti territoriali superiori rispetto a quelli minori, che resta legittimato solo nei casi in cui l’esercizio delle funzioni da parte dell’organismo inferiore risulti inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi connessi alla funzione.

Nel suo significato ultimo, il principio di sussidiarietà verticale postula, quindi, che il potere proceda dal basso verso l’alto, perché proprio in basso trova il suo titolo originario e la sua formula ottimale di esercizio.

Tradotto nei termini di un riparto di attribuzioni, il principio di sussidiarietà implica che la competenza generale dev’essere naturalmente intestata al livello inferiore, mentre solo una funzione precisata e delimitata va imputata al livello superiore.

Il principio di sussidiarietà orizzontale prevede, invece, che le Istituzioni devono favorire e sostenere le iniziativa spontanee dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, che non possono intendersi riservate in via esclusiva alle amministrazioni pubbliche.

In altri termini, dovranno essere valorizzate le forme di organizzazione spontanea della società civile (secondo dinamiche di natura associativa) per la gestione dei servizi da offrire alla comunità (senza frapporre ostacoli o impedimenti alla loro naturale operatività).

Entrambe le riferite declinazioni del principio di sussidiarietà rivelano un evidente sfavore per il monismo assolutizzante connesso alla concentrazione del potere presso la sola autorità statale.

La potestà pubblica, in altri termini, non può essere concepita come implicante l’attribuzione al solo Stato delle funzioni preordinate alla realizzazione del bene comune, secondo una logica monopolistica, di genesi illuministica, dell’interpretazione di quest’ultimo, ma dev’essere ordinata e regolata in modo da favorire la sua articolazione territoriale e da garantire il suo esercizio diffuso e pluralista.

In questa prospettiva il rispetto del principio di sussidiarietà opera sia come criterio (positivo), sia come limite (negativo) della disciplina (e dell’esercizio) del potere pubblico.

Come paradigma di organizzazione dell’autorità, la sussidiarietà impone che lo Stato sostenga le comunità più piccole, in quanto più prossime ai cittadini, e ne garantisca al contempo l’autonomia; come confine alla sua esplicazione impedisce, invece, che l’autorità amministrativa e di governo comprimano gli spazi di libertà riconosciuti alle iniziative private, che si esprimono nei corpi intermedi, finalizzate alla realizzazione dell’interesse generale.

La sussidiarietà rifiuta ogni forma di centralismo e rigetta qualsivoglia ipotesi organizzativa che si fondi sul riconoscimento allo Stato dell’esegesi esclusiva del bene comune e della piena realizzazione dei cittadini. 

La sussidiarietà è incompatibile con lo statalismo e con una concezione burocratica, invasiva e assistenziale dei rapporti tra lo Stato e i cittadini.       

Il carattere naturale della regola della sussidiarietà e delle sue implicazioni organizzative è confermato, peraltro, dalla risalenza temporale e dalla universalità della sua affermazione.

Già Aristotele aveva intuito la portata del principio di sussidiarietà quando aveva precisato che l’autorità della polis doveva intendersi circoscritta al solo esercizio delle funzioni essenziali per il benessere dei cittadini, mentre dovevano riconoscersi spazi di autonomia alle comunità minori (come i villaggi).

Ma anche San Tommaso, declinando la nozione dell’uomo come imago Dei, e, quindi, come soggetto creato naturalmente libero e responsabile, nei rapporti con lo Stato, aveva chiarito che spetta a quest’ultimo sostenere la persona ed aiutarla a realizzare il suo destino di pienezza.

La Dottrina Sociale della Chiesa ha, poi, chiarito presupposti, fondamento e caratteri del principio di sussidiarietà.

Prima Leone XIII, con l’enciclica Rerum novarum del 1891, e, poi, Pio XI, con l’enciclica Quadrigesimo anno del 1931, hanno, in particolare, enunciato il principio per cui lo Stato deve astenersi dall’intervenire nel disbrigo di questioni che possono essere più efficacemente risolte dagli individui o dalle comunità minori, deve limitarsi, quindi, a gestire i soli affari che necessitano di un intervento pubblico centrale e, soprattutto, deve “aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle o assorbirle” (lettera enciclica Quadrigesimo anno).   

Ma tutti i Pontefici hanno, poi, ribadito l’esigenza che l’autorità statale non superi il limite invalicabile connesso alla necessità di rispettare l’autonomia dei cittadini, singoli o associati, e si limiti a intervenire per regolare solo ciò che non può essere autonomamente gestito da essi, dovendo, al contrario, favorire le iniziative assunte spontaneamente dalle forze sociali e finalizzate a soddisfare i bisogni della comunità (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2005).  

Un’attenzione particolare è stata, in particolare, dedicata dalla Dottrina Sociale della Chiesa ai temi della famiglia e dell’educazione, con la precisazione che, per entrambi gli ambiti, l’autorità pubblica deve svolgere un ruolo di sostegno e di aiuto, ma non di sostituzione.

La famiglia, in particolare, partecipa di una natura originaria di autonomia, che impedisce allo Stato ogni intervento che ne limiti o conculchi gli spazi di libertà (Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio).  

Ma anche l’insegnamento e la formazione non possono essere monopolizzati dallo Stato ed esigono il rispetto di un ambito di autonomia da indebite e sproporzionate ingerenze pubbliche.

Il criterio della sussidiarietà è stato recepito come parametro fondamentale pure dal legislatore costituente (anche se non dall’origine della Carta, ma solo con la riforma del Titolo V del 2001), in entrambe le accezioni sopra ricordate (verticale e orizzontale).

Unitamente all’articolazione dell’organizzazione amministrativa della Repubblica secondo un sistema di multilevel governance, è stata, infatti, prevista la sussidiarietà (art.118, primo comma) come uno dei criteri dell’allocazione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, con l’espressa previsione che le competenze devono essere assegnate prioritariamente ai Comuni e, solo in via sussidiaria, alle Province, alle Regioni o allo Stato.

Si tratta della più limpida espressione della sussidiarietà verticale, nella misura in cui enuncia la regola generale dell’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni, e, quindi, al livello di governo più prossimo ai cittadini, e prevede l’assegnazione agli enti territorialmente maggiori solo dei compiti che esigono un esercizio progressivamente unitario.

La valorizzazione del vincolo di vicinanza ai cittadini nell’organizzazione dello Stato rinviene, quindi, nella Costituzione italiana un riconoscimento chiarissimo e del tutto coerente con il fondamento logico e filosofico del principio di sussidiarietà.

Così come anche la sussidiarietà orizzontale è stata costituzionalizzata nel 2001, mediante la previsione (all’art.118, quarto comma) del dovere (l’uso del verbo “favorire” all’indicativo presente segnala l’obbligatorietà del comportamento) delle amministrazioni pubbliche, di tutti i livelli di governo, di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Nonostante il carattere di norma programmatica, sprovvista, come tale di sanzione, la disposizione costituzionale significa in maniera univoca la necessità che la Repubblica, in tutte le sue articolazioni territoriali, favorisca le forme spontanee di organizzazione privata finalizzate all’espletamento di servizi di interesse della collettività, con il duplice corollario che il potere amministrativo e quello esecutivo devono agevolare le forme associative di cooperazione all’azione amministrativa e non possono frapporre ostacoli o difficoltà di ordine burocratico o normativo al loro autonomo sviluppo.

Si tratta, anche in questo caso, di un’enunciazione del tutto coerente con l’elaborazione del principio di sussidiarietà orizzontale da parte della Dottrina Sociale della Chiesa, a conferma dell’assoluta consonanza della riflessione ecclesiastica con la normativa fondamentale dello Stato nella definizione del più ordinato assetto dei rapporti tra l’autorità pubblica, i cittadini e la società civile.          

Non solo, ma anche l’Unione europea conosce il principio di sussidiarietà come una regola fondamentale nell’individuazione del livello di competenza più appropriato.

L’art. 5 del TFUE sancisce, infatti, espressamente, che la competenza dell’Unione è limitata alle sole questioni che non possono essere più utilmente ed efficacemente trattate dai singoli Stati membri, a ulteriore conferma che si tratta di un canone di distribuzione delle competenze che attiene a un ordine organizzativo naturale (che favorisce le istituzioni più vicine ai cittadini e che consente l’esercizio delle funzioni da parte di Istituzioni più lontane da essi solo quando sia necessario per il corretto esercizio della competenza).

Ma la valenza universale del canone della sussidiarietà è rivelata anche dal suo più autentico fondamento logico e, per certi versi, ontologico, che non può che essere rintracciato nel principio personalistico (o personalista).

Si tratta di un principio che, anch’esso, informa e fonda l’architettura sia della Dottrina Sociale della Chiesa, sia della Costituzione.

Esso si fonda sul presupposto del primato della persona, rispetto allo Stato, ed implica il corollario secondo cui quest’ultimo è al servizio della prima, e non la prima al servizio del secondo.

Il principio personalistico, che obbedisce a una concezione naturale dei rapporti tra l’individuo e la collettività e che postula la superiore dignità della persona rispetto all’autorità dello Stato, si è affermato in una logica di reazione alle contrarie visioni totalitarie della predetta relazione.

Dapprima in ambito filosofico (Hobbes, Rousseau, Hegel, seppur con accenti diversi) e, poi, in ambito politico (i diversi totalitarismi del ventesimo secolo) è sembrata affermarsi (e, anzi, si è, spesso, concretamente e drammaticamente affermata) una visione secondo cui lo Stato prevale sull’uomo e le istanze di libertà di quest’ultimo restano subordinate agli interessi dell’autorità statale (che assorbe ed esaurisce, in sé, i diritti dei cittadini e dei corpi intermedi).      

A questa concezione monistica e totalizzante dello Stato si sono contrapposte sia la Dottrina Sociale della Chiesa, sia le costituzioni democratiche e liberali occidentali (ma, prima, anche pensatori come Althusius).

Quanto alla prima, è sufficiente ricordare che per la Chiesa, l’uomo, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, è titolare di diritti di libertà naturali e incomprimibili.

Il più immediato corollario di tale concezione è costituito dall’affermazione che la persona, così come la famiglia (che ne costituisce la prima e più naturale espressione sociale), preesiste allo Stato e che quest’ultimo deve tutelare e promuovere i diritti dell’uomo, e non limitarli o conculcarli.

In altre parole lo Stato esiste per proteggere e favorire il libero sviluppo della persona umana nella comunità, e non certo per annientarne la naturale aspirazione a una piena realizzazione della sua dignità.

Ma anche la Costituzione repubblicana si fonda sul principio personalistico, là dove riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali (art.2), e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma).

La reazione alle tragiche esperienze totalitarie del ventesimo secolo in cui la dignità e la libertà dell’uomo sono state disprezzate, annientate e sacrificate sull’altare pagano dello Stato assoluto (anche di matrice collettivista) è stata costituzionalizzata con l’affermazione rivoluzionaria del principio del primato della persona sullo Stato (e non viceversa).

E’ lo Stato che serve allo sviluppo dell’uomo e alla sua piena realizzazione; e non è la persona ad essere destinata ad annullarsi nelle imperative istanze dell’autorità statale, con la conseguenza che anche quando gli interessi dei cittadini devono essere limitati in ragione della superiore esigenza di tutelare gli interessi generali, il sacrificio si iscrive, comunque, in una logica di preordinazione dell’organizzazione pubblica alla promozione della persona e non si giustifica in sè (Mortati).

Aldo Moro ammoniva, al riguardo, con una sintesi linguistica mirabile, che “uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana”.

Un ulteriore corollario del principio personalistico va, inoltre, ravvisato nel divieto, per l’autorità statale, di intervenire nella intangibile sfera della personalità del cittadino, nelle sue espressioni fisiche e morali, che restano salvaguardate dalla Costituzione in “lunghezza, larghezza, profondità” (Mounier).     

Il principio di sussidiarietà e quello, presupposto, personalistico non restano, tuttavia, fini a se stessi, ma risultano preordinati ad assicurare la più efficace e ordinata realizzazione del bene comune.

Il bene comune, detto da San Tommaso principalissimum (per la sua valenza suprema, rispetto a ogni altro valore), per quanto diversamente declinato nelle diverse concezioni dello Stato, non si esaurisce, in ogni caso, nella somma degli interessi particolari (enciclica Centesimus annus), e costituisce quel complesso di condizioni, economiche e sociali, che consentono ai cittadini, singoli o associati, e alle famiglie di conseguire la loro piena e più soddisfacente realizzazione (enciclica Gaudium et spes).

Perché sia conseguito il bene comune non è, tuttavia, sufficiente che lo Stato, in ossequio al principio di sussidiarietà, favorisca la libera iniziativa privata verso attività di interesse generale e garantisca l’autonomia dei corpi intermedi, ma è necessario che questi ultimi esercitino la libertà in maniera responsabile e orientata alla realizzazione dei valori (anche etici) che fondano e giustificano la convivenza.

La società civile, le famiglie, le associazioni, il volontariato devono, in altri termini, avvertire una corresponsabilità nel perseguimento del bene comune e usare l’autonomia e la libertà che (giustamente) esigono dallo Stato per cooperare in maniera attiva, consapevole ed efficace alla promozione della persona e allo sviluppo della comunità.

Solo la sinergia tra il potere pubblico e la responsabile collaborazione della società civile e delle organizzazioni private può garantire, in definitiva, il raggiungimento del bene comune, in una sintesi equilibrata dei diritti di libertà della persona, dell’autonomia dei corpi intermedi e delle esigenze della collettività.

LIBIA: TERRENO DI CONFRONTO DI UNA NUOVA GUERRA FREDDA?

A marzo il generale USA Thomas Weldhauser, capo dell’African Command, ha accusato la Russia, davanti alla commissione del Senato per le forze armate, di voler influenzare e condizionare l’esito della crisi libica, paragonando tali tentativi alla modalità d’azione utilizzata in Siria.

È stata registrata una forte presenza russa in Egitto e in Libia: in particolare sono state avvistate navi presso il porto egiziano di Sidi Barrani, droni, velivoli cargo e Spetsnaz nell’area di Marsa Matruh, ed in Libia la presenza di contractor russi della RGB Group con l’ufficiale scopo dello sminamento e della bonifica da ordigni (tecnica già utilizzata da Mosca nel 2014 in Ucraina, ossia l’impiego di privati in aree di particolare interesse).

Sembra dunque che la Russia stia dando atto agli accordi militari firmati con Gheddafi nel 2008 – i quali prevedevano l’addestramento delle truppe libiche e la fornitura di risorse militari – a beneficio del generale Haftar. In questa direzione si sono pronunciati prima il Presidente del Parlamento di Tobruk, il quale ha manifestato la volontà di dare atto ai suddetti accordi, poi la Direttrice dell’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri russo Maria Zakharova, che ha menzionato la possibilità di fornitura e addestramento all’esercito Nazionale libico.

Un secondo accordo che preoccupa gli stati europei e l’Italia è un accordo economico concluso il mese scorso il quale prevede la collaborazione della Rosneft (controllata per il 50% dallo Stato russo) e della compagnia petrolifera nazionale libica (NOC) ad intensificare gli investimenti per potenziare l’estrazione di greggio e ammodernare gli impianti.

Il generale Haftar, in un’intervista al Corriere della Sera (2 gennaio), ha dichiarato di avere a disposizione oltre 50.000 uomini e di controllare l’80% del territorio libico, e ha sferrato un duro colpo all’Italia accusandola di stare dal lato sbagliato.

Al-Serraj

Ad oggi, il generale controlla l’intera Cirenaica, ha completato la liberazione di Bengasi, ha riconquistato i terminal petroliferi di Sidra e di Ras Lanuf e minaccia di conquistare Misurata e Tripoli. La sera del 19 marzo la base navale di Abu Sittah, dove Al Serraj era blindato dato il suo precario controllo su Tripoli, è stata attaccata dalla fazione islamista di Khalifa Gwell, capo del destituito Governo di Salvezza di Tripoli appoggiato da un parlamento che si rifiuta di riconoscere l’esecutivo designato dall’ONU e dai Fratelli Musulmani, sui quali Turchia e Qatar hanno grande influenza.

Al-Sarraj si trova dunque spiazzato senza il controllo della Tripolitania, soggetta alle continue sommosse islamiste, ed è appoggiato solamente dalle truppe di Misurata (prossimo probabile bersaglio del generale Haftar). Il GNA si ritroverà, forse e a breve, anche senza sponsor esterni europei e occidentali, i quali continuando a sostenere Al-Serraj non riescono a riservarsi quelle sfere di influenza e di controllo nel territorio libico che si aspettavano. D’altro canto il nemico Haftar è sostenuto fortemente dalla Russia, dall’Egitto e dall’Algeria, e ora si ritrova in una posizione di dominio su buona parte della Libia e sui terminal petroliferi.

Tre schieramenti sono destinate a scontrarsi – e già lo stanno facendo – in Libia: Turchia, Qatar e Arabia Saudita a sostegno dell’Islam; la Russia, sostenuta dal mondo arabo panarabista laico (Egitto e Algeria); USA e UE, che nonostante le loro ambiguità necessitano di mantenere saldi i confini NATO e tenerli lontani da ulteriori potenziali minacce.

Il ministro italiano degli Affari Esteri Angelino Alfano ha avuto modo di far emergere più volte con precisione quale sia il ruolo e la modalità d’azione del contingente italiano a Misurata e della posizione dell’Italia in Libia. Un ruolo che oggi, appunto, trascende e deve trascendere le fazioni belligeranti, ossia quello di apprestare aiuti umanitari. Secondo Alfano è di fondamentale importanza estendere gli aiuti italiani e le operazioni umanitarie (Operazione Ippocrate) su tutto il suolo libico.

Michelangelo Di Castro

IN EGITTO LA RUSSIA DISEGNA IL FUTURO DELLA LIBIA. E NON SOLO.

Alcuni report della scorsa settimana hanno evidenziato la presenza di droni e forze speciali russe nella città egiziana di Sidi Barrani, a soli 100 chilometri dal confine libico. Fonti egiziane, che hanno preferito restare anonime, hanno parlato di 22 unità di forza speciali vicine al confine con la Libia, aggiungendo che, già in precedenza, alcune forze russe erano state avvistate nei pressi del porto egiziano di Marsa Matrouh. 
Nonostante le smentite del Cairo, è ormai chiaro quale sia il disegno della Russia nel Mediterraneo: sconvolgere l’attuale balance of power per imporre l’uomo di fiducia Haftar. 
Lo spiegamento di forze speciali in Egitto, dunque, sarebbe, secondo molti analisti, da ricondurre all’interno della più grande cornice delle relazioni internazionali e, in particolare, del futuro della Libia. 
Il disegno russo sarebbe quello di aiutare militarmente il generale dissidente di Tobruk, Khalifa Belqasim Haftar e, successivamente, mettere pressioni alla comunità internazionale per il riconoscimento del suo governo. Mosca, inserendosi prepotentemente nel futuro libico, riutilizzerebbe la stessa strategia applicata in Siria con l’appoggio a Bashir al-Assad. 
Haftar, infatti, resta uno degli attori centrali nella guerra civile libica e non ha mai nascosto l’ambizione di arrivare a controllare tutta la Libia una volta pacificata. Le truppe dell’ex generale di Gheddafi, in contrapposizione a quelle di Sarraj, sono schierate nella regione orientale del Paese (la Cirenaica) dove si trova il 70% delle riserve petrolifere libiche. Mosca, dunque, sfruttando i rapporti con il generale Haftar, allungherebbe le mani sui preziosi pozzi petroliferi della regione e sui due strategici porti per la esportazioni di Ras Lanuf e di al-Sidra, tra i maggiori della costa nordafricana.
General_Haftar
In tutto questo, la posizione italiana resta delicata. L’Italia, infatti, ha riconosciuto, assieme alle Nazioni Unite, il governo di unità nazionale di Sarraj come l’unico governo legittimo della Libia. Se l’azione russa in Libia fosse efficace e le truppe di Haftar diventassero il primo interlocutore sul futuro libico, allora la posizione italiana, e dunque i nostri interessi in particolare quelli legati alla questioni migranti, passerebbero pericolosamente in secondo piano. Haftar, intervistato a inizio anno dal Corriere della Sera, ha affermato che “l’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata” consigliando di non interferire negli affari interni libici e lasciando che siano i libici a occuparsi del futuro della Libia.
Una possibile vittoria dell’uomo di Mosca spaventerebbe anche Ankara, importante membro NATO. Infatti, se nell’immediato le forze russe – attraverso il sostegno ad Haftar – potrebbero essere utili per arginare le attività jihadiste nella regione nordafricana, nel lungo periodo, la prospettiva di un’influenza di Mosca sul Mediterraneo orientale eroderebbe la posizione strategica della Turchia, la quale potrebbe, secondo alcuni analisti, spingere per azioni provocatorie nel Mediterraneo. 
Secondo recenti sondaggi di Gallup, l’influenza di Putin in Grecia è esponenzialmente aumentata a scapito di quella della NATO e dell’Europa. 
Al governo di Ankara, intrappolato dall’alleanza russa che va dalla Siria di Al-Assad ad una probabile Libia di Haftar, resterebbe solo la parte settentrionale di Cipro.
Alcuni mesi fa Putin affermò che uno dei più grandi errori dell’età contemporanea è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica e, seguendo i recenti sforzi militari di Mosca, pare proprio che il leader russo abbia un piano per riallacciare legami nella regione MENA: Stati Uniti, Europa e Nato avvisati.

Nicola Bressan

LA DIGA EUROPEISTA RESISTE ALLA MAREA POPULISTA

Il primo test probante per verificare la tenuta delle istituzioni europee ha dato esito positivo. Lo scorso 15 marzo gli elettori olandesi hanno espresso la volontà di non venir meno agli ideali di tolleranza e di rispetto per la libertà religiosa che hanno da sempre contraddistinto i territori dei Paesi Bassi fin dalla loro fondazione.

Mark Rutte, il leader del partito del centrodestra liberale denominato “VVD”, dopo un primo “battesimo del fuoco” all’appuntamento elettorale del 2006 (quando riuscì ad ottenere solamente il quarto posto dietro alle tradizionali forze politiche rappresentate dai cristiani democratici del “CDA”, dai democratici progressisti del “D66” e dai laburisti del “PVDA”), si appresta a formare il suo terzo esecutivo consecutivo.

Nel 2010 e nel 2012 non era stato semplice ottenere la sospirata soglia dei 76 – la Camera Bassa è costituita da 150 deputatati – necessaria per poter formare una coalizione di governo, ma nulla al confronto dello scenario estremamente composito che si è delineato recentemente. L’ultradestra di Wilders, la quale aveva fornito nel 2010 un appoggio esterno al primo Governo Rutte fino al settembre del 2012 quando decise di votare contro numerosi provvedimenti determinandone la caduta, non è riuscita ad attirare la parte più moderata dell’elettorato di centrodestra la quale è stata decisiva per la vittoria del VVD. La direzione estremamente ferrea e risoluta adottata nell’affair diplomatico con la Turchia ha definitivamente convinto gli ultimissimi indecisi a dare nuovamente fiducia al leader del centrodestra liberale. Le due principali sorprese sono state caratterizzate dalla “Caporetto” del partito laburista, il quale ha perso 29 seggi rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Secondo i politologi più esperti avrebbe scontato la “sterzata” a destra derivante dall’appoggio al secondo governo Rutte, consentendo al partito dei verdi di coagulare tutto il malcontento della sinistra progressista. Difatti il vero trionfatore è stato indiscutibilmente il nuovo astro nascente della politica olandese, il candidato dei verdi “GL” Jesse Klaver definito il prossimo “Justin Trudeau”, per le sue capacità oratorie, la sua attenzione all’educazione primaria ed alla green economy. Il giovanissimo “Jessiah”, come viene definito dalla stampa olandese, è risultato il migliore ad ogni confronto televisivo, diventando un punto di riferimento indiscusso per l’elettorato giovanile dei Paesi Bassi.

Un dato particolarmente interessante è caratterizzato dal fatto che due esponenti politici agli antipodi come Wilders e Klaver abbiano elementi in comune: entrambi hanno il medesimo background familiare materno proveniente dalle ex colonie delle Indie olandesi, ed hanno ricevuto un’educazione di matrice cattolica. I punti di contatto terminano qui. Ad ogni modo è singolare la statistica degli elettori tra i 18 e 35 anni i quali hanno dato la loro preferenza quasi esclusivamente a queste due figure così diverse, dimostrando un fortissimo disincanto per i partiti che hanno governato il paese dal secondo dopoguerra. 

Solamente nel 2006 i democristiani, i laburisti, i socialisti ed i liberali del centrodestra rappresentavano più dell’ottanta percento dell’elettorato a differenza del dato odierno caratterizzato esattamente dalla metà, di conseguenza possiamo notare come sia stato depauperato un capitale elettorale enorme. Il nuovo esecutivo presieduto da Mark Rutte, il quale ha conseguito dei risultati economici impressionanti nelle precedenti legislature con una disoccupazione nazionale al 5,4% ed una crescita del Pil al 2,8%, dovrà tenere conto della crescita tumultuosa del partito del suo ex alleato Geert Wilders per non vanificare questa storica vittoria per il futuro dell’Unione Europea.

Gabriele Mele

LE PRESIDENZIALI FRANCESI SOTTO IL SEGNO DELL’ANTIPOLITICA

Dopo le elezioni politiche olandesi della scorsa settimana, i riflettori dell’opinione pubblica europea si stanno spostando in Francia per il rush finale della campagna elettorale per le elezioni presidenziali. Se in Olanda il movimento populista di Geert Wilders ha subito una battuta d’arresto per via dell’affermazione del partito liberale del premier uscente Mark Rutte, che porterà quest’ultimo – secondo una prassi già consolidata- a formare una coalizione di governo in chiave centrista, in Francia invece lo scenario politico appare molto più frastagliato e complesso.

Lo spettro delle presidenziali francesi per tutte le istituzioni europee si chiama Front National, il partito antisistema più longevo e l’organizzazione politica di riferimento della destra radicale francese ed europea da oltre quarant’anni. Temuto, demonizzato, il Front National (Fn) potrebbe portare alla vittoria alle prossime presidenziali Marine Le Pen, che ha sostituito dal 2011 il padre Jean-Marie Le Pen come nuovo Presidente del Fn. Marine Le Pen, in questi 6 anni di leadership, è riuscita a portare a compimento il processo radicale di trasformazione dell’immagine del partito, meglio nota in Francia con il nome di dédiabolisation. Il partito presta molta più attenzione a preservare un’immagine rispettabile – evitando dunque di inciampare in proclami apertamente razzisti o negazionisti a differenza della precedente leadership. Dall’altro, cerca di presentarsi come un’alternativa credibile all’establishment politico francese. Tutto questo è stato possibile grazie al costante di impegno di ‘’personalizzazione’’ del partito da parte di Marine Le Pen. L’ostracismo politico nei confronti del Fn è stato superato dal crescente consenso, che La Le Pen ha saputo conquistare negli ultimi anni. I suoi appelli ultranazionalisti e sovranisti fanno leva sulle classi operaie, su piccoli artigiani, commercianti e studenti, ormai stanchi dell’incapacità dell’attuale classe dirigente francese.

Le presidenziali francesi sotto il segno dell’antipolitica 2
Macron

Le possibilità concrete di successo per il Fn aumentano in maniera esponenziale, se si considera la crisi d’identità politica del Partito Socialista, ormai lacerato da feroci lotte interne tra le varie correnti e anime del partito. Ma a fare il proprio ingresso in questa campagna elettorale è stata un’ondata generale di sfiducia verso la classe politica del paese. Questo movimento diffuso di antipolitica non ha risparmiato nessuno tra i principali candidati per la corsa all’Eliseo. Dal candidato repubblicano François Fillon, finito in un polverone giudiziario per un’inchiesta per appropriazione indebita e abuso d’ufficio nei confronti di sua moglie Penelope, passando per Catherine Griset, collaboratrice strettissima di Marine Le Pen, accusata invece di essere stata stipendiata con i soldi dei contribuenti europei quando invece lavorava per il partito a Nanterre, in Francia. Anche Emmanuel Macron, il fondatore del nuovo movimento politico centrista ‘’En Marche! ‘’, è finito nel mirino della procura di Parigi  per presunto favoritismo a vantaggio di alcune aziende francesi , durante una cena di gala a Las Vegas cui Macron ha partecipato ai tempi in cui era ministro dell’Economia nel secondo governo Valls.

Macron potrebbe uscire indebolito da questa disavventura giudiziaria, anche se fino ad oggi rimane il concorrente più accreditato per battere Marine Le Pen al secondo turno, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutto l’establishment di Bruxelles. Tuttavia la corsa all’Eliseo rimane ancora piuttosto incerta; senza ombra di dubbio – al momento – il grande sconfitto di questa campagna elettorale sotto il segno del giustizialismo è François Fillon, che sembra ormai tagliato fuori per il ballottaggio. Quest’ondata di antipolitica, mai così forte in tutta la storia della V Repubblica francese, potrebbe sconvolgere il destino non soltanto della Francia, ma soprattutto quello dell’Europa intera. Fino ad oggi il miglior risultato del Front National alle elezioni presidenziali è stato raggiunto da Jean Marie Le Pen nel 2002, quando quest’ultimo giunse a sfidare il Presidente uscente Chirac al secondo turo, perdendo tuttavia in maniera nettissima contro il candidato repubblicano. A distanza di 15 anni potrebbe avverarsi un terremoto politico senza precedenti: per la prima volta Marine Le Pen potrebbe portare il Front National alla vittoria delle presidenziali.

Gian Marco Sperelli

INTERVISTA SU ALCIDE DE GASPERI A LILIANA CAVANI

A pochi giorni dalla celebrazione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, pubblichiamo un’intervista di gennaio alla regista Liliana Cavani, David di Donatello alla carriera, che ci racconta il suo sceneggiato RAI su uno dei padri fondatori dell’Unione Europea: Alcide De Gasperi.


D: Dottoressa Cavani, lei ha girato uno sceneggiato RAI su De Gasperi intitolato “De Gasperi: l’uomo della speranza”: da dove nasce l’esigenza di approfondire la storia del fondatore della DC?

R: Nel 1965 avevo girato un documentario che si chiama La donna nella resistenza: moltissime delle donne toscane, lombarde, emiliane e venete che ho intervistato erano cattoliche. Quando ho girato quel documentario mi sono resa conto che c’è stato un ruolo dei cattolici nella resistenza, forse numericamente inferiore, ma certamente notevole, che è stato poco raccontato.

La resistenza fu anche resistenza cattolica, molto più di quanto non sia stata resa nota. Nel mio paese ad esempio, a Carpi, c’è stato un movimento partigiano cattolico molto importante. Lì viveva il padre di una mia amica di scuola, Odoardo Focherini, che lavorava in un giornale cattolico a Bologna. Ha salvato più di cento ebrei, è morto ad Auschwitz ed è stato dichiarato un giusto dallo Yad Vashem. Nelle successive amministrazioni comuniste a Carpi non ci fu nessun impegno particolare per onorare un uomo così.

Per questo ho voluto raccontare De Gasperi: lui portò avanti il movimento fondato da don Sturzo e fu l’esempio più chiaro di come i cattolici fossero profondamente impegnati nella società. De Gasperi è stato veramente uno dei capi di governo più grandi d’Europa, con una vita fatta di alti e bassi determinati dalla sua visione del mondo, una visione giusta e bella. Credo che abbia sempre ricevuto molto poco in compenso.

D: Per questo ha deciso di produrre il suo film per la RAI. Come è andata?

R: Quando io ho ricostruito la storia di De Gasperi, la RAI non lo voleva neanche trasmettere, non si decidevano a farlo. Io allora conoscevo il Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, che ci diede senza problemi il permesso di farlo vedere in un’aula del parlamento. Solamente quando decidemmo di proiettarlo alla Camera dei Deputati la RAI si decise a trasmetterlo.

D: Ci sono state difficoltà durante le riprese, magari nella ricostruzione di alcuni episodi storici?

R: No, niente di tutto questo. Maria Romana De Gasperi è stata disponibilissima, in pratica le abbiamo smontato casa a Sella Valsugana (ride). È stata un’esperienza molto utile per tutto il cast. Ricordo ancora la scena finale girata in quella casa, quando De Gasperi muore disteso sul letto circondato dalle figlie. Era finzione ovviamente, eppure girando il film ci eravamo affezionati al personaggio di De Gasperi: eravamo tutti commossi e la troupe piangeva.

D: Un uomo di un altro tempo..

R: Di un altro tempo secondo me non si può dire. Aveva una visione politica di un altro tempo, ma nel senso di un tempo che ancora doveva venire. Non tutti i suoi compagni di partito la avevano compresa. Molti di questi uomini della Democrazia Cristiana erano entrati nel partito senza averne compreso l’anima.

D: Lei ha detto che De Gasperi è un politico immeritatamente dimenticato. C’è una frase che disse il repubblicano Pacciardi sulla morte di De Gasperi e che è emblematica a riguardo: “Gli uomini come De Gasperi l’Italia non li ama. L’Italia ama Garibaldi ma non Mazzini, ama D’Annunzio ma non Croce”. Secondo lei è vero che l’Italia non ha amato De Gasperi?

R: No, assolutamente. L’Italia ha amato moltissimo De Gasperi. È vero però che la sua figura non è stata raccontata a sufficienza dai media. Io l’ho conosciuto attraverso alcuni testi e le testimonianze e mi sono posta il problema: come è possibile? Io credo che neanche la DC, il suo stesso partito, abbia difeso e valorizzato abbastanza la sua immagine.

D: Lei crede che in quegli anni si è lasciata in mano alla sinistra la sfida della cultura?

R: Sì, o quanto meno la sfida della comunicazione culturale. Non era però la sinistra che immaginiamo oggi, anche io ero di sinistra, ma non ero di certo iscritta al Partito Comunista.

Quando io ho iniziato da giovane a lavorare e a fare il mio mestiere non capivano se fossi cattolica o comunista. All’epoca c’era questa abitudine di dover etichettare le persone. Io vengo da una famiglia atea, ma anche le persone che non vanno in Chiesa possono avere una morale o un’etica, fondata non tanto sul Vangelo quanto su un’educazione civica, ma pur sempre valida. Io il primo film su San Francesco l’ho fatto nel 1965: colpì perché avevo descritto anche il lato della visione sociale di Francesco, e non solo quello del lupo e degli uccellini. Allora mi definirono “cattolica di sinistra”: bisognava dare a tutti i costi un’etichetta. Se non ero comunista, qualcosa dovevo essere per forza. Adesso le cose sono cambiate, per fortuna caduto il muro di Berlino sono cadute anche certe vecchie categorie.

D: Alcuni storici hanno ipotizzato che De Gasperi stesso in qualche modo sperasse in un’alternanza tra la Democrazia Cristiana e la parte sana della sinistra italiana, sull’esempio di altri partiti socialdemocratici europei.

R: È un peccato che non sia successo. Io credo che in quegli anni la Chiesa stessa abbia perso una grande occasione, quella di aprire un dialogo con quella parte della sinistra che non era eterodiretta dall’Unione Sovietica. Per De Gasperi le difficoltà di vincere la sfida culturale erano evidenti: mentre Togliatti alle sue spalle aveva un grosso partito che lo sosteneva, lui doveva fare i conti con un partito diviso in correnti, spesso debole nella propaganda e nella stampa, e con una parte della Chiesa Cattolica che non lo sosteneva.

D: A proposito, nel suo film lei ha dedicato diversi minuti all’episodio dell’Operazione Sturzo: alle amministrative di Roma del 1952 una parte della Chiesa fa pressioni su De Gasperi affinché si allei con le destre nella lotta ai comunisti. In particolare lei ha rappresentato il momento in cui padre Riccardo Lombardi, famosissimo sacerdote e predicatore dell’epoca, si reca a Castel Gandolfo per chiedere alla moglie di De Gasperi, Francesca Romani, di convincere il marito a fare un’alleanza con le destre..

R: Di padre Lombardi mi ricordo, quando ero bambina c’era questo sacerdote che andava in giro a dire alla gente chi doveva votare. Io credo che con questa ingerenza in politica della Chiesa e delle destre nel dopoguerra l’Italia abbia perso delle occasioni importanti per l’ammodernamento civile, ideologico e culturale. Quel che è sicuro è che quelle destre non rappresentavano la parte migliore del paese. De Gasperi mi sembra abbia avuto in vita due tipi di nemici. I primi erano i suoi avversari espliciti, e dunque soprattutto i comunisti che dipendevano dall’Unione Sovietica. I secondi provenivano invece da quella parte di Chiesa conservatrice e di destra. Io credo che chiunque conosca la figura De Gasperi e guardi le sue carte, che sia per una ricerca, un documentario o per fare un film, non possa che dire grazie a quest’uomo per quello che ha fatto, per come ha resistito a certe pressioni.

D: Cosa l’ha colpita di più di De Gasperi?

R: La cosa più bella di De Gasperi, che credo abbiamo sottolineato nel film, è che lui non era solo un intellettuale, era anche un marito, un padre di famiglia. Quando abbiamo cercato di mettere in risalto questo suo aspetto, sua figlia, Maria Romana De Gasperi, è stata molto collaborativa, ci ha aiutato a ricostruire il lato umano del personaggio. Lei ha scritto un libro molto bello e secondo me molto importante sul quale mi sono basata per il film: De Gasperi uomo solo.

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Alcide De Gasperi (Fabrizio Gifuni) con la moglie Francesca Romani (Sonia Bergamasco) nello sceneggiato RAI “De Gasperi: l’uomo della speranza

 

D: Noi ragazzi della Fondazione De Gasperi abbiamo conosciuto la signora Maria Romana. Quel che ci ha colpito è la sua scelta di una vita di testimonianza, della sua voglia di attualizzare e rendere viva la figura del padre. I ragazzi e i giovani oggi non sono attratti tanto dalla storia di un uomo che è scomparso più di sessant’anni fa, o almeno non solo da quello. Ciò che invece può attrarli è un’idea di politica, di servizio per il Paese, di giustizia sociale che ha ancora molto da dire oggi. Questa idea di giustizia si può provare a recuperare in politica, anche se non è facile..

R: È vero, non è facile purtroppo. Io credo che oggi la gente, soprattutto ora che abbiamo questo Papa, si sia rassegnata a pensare che tutto ciò che riguarda il sociale lo debba raccontare il Papa e che di questo i politici non se ne occupino. In De Gasperi invece c’era chiarissima una visione della società, di come sarebbe dovuta essere, di una ricchezza più equa. De Gasperi considerava i bisogni sociali come un’inevitabile necessità, era veramente un politico a tutto tondo. Oggi invece spesso si pensa che di tutto ciò che riguarda il sociale se ne debbano occupare solamente il Papa, i sacerdoti, le associazioni di volontariato che servono da mangiare alle mense. Mi sembra che in America questa sensibilità ci sia di più, il Presidente stesso si occupa più delle questioni sociali, penso all’Obama Care per quanto riguarda la sanità. De Gasperi sapeva che politica significa amministrazione del Bene: e Bene Comune significa prima di tutto istruzione, sanità, infrastrutture. In questo credo che lui fosse davvero moderno, mentre oggi spesso si delegano ad altri queste funzioni politiche. Ci sono dei deputati e dei senatori che stanno in Parlamento da cinque o sei mandati, che non si sono mai occupati di questi problemi e nemmeno li conoscono.

D: In conclusione, da questo film ha ricevuto più soddisfazioni o delusioni?

R: Quel che so è che chi l’ha visto è rimasto contento. Sicuramente ne è valsa la pena, perché forse siamo riusciti a fare un po’ di luce su un pezzo di storia del mondo cattolico che è stato molto se non del tutto trascurato. Secondo me era doveroso raccontare la storia di De Gasperi, non fosse altro per rivendicare il padre di quella mia amica che è morto ad Auschwitz, per il ricordo di questa mia amica e dei fratelli che io ho conosciuto, e di tutti quei cattolici che hanno dato un grande contributo alla rinascita del nostro paese e che non hanno visto riconosciuti i propri meriti.