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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

LA SVOLTA “POLITICA” DI TRUMP

Il 28 febbraio il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha tenuto il primo discorso davanti al Congresso. Un discorso carismatico e chiaro dove ha manifestato la volontà di dare attuazione al programma per il quale è stato eletto e ha sancito nuovi punti del programma da presidente degli Stati Uniti.

Inizialmente ha descritto la sua elezione come una rivoluzione, una ribellione nata da un piccolo vociferare divenuto tumulto e poi terremoto che tende alla rigenerazione dello spirito americano, a riportare – grande – l’America al suo posto, a guidare e a illuminare il mondo. Affermando che tutto quello che prima era impensabile oggi è possibile.

Un punto centrale della trattazione è stato il tema della difesa. Trump infatti ha dichiarato e ha promesso un grande aumento di risorse per la difesa nazionale e per i propri militari. Ha ribadito la necessità di riformare la legislazione sull’immigrazione e di chiudere le frontiere irrigidendo i controlli, definendo l’apertura degli anni precedenti come causa di proliferazione del terrorismo e del radicalismo islamico. Ha posto come obiettivo della sua presidenza quello di debellare il vile nemico ISIS dalla faccia della terraHa chiarito, espressamente in pieno favore, le sue opinioni sulle alleanze fondamentali con gli Stati europei, con Israele e con la NATO, lanciando un monito e un invito a partecipare attivamente nel Pacifico e a contribuire maggiormente alle spese militari. Tutto il Congresso ha concesso un forte e lungo applauso quando Trump ha affermato la vitale importanza del Patto Atlantico, patto che permise di sconfiggere i fascismi e di annientare il comunismo.

Altro punto fondamentale del programma presidenziale è stato l’intervento nel campo economico. Il primo obiettivo è quello di riportare le imprese in America e di investire miliardi di dollari in infrastrutture, tagliando gli investimenti nei paesi esteri e aumentando il livello occupazionale dei propri cittadini. Inoltre, una priorità sarà un’attenta riforma sulla tassazione che diminuisca le tasse e i costi per le imprese, cercando di privilegiare la classe media americana logorata dalla crisi. In secondo luogo, il Presidente ha evidenziato la necessità e la volontà di aumentare la disponibilità economica dei governatori per mezzo della concessione di maggiori risorse e flessibilità.

Infine, Trump ha riservato dei punti della sua trattazione al campo sociale, annunciando di voler dare atto a politiche di inclusione dei giovani (soprattutto afro-americani e latini), nonchè di voler concentrarsi sull’istruzione. Poi ha sferrato un duro colpo ai media accusandoli di aver messo in atto una propaganda demagogica sulla chiusura delle frontiere e di non aver parlato mai dell’istituzione di organi a tutela degli immigrati come il “Victim of immigrant crime engagement.

Il presidente ha concluso recitando: Believe in yourselves. Believe in your future. And believeonce more, in America”.

Michelangelo Di Castro

WHAT’S ON KIM JONG – UN’S MIND?

Andrei Lankov | Al Jazeera | 9 marzo 2017

Negli ultimi mesi, la Corea del Nord è stata al centro dell’attenzione internazionale. Le sue politiche sono ancora una volta state descritte come “irrazionali” o “bizzarre”, ed il suo leader ereditario, Kim Jong-un, è rappresentato come una creatura eccentrica ed irrazionale, che adora assassinare i suoi parenti e minacciare il mondo con armi nucleari. Ma questa è una descrizione distorta: Kim sa ciò che fa.

Di recente i test missilistici nordcoreani hanno indicato un avanzamento importante e rapido delle tecnologie belliche del Paese, tanto che la maggior parte degli esperti ritengono che Kim non stia bluffando quando afferma di essere vicino allo sviluppo di missili balistici intercontinentali (ICBM). L’assassinio di Kim Jong-nam, fratello maggiore del dittatore, è coinciso con l’ennesima ondata di purghe che hanno portato alla scomparsa di numerosi generali. Nel frattempo, internamente, l’amministrazione di Kim Jong-un continua a portare avanti importanti riforme economiche, senza che questo attiri l’attenzione dei media esteri. Nella sostanza, queste riforme sono estremamente simili a quelle cinesi di fine anni ’70. In Nord Corea, l’economia in stile sovietico si sta via via smantellando per lasciare spazio all’economia di mercato aperta a capitali privati. Questi eventi dimostrano le tre dimensioni della politica del leader: rafforzamento della deterrenza per scoraggiare attacchi esterni; eliminazione dei possibili rivali nelle élite del Paese; aumento delle riforme economiche di libero mercato. Tali politiche rincorrono un obiettivo prevalente: mantenere Kim al potere affrontando le tre principali minacce che egli ritiene possano far crollare il regime.

La prima è una minaccia esterna: Kim teme un’invasione statunitense in supporto a qualche rivoluzione interna, come avvenuto in Iraq ed in Libia. Egli sostiene che il miglior modo per contrastare tale rischio sia quello di sviluppare una forza nucleare su larga scala potenzialmente in grado di colpire gli USA.

La seconda è una minaccia interna: quando Kim è succeduto al padre nel dicembre del 2011, era un ventenne completamente sconosciuto: aveva ottime ragioni per temere di essere percepito come un debole dai generali anziani e dalle personalità di spicco del Paese. Non poteva permettersi che tali individui, inclusi alcuni membri della sua famiglia, potessero indirizzare il proprio sostegno verso qualcun altro. Ciò spiega le esecuzioni e le purghe di tutti coloro i quali non godono della completa fiducia del leader. Inoltre, l’assassinio del fratello, che viveva in auto-esilio da anni sotto la protezione cinese, ha dimostrato la scarsa influenza della Cina – della quale Kim Jong-un è molto sospettoso – nella politica interna nordcoreana.

Anche la terza minaccia è di natura interna: la Corea del Nord è un paese estremamente povero: il gap tra il PIL pro capite di Nord e Sud Corea è il più esteso del mondo tra due paesi che condividono un confine. Se la popolazione nordcoreana venisse a conoscenza di tali enormi differenze, potrebbe condannare il regime di Kim. Pertanto il leader sa che l’unico modo per mantenere la popolazione docile ed ubbidiente è quello di avviare una crescita economica, introducendo riforme in stile cinese.

Tutte queste politiche non sono prive di rischi: i tentativi di creare un deterrente nucleare potrebbe provocare un attacco militare statunitense; le eccessive purghe delle élite interne potrebbero portare a cospirazioni e colpi di stato; le riforme economiche potrebbero favorire l’insorgenza di movimenti sociali al di fuori dal controllo del regime.

A conti fatti, data la situazione precaria di Kim, egli ha poche alternative rispetto a ciò che sta attualmente facendo. E fino a questo momento le sue politiche hanno funzionato bene.



In recent months, North Korea has found itself at the centre of international attention. Its policies are once again described as “irrational” or “bizarre”, and its hereditary leader Kim Jong-un is presented as an eccentric and irrational creature, fond of killing his relatives and threatening the world with nuclear weapons. But this description is misleading: Kim knows what he is doing.

Recently tested missiles indicate serious and remarkably fast technological advancement – so remarkable that most foreign experts believe that Kim was not bluffing when he talked about North Korea’s ability to develop ICBMs in the near future. The recent assassination of Kim Jong-nam’s, Kim Jong-un’s elder brother coincided with yet another wave of purges inside North Korea, with another bunch of generals disappearing without any trace. Meanwhile, inside North Korea, Kim Jong-un’s administration continues to implement economic reforms, seldom attract the attention of the world media. In essence, these reforms are strikingly similar to what China did in the late 1970s. In North Korea, the Soviet-style command economy is gradually dismantled, while market economy and private entrepreneurship is increasingly accepted and encouraged. These events demonstrate the three major dimensions of Kim Jong-un’s policy: he is strengthening his ability to deter a foreign attack, he is eliminating possible rivals in the country elite, and he is speeding up market-oriented economic reforms. These policies serve one overriding goal: to keep Kim in power responding to three major threats which he thinks might bring him down.

The first of such threats is largely external. Kim is afraid of a US invasion in support of some internal revolution, should it erupt inside North Korea, given what happened in Iraq, as well as in Libya. He believes that the best way to counter a foreign threat is to have a full-scale nuclear force which would be capable of hitting the continental US.

The second threat is internal. When Kim succeeded his father in December 2011, he was in his mid-20s and completely unknown: he had good reasons to be afraid of the country’s ageing generals and dignitaries who saw him as a political lightweight. He could not rule out the possibility that the senior politicians, including some members of his own family, could switch their support to somebody else. This explains the purges and executions of all senior officials whose loyalty Kim does not fully trust. Furthermore, the assassination of his brother, who lived under Chinese protection, also undermined the their ability to intervene in North Korean politics – and Kim Jong-un is deeply distrustful of China.

The third threat is also internal. North Korea is a very poor country: the per capita income gap between South and North Korea is the world’s largest for two countries sharing a land border. If North Korean people learn how much their country is lagging behind its neighbours, they are likely to blame the Kim family. Therefore, Kim Jong-un understands that the only way to keep the population docile and obedient is to start economic growth, introducing China-style reforms.

All these policies are somewhat risky: the attempts to create a powerful deterrent might provoke a US military strike; excessive purges of the elite might bring about a conspiracy; economic reforms might unleash social movements. However, given Kim’s precarious situation, he has few alternatives to what he is doing now – and so far his policies have worked well.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

SE PUO’ AVERE SENSO PARLARE DI ISLAMOFOBIA

L’attentato e le premesse – Nel tardo pomeriggio del 29 gennaio 2017 Alexandre Bissonette, franco-canadese di 27 anni, apre il fuoco in una moschea a Quebec City mentre decine di persone sono riunite per pregare. Muoiono in sei e molti altri rimangono feriti.

L’attentato contro i musulmani, se possibile, è ancora più significativo se si considera il paese dove è avvenuto: il Canada. Considerato da molti l’unica risposta valida di fronte alle misure di Trump e il faro della democrazia che offre le giuste alternative di fronte al proliferare dei populismi, il Canada con il suo Primo Ministro Justin Trudeau è davvero un’idea di democrazia così priva di contraddizioni?

Fin da quando si è insediato nel novembre 2015 Trudeau, appoggiato dal suo Partito Liberale, ha promosso il Canada come il simbolo dell’accoglienza, dell’apertura e della sopravvivenza della diversità. Proprio in questo senso si inserisce un provvedimento che tuttora fa molto discutere e che ha spaccato l’opinione pubblica a metà.

La mozione che condanna l’islamofobia – A dicembre dello scorso anno Iqra Khalid, deputata musulmana del Partito Liberale, ha presentato al Parlamento canadese una mozione piuttosto controversa. La M-103, questo il nome ufficiale, chiede al governo di sedare il clima pubblico crescente di odio e paura, eliminare il razzismo e la discriminazione religiosa ed infine condannare ogni forma di islamofobia. La mozione, così come la intendono i liberali, non deve essere intesa come una proposta di legge ma come una spinta al governo per affrontare in maniera adeguata il problema della discriminazione religiosa in Canada.

Conservatori vs Liberali – Se la M-103 non è un disegno di legge e non diverrà mai legge, perché tante polemiche? In breve: il termine “islamofobia”. In molti si sono scatenati riguardo all’ambiguità di questo termine. C’è chi come Ezra Levant, scrittore piuttosto critico nei confronti dell’Islam, ha definito la M-103 una vera e propria intimidazione e limitazione per la libertà d’espressione. Secondo il Partito Conservatore una Sharia proiettata sul Canada sarebbe la conseguenza logica di provvedimenti come questo e ogni critica nei confronti di Maometto o dell’Islam verrebbe messa così a tacere. In poche parole i liberali di Trudeau per eliminare la discriminazione religiosa riserverebbero un trattamento speciale alla religione islamica.

David Anderson, deputato del Partito Conservatore, ha provato a modificare la mozione presentandone un’altra praticamente uguale se non per il fatto che in quest’ultima non compariva il termine “islamofobia”. Il tentativo non è però andato a buon fine visto che ha incontrato la ferma opposizione del Partito Liberale, il quale ha respinto la mozione con 165 voti contrari.

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Libertà: fino a che punto – È bene affrontare la questione, che apre un dibattito molto più ampio, lontani da pregiudizi di ogni tipo.

Da un lato parlare di censura della libertà d’espressione e di Sharia che si abbatte sul Canada sembra un’esagerazione, in quanto la M-103 non ha niente a che fare con la legge e non ha nessun potere di cambiare la Carta dei Diritti e della Libertà del Canada. Dall’altro lato è però vero che specificare nel dettaglio la condanna dell’islamofobia può sicuramente portare a un fraintendimento: i credenti di altre religioni, tra l’altro in netta maggioranza in Canada, possono risultare particolarmente sensibili rispetto a un pensiero espresso in questi termini.

In un’epoca di affermazione di fondamentalismi islamici, si sceglie di astenersi da ogni giudizio di condanna?

Il dramma e le identità – Il dramma della religione islamica è proprio questo suo non riuscire a conciliarsi con la modernità. Probabilmente i conflitti identitari, tipici del mondo globalizzato, non possono essere risolti con la stessa moneta dei fondamentalismi: il loro rifiuto per i valori occidentali non deve essere risolto tramite un’opposizione uguale e contraria dell’identità cristianità. Ci sarebbe da discutere fino a che punto questo porterebbe a uno “scontro di religioni”.

Tuttavia, d’altra parte, parlare di “condanna dell’islamofobia” sembra anacronistico, in quanto la democrazia è in crisi e deve sapersi difendere. La discriminazione religiosa e il razzismo vanno eliminati alla radice senza ulteriori specificazioni su quale di questi abbia la priorità.

Simone Stellato

RUSSIA’S ASSAULT ON AMERICA’S ELECTIONS IS JUST ONE EXAMPLE OF A GLOBAL THREAT

David Ignatius | The Washington Post | 23 febbraio 2017

One of the most startling allegations in a January report by U.S. intelligence agencies about Russian hacking was this sentence: “Russia has sought to influence elections across Europe.”

The Kremlin’s attempt to meddle in the 2016 U.S. presidential election is part of a much bigger tale of Russian covert action. This secret manipulation, if unchecked, could pose an “existential threat” to Western democracy. The Russians are masters of what they call “active measures” in the “information space.” Their intelligence services have been using “fake news” and stolen information for more than a century to try to manipulate Europe and the United States. What’s different now is that the power of digital technology allows intelligence agencies to alter the very landscape of fact.

On January the U.S. intelligence community warned: “We assess Moscow will apply lessons learned from its campaign aimed at the U.S. presidential election to future influence efforts in the United States and worldwide, including against U.S. allies and their election processes”. Let’s look at Germany, which faces parliamentary elections in September. The German government warned “there might be a Russian cyberattack on the federal election in Germany”. A report found a direct Russian role in attacks last August on the Bundestag and German political parties, which it attributed to malware known as APT 28, identified by the FBI as a Russian hacking tool.

France offers a similar opportunity for Russian political manipulation in its presidential election this spring. A Moscow-based bank loaned money to the party of right-wing and openly pro-Russia candidate Marine Le Pen in 2014, according to the Atlantic Council. Moreover Russia was apparently behind a devastating April 2015 hack against cable news channel TV5 Monde. Recently the French intelligence service briefed political parties about hacking threats. French journalists suspect a Kremlin hand in recent rumor-mongering about Emmanuel Macron, the leading anti-Russian candidate in the presidential election. In the meantime Russian propaganda outlets have published stories suggesting that Macron is gay.

So pay attention: The hacking issue isn’t a “ruse,” as Trump claimed. This is how the Russians try to subvert politics. They’re good at it. If the United States and its allies don’t resist, a post-West era may indeed be next.


Una delle più scioccanti dichiarazioni in un report emesso dall’intelligence Americana lo scorso gennaio sullo spionaggio informatico russo è stata: “la Russia ha voluto influenzare alcune elezioni in Europa”.

Il tentativo del Cremlino di interferire con le elezioni americane del 2016 è parte di un piano più grande dell’azione russa. Queste manipolazioni segrete, se non controllate, rischiano di porre una “minaccia esistenziale” alle democrazie occidentali. I russi sono maestri di ciò che chiamano “misure attive” nello “spazio di informazione”. I loro servizi segreti hanno utilizzato false notizie e informazioni rubate per più di un secolo per provare a manipolare l’Europa e gli USA. Oggi, la tecnologia digitale fornisce all’intelligence la possibilità di alterare in larga misura la realtà dei fatti.

Lo scorso gennaio l’intelligence americana ha avvisato che Mosca utilizzerà le lezioni imparate dalla sua azione di spionaggio alle presidenziali USA per influenzare in futuro gli Stati Uniti, gli alleati ed i loro processi elettorali. Guardando alla Germania che si prepara alle elezioni del prossimo settembre, ad esempio, il Governo tedesco ha dichiarato che potrebbe avvenire un attacco cibernetico per mano russa. Un report ha parlato di un ruolo diretto della Russia negli attacchi informatici contro il Bundestag ed i partiti tedeschi dello scorso agosto, perpetrati con il malware APT 28, identificato dall’FBI come uno strumento russo.

Anche la Francia potrebbe offrire loro simili opportunità nelle prossime elezioni in primavera. Secondo l’Atlantic Council, nel 2014 una banca di Mosca aveva finanziato il partito di Marine Le Pen, candidata di destra e filo-russa.  Inoltre gli attacchi informatici del 2015 diretti contro TV5 Monde sembrano essere stati avanzati da hacker russi e di recente l’intelligence francese ha avvertito i partiti politici del rischio di minacce informatiche. I giornalisti francesi sostengono che ci sia la mano del Cremlino dietro i rumors diretti contro Emmanuel Macron, il candidato “anti-russo” alle elezioni francesi, ed i media russi hanno recentemente pubblicato alcuni articoli ipotizzando che Macron sia gay. 

C’è quindi da prestare attenzione: l’hacking russo non è uno “stratagemma” come ha detto Trump, ma è il modo in cui i russi provano a sovvertire la politica. Sono bravi in questo. Se gli USA e i suoi alleati non resistono, potrebbe essere prossimo l’avvento di un’era post-occidentale.

Traduzione e sintesi di Lorenzo Salvati

Articolo originale

SINWAR: IL NUOVO CAPO DI HAMAS CHE PREOCCUPA L’OCCIDENTE

 

Radicale, carismatico, estremista, militante e intransigente: questi sono solo alcuni degli aggettivi utilizzati dai media per descrivere Yehya Sinwar, nuova leader di Hamas nella striscia di Gaza.
Sinwar, 55enne palestinese, inizia la sua militanza fra i ranghi della Fratellanza Musulmana e si distingue, già prima della formazione ufficiale di Hamas nel 1987, per la creazione del gruppo armato “Brigate del martire ‘Izz al-Din al-Qassam” per poi impegnarsi in un’opera di “punizione morale” contro i palestinesi considerati colpevoli di collaborare con il nemico sionista.

L’elezione – dai dettagli non del tutto chiari – di Sinwar (ormai pronto a prendere il posto di Ismail Haniyeh), giunge al termine di un lungo conflitto interno ad Hamas. Sono infatti due le correnti che all’interno del gruppo si sono scontrate: una più “moderata”, rappresentata da Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, vicina al Qatar e restia ad un conflitto armato con Israele, e un’altra vicina all’Iran, più radicale e più incline ad un conflitto aperto con Israele. Il loro leader Mohammed al-Deif, per molto tempo accreditato come possibile futuro capo di Hamas, viene considerato da molti palestinesi una leggenda vivente: le sue precarie condizioni di salute, dovute secondo alcuni reportage anche ai diversi attacchi scagliati contro di lui dalle forze israeliane, hanno consentito a Sinwar di avere il via libera per la sua elezione. Il nuovo leader di Hamas, liberato nel 2011 dagli israeliani in seguito ad un accordo di scambio di prigionieri, viene considerato erede naturale di Deif e l’unico in grado di colmare il vuoto di potere attualmente presente nella gerarchia del braccio militare del gruppo.

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Alcuni analisti si sono affrettati a bollare la sua elezione come un mero passaggio di consegne all’interno del microcosmo di Hamas. Nonostante ciò, sono molte le premesse per le quali questa elezione potrebbe essere considerata come un punto di svolta, certamente non positivo, nel mondo delle relazioni internazionali.
In primo luogo, vi sono fondati timori circa un possibile avvicinamento di Sinwar al Califfato islamico. Il nuovo leader, infatti, non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’Iran e, in particolare, per una collaborazione con l’ISIS nel Sinai. Kobi Michael, ricercatore al Israel’s Institute for National Security Studies, ha evidenziato, infatti, come la vittoria del 55enne palestinese testimoni la vittoria dell’ala estremista di Hamas e l’inizio di una fase destabilizzante per l’intera regione.

Anche le relazioni tra la Palestina e Israele potrebbero essere pesantemente influenzate dal nuovo corso. Con Fatah ormai all’angolo, la nuova leadership di Gaza pare pronta, ora più che mai, all’ennesimo round di scontro con Israele. Le IDF (Israel Defense Forces) hanno combattuto dal 2008 tre guerre contro Hamas e gruppi affiliati e, negli ultimi mesi, stanno costantemente informando il mondo intero della costruzione di tunnel sotterranei e postazioni missilistiche da parte del gruppo, incurante del cessate il fuoco firmato nel 2014. L’elezione di Sinwar a capo di Hamas ha trasformato l’ipotesi di uno scontro armato in una questione di tempo: non ci si chiede più se ci sarà, ma quando.

Nicola Bressan

RUSSIAN STATE MEDIA IS FALLING OUT OF LOVE WITH DONALD TRUMP

N.S. – The Economist – 21 Febbraio 2017

In the months following Donald Trump’s election, Russian media fell hard for their brash new beau. Television anchors and columnists lauded Mr Trump’s promises to rebuild relations with Russia. Dmitry Kiselev, the Kremlin’s chief propagandist, fawned over Mr Trump on his flagship Sunday-night show, declaring the new American president to be a “muzhik”, or a “real man”—a sharp shift for a programme that had spent years stoking anti-Americanism. (His praise became so effusive that a fringe nationalist group even staged a protest accusing Mr Kiselev of “Trumpomania”.) In January, Mr Trump was mentioned more often in the Russian press than Vladimir Putin himself.

Yet just as suddenly as he appeared, the triumphant image of Mr Trump has largely vanished from Russian television sets. In the past week, as the Trump administration has issued increasingly conflicting signals on its policy toward Russia, the country’s news programmes have overlooked his activities, and commentators have taken up a decidedly more skeptical spirit. The firing of the Russia-friendly Michael Flynn as national security adviser may have caused some consternation in the Kremlin. So too did the White House’s statement last week that it expected Russia to “return” Crimea to Ukraine.

Russia may be realising that, despite Mr Trump’s promises, the bitter relationship with America is unlikely to change much. Konstantin Eggert, a commentator at the independent television network Dozhd (“Rain”), reported that the state-media holdings had received an order from the Kremlin to cut down on coverage of Mr Trump; Bloomberg, citing three anonymous sources familiar with the matter, suggested as much. Mr Putin’s press secretary, Dmitry Peskov, dismissed those claims as “fake news”, but the numbers do not lie. An analysis by RBC, a respected business-news agency, found that mentions of Mr Trump on key Sunday news and analytical programmes fell by 88% in the two weeks from February 5th to February 19th (see chart). So much for love at first sight.


Nei mesi successivi l’elezione di Donald Trump, i media russi sembravano aver trovato una nuova “fiamma”. Reti televisive ed editorialisti lodavano continuamente le promesse di Trump di ricostruire le relazioni con la Russia. Dimitry Kiselev, capo della propaganda del Cremlino, aveva adulato il neo presidente degli Stati Uniti nel suo programma televisivo domenicale, definendolo un “muzhik”, un “vero uomo”, nonostante la tradizione antiamericana dello show (tanto da essere poi tacciato di “Trumpomania” da gruppi nazionalisti). A Gennaio Trump è stato citato più volte di Putin dalla stampa russa.

Poi, tanto velocemente come era apparsa, l’immagine trionfale di Trump sembra essere svanita dalla televisione russa. Nelle ultime settimane i segnali politici di Trump, sempre più contrastanti la Russia, hanno reso scettici i commentatori ed i notiziari hanno cominciato a trascurare la sua attività.

Le dimissioni di Michael Flynn e le richieste di restituire la Crimea all’Ucraina, hanno contribuito a far realizzare ai russi che, nonostante le promesse di Trump, le relazioni tra i due Paesi non sembrano destinate a mutare poi tanto. Konstantin Eggert, cronista di una rete tv indipendente russa, ha dichiarato, e non è stato il solo, che i media hanno ricevuto l’ordine dal Cremlino di non mandare in onda i servizi su Trump. Sebbene Mr. Peskov, addetto stampa di Putin, abbia smentito la notizia, i numeri non mentono: da un’analisi di RBC è emerso che le notizie inerenti Trump sui programmi di politica e notiziari sono diminuite dell’88% nelle due settimane comprese dal 5 al 19 febbraio. A proposito di amore a prima vista.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

DOPO LA SCONFITTA DELL’ISIS, UNO STATO PER I CURDI?

Sono i più perseguitati di sempre, i curdi. Sinonimo di popolo diviso, violato, sfortunato; ma anche la più grande etnia al mondo senza Stato: 30 milioni di sunniti e – in minoranza – cristiani sparsi nell’Asia occidentale che vorrebbero un lembo di terra per sentirsi finalmente una Nazione. Se ne parla da decenni, ma il Kurdistan rimane un’entità geografica non ancora statuale.

Tuttavia oggi, con la sconfitta di Daesh che sembra vicina anche grazie al contributo dei Peshmerga (combattenti curdi), la comunità internazionale non potrà far finta di niente, e i curdi potrebbero sedersi al tavolo dei negoziati.

Quale sarà la loro pretesa? Lo stato sognato da secoli, o quantomeno un’autonomia nei territori in cui vivono, ossia Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Il Kurdistan è composto da una popolazione che condivide la stessa etnia, la stessa storia, la stessa origine e la stessa lingua. Questi elementi, in virtù del principio dell’autodeterminazione dei popoli, giustificherebbero la creazione di uno Stato. Ma, almeno fino ad oggi, i diritti del popolo curdo si sono scontrati con la complessità geopolitica mediorientale e l’importanza dei luoghi in cui essi vivono: territori ricchi di giacimenti petroliferi, come nel caso del Kurdistan iracheno, o caratterizzati dalla deriva terroristica di alcuni gruppi politici, come il Pkk turco.

Parlare dei curdi, sia a livello geopolitico che prettamente geografico, significa parlare di un popolo nato e vissuto sempre nello stesso territorio ma sempre “beffato” dalla storia e dal potere.

Per risalire all’origine dell’etnia curda occorre tornare nelle valli calde e fertili dei fiumi Tigri ed Eufrate. Nell’altopiano montuoso che circonda i due fiumi, nel 614 a.C. si stabilì la popolazione nomade dei Medi, di origine persiana. L’etnia che popola questo altopiano montuoso sarebbe stata chiamata “curda” nelle Cronache di Senofonte, storico ateniese del IV sec. a. C.. Nel XVI secolo, le popolazioni che abitavano la regione montuosa del Kurdistan furono inglobate nell’immenso nascente Impero Ottomano. Al crollo dell’Impero, dopo la prima Guerra Mondiale, si incominciò a parlare di un Kurdistan indipendente, e le basi per la nascita di questo Stato furono gettate con il Trattato di Sèvres nel 1920. Successivamente però, nel Trattato di Ginevra, gli Stati europei che una volta appoggiavano i curdi non diedero seguito alle premesse poste qualche anno prima: le speranze curde furono infrante, e i curdi spartiti tra Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Ma quella di un Kurdistan indipendente, uno Stato in Medio Oriente che accolga i 30 milioni di curdi, è davvero un’utopia, solo un sogno per cui combattere invano?

Bisogna considerare che, seppur divisi territorialmente, ad unire i curdi c’è un esercito. I guerriglieri Peshmerga (letteralmente “combattenti fino alla morte”), da semplici “soldati delle montagne”, negli ultimi anni sono diventati tra i principali oppositori all’Isis. Proprio grazie alle vittorie contro il sedicente Stato Islamico, forse mai come i questo momento storico, i curdi potrebbero dunque far valere le loro ragioni ai tavoli per i negoziati del “dopo-Daesh”.

I Peshmerga sono stati effettivamente supportati anche dalla comunità internazionale, che ha fornito loro armi e munizioni. L’Occidente, dunque, ha riconosciuto l’esercito di uno Stato inesistente, potremmo dire.

La vittoria più grande dei curdi è stata la liberazione di Kobane, città siriana a maggioranza curda liberata dopo mesi di assedio da parte dell’Isis. Successivamente, i Peshmerga hanno intrapreso un’offensiva contro Raqqa, capitale dello Stato islamico. Adesso che l’Isis controlla pochi territori, i soggetti coinvolti nello scacchiere mediorientale iniziano a preoccuparsi sul futuro dei curdi. Il più preoccupato dalle loro possibili pretese è Erdogan, impegnato al suo interno nel contrasto ai terroristi curdi.

La Turchia, così come la Siria e lo stesso Iraq, temono che, nel momento in cui i curdi si siederanno al tavolo dei negoziati, avanzeranno la tanto agognate pretesa di ottenere quello Stato per cui combattono da secoli.

La guerra che stanno affrontando contro l’Isis potrebbe dunque creare le condizioni per ottenere il riconoscimento internazionale del Kurdistan. Il problema che si pone, però, è presto detto: quale Stato si priverebbe dei suoi territori per concederli ai curdi? Difficilmente lo farebbe la Turchia, che vedrebbe i suoi confini parecchio ridotti; ugualmente l‘Iraq che non si priverebbe dei giacimenti petroliferi controllati dai curdi.

Riccarda Lopetuso

UN CALIFFATO IMPROBABILE

Con la proclamazione del cosiddetto Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno 2014 è tornato in auge un tema dal forte impatto propagandistico per l’ecumene islamica che sembrava essere stato accantonato dopo il collasso dell’Impero ottomano. Questo contributo illustra le radici del Califfato storico prima arabo poi ottomano mettendo in risalto le contraddizioni insite nelle pretese di Daesh rispetto alla stessa dottrina islamica sunnita relativa al titolo e alla funzione di Califfo.

Scarica il paper: “Un Califfato improbabile”.

Di Roberto Motta Sosa, studioso di geopolitica e storia delle relazioni internazionali, autore e analista per varie testate e centri studi italiani. Si è laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Storia, con indirizzo storico-religioso, approfondendo gli aspetti storici e geopolitici legati al Vicino Oriente ottomano nel periodo compreso tra la fine del XIX e l’inizio XX secolo.

IS TRUMP A SAVIOUR FOR MIDDLE EASTERN CHRISTIANS?

Halim Shebaya | Al Jazeera | 11 Febbraio 2017

Trump is not an obvious candidate to represent the Jesus-like, enemy-loving, turn-the-other-cheek, self-sacrificial servant-leader of the Christian gospels. But he has made it clear that he understands his role as a defender and protector of Christianity: from statements such as “we are going to say Merry Christmas again!”“We will respect and defend Christian Americans and “Christianity, it’s under siege”.

As experts put it, there is a sickness in American Christianity, and Trump is feeding on it. It is precisely such statements that have made Trump the protector of Middle Eastern Christians. Heseems to have their support because they have few alternatives to face the threats that they have in the region. According to some experts Middle Eastern Christians have a voice now. Upon closer scrutiny, however, such claims are nothing more than a cheap political exploitation of Middle Eastern Christians as pawns to score points on the domestic front, protecting the American Christian interests.

Furthermore, the use of “minorities” in his political discourse and ideologies to explain how Islamic values are inherently incompatible with Western values, risk to deepen the idea of a clash of civilisations between Muslims and a Western blocIn this way, Christians residing in the Middle East seem to form a sort of “external” or “foreign” phenomenon that needs to be saved.It encourages “the ‘false notion’ of a conflict between Christians and Muslims while wrongly suggesting Christianity is a ‘Western phenomenon’.

Also the notion itself of “Middle Eastern Christians” is problematic because it contributes to treat them as a single entity. Furthermore, Trump’s travel ban that maintained an apparent special provision for Christians risks to be itself a “trap” for Middle Eastern Christians exposing them as “foreign bodies, and as groups protected and supported by Western powers”. The focus in any discussion of Middle East should be on eradicating ISIL and the threat it poses to non-Muslims and Muslims.

Focus should equally be upon the needs for justice and accountability on account of the crimes against humanity and war crimes and on the socioeconomic problems in the region exacerbated by corruption and oppressive regimes. Any individual who preaches in favour of one or another religion or community should be considered a false prophet, not a saviour


Trump non è certamente il candidato perfetto per rappresentare gli ideali cristiani del porgere l’altra guancia, amore verso i nemicie spirito di sacrificio dei leaders. Ha però da subito reso chiaro il suo ruolo di protettore della Cristianità, dichiarando:  “Torneremo a dire Buon Natale ancora!”, “Rispetteremo e difenderemo i cristiani americani”, e “la Cristianità è sotto assedio”Come alcuni esperti hanno notato, Trump sta in tal modo provando cavalcare i disagi della comunità cristiana americana. 

Allo stesso modo, le dichiarazioni di cui sopra, hanno reso il Presidente americano il “protettore” dei cristiani in Medioriente. Egli sembra godere del loro supporto per via delle poche alternative che questi hanno nel fronteggiare i rischi cui sono esposti nella Regione. Secondo alcuni esperti i cristiani residenti in Medioriente hanno ora una “voce” in loro aiuto. 

Tuttavia, dopo un’osservazione più attenta, tale posizione di Trump pare essere volta più verso il fronte interno, a protezione degli interessi dei cristiani americani, che realmente a tutela dei cristiani in MediorienteInoltre, l’uso delle “minoranze” nei discorsi e nelle ideologie politiche del Presidente atto a spiegare l’incompatibilità dei valori musulmani e di quelli occidentali, rischia di rafforzare l’idea di uno “scontro tra civiltà”. In questo modo i cristiani residenti in Medioriente sembrerebbero formare una sorta di “comunità straniera” che ha bisogno di essere salvata.

Questo, unitamente alla definizione di “cristiani Mediorientali”, sembra suggerire che la cristianità sia un fenomeno propriamente occidentale. Il “travel ban” di Trump contro i musulmani, che ha mantenuto una certa apertura per i cristiani, rischia di isolare ulteriormente i cristiani residenti in Medioriente in quanto percepiti come “corpi estranei”, protetti e supportati dalle potenze occidentali. 

L’argomento di discussione sul Medioriente dovrebbe concentrarsi su come combattere l’ISIS e sulla minaccia che questo pone nei confronti di Musulmani e non. Il focus dovrebbe essere sul bisogno di giustizia e di condanna dei crimini di guerra e contro l’umanità e sui problemi socioeconomici nella Regione, esacerbati da corruzione e regimi oppressivi. Chiunque predichi a favore di una religione o di una comunità specifica a discapito di altre, dovrebbe essere considerato un falso profeta piuttosto che un salvatore.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

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I RAPPORTI PRAGMATICI TRA RUSSIA E STATI UNITI

In uno scenario internazionale segnato dall’incertezza, dalla svolta delle elezioni americane e in un’Europa che cerca se stessa riscoprendosi sempre più fragile, si è tenuta a Monaco da pochi giorni la 53esima edizione della Conferenza per la Sicurezza. L’evento si svolge ogni anno e rappresenta un’occasione di dialogo su temi di politica internazionale. Quest’anno hanno partecipato alla Conferenza circa 80 ministri degli Esteri e della Difesa e 30 Capi di Stato.

I temi alla Conferenza – L’evento questa volta era forse più atteso rispetto agli altri anni perché la leader tedesca Angela Merkel ha incontrato per la prima volta il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence. È proprio l’intervento di quest’ultimo alla Conferenza che ha suscitato le più svariate reazioni e considerazioni. Pence, dopo l’intervento della Cancelliera tedesca, ha infatti dichiarato: “Per conto del Presidente Trump, vi garantisco che gli Stati Uniti sostengono con decisione la NATO e saranno irremovibili nei loro impegni verso gli alleati”. 

L’ennesimo cambio di rotta sulla questione: solo un mese fa Trump, pur sottolineando l’importanza dell’alleanza, l’aveva definita “obsoleta” in quanto non si stava occupando del problema principale oggigiorno, cioè il terrorismo.

Gli Stati Uniti e la Nato – Tuttavia la vecchia dichiarazione di Trump e quella più recente di Pence convergono su un punto: entrambe infatti hanno confermato le richieste di maggior impegno economico per l’Alleanza. Il vicepresidente a Monaco ha precisato questo punto e accanto alle enunciazioni di principio non ha mancato di rimarcare che gli Stati Uniti si accollano circa il 70% del bilancio della NATO e che solo altri quattro paesi membri dell’Alleanza rispettano la spesa prevista per la difesa, fissata al 2% del PIL.

Pence inoltre ha tranquillizzato gli alleati europei, asserendo che gli Stati Uniti sono il loro più grande partner e dunque riallineandosi su posizioni più coerenti con la recente storia americana.

La Russia e la Nato – Questo riavvicinamento euro-americano si inserisce in realtà in un quadro più ampio, dal momento che Pence ha poi aggiunto qualche parola sui rapporti russo-americani in un altro passaggio: “Continueremo a richiamare la Russia alle sue responsabilità, anche se stiamo creando un nuovo terreno comune”. Il vicepresidente ha fatto un passo indietro rispetto alle promesse di Trump in politica estera.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, dal canto suo, ha invece usato parole forti per la NATO, definendola un’istituzione della guerra fredda, un conflitto mai davvero superato. La dimostrazione di ciò sta, secondo il ministro russo, proprio nelle dichiarazioni di molti politici alla Conferenza di Monaco. 

Mosca tende dunque una mano semi-tesa alla Casa Bianca, dichiarando la necessità di rapporti pragmatici, basati sul rispetto reciproco, con gli Stati Uniti.

Una tegola per i rapporti pragmatici – Intanto solo cinque giorni prima dell’inizio dei lavori di Monaco, l’amministrazione Trump riceveva un altro brutto colpo. Il 13 febbraio infatti Michael Flynn, Consigliere per la sicurezza nazionale e principale sostenitore della necessità di un riavvicinamento a Mosca, si è dimesso dal suo incarico in seguito allo scandalo pubblicato sul Washington Post. 

Flynn aveva discusso delle sanzioni approvate da Obama contro la Russia prima di prestare giuramento come membro del governo, quando era privato cittadino, promettendo che sarebbero state rimosse dall’amministrazione Trump e commettendo così un reato. I contatti sarebbero avvenuti tra Flynn e Sergej Kisljak, ambasciatore russo a Washington. 

Gli altri membri del governo si dichiarano all’oscuro di tutto questo, ma a quanto sembra l’FBI sta già indagando per sapere se quantomeno Trump o Pence sapessero dei contatti di Flynn con la Russia.

Simone Stellato