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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

WHAT JESUS CAN TEACH TODAY’S MUSLIMS

Mustafa Akyol | The New York Times | 13 Febbraio 2017

In order to explain the crisis of Islam facing the Western pressure, some expert as Arnold Toynbee, compared it with the plight of the Jews in the face of Roman domination in the first century B.C. This ordeal bred two extreme reactions: One was “Herodianism,” which meant collaborating with Rome and imitating its ways. The other was “Zealotism,” which meant militancy against Rome and a strict adherence to Jewish law. Modern-day Muslims, too, are haunted by the endless struggles between their own Herodians who imitate the West and their own Zealots who embody archaism evoked by foreign pressure.

However Muslims should find a third way, as Jesus made at his time: unlike other Messiah claimants of his time, he did not unleash an armed rebellion against Rome. He did not bow down to Rome, either. He put  to something else: reviving the faith and reforming the religion of his people focusing on their religion’s moral principles, rather than obsessing with the minute details of religious law.

Muslims need to take notice of that because they are going through a crisis very similar to the one Jesus addressed: while being pressed by a foreign civilization, they are also troubled by their own fanatics who see the light only in imposing a rigid law, Shariah, and fighting for theocratic rule. Muslims need a creative third way, which will be true to their faith but also free from the burdens of the past tradition and the current political context. Muslims already respect and love Jesus — and his immaculate mother, Mary — because the Quran wholeheartedly praises them, but most of them have never thought about the historical mission of Jesus. They have the problem of being frozen on the literal meaning of the law and thus failing to understanding the purpose of the law. Jesus defined humanism as a higher value than legalism, famously declaring, “The Sabbath was made for man, not man for the Sabbath.”

Similarly, Muslims need to understand: “The Shariah is made for man, not man for the Shariah”. Or that the Kingdom of God — also called “the Caliphate” — will be established not within any earthly polity, but within their hearts and minds. Jesus was a recognized “prophet of Islam,” whoaddressed the very problems that haunt Muslims today and established a prophetic wisdom perfectly fit for our times.

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Per riuscire a spiegare la crisi che l’Islam sta affrontando a causa delle pressioni dell’Occidente, alcuni esperti come Arnold Touynbee, l’hanno paragonata alla situazione degli ebrei durante la dominazione romana del primo secolo avanti Cristo. Questa portò a due reazioni differenti: l’Erodianismo di chi intendeva collaborare con Roma ed imitarne i metodi e lo Zelotismo che osteggiava Roma, proponendo una maggiore osservanza dei principi ebraici. Oggi, allo stesso modo, i musulmani si dividono tra chi, come gli erodiani, accetta i principi occidentali e chi, al pari dei zeloti, incarna l’arcaismo in risposta alle pressioni esterne. E’ necessario, tuttavia, trovare una “terza via”, come fece Gesù ai suoi tempi: a differenza degli altri presunti Messia, egli non invocò una ribellione armata contro Roma, né vi si inchinò. Pose piuttosto la sua attenzione nel revitalizzare la fede e riformare la religione del suo popolo, concentrandosi sui suoi principi morali piuttosto che sui dettagli letterali delle sue leggi. 

E’ importante che i musulmani comprendano questo perché la loro crisi è molto simile a quella affrontata da Gesù al suo tempo: pressati dalla civilizzazione straniera, hanno il problema del fanatismo che vede una via di uscita solo nell’imporre rigidamente la Shariah, combattendo in difesa delle leggi divine. Invece bisognerebbe percorrere una terza via che sia coerente con la fede islamica ma libera dalle limitazioni che la tradizione ed il contesto politico impongono. I musulmani, coerentemente con gli insegnamenti del Corano, rispettano ed amano Gesù e la Vergine Maria ma in molti non hanno mai riflettuto sul significato dei loro insegnamenti. Questi si sonofossilizzati sul significato letterale delle leggi religiose, senza però comprenderne gli obiettivi. Gesù pose i valori umani al di sopra delle leggi affermando: “lo Sabbath fu fatto per l’uomo, non l’uomo per lo Sabbath”.  Allo stesso modo i musulmani devono comprendere che: “la Sharia è fatta per l’uomo, non l’uomo per la Sharia”. O che il Regno di Dio, il cosiddetto Califfato, non ha bisogno di essere instaurato nella comunità terrena, ma in via spirituale nei loro cuori e nelle loro menti. Gesù fu un profeta riconosciuto dall’ Islam e dimostrò di essere pienamente in grado di affrontare gli stessi problemi che causano l’odierna crisi dei musulmani, attuando un equilibrio profetico incredibilmente adatto ai nostri tempi.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

LA SVOLTA MAROCCHINA

Se qualcuno pensa che l’Islam sia una religione ferma, impassibile di fronte all’avanzare della modernità, si sbaglia. La sponda occidentale del Nord Africa è viva e riflette un percorso di modernizzazione tutto interno alla religione del profeta MaomettoAlcuni giorni fa il Consiglio superiore degli Ulema del Regno del Marocco attraverso una fatwa (responso legale) intitolata “La via degli eruditi”, ha rinnegato la pena capitale nel caso di apostasia (riddah), ovvero nel caso di ripudio dell’Islam da parte di un musulmano. 

Eliminando il crimine di apostasia, gli eruditi marocchini permettono a chiunque di abbandonare l’Islam senza che ciò comporti la pena capitale, come invece ancora accade in altri paesi. Essi, inoltre, hanno evidenziato che “The most accurate understanding, and the most consistent with the Islamic legislation and the practical way of the Prophet, peace be upon him, is that the killing of the apostate is meant for the traitor of the group, the one disclosing secrets, […] the equivalent of treason in international law”.

L’apostasia, così come enunciata nei testi sacri, consisterebbe secondo gli ulema marocchini in apostasia politica, ripercorrendo alcune interpretazioni dottrinali malichite. Essa, dunque, equivarrebbe all’alto tradimento, condannato anche da molte carte costituzionali occidentali.
Per questo motivo l’interpretazione viene considerata dagli stessi ulema più islamicamente corretta e non rappresentante una bid’ah, termine utilizzato per indicare un rinnovamento eterodosso.

Se la decisione proveniente dal Marocco non cambia nulla a livello normativo poiché l’apostasia non è un reato, certamente la fatwa porta a termine un processo di riforma che nella sponda occidentale nordafricana ha rivoluzionato il Paese e posto le basi per una riflessione interna all’Islam. 

Dopo aver condannato gli attentati compiuti in nome di Allah e aver riformato nel 2004 il codice di statuto personale, Mudawana, il Regno del Marocco apre la strada ad una riforma del credo islamico lanciando forti segnali contro le fin troppo ristrette interpretazioni del testo coranico.
A
 conferma del clima, lAmbasciatore marocchino in Italia, Hassan Abouyoub, ai microfoni di Radio Radicale ha evidenziato che, nonostante non sia corretto parlare di rivoluzione, siamo all’interno di “un processo storico chiaro, di serenità assoluta”.

Le recenti fatwa degli ulema marocchini e il processo riformista del Re Muhammad VI sono chiari, e portano ad una altrettanto chiara linea di demarcazione che distingue da una parte i moderati musulmani che hanno scelto la convivenza fra le religioni, e dall’altra i fondamentalisti pronti ad una eterna jihad contro un mondo che, insieme, avanza. La svolta marocchina potrebbe realmente rappresentare, come già ricordato da Federico Guiglia, un grande passo per l’umanità e non solo per l’uomo.

Nicola Bressan

ISRAELE LEGALIZZA GLI INSEDIAMENTI IN CISGIORDANIA

Il conflitto arabo-israeliano è uno dei più longevi della storia contemporanea e da quasi settant’anni sconvolge l’ordine internazionale e la stabilità di tutto il Medioriente. 

A partire dal 1948 infatti, con la proclamazione dello Stato d’Israele, i paesi arabi hanno reagito considerandolo un atto di forza nei confronti della Palestina. Da qui è iniziata una lunga serie di conflitti per il possesso ed il riconoscimento territoriale dei due stati, sfociata poi in una profonda crisi internazionale. Nonostante i diversi tentativi di pacificazione e risoluzione del conflitto, spesso mediati da stati terzi, la soluzione sembra essere ancora oggi di difficile attuazione.

Oltre alle migliaia di vittime causate ogni anno dal conflittouno dei principali punti di scontro è quello relativo agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, in lingua inglese chiamata West Bank (la sponda occidentale), regione che avrebbe dovuto far parte dello stato arabo-palestinese come previsto dal piano di spartizione dell’ONU del 1947, in seguito controllata militarmente da Israele a partire dalla guerra dei sei giorni del 1967Considerata dagli ebrei la “terra natale” dei propri antenati e spesso citata nella Bibbia, molti israeliani hanno approfittato del controllo militare di Israele su parte della Cisgiordania per fondarvi proprie comunità.

Tutte le maggiori organizzazioni internazionali, tra cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, l’Unione Europea, Amnesty International e la Human RightsWatch, considerano gli insediamenti illegali secondo il diritto internazionale.

Lo scorso dicembre è stata approvata una risoluzione dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU che condanna la validità legale delle colonie israeliane, intimando l’interruzione di ogni attività in tal senso. Per la prima volta dopo anni, gli Stati Uniti, principale alleato di Israele, si sono astenuti senza utilizzare il proprio diritto di veto per bloccare una misura contraria agli interessi Israele. Il gesto degli USA è stato letto dal primo ministro israeliano Netanyahu, come un “tradimento”, tanto che egli aveva immediatamente dichiarato di voler attendere l’insediamento dell’Amministrazione Trump, convinto che questa avrebbe apportato benefici al popolo israeliano.  

Nonostante la risoluzione, lo scorso 6 febbraio il parlamento israeliano ha approvato in viadefinitiva una legge che permette ad Israele di legalizzare 3.800 alloggi in Cisgiordania

Secondo la norma, i proprietari palestinesi possono chiedere un risarcimento pari al 125% del valore dei terreni, oppure scegliere altri terreni ove insediarsi. Inoltre, la misura permette al Ministro della Giustizia israeliano di aggiungere altri nomi alla lista degli avamposti, previa approvazione della Commissione Parlamentare Giustizia, Legge e Costituzione, concedendo in futuro, ulteriori insediamenti. La legge, definita “della regolarizzazione”, è stata voluta fortemente dal partito conservatore Focolare Ebraico, molto vicino ai coloni. Prima di essere approvata, questa aveva subito un momento di arresto in seguito alle dichiarazioni del Presidente Trump che definiva la situazione degli insediamenti un “ostacolo alla pace”.

La nuova legge ha scaturito numerose critiche all’interno del Paese, ove diversi politici, accademici e personalità di spicco, tra cui il Procuratore Generale di Israele, si sono schierati contro la stessa poiché viola la Quarta convenzione di Ginevra secondo cui “la potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”.

Assodato che bisognerà osservare gli sviluppi e le conseguenze che la decisione del parlamento israeliano produrrà soprattutto a livello internazionale, la nuova legge, secondo molti, potrebberallentare il processo di pacificazione tra Israele e Palestina.

Uno dei punti focali dell’eventuale soluzione al conflitto è infatti la cosiddetta “soluzione a due stati”, caldeggiata da diversi Paesi e organizzazioni internazionali. Quest’ultima ipotizza ilreciproco riconoscimento territoriale di entrambi gli Stati, prevedendo la cittadinanza palestinese ai residenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.

Ad ogni modo, le molteplici critiche e petizioni mosse tanto sul piano interno, che su quello estero,rendono lecito aspettarsi che la norma non avrà seguito e non si esclude l’annullamento della stessa da parte della Corte Suprema israeliana, la quale ha recentemente ordinato lo smantellamento di un insediamento illegale in Cisgiordania.

Lorenzo Salvati

THE STRENGTH OF A UNION OF CONCENTRIC CIRCLES

Letter to the editor from Minister Alfano* – Corriere della Sera

I am surprised at the great stir caused by the statements recently released by German Chancellor Angela Merkel on a two-speed Europe. In Europe, different speeds, concentric circles and a differentiation according to the context, are already a reality. The issue therefore is not “if” but how and when to come to terms with this reality.

Of the twenty-eight EU Member Countries only nineteen have adopted the euro. Free movement within the Schengen area concerns only twenty-six European countries, of which twenty-two EU members and four non-EU States. As for common defence and security, twenty-eight States are members of NATO (of which 26 are European) while fifty-six Countries are members of the OSCE and forty-seven of the Council of Europe. Anybody who, in these past few years, has focused only on the Union has perhaps been looking at only part of the scene.

This is the full picture that we must start with in order to maintain and relaunch the European Project. In a world in which our citizens show a growing demand of security, we have set ourselves a priority objective: strengthen Europe’s security and defence systems. We are working on this in Brussels with the ambition of achieving, as quickly as possible, tangible results in terms of a greater efficiency and effectiveness of our armed forces, with a positive fallout also on our European industries.  

Sixty years of European integration have not levelled out our diversities but have converted them into an asset capable of overcoming the divisions of the past. We want to continue building a Europe based on democracy, the rule of law, and the protection of fundamental human rights, especially of the freedom of religion in a Europe that, as Benedetto Croce said, cannot but declare itself Christian.

Il ministro Alfano rilascia una dichiarazione al termine della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite | Foto Ansa

Our primary objective is to provide effective answers to the most pressing concerns of European citizens: economic growth, security and migration flows. This is the drive underlying our emphasis on jobs for young people, pan-European investments, innovation, digital technologies, energy and networks.

But also the institutional setup contributes to making governments more operationally efficient and effective. This is why, in the year marking the 60th anniversary of the Treaties of Rome, we are working to propose to our partners a new vision of Europe with “concentric circles”, capable of bringing forward a common project with the States that are willing to do so. This is the only way in which we can overcome the current standstill and quicken decision-making, meet the needs of citizens and count more on the international scene.

If we cannot move forward all together, the road to take is that of a “differentiated integration” based on a flexibility principle. Only thus will it be possible for every Member State to establish its own level of integration within a common framework while respecting the will of its citizens. Only thus will it be possible to reconcile the will of those who want to continue along the path of integration with that of those who prefer not to hand over any more of their national sovereignty.

This is the new architecture of institutional governance that we have in mind. We will do our share in spearheading a serious and rigorous attempt to maintain and relaunch the European ideal. It is a crucial and exciting challenge that, in order to be fully met, needs an adequately long timeframe and political horizon.

* Angelino Alfano – Minister of Foreign Affairs, President of De Gasperi Foundation

PETROLIO, DA MOTORE DELLE GUERRE A CARBURANTE DEL CAMBIAMENTO

Undicesima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Ettore Primo

Il crollo dei prezzi del petrolio iniziato nella seconda metà del 2014 ha creato uno shock in tutti le nazioni produttrici ed esportatrici di idrocarburi, in particolare i membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), colpendo anche le ricchissime monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo che per la prima volta hanno registrato disavanzi negativi di bilancio, imposto tagli alla spesa e introduzione di tasse e imposte fino a pochi anni fa impensabili. La bassa rendita del petrolio ha tuttavia innescato un mutamento che in alcuni casi si può definire “antropologico” all’interno della varie monarchie, note non solo per la loro enorme ricchezza e diseguaglianza sociale, ma anche per professare un Islam particolarmente rigido, di ispirazione wahabita. Alle misure di austerità si è affiancato un fiorire di piano di ristrutturazione economica e anche di riposizionamento geopolitico, con l’apertura dei mercati interni e un rilancio delle relazioni con la Russia. La paura di “morire di petrolio” potrebbe trasformare nei prossimi anni una risorsa, a ragion veduta considerata per decenni come la causa scatenante di gran parte delle guerre in Medio Oriente, come motore di un cambiamento epocale.    

La causa di questo cambiamento radicale è stato un evento fino ad un decennio fa impensabile: il crollo dei prezzi del greggio a causa di una situazione di iper-offerta sui mercati internazionali. Dopo aver toccato i massimi storici di 140 dollari al barile, nel 2014 ha inizio una nuova fase ribassista che ha portato il valore del greggio a toccare i minimi a 27 dollari, un minimo che non accadeva dal 2001. Dal crollo è nata una sorta di “mutazione antropologica” delle realtà produttrici che per mezzo secolo hanno trainato il mercato globale del petrolio. La vaporizzazione delle rendite petrolifere ha costretto tutti i paesi del Golfo ad intaccare fortemente le riserve in valuta estera e a vendere parte degli asset dei propri Fondi sovrani. La mossa è avvenuta sull’onda di un sentimento: la paura di “morire di petrolio”. La frase ricalca, in senso provocatorio, la visione di Zayed bin Sultan Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi e storico fondatore degli Emirati arabi uniti, il quale considerava la dipendenza dagli idrocarburi una sorta di “maledizione” per il futuro del paese. I deficit di bilancio registrati dai paesi del Golfo tra il 2015 e il 2016, che in Arabia Saudita hanno sfiorato i 100 miliardi di dollari, hanno costretto la totalità dei paesi del Golfo e una buona parte dei membri Opec a ripensare in modo radicale le proprie economie, partendo da quella energetica per giungere fino ad un ripensamento delle politiche di occupazione per ridurre l’alta disoccupazione giovanile. 

Tra le novità riguardanti l’energia due risultano di particolare importanza: la prima è il lento abbandono del petrolio come fonte di energia per soddisfare la domanda interna a favore di un mix composto da gas, rinnovabili e nucleare, la seconda riguarda invece la ristrutturazione e la futura quotazione in borsa del colosso petrolifero saudita Aramco, considerata la più grande azienda del mondo con asset stimati pari a 2 mila miliardi di dollari. Il tema delle rinnovabili, divenuto una sorta di mantra ideologico in occidente, è per i paesi del Golfo una reale necessità che ha poco a che fare con l’ambiente, ma potrebbe indirettamente aiutare lo sviluppo del settore anche al di fuori del Golfo.

I due paesi leader di questa importante riforma sono gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita. Il primo è già all’avanguardia nel settore con importanti progetti avviati dalla società Masdar (letteralmente “fonte”), sussidiaria del fondo di investimento dell’emirato di Abdu Dhabi Mubadala. La creazione di Masdar ha condotto all’avvio di importanti progetti industriali legati alle rinnovabili, in particolare “Masdar City”, la prima città al mondo a zero emissioni che sorgerà nei pressi dell’aeroporto internazionale di Abu Dhabi. La confederazione di monarchie, ancorate alla solida cultura beduina del fondatore Zayed bin Sultan Al Nahyan e al suo rapporto con le risorse del deserto (rinunciò alle amate battute di caccia per preservare gli animali selvatici che vivono nel deserto arabo), ha inoltre annunciato di recente un piano per diversificare le risorse energetiche con scadenza al 2050, dando più spazio a rinnovabili, gas e nucleare e avviare un cambiamento “qualitativo” nella cultura dei consumi della popolazione per ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza nel settore. 

Al pari degli Emirati arabi uniti anche l’Arabia Saudita ha annunciato un piano di sviluppo delle energie rinnovabili con investimenti tra i 30 e 50 miliardi di dollari fino al 2023 e l’obiettivo ambizioso di produrre fino a 10 gigawatt di potenza da energie rinnovabili.

Il discorso sulle rinnovabili è una presa di coscienza della necessità di diversificare le economie altamente dipendenti dal petrolio, creando sviluppo industriale, investimenti e competenze tecniche. Il mix energetico su cui si stanno avviando i paesi del Golfo mira anche a liberare “barili di petrolio” ad oggi destinati a soddisfare la domanda interna ed immetterli sul mercato. La serie di riforme anche sul piano fiscale, con l’introduzione dell’Iva tra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo nel 2018, e nelle infrastrutture fa emergere anche un’altra consapevolezza: il prezzo del petrolio difficilmente raggiungerà nuovamente i picchi di 100 dollari al barile. Alla luce di questo dato, il mutamento “antropologico” riguarda anche un diverso rapporto politico tra i “campioni del Golfo” – Arabia Saudita, Qatar ed Emirati arabi uniti – e la Russia.   

L’accordo firmato lo scorso 10 dicembre 2016 a Vienna tra i paesi Opec e 11 produttori al di fuori del Cartello, tra cui la Russia, ha un valore anzitutto politico oltre che tecnico. In base all’accordo, il primo nel settore petrolifero dal 2001 e per tanto considerato storico da molti osservatori, la produzione Opec dovrebbe calare nel complesso di circa 1,2 milioni di barili al giorno mentre quella dei paesi al di fuori del Cartello di circa 600 mila barili, per un totale di 1,8 milioni di barili al giorno. La riduzione è già iniziata a gennaio con l’entrata in vigore dell’accordo che durerà per sei mesi e potrebbe essere prorogato di altri sei mesi. Da sola l’Arabia Saudita si è impegnata a tagliare di 500 mila barili di petrolio al giorno la sua produzione, mentre la Russia di almeno 300 mila barili. L’obiettivo di fondo è eliminare, o quanto meno limitare, la volatilità del mercato petrolifero mantenendo i prezzi stabili per arginare la concorrenza del petrolio non convenzionale (shale oil – petrolio da scisti bituminosi) negli Stati Uniti e in Canada, il cui boom nel 2014 è alla base della situazione di iperofferta che ha causato il crollo dei prezzi del petrolio. 

La dinamicità delle piccole aziende produttrici nordamericane e la loro capacità di adattarsi alle situazioni del mercato, interrompendo e accelerando la produzione a seconda dei prezzi, sta indirettamente mutando anche la strategia dei colossi statali che caratterizzano il settore energetico dei paesi del Golfo e della Russia. Come già sottolineato, il 2018 è l’anno della possibile quotazione in borsa del 5 per cento di Saudi Aramco, da cui l’Arabia Saudita potrebbe ricavare entrate alla prima immissione sul mercato fino a 100 miliardi di dollari, vitali per i suoi programmi di sviluppo, in particolare “Vision 2030”. Ai primi di febbraio la società ha concesso per la prima volta nella sua storia una verifica indipendente delle riserve petrolifere, ad oggi solo stimate, che potrebbe riservare sorprese dato che secondo alcune voci si aggirerebbero intorno ai 265 miliardi di barili di petrolio.

Un altro dato da non sottovalutare, che mostra l’intreccio delle alleanze strategiche avvenute negli ultimi mesi e che potrebbero avere effetti importanti anche sulle future scelte della nuova amministrazione statunitense targata Donald Trump, è la parziale privatizzazione del colosso petrolifero russo Rosneft. La mossa studiata dall’Ad Igor Sechin, il grande tessitore delle trame energetiche russe, conferma il rilancio delle relazioni economiche tra Mosca e i paesi del Golfo con l’acquisto da parte dell’Autorità per gli investimenti del Qatar (Qia) e dell’anglo-svizzera Glencore del 19,5 per cento della società. 

* Esperto di Geopolitica energetica

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?
  10. | Antonio Campati – Sessant’anni dopo, è ora di ripensare l’Europa

LA PROPOSTA POLITICA DI DEL NOCE

Quale futuro per i cattolici? Questa è la domanda che emerge da più fronti, quando si parla di una risposta liberal-cattolica alla crisi politica nazionale, che possa offrire un’alternativa seria e vincente alla tanto vituperata retorica populista. Quali possono essere i punti di riferimento per organizzare una proposta organica, unitaria, lungimirante e, soprattutto, chiaramente ispirata alla propria tradizione, alla propria dottrina – inclusa la dottrina sociale della Chiesa – alla propria fede? In definitiva, una proposta che possa essere cattolica.

A distanza di oltre 25 anni dalla sua morte, il pensiero e la figura di Augusto Del Noce (1910-1989) rappresentano un punto di partenza imprescindibile per i liberal-cattolici del nostro paese: “Tutta la filosofia politica di Del Noce può essere vista come il tentativo di offrire una sponda culturale a De Gasperi. Anzi, si potrebbe dire che la filosofia politica di Del Noce è la filosofia di De Gasperi”.

Augusto Del Noce al Meeting di Rimini del 1989

Così Rocco Buttiglione ha sintetizzato la parabola filosofica e politica di Del Noce. Se l’opera degasperiana è stata una sorta di “supplenza politica” – ricorrendo a un’espressione di Pietro Scoppola – negli anni della ricostruzione italiana, a Del Noce invece è spettato il difficile compito di portare avanti, in termini naturalmente di riflessione politico-filosofica, il nucleo teorico centrale del degasperismo, a dire il vero con alterne fortune. Del Noce è stato tacciato da alcuni di essere un reazionario, in realtà egli ha perseguito l’idea di una legittimazione critica del moderno in grado di riconciliare la posizione cattolica con la libertà, fuori da nostalgie medievaliste e reazionarie. Ricostruendo l’eterogenesi dei fini del liberalismo con il cattolicesimo politico, Del Noce preannuncia già nel lontano 1978 il “suicidio” della rivoluzione comunista, quando non solo nell’ex Unione Sovietica ma anche in Italia il comunismo sembrava godere di ottima salute. La scelta delnociana di propendere a favore della democrazia e del liberalismo non fu dettata da ragioni utilitaristiche, ma dalla convinzione che solo attraverso l’incontro tra il vero liberalismo e la cultura cristiana del nostro paese sarebbe scaturita una speranza per la rinascita delle forze liberali.

All’indomani della nascita della Repubblica, Togliatti elaborò la cosiddetta strategia del “partito nuovo”, volta a trasformare il Pci in una grande organizzazione di massa, saldamente radicata nella società italiana. Su questa scelta poté fondarsi l’accettazione di fatto della prassi democratica, a sua volta premessa per il ruolo nazionale del Partito comunista italiano. Gramsci divenne il faro culturale del comunismo italiano, e allo stesso tempo colui che ne decretò inconsapevolmente la fine. L’operazione di Togliatti, tenuta a battesimo dal gramscismo, a partire degli anni ’50 ci ha consegnato un comunismo a-teologizzato, in cui veniva sostituito al concetto di lotta di classe quello di lotta per la modernità.

Il messianismo politico di Marx, ovvero la creazione di una società senza classi, si sarebbe concluso con l’instaurazione di un nuovo Eden, ma sul nostro pianeta.  Tuttavia se portato alle estreme conseguenze, il marxismo – ovvero la filosofia del primato del divenire – si risolve in un processo di dissoluzione nichilista. In ultima istanza nella storia della sinistra italiana la linea politica fu impostata sulla contrapposizione tra termini come reazione-progresso, modernità-tradizione, che non fece altro che accelerare il processo di impoverimento del comunismo facendolo approdare allo status di “vaga sinistra democratica”. Fu il trionfo della teologia della secolarizzazione, che di fatto sancì la totale subordinazione del momento dialettico della dottrina marxista al materialismo storico.

Tale passaggio cruciale segnò la crisi irreversibile del marxismo che, una volta caduto il Muro di Berlino nel 1989, si risolse in una forma assoluta di nichilismo e di relativismo culturale. Del Noce questo lo aveva già compreso sin dagli anni ’60 attraverso il dialogo con il filosofo catto-comunista Franco Rodano. Quest’ultimo in quel periodo già  prospettava un’alleanza tra cattolicesimo e marxismo per superare o almeno contrastare la società del benessere. Del Noce reagì con forza a questa provocazione intellettuale, formulando una straordinaria interpretazione dei caratteri della società opulenta: irreligione come secolarizzazione o desacralizzazione, libertinismo di massa, relativismo integrale.

Nell’interpretazione transpolitica della storia contemporanea di Del Noce, la fine del “Secolo Breve” rappresenta un passaggio determinante della storia occidentale del ‘900 come epoca della secolarizzazione, ma non ne segna di certo l’ultimo capitolo. Il peso di questa sfida politico-culturale doveva essere affrontata dai liberal-cattolici, e Del Noce ne era ben consapevole. Tuttavia la miopia della Dc si palesò nel voler addomesticare il marxismo opponendogli semplicisticamente la “cultura” della società del benessere. Ma il marxismo non si può piegare, tutt’al più si possono evidenziarne le contraddizioni interne al suo sistema, per dimostrare come la filosofia della prassi sia destinata al suo fallimento e come quest’ultima sia inconciliabile con il liberal-cattolicesimo. Per Del Noce risultava ineludibile l’antitesi tra la visione antropologica cristiana e la prospettiva marxista. Sulla scorta della lezione dell’intellettuale marxista Galvano Della Volpe, Del Noce giunge ad una critica analitica e profonda del revisionismo marxista, poiché quest’ultimo considerava la dottrina di Marx come una mera metodologia di analisi sociale, quando in realtà essa rappresentava una vera e propria rivoluzione antropologica. Infatti “l’uomo totale marxiano” non ha nulla a che fare con la tradizione personalistica cristiana, poiché in Marx l’uomo è compreso solo come ente sociale.

Tale analisi mostrava la contraddizione intrinseca del liberal-socialismo e della cultura “azionista” (erede del movimento “Giustizia e Libertà” e del Partito d’Azione di chiara ispirazione mazziniana durante gli anni della guerra civile in Italia), nel  presupporre quindi un’etica fondata sul rispetto della persona – una sorta di giusnaturalismo nascosto – per la creazione di un  “Minotauro” ideologico: il socialismo liberale post-fascista. A conclusione di tale ragionamento, Del Noce ribadiva l’inconciliabilità del cristianesimo sia con il revisionismo socialista che con il cattocomunismo.

Quella delnociana è una concezione personalistica della democrazia, che si afferma con la nascita della Democrazia Cristiana. Del Noce si riconosce in questo partito, perché ciò che differenzia – almeno negli anni del degasperismo – la Dc dalle altre forze politiche è la sua concezione dell’uomo definito non solo in rapporto con la storia e la società, ma soprattutto nel suo legame con Dio. Si tratta di una libertà della persona che si fonda su una relazione con Dio, insieme con la sua trascendenza alla storia, ed è per questo che Del Noce arriva a parlare di funzione liberale del cristianesimo stesso: “Penso che anche il partito liberale non possa affermare i suoi ideali se non ravvisando il suo nucleo cristiano”. (Del Noce, “Problemi della democrazia”).

Con la fine dell’esperienza politica degasperiana vi fu certamente uno spostamento culturale e filosofico della Dc verso il già citato “azionismo”, una sorta di compromesso per abbattere la minaccia social-comunista. Fu certamente una vittoria di Pirro, che salvò per più di due decenni la nostra “Repubblica dei partiti”, ma che provocò allo stesso un grande equivoco e fraintendimento culturale all’interno della Dc. Si perse di vista il nucleo fondante del partito dei liberal-cattolici, almeno per come era stato costruito da De Gasperi, e poi pensato da Del Noce.

In estrema sintesi, la cifra del “liberalismo cattolico” di Augusto Del Noce si trova nell’essenziale storicità della Rivelazione cristiana: il cristianesimo è un evento storico, non un’ideologia o un sistema di pensiero, né tanto meno un affare di coscienza. Tale storicità del cristianesimo deve avere una traduzione politica nel suo dispiegarsi nel mondo, nella società umana, e tale deve essere il memento dei cattolici nel fare politica.

Gian Marco Sperelli

“LA RIVE GAUCHE”, LE PRIMARIE SOCIALISTE IN FRANCIA

“Non posso accettare la dispersione della sinistra, la sua distruzione, perché priverebbe i cittadini di ogni speranza di vincere di fronte a conservatori ed estremismo (…). Non mi ricandido per il bene della Francia”.

Con queste parole François Hollande, il 2 dicembre 2016, escluse in maniera categorica la possibilità di candidarsi alle primarie socialiste, in vista delle elezioni presidenziali del 2017 in Francia. Hollande è stato probabilmente il Capo di Stato più impopolare della storia della Quinta Repubblica. Consegnerà al prossimo inquilino dell’Eliseo un Paese in cui vige ancora lo Stato d’emergenza (dopo la ben nota sequenza di stragi e attentati) e in cui il sogno della piena realizzazione di una società multiculturale sembra ormai essersi infranto definitivamente. La diagnosi sullo stato di salute della Repubblica sembra quindi piuttosto impietoso. E la decisione storica di Hollande – per la prima volta infatti il presidente “uscente” non si presenterà per la corsa all’Eliseo – non ha avuto l’effetto di ricompattare la gauche.

Oltre due milioni di elettori socialisti si sono recati alle urne il 29 gennaio per il secondo turno delle primarie. A contendersi la nomina rimanevano l’ex primo ministro Manuel Valls e l’outsider – almeno fino al primo turno – Benoît HamonCome per i “Repubblicani” con la netta affermazione  di Fillon, anche tra le fila dei socialisti a spuntarla è stato un candidato poco accreditato prima delle votazioni. Benoît Hamon, ex Ministro dell’Educazione nazionale nel primo Governo Vallsha trionfato nelle primarie con il 58% dei consensi. Alcuni lo hanno definito il “socialista utopista”, altri sull’onda delle elezioni americane lo hanno ribattezzato  “il Sanders francese”. Il suo programma elettorale rappresenta una decisa svolta verso la base più radicale del Partito Socialista: riduzione dell’orario di lavoro da 35 a 32 ore settimanalil’abrogazione della pur timida riforma del lavoro, la sospensione del patto di stabilità e l’abbandono del 3% di deficit e soprattutto l’introduzione di un “revenu universel (il tanto discusso reddito di cittadinanza invocato dal M5S) di 750 euro mensili per i cittadini francesi.

François Fillon

Tuttavia per Hamon la corsa per l’Eliseo si prospetta tutt’altro che semplice: quest’ultimo dovrà infatti ricercare l’appoggio dell’intero partito, ormai frammentato in numerosissime correnti. Il nuovo candidato del partito sembra già tagliato fuori, e viene data quasi per scontata la sua eliminazione al primo turno delle elezioni presidenziali. Si pronostica già una sfida Le Pen – Fillon (“Penelope gate” permettendo) al secondo turno.

Ma anche di fronte ad uno scenario così desolante del socialismo francese, si può scorgere un nuovo astro nascente politico? Forse è ancora presto per dirlo, ma Emmanuel Macron, in carica come ministro dell’economia fino all’estate del 2016, che ha da poco fondato un nuovo movimento politico – “En Marche” – di ispirazione centrista, sembra essere l’unico vincitore in prospettiva del “seppuku” socialista. Ciò che Macron propone è un drastico cambio di rotta per il socialismo francese in una direzione post-partitica, capace di attirare sia gli elettori socialisti moderati che l’elettorato più riformista del centro-destra repubblicano. Ma su una cosa si può esser sicuri dopo queste primarie: del grande partito di François Mitterrand restano ormai soltanto le spoglie.

Gian Marco Sperelli 

L’ITALIA PUO’ ESSERE COLPITA. E COSA DOVREMMO FARE SE LO FOSSE?

Il 2017 si è aperto con una importante svolta nella creazione di quella che in gergo può essere definita “consapevolezza situazionale”. Il terrorismo minaccia anche l’Italia e non si esclude che fatti come quelli accaduti, per ora, fuori dal territorio nazionale possano verificarsi anche entro i confini del nostro Paese. Il Capo della Polizia, prefetto Gabrielli, lo ha chiarito in maniera inequivocabile dicendo che anche “l’Italia avrà il suo prezzo da pagare”. 

Creare consapevolezza tra coloro che possono correre un rischio è uno strumento di gestione necessario affinché si possa ridurre la vulnerabilità e quindi l’impatto che lo stesso rischio può avere. Lo strumento migliore al servizio della creazione di consapevolezza è la comunicazione, che però non è per nulla efficace se rimane ancorata alla rassicurazione e non coinvolge il suo pubblico.

Due sono le considerazioni fondamentali che, in una comunicazione rivolta alla popolazione per sensibilizzarla in relazione al rischio di attentati terroristici, non possono mancare, senza le quali non si può pensare che “il prezzo che dovremo pagare” possa essere il più contenuto possibile. 

Innanzitutto, ormai la popolazione si è ben resa conto che la vita al tempo del terrorismo non può essere vissuta “normalmente”. Normale sarebbe poter salire su un aereo con una bottiglia di acqua portata da casa, come normale sarebbe entrare in Piazza Duomo a Milano senza fare la “gimcana” tra i newjersey dipinti dai writers. Di certo, se per normalità si intende “continuare a fare quello che si faceva” nulla è cambiato, tanto è vero che la gente continua a volare e a passare per piazza Duomo; segno che la minaccia del terrore non deve e non ha cambiato la nostra vita. 

Ma la vita al tempo del terrorismo è frutto di un necessario compresso tra libertà e necessità di sicurezza che non può essere mai negato, pena il dover rinegoziare ogni ulteriore aggiustamento dettato da eventuali prossime necessità. La cittadinanza ha, per la maggior parte, volente o nolente, accettato questo compromesso. È ora quindi di rendere merito alla capacità dei nostri concittadini di capire queste necessità e accettare le misure che vengono di conseguenza disposte interrompendo la retorica del “normale” alla quale diventa sempre più difficile credere.

Da un punto di vista più operativo, per ridurre al minimo i danni che il terrorismo potrebbe fare, c’è un altro aspetto nei confronti del quale la comunicazione ha una responsabilità rilevante: la prevenzione.

Prevenire attraverso la comunicazione significa due cose: innanzitutto, riconoscere che i primi responsabili della riduzione del rischio sono proprio le persone che potrebbero subirne i danni; inoltre, è necessario fornire strumenti cognitivi che aiutino coloro che si trovassero in una situazione di emergenza a decidere cosa fare per salvarsi la vita.  

Il mondo parla ormai di sicurezza partecipata e non si può considerare “prevenzione” unicamente il lavoro di intelligence e forze di polizia. È necessario coinvolgere la popolazione in un percorso informativo/formativo che possa orientare i loro comportamenti nel caso si trovassero nel mezzo di un evento.

L’Italia è forse uno degli ultimi Paesi a non aver ancora implementato una comunicazione istituzionale e pubblica sui comportamenti da tenere in caso di attacco terroristico. Ora che abbiamo fatto “30” ammettendo chiaramente e senza alcuna ombra di dubbio che anche il nostro Paese non è esente dalla minaccia, facciamo “31” e diamo gli strumenti alla popolazione per salvarsi la vita in caso di attacco.

Alessandro Burato

SESSANT’ANNI DOPO, E’ ORA DI RIPENSARE L’EUROPA

Decima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati

L’approssimarsi dell’anniversario della firma dei Trattati di Roma potrà rappresentare per la storia dell’Unione europea odierna o una stanca e ripetitiva celebrazione retorica o l’occasione per prendere atto che l’Europa nata sessant’anni fa non esiste più. La prima opzione è un rischio sempre latente nelle celebrazioni commemorative, che però in questo caso può svanire se si assume del tutto la consapevolezza evocata dalla seconda possibilità.

Che la quasi totalità dello scenario economico e geo-politico del Vecchio Continente sia mutato dal 1957 a oggi sembra essere un dato assodato. Eppure, come ha osservato Angelo Panebianco (Cambiare i trattati per salvare l’Unione europea, Corriere della Sera 23/01/2017), non ancora ci si capacita del fatto che l’Europa costruita all’indomani della Seconda guerra mondiale avesse «una data di scadenza». Perché quel tipo di Europa era figlia della Guerra fredda e neppure il colpo d’ala impresso con il Trattato di Maastricht dopo la fine della politica dei blocchi è riuscito a garantirle un futuro di lungo periodo, giacché poco più di dieci anni dopo (nel 2005 con il voto referendario contro il trattato costituzionale) entrava in una fase di profonda instabilità. Per avviare una nuova stagione, Panebianco suggerisce di aggiornarne i trattati costitutivi in modo da delineare un’Europa diversa da quella odierna, stretta in una tenaglia pressata, da un lato, dai movimenti antieuropei, dall’altro, dall’euroconservatorismo. aggiunge che nonostante la modifica dei trattati porti con sé la realistica possibilità di una sua implosione, è altamente prevedibile che lasciando tutto così com’è questa si avvii comunque verso una fine disastrosa.

L’idea di modificare la sua conformazione istituzionale è in effetti un’ipotesi che consentirebbe di risolvere una volta per tutte alcune contraddizioni profonde che il dibattito sull’Europa ha covato negli ultimi decenni. Tra queste si colloca uno degli errori di prospettiva più frequenti che consideral’Unione europea alla stregua di una grande democrazia nazionale o per lo meno come un disegno politico che si avvia inevitabilmente a raggiungere questa meta. In realtà, l’origine del progetto di integrazione è il frutto dell’attivismo di un gruppo di élite nazionali che in un primo momento non ha neppure creduto indispensabile basare la propria azione sulla legittimazione popolare diretta. Nei decenni seguenti, non pochi hanno considerato questa impostazione iniziale come un peccato originale da espiare con l’applicazione, nell’ambito europeo, di alcuni dei meccanismi di legittimazione propri delle democrazie nazionali. Ciò non significa, per esempio, che il processo di avvicinamento dei cittadini alle istituzioni sia stato vano, che la possibilità di sostenere iniziative di natura popolare sia stata inutile o che la legittimazione elettorale da parte di una platea sempre più ampia di elettori debba essere ostacolataMa che iniziative in tal senso devono essere collocate dentro una cornice istituzionale (e non solo) che sia in grado di accoglierle e, soprattutto, di renderle effettive.

Prendere atto che l’Europa è cambiata e sta cambiando è dunque molto più difficile di quanto si possa immaginare. Quasi novant’anni fa, nLa ribellione delle masse, José Ortega Y Gasset parlando dell’Europa notava come il suo magnifico e lungo passato la faceva allora approdare in uno stadio di vita «dove tutto è cresciuto», ma dove però «le strutture di questo passato sono nane e impediscono l’attuale espansione». In un certo qual modo, oggi, seppur in un contesto diversissimo, le istituzioni europee si trovano costrette a dover superare se stesse ancora una volta. E per farlo dovranno ripensare in profondità la loro natura. Questa volta, il loro obiettivo non sarà certamente l’«espansione» bensì la capacità di governare alcuni cambiamenti cruciali che – in primo luogo nei rapporti con l’America guidata da Trump – si palesano numerosi e spesso piuttosto complessi.

* Assegnista di ricerca in Filosofia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu NimahShould the Arab world follow the European unification model?

GLI OCCHI DELL’AFRICA SU TRUMP

In questi giorni di attesa e curiosità intorno all’approdo del Tycoon e della sua First Lady alla Casa Bianca, molte sono le domande che nascono sul New Deal della politica estera americana. Se tanto si è già parlato, a causa delle polemiche e dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, di Cina e Medio Oriente, restano tuttavia dei chiaroscuri nel programma dell’amministrazione Trump su cui è bene soffermarsi. Molti si stanno chiedendo quale ruolo nella gerarchia delle priorità di politica estera ricoprirà il continente africano per la nuova amministrazione USA. Durante la campagna presidenziale i riferimenti di Trump all’Africa sono stati pressocché inesistenti, fatto salvo un accenno agli attentati di Nairobi e Dar es Salaam di fine anni ‘90 e qualche breve riferimento a Daesh in Libia. Eppure, dopo la sorprendente vittoria del 9 novembre, l’Africa è tornata al centro delle attenzioni mediatiche, con i capi di Stato e governo del continente divisi tra speranze di nuove aperture diplomatiche ed il timore di essere abbandonati al proprio destino.

Come il noto analista sudafricano Greg Mills nota, la diplomazia statunitense in Africa negli ultimi otto anni di amministrazione Obama è stata “notevole per la sua assenza”. In effetti, se si eccettua il proseguimento dei programmi iniziati già con l’amministrazione Clinton e Bush II, quali l’African Growth e l’Opportunity Act e la presenza militare sul continente dell’Africom (Comando Africano degli USA), si è rilevata una crescente indifferenza nei confronti delle sfide di democratizzazione e stabilizzazione di alcuni tra i paesi più instabili.

Il presidente dello Zimbawe Robert Mugabe

La lista degli auguri – Un primo segnale per capire come si orienterà l’amministrazione Trump verso il continente africano arriva dalle chiamate di congratulazioni ufficiali che il Tycoon ha ricevuto dopo la vittoria alle urne. Alcune sono partite dalla cornetta telefonica di alcuni strong men al potere nel continente, fatto che ha destato non poche preoccupazioni tra gli altri leader africani. Tra le reazioni più calorose, quella di Joseph Kabila, capo di Governo in Congo senza interruzioni dal 2002, i cui funzionari sono oggetto di sanzioni internazionali per violazione dei diritti fondamentali. Il leader congolese ha scritto a Trump complimentandosi per la sua “brillante elezione”. Altri capi di governo accusati dall’ONU e altre ONG internazionali di violare i diritti umani della propria popolazione hanno accolto con entusiasmo l’elezione di The Donald: il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza, il contestatissimo presidente dello Zimbawe Robert Mugabe, al potere da ben 36 anni, Idriss Déby, presidente dal polso duro dello stato Sahariano del Chad, Salva Kiir, Capo di Stato del sanguinante e sofferente Sud Sudan, le cui relazioni con l’amministrazione Obama sono arrivate a toccare il fondo.

Questi passi in avanti verso Washington da alcuni degli strong rulers sembrano ad oggi unilaterali, data l’estrema incertezza che circonda le linee di politica estera dell’amministrazione Trump per ciò che riguarda l’Africa. Qualcuno, come Peter Vale, direttore dell’Università di Johannesburg, si spinge ad affermare che “probabilmente la politica estera di Trump verso l’Africa non esiste”.

Quel che è certo è che due sono i nomi che hanno predominato nelle discussioni di politica estera di Trump durante la campagna elettorale: la Cina e l’ISIS, ed entrambe hanno a che fare con il continente africano.

Il problema cinese – Per quel che riguarda la Cina, sono in gioco gli interessi commerciali degli USA sul continente. Se Trump è davvero intenzionato a mostrare i muscoli contro Pechino, allora il vuoto lasciato dalla presenza economica statunitense in Africa e riempito dal business cinese non può non destare preoccupazioni all’amministrazione insediatasi a Washington. Il numero di compagnie cinesi che investono sul continente cresce vertiginosamente ogni anno. La dinamica di base è semplice: in cambio di nuove infrastrutture e prestiti di stato mastodontici le compagnie cinesi si sono guadagnate un ruolo di monopolio nei processi estrattivi delle risorse minerarie africane sbaragliando la concorrenza preesistente, e non diversamente funziona il meccanismo retrostante l’acquisto di enormi proprietà terriere per mettere in piedi progetti su larga scala nel campo agricolo. Si stima che solo nel 2015 il valore del commercio tra Cina e continente Africano risultò essere di 300 miliardi di dollari. 

Una lista di quattro pagine è stata consegnata dal Transition Team al Pentagono ed al Dipartimento di Stato per chiedere spiegazioni e avanzare dubbi sulla situazione degli interessi USA in Africa. Dal documento traspaiono la chiara intenzione di ridurre i fondi destinati agli aiuti umanitari e ai progetti di sviluppo e al tempo stesso la preoccupazione di salvaguardare la competitività del business statunitense dalla feroce concorrenza cinese.

Caccia americani sorvolano i cieli libici

La polveriera libica – Why aren’t we bombing the hell out of ISIS?” (D. Trump, maggio 2016) – La seconda questione è di rilevanza per la sicurezza nazionale ed è un pallino fisso di Steve Bannon, capo stratega della nuova amministrazione: il califfato nero. Pur in difficoltà e in ritirata, l’ISIS non ha abbandonato la Libia, e la presenza dei tagliagole nello stato dell’Africa del Nord allontana la speranza di qualsiasi soluzione della crisi in corso. Il governo di Serraj perde credibilità di ora in ora e, anche se è appoggiato dall’ONU, non gode di alcun appoggio al di fuori di Tripoli. A capo del Governo di Tobruk cresce invece il consenso e la forza contrattuale del Generale Khalifa Haftar, uomo forte appoggiato e finanziato dalla Russia di Vladimir Putin e sicuro di un esercito che conta più di 20.000 uomini. Non è un caso, come riporta Reuters, che il Generale sia stato tra i primi a congratularsi con Trump per la vittoria: l’uomo forte della Cirenaica sarà con ogni probabilità il diretto interlocutore della nuova amministrazione USA nella lotta all’Isis in Libia, con buona pace dell’ONU e dell’Unione Europea.

Francesco Bechis