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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

ODI ET AMO: TRUMP, L’ONU E LA NATO

Dopo una campagna elettorale spesso dai tratti eccessivi e talvolta caricaturali, molti in questi giorni cercano di abbozzare i primi tentativi di risposta ad un grande e fondamentale quesito. Con un gioco di parole: Trump farà davvero Trump durante la sua Presidenza?

Una domanda non da poco visto il peso che ha avuto l’America nella storia recente grazie al suo ruolo di “poliziotto internazionale” lungo tutto il secondo dopoguerra e considerati il numero di squilibri e di conflitti sorti nel mondo negli ultimi anni, per molti proprio come conseguenza del recedere degli USA da questo ruolo durante l’era Clinton/Obama.

Ambito più volte toccato del neo Presidente è stato proprio quello relativo alle organizzazioni internazionali ed i rapporti esteri degli Stati Uniti d’America. Ha avuto grande effetto il tweet sull’ONU, liquidata come “un club di chiacchiere” dopo la storica astensione degli USA sulla risoluzione di condanna degli insediamenti di Israele in Cisgiordania. Ripresda quasi tutti i giornali, gli attacchi di Trump alla NATO (definita “obsoleta” perché “non si occupa di terrorismo”, nonostante per lui sia “ancora molto importante”) hanno suscitato le pronte reazioni del mondo politico internazionale.

Ma le cose stanno veramente così?

Il Generale Christopher J.R. Davis (a sinistra) con il General James Mattis (a destra).

La scelta del neo presidente di nominare l’ex generale James “Mad Dog Mattis come Segretario alla Difesa (Capo del Pentagono) fa pensare che le cose stiano diversamente, ed è stata interpretata come una sorta di “rassicurazione” agli alleatiGià comandante dello United States Central Command (succedendo a David Petraeus nel 2010) e dell’Allied Command Trasformation della NATO, struttura incaricata alla formazione, alla pianificazione, all’evoluzione ed alla programmazione dell’alleanza atlantica, Mattis nel corso della sua audizione alla Commissione delle Forze Armate del Senato dello scorso 12 Gennaio, si è schierato nettamente a favore dell’Alleanza Atlantica, definendo la NATO “l’alleanza militare di maggior successo nella storia moderna, forse di sempre” e la Russia, a causa delle scelte del Cremlino, come “avversario strategico in aree fondamentali”.

Altra nomina che si sta rivelando, al momentomeno di rottura (anche se dai tratti forse più controversi) rispetto a quanto stimato dagli osservatori è quella del Segretario di Stato Rex Tillerson. Ex amministratore delegato della compagnia petrolifera ExxonMobile (discendente della Standard Oil), è da sempre considerato vicino alla Russia e da praticamente tutti viene ritenuto come la diretta conferma dell’obiettivo della futura amministrazione di giungere ad una “normalizzazione dei rapporti” con la Russia, nonostante gli altrettanto profondi legami del neo ministro con il potere americano. Tuttavia, durante le audizioni presso il Senato per la ratifica della sua nomina, Tillerson ha mostrato un’agenda meno distesa verso il Cremlino, rassicurando al tempo stesso gli alleati dichiarando l’articolo 5 del Patto Atlantico come “inviolable”

È rimasto deluso, invece, chi si aspettava qualche rassicurazione il 20 Gennaio, durante l’inauguration day. Il discorso di insediamentodai tratti quasi elettorali, ha consegnato al mondo un messaggio molto chiaro, anche se ancora indecifrabile in ordine alla reale intensità ed ai concreti mezzi con i quali verrà perseguito: “Da questo momento in avanti, verrà “Prima l’America”. Ogni decisione sul mercato, le tasse, l’immigrazione o gli affari esteri, verrò presa al fine di ottenere a beneficio dei lavoratori e delle famiglie americane”. Proseguendo poi: “Rinforzeremo le vecchie alleanze e ne formeremo di nuove – unendo il mondo civilizzato contro il Terrorismo Islamico Radicale, che cancelleremo completamente dalla faccia della Terra”.

Continuando la serata, un pensiero è stato poi dedicato da Trump ai soldati impegnati in Afghanistan, che hanno ricevuto una videochiamata da parte del neo Presidente durante la cerimonia del “Salute to Our Armed Services Ball”. I soldati, schierati in una regione ancora profondamente instabile che è stata oggetto anche di recenti particolari dichiarazioni ed importanti impegni da parte delle istituzioni NATO, hanno ricevuto il sostegno del Presidente Trump che ha esclamato: “Sono con Voi!”.

Vladimir Putin e Rex Tillerson (Getty)

Considerando la Presidenza nel suo complesso, dietro la retorica meramente politica – a ben sperare – potrebbero esservdelle esigenze del nuovo Presidente ben più pratiche di quelle raccontate dalla propaganda politicala ferma volontà che gli alleati aumentino la loro spesa militare interna, contribuendo maggiormente ai grandi costi dell’alleanza militare. Messaggio in continuità con quanto già richiesto dall’amministrazione precedente, a causa di un impegno economico che vede al momento largamente protagonista l’America con un 70%, con l’Europa ferma al 19% del bilancio. Altro obiettivo del 45° Presidente potrebbe essere quello di pervenire ad una “maggiore libertà” nella gestione dei rapporti con i nuovi player emergenti sullo scacchiere geopolitico, prescindendo dalle necessità contingenti degli alleati e dalla loro protezione, e costringendoli ad una loro “emancipazione” soprattutto sugli scenari regionali, qui in parziale contrasto con il passato.

Ed è soprattutto sul tema dell’evoluzione dell’Alleanza Atlantica che si è concentrato il dibattito politico europeo, diviso tra chi ha auspicato una dissoluzione dell’organizzazione regionale probabilmente più importante della storia e chi, invece, ritiene questo scenario come prospero per una qualche forma di evoluzione dell’alleanza, nonostante le evidenti difficoltà tecniche. Convergenze e temperamenti delle reciproche esigenze potrebbero trovarsi in seno alla UE, altra vittima degli attacchi di Trump, nell’improbabile caso che i governi degli stati membri riescano, nel corso dei prossimi anni, a trovare una qualche forma di unità di intenti in tema di difesa comune e di geopolitica unitaria. Questione da sempre molto delicata e bisognosa di una forte coesione politica che, considerate le condizioni attuali, resta molto lontana.

Questioni che, in parte, erano però già state affrontate da tutte le parti in gioco lo scorso Luglio a Varsavia e che erano sfociate in una dichiarazione congiunta NATO/UE nella quale una maggiore integrazione nei rapporti tra stati membri dell’UE ed istituzioni NATO veniva giudicata necessaria per affrontare “una serie di sfide senza precedenti” tipiche del tempo presente.

In questi giorni, intanto, il Segretario Generale Stoltenberg si è congratulato con il nuovo Presidentedichiarando di essere pronto a “lavorare vicino al Presidente Trump per rinforzare la nostra Alleanza” al fine di garantire una risposta alle sfide in continua evoluzione, “incluso il terrorismo, con una più equa ripartizione degli oneri tra gli Alleati”, e di essere assolutamente sicuro che gli Stati Uniti resteranno “fortemente impegnati” nella NATO.

Valerio Gentili

TRUMP E IL MEDIO ORIENTE

Se pronosticare lelezione di Trump era esercizio alquanto arduo, altrettanto lo è il cercare di prevederne le mosse. In particolare, lo è in tema di politica estera, ambito che parla un linguaggio proprio, fatto di diplomazia, strategia e consuetudini che mal si addicono al ciclone Trump. La premessa, duplice, nasce proprio qui: lazione di Trump sarà – per quanto possibile – coerente con le proposte fatte in campagna elettorale? E – nel caso – riuscirà a superare i non pochi ostacoli che lapparato gli metterà sul cammino?

Pur mantenendo sullo sfondo queste considerazioni, è tuttavia doveroso ipotizzare il percorso di The Donald. Proviamo a concentrarci sul Medio Oriente, il teatro più instabile e delicato, e allo stesso tempo uno di quelli in cui le proposte” di Trump potrebbero avere gli esiti più rivoluzionari.

ISIS – Innanzitutto, partiamo dal sito della campagna elettorale del neo Presidente, che parla di Politica estera e sconfitta dellIsis, tanto per chiarire quale sia la sua prioritàProprio dalla lotta a Isis passa il primo nodo strategico mediorientale (e non solo), ossia il rapporto tra USA e Russia. Trump – è noto – vuole drasticamente cambiare rotta, riavvicinandosi a Putin proprio in virtù di una più efficace lotta allo Stato Islamico. Il punto, tuttavia, è che se anche i due capofila” si riavvicinassero, è impossibile che lo facciano i loro alleati: pensare a un riavvicinamento di Iran, Arabia Saudita o Israele è utopia, e dunque Trump deve essere in grado di guadagnare contemporaneamente credito su più tavoli tra loro poco compatibili. Laltro grande tema è il rapporto con lUnione Europea (e, più in generale, la Nato), che sarà messo a dura prova dai vari conflitti regionali per lo stesso discorso di cui precedentemente. La guerra allIsis, comunque, sarà portata avanti sia sul piano militare (che sarà implementato) che su quello ideologico (Sconfiggeremo lideologia del terrorismo del radicalismo islamico così come abbiamo vinto la Guerra Fredda), in cooperazione con gli amici e alleati arabi.

Siria – Lo scenario principale in cui Trump dovrà mettere mano è quello siriano, crocevia di interessi e alleanze che – a cascata – ricadono sulla stabilità di tutta larea. Lidea di Trump, come detto, è di collaborare con la Russia contro Isis; questo, però, potrebbe voler significare un contrasto più morbido al regime di Assad (su cui Putin ha fortemente investito), e dunque una rivalutazione del sostegno alle moltissime fazioni di ribelli attualmente supportate (molte delle quali, peraltro, fondamentaliste islamiche). Tuttavia, unazione di questo genere non lascerebbe indifferente lArabia Saudita, grande alleato regionale statunitense, che essendo schierata coi ribelli vedrebbe la scelta come un rinnegamento dellamicizia stessa. Non dimentichiamo infatti che Assad è sostenuto, oltre che dalla Russia, anche dallIran, nemico giurato dei sauditi e principale rivale nel ruolo di potenza regionale.

Monarchie del Golfo – Più in generale, ne risentirebbe il rapporto tra gli Stati Uniti e tutto il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Come se non bastasse, gli annunci fatti in merito alla ridefinizione degli accordi di cooperazione militare non hanno favorito un clima positivo: la minaccia di Trump di revocare la protezione statunitense in mancanza di adeguati pagamenti ha allertato le monarchie del Golfo. La conseguenza potrebbe essere unazione cautelativa dei membri del CCG: morto un Papa se ne fa un altro, e la Cina già pregusta la possibilità di sostituirsi agli americani (in effetti, Arabia Saudita e Cina hanno recentemente effettuato esercitazioni militari congiunte).

Iran – Sono note le affermazioni di Trump sul trattato iraniano, visto come il fumo negli occhi. Tuttavia è difficile pensare ad azioni tanto rudi e decise quanto le parole spese: innanzitutto perchè, effettivamente, rescindere unilateralmente un trattato firmato poco tempo prima e implementato correttamente dalla controparte non è così facile; inoltre, perchè strategicamente avrebbe serie conseguenze, che spazierebbero dalle reazioni positive dei sauditi (che beneficerebbero del colpo basso ai rivali iraniani) a – soprattutto – quelle negative dellEuropa, che ha tanto investito nellaccordo, perchè tanto ne beneficia a livello economico; dopo le tensioni sulla riorganizzazione della Nato, sarebbe un altro brutto affronto allaltra metà del mondo atlantico.

Israele – Ma una delle prime, clamorose mosse della Presidenza Trump in politica estera potrebbe essere la conferma del trasferimento dellambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, che romperebbe lo status quo in senso esclusivamente pro-Israele; un atto tanto forte da essere condannato praticamente da tutti, dalla Giordania allUE, ossia attori non esattamente ostili agli USA. Tale affronto farebbe impennare lesplosività del conflitto israelo-palestinese, e le conseguenze sarebbero nefaste.

Altri scenari – C’è poi la Turchia, che potrebbe sia fare da ponte tra Russia e Stati Uniti, sia allo stesso tempo essere estromessa da un loro contatto diretto perdendo il ruolo di intermediario che si è ritagliata negli ultimi mesi; c’è Il Cairo, con al-Sisi che si è congratulato con Trump, auspicando che la sua elezione possa portare nuova linfa nelle relazioni tra USA ed Egitto; ci sono altre situazioni spinose, come la guerra in Yemen, la situazione in Iraq o la crisi libica, che richiedono di essere risolte senza però essere trattate a compartimenti stagni.

Insomma, sembra abbastanza certo che se i toni usati e le azioni promesse in campagna elettorale dovessero trovate seguito, si avrebbero importanti conseguenze, con un possibile shifting delle tradizionali alleanze. Laspetto interessante, comunque, sembra essere uno in particolare: Trump è lunico attore che sembra davvero essere in grado di non bloccarsi in una visione bipolare del mondo, un clima da simil Guerra Fredda in cui effettivamente la Presidenza Obama ci ha riportato.

Giovanni Gazzoli 

IL MONDO SOTTOSOPRA

Fra poche ore ci sarà la cerimonia pubblica per l’insediamento alla Casa Bianca del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Sono forse due le domande fondamentali che i curiosi si stanno ponendo in questo momento: quanta coerenza ci sarà tra la campagna elettorale e quello che poi verrà messo in pratica? Quanta distanza effettiva tra la politica di Obama e la nuova amministrazione?

Tra le varie direzioni nelle quali poter sviluppare questi interrogativi, di seguito un rapido sguardo ai problemi che il nuovo Presidente dovrà affrontare in politica interna.

La sanità

L’Affordable Care Act (soprannominato comunemente Obamacare), la riforma sanitaria su cui l’amministrazione uscente ha puntato moltissimo, sarà – stando almeno alle ultime parole di Trump – abrogata e ben presto sostituita. Trump ha infatti dichiarato in una recentissima intervista al Washington Post: “Ci sarà un’assicurazione per tutti. Vi è una filosofia in certi circoli per cui se non puoi pagare non ottieni. La nuova riforma sarà semplificata e molto meno costosa”. Sono queste le parole che Trump ha continuato a ripetere negli ultimi giorni. Obama, almeno a quanto sembra, non è riuscito a convincere il tycoon della bontà della riforma.

I dettagli del nuovo piano sanitario non sono ancora stati svelati e verranno annunciati quando sarà confermata la nomina del nuovo Ministro della Sanità, nemico giurato di ObamacareTom Price. Il nuovo ministro è una vera e propria volpe che fa da guardia al pollaio, dal momento che da molti anni studia il modo per superare e mettere da parte la riforma.

Tuttavia l’impresa rimane ardua. L’Obamacare ha garantito una copertura sanitaria a 13 milioni di cittadini che prima non l’avevano e risulterebbe comunque problematico togliere ai nuovi beneficiari la copertura sanitaria fin qui ottenuta. Non è chiaro con quale altra riforma verrebbe sostituita e, sopra ogni cosa, c’è sempre l’ostacolo del Congresso. Bisogna convincerlo e bisogna superarlo.

Economia

Dal punto di vista economico il quadro è molto complesso. Perfino chi giudica troppo semplicistica l’equazione tra Trump e protezionismo, dovrà ammettere che tutti i segnali tendono in quella direzione. Si vorranno con tutta probabilità sostenere le esportazioni da un lato e disincentivare le importazioni dall’altro. Qualcuno sembra quasi averlo capito in anticipo: è il caso di Fiat Chrysler e Ford, che annunciano nuovi investimenti negli Usa subito dopo le dichiarazioni minacciose di Trump di aumentare le tasse a chi non investirà negli Stati Uniti e lo farà altrove.

Tra le novità in campo economico ci sarebbe anche l’abolizione del Dodd-Frank Act, la riforma di Wall Street voluta da Obama per regolare la finanza statunitense e allo stesso tempo tutelare il consumatore e il sistema economico statunitense. La riforma dovrebbe impedire nuove crisi e promuovere maggiore trasparenza, ma Donald Trump non vuole mantenerla. Sarà sostituita, attenendosi alle sue parole, con politiche che incoraggiano la crescita economica e la creazione di posti di lavoro. Anche qui le modalità e i dettagli della riforma sostitutiva sono poco chiari.

La realtà e il paradosso

Molto difficile fare previsioni su ciò che farà e come si comporterà Trump. Certo è che chi non vuole ridurre la politica della nuova amministrazione in un estremo desiderio di protezionismo, dovrà comunque accettare che la percezione è quella. Addirittura Xi Jinping, il leader cinese, ha dichiarato pochi giorni fa a Davos: “È vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla. Dobbiamo dire no al protezionismo. Perseguirlo è come chiudersi in una stanza buia”. Il riferimento sembra proprio essere a Trump.

Lanciando una provocazione: sarà l’America a sostenere il protezionismo e la Cina a proteggere invece la globalizzazione?

Simone Stellato

GUANTANAMO: L’AMMINISTRAZIONE OBAMA TRA LUCI E OMBRE

Il campo di prigionia di Guantanamo è una struttura di detenzione statunitense, organizzata sulla base dei più elevati modelli di sicurezza interna, ubicata all’interno della base navale di “Gitmo”, acronimo di Guantanamo, sull’isola di Cuba. Il Governo degli Stati Uniti, successivamente agli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001, decise di edificare questo campo di prigionia per la detenzione dei prigionieri, in massima parte composti da cittadini afghani, ritenuti responsabili della summenzionata attività terroristica.

La chiusura di questo istituto detentivo, all’interno del quale – secondo una sentenza del 29 Giugno 2006 della Corte Suprema degli Stati Uniti – erano state commesse palesi violazioni del Codice di Giustizia Militare degli Stati Uniti per le modalità di detenzione dei detenuti, era stato uno dei perni fondamentali della campagna elettorale del 2008 del futuro presidente Barack Obama. Il 22 gennaio del 2009, nel suo secondo giorno di Governo, il neoeletto presidente firmò un ordine esecutivo presidenziale che impose l’ordine di smantellamento del carcere, non della base militare navale, entro la fine dell’anno.

Il partito repubblicano si pose in netta contrapposizione rispetto ai nuovi provvedimenti proposti relativamente all’Affordable Care Act ed alla riduzione dell’intervento militare in Iraq ed in Afghanistan. Questo durissimo “Aventino” del partito di opposizione determinò, anche sulla base delle previsioni nefaste per gli ingentissimi costi di gestione per la chiusura del campo, il voto contrario del Senato, che con 80 voti sfavorevoli e 6 favorevoli respinse il progetto per definire la fine del carcere di Gitmo.

Nel dicembre del 2015, dopo aver definitivamente accantonato l’idea del completo disfacimento del campo di detenzione, il presidente Obama aveva accarezzato l’idea di trasferire le 55 persone presenti all’interno della struttura cubana, nella base di Fort Leavenworth in Kansas. Le esigenze di natura economica, sommate a quelle di public national security enfatizzate dal famoso aforisma del partito repubblicano “non si può chiudere una prigione che protegge la sicurezza nazionale”, ancora una volta hanno procrastinato la chiusura della prigione della base navale di Cuba.

Al momento dell’insediamento del presidente Obama i detenuti erano 242, attualmente sono 55, mentre se la nuova amministrazione dovesse dare il suo placet al nullaosta per ulteriori 19 detenuti ne potrebbero rimanere unicamente 36. D’altro canto nonostante il fatto che durante la campagna elettorale del 2008 l’ex candidato avesse pubblicamente biasimato l’operato delle commissioni militari, nella riforma presentata nel 2009 contenuta all’interno del “Military Commission Act” non sarebbero stati introdotti correttivi sostanziali contro il reato di tortura. Questa tecnica militare per ottenere informazioni, seconda la difesa degli avvocati dei detenuti di Gitmo, sarebbe diventata un parametro di condotta standard all’interno della celeberrima prigione. Inoltre il mutamento dello status giuridico-fattuale dei reclusi da semplici detainees, elaborato dall’amministrazione Bush, a quello di “belligeranti irregolari” non avrebbe comportato un effettivo e sostanziale miglioramento dei diritti di difesa dei detenuti, i quali non sono minimamente paragonabili a quelli garantiti dai 4 protocolli addizionali del 1977 alla Convenzione di Ginevra stipulata nel 1949.

La prossima amministrazione repubblicana dovrà esprimersi sulla sua chiusura definitiva, oppure implementare nuovamente questa struttura controversa, la quale ha ispirato una gigantesca “letteratura” di dissenso.

Gabriele Mele

L’EREDITA’ DI OBAMA IN POLITICA ESTERA

Il 20 gennaio sarà ricordato, con ogni probabilità, come uno più discussi insediamenti della storia politica americana: a Washington, infatti, Donald Trump giurerà come 45esimo Presidente degli Stati Uniti. Il presidente più improbabile, almeno stando a tutti i pronostici della vigilia, prenderà il posto di un Presidente altrettanto storico, Barack Obama, il primo inquilino afroamericano della Casa Bianca. La curiosità rispetto a “l’America di Trump” è molta, anche perché in tanti sono pronti a misurare la distanza effettiva che il tycoon newyorchese metterà tra sé e l’amministrazione uscente.  Il tema della politica estera è particolarmente delicato e l’eredità che Obama lascia a Trump non è delle più facili. Il famoso motto obamiano “Yes, we can”  ha influenzato molto la politica estera americana degli ultimi 8 anni, sposandosi con una visione multilaterale delle relazioni tra USA e resto del mondo. Un approccio decisamente distante dall’idea trumpiana del “Make America Great Again”. Obama lascia dietro di sé un rinnovato interesse verso il Pacifico, un discusso accordo con l’Iran e il disimpegno militare americano, sia formale che sostanziale, da molti teatri in cui i marines di George W. Bush erano stati protagonisti. 

London Summit – Aprile 2009

Proprio come reazione contraria all’interventismo di Bush Jr., Obama iniziò nel 2009 a Il Cairo una piccola rivoluzione nelle relazioni internazionali statunitensi, ispirando tutta la sua azione al multilateralismo (per Barack quasi un’ossessione) e al rapido disimpegno militare. Obama era, e forse è, convinto che la pesante presenza degli Stati Uniti all’estero fosse dannosa per gli interessi americani. Partendo da questa valutazione ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, nella speranza di poter riguadagnare la fiducia di alcuni paesi, in particolare quelli islamici, che avevano mal digerito la presenza statunitense in Medio Oriente. Il risultato è stato una politica che ha minimizzato la fiducia nell’intervento militare, mentre ha massimizzato quella nella cooperazione e nel multilateralismo. Non è dunque un caso che nel 2013 il National Security Strategy, il documento più importante che l’esecutivo Americano elabora annualmente sul tema della sicurezza nazionale, ricordi come: «The United States must prepare for a multilateral world where, while retaining our military, economic, and cultural preeminence, we may be challenged by both allies and adversaries. Therefore, Americans must adopt the view from within and without that we are a nation “first among equals” to reflect the trends of demographics, global finance, and military power». La visione obamiana ha così enfatizzato l’applicazione di quella che lui stesso definì nel discorso sullo stato dell’unione del 2015 “smarter kind of American leadership”, in grado unire la forza militare ad una robusta diplomazia dove il potere americano si fonde in quello di una grande coalizione. In quest’ottica la Presidenza Obama ha provato a guardare all’area del Pacifico, nel tentativo di rafforzare i legami con gli storici alleati: Giappone, Corea del Sud e Filippine fra tutti. Il rafforzamento dei rapporti con questi stati ha visto protagonista, nel primo mandato di presidenza Obama, il Segretario di Stato Hillary Clinton, la quale attraverso l’idea dell’America’s Pacific Century ha delineato l’importanza di una “matura architettura economica nella zona del Pacifico” in grado di promuove un sistema sicuro, prospero e fidato dove gli Stati Uniti avrebbero giocato un ruolo da protagonisti. Ciò, ovviamente, ha richiesto la stabilizzazione dei rapporti con la Cina, vista dall’amministrazione Obama in termini più collaborativi che antagonisti anche al costo di rinunciare al riconoscimento di Taiwan, favorendo una One China policy. Gli sforzi riconciliatori con il governo di Pechino, però, vanno ricondotti nel più grande quadro delle relazioni multilaterali che hanno cercato di isolare la Russia di Putin, in particolare in seguito al fallimento della politica del reset e all’invasione russa della Crimea.

Credits | Al Jazeera English – Gigi Ibrahim

Anche in Medio Oriente l’amministrazione Obama ha cercato di allargare il credo multilaterale, aprendosi ad una collaborazione più attiva con l’Iran. L’accordo con Rouhani, forse il più innovativo prodotto del multilateralismo di Obama, tende ad eliminare progressivamente le sanzioni economiche imposte all’Iran dai paesi occidentali, mentre l’Iran, dal canto suo, accetta di limitare il programma nucleare permettendo alcuni periodici controlli alle sue installazioni. Tutto ciò potrebbe condurre Teheran verso una zona d’influenza occidentale, promuovendo la politica moderata del governo Rouhani e condannando il pericoloso estremismo del predecessore Ahmadinejad.

Il multilateralismo obamiano, però, non ha retto alla prova dei fatti in molti altri scenari. Le primavere arabe hanno messo a nudo le difficoltà della coalizione prospettata dal Presidente uscente. La dimostrazione plastica si è avuta in particolare in Libia dove, in seguito alla caduta di Gheddafi, la politica americana non è stata in grado di ricostruire lo stato libico lasciato in balia di signori della guerra e gruppi paramilitari. Anche le situazioni in Iraq e Siria non hanno avuto sviluppi del tutto positivi. Il repentino ritiro delle truppe e l’immobilismo nei confronti del regime di Bashar al-Assad hanno posto le basi per la creazione di un vuoto di potere unico nella regione. Vuoto furbescamente sfruttato dal califfo al-Baghdadi e dall’autoproclamatosi Stato Islamico.

L’operato di Obama in politica estera potrebbe essere stato, dunque, un’arma a doppio taglio nella storia statunitense: se da una parte il Presidente uscente ha cercato, e trovato, la normalizzazione e stabilizzazione dei rapporti – in un’ottica multilaterale – con Cina e Iran, dall’altra l’ostilità con la potente Russia di Putin, il deterioramento delle relazioni con Israele e l’incertezza nei paesi arabi potrebbero giocare un peso piuttosto forte.

Ora la palla passa a Donald Trump. Il nuovo presidente ha già preannunciato un cambio di rotta sostanziale, lasciando intendere che saremo chiamati ad assistere a più di qualche mossa a sorpresa. Con Trump le previsioni sono impossibili ma è probabile che nel medio periodo avremo comunque un grande sconfitto: il multilateralismo obamiano.

Nicola Bressan

DINASTIA TRUDEAU: PADRE E FIGLIO A CONFRONTO 

La famiglia Trudeau ha rappresentato una componente fondamentale dello scenario politico canadese del secondo dopoguerra a partire da James Sinclair, nonno materno del futuro Primo Ministro Justin, il quale ricoprì la carica di Ministro della Pesca tra il 1952 ed il 1957, durante il governo presieduto da Louis St-Laurent.

I due membri di maggiore spicco del più celeberrimo nucleo familiare canadese sono stati caratterizzati da una comune passione per la professione accademica. Difatti il padre ricoprì una cattedra di diritto costituzionale tra il 1961 ed il 1965 presso l’Universitè de Montreal ed il figlio insegnò tra il 1998 ed il 2002 matematica e francese in numerosi istituti presso Vancouver. Questo comune “background” costituisce un elemento imprescindibile per comprendere pienamente le straordinarie capacità carismatiche, empatiche ed aggregative che hanno determinato questo nuovo fenomeno di popolarità denominato “Trudeaumania”, che ancora oggi non è stato minimamente intaccato.

Entrambi, alla guida del Partito Liberale, hanno sostenuto politiche all’avanguardia, da molti considerate maggiormente progressiste rispetto a quelle teorizzate dal Partito Democratico Canadese. Pierre-Elliott Trudeau, da Ministro della Giustizia durante la legislatura del Primo Ministro Lester Pearson, nel 1967 divenne il promotore della riforma del diritto di famiglia relativamente al divorzio, ed ai diritti per le coppie omosessuali.

Il suo delfino naturale Justin Trudeau, dopo la sorprendente vittoria ai danni del conservatore Harper nell’ottobre del 2015, ha condotto una politica “copernicana” rispetto alla precedente amministrazione, di apertura nei confronti delle minoranze indigene, dei profughi siriani ed infine recentemente rendendo estremamente più fluida e celere la procedura per ottenere il visto da parte dei cittadini messicani.

D’altro canto il padre in precedenza era stato chiamato a prendere decisioni particolarmente complesse nel corso dei suoi vari mandati, come ad esempio l’Implementation of War Measures Act nel 1970. Questo provvedimento d’emergenza, che andò a rafforzare la sicurezza nazionale, venne deciso dopo il rapimento e l’uccisione del Ministro del Lavoro e dell’immigrazione Pierre Laporte da parte del gruppo terrorista “Front de liberation du Quebec”.

I due leader del Partito Liberale hanno sempre sostenuto con forza la piena realizzazione del multiculturalismo, tanto che Trudeau sr. introdusse nel 1982 il Ministero per le Politiche Multiculturali, e della compiuta integrazione, come testimoniato dalla nomina da parte del giovane Trudeau di un membro della comunità Sikh a presiedere il Ministero della Difesa.

D’altro canto sul piano interno il tratto distintivo di entrambi è stato sempre contrassegnato da una netta contrapposizione nei confronti delle forti spinte autonomiste del partito francofono del Quebec. Il padre sostenne veementemente la campagna per il “no” al referendum sull’indipendenza della medesima regione nel 1980.

L’astro nascente della politica canadese, la cui ascesa venne profetizzata da Nixon nel 1972 durante un incontro istituzionale, non sembra incontrare alcun tipo di declino alla sua popolarità. Nei prossimi anni ad ogni modo, di fronte all’avanzamento dei movimenti populisti che sembrano ormai aver intaccato l’establishment nord-americano ed europeo, il giovane Trudeau potrebbe essere costretto ad intraprendere politiche maggiormente autoritarie e conservatrici per non perdere una parte consistente del suo capitale politico relativamente all’elettorato della cosiddetta “middle class”.

Gabriele Mele

L’ERA DI BERGOGLIO: LA CHIESA ALLA SUA PROVA DI MODERNITA’

«Da dove ha origine il fatto che la mia volontà tenda al male e non al bene? Si tratta forse di una giusta punizione?»
(Sant’Agostino d’Ippona, Le Confessioni)

L’interrogativo, posto da Sant’Agostino nella stesura del suo testo cardine, riecheggia attuale e con ugual enfasi ai giorni nostri, nella visione globale degli scenari macro politici mondiali. Molti i fronti bellici ancora in corso ed oramai nota la mission del pontificato di Papa Bergoglio, sulla cui pacifica e manifesta azione  in molti hanno criticamente scritto. Analizzandone dunque l’operato, tra le dichiarazioni rilasciate e gli incontri istituzionali sostenuti, divengono di fatto tangibili due chiavi di lettura:

  • il diritto umanitario, la cui funzione è quella di tutelare le popolazioni civili inermi in situazioni di grave emergenza, e il cui rispetto secondo il Papa deve essere al primo posto; 
  • il multipolarismo,  ossia un sistema di politica internazionale con cui affrontare le aree di crisi con un’azione multilaterale, cercando costantemente la mediazione con il supporto della comunità internazionale e l’insieme degli enti presenti e attivi nel comparto.  

Per quanto riguarda le politiche attuate dai precedenti pontefici, il modus operandi spesso metteva in risalto differenti obiettivi, quali ad esempio la priorità in politica estera di abbattere la cortina di ferro e i regimi comunisti di Giovanni Paolo II, o la “ri-cristianizzazione” dell’Occidente perseguita con fervore da Benedetto XVI; Papa Francesco, invece, «avverte come emergenza ineludibile, porre fine alla “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che produce migliaia di morti, rifugiati e distruzione». Certamente, però, la Santa Sede di Bergoglio è assai meno atlantica di quella di Wojtyla e di Ratzinger. Recentemente, in un’intervista concessa alla testata belga Tertio in occasione della conclusione del Giubileo straordinario della misericordia, spaziando tra i temi della laicità, della Chiesa moderna nella società sino alle sfide per i giovani e l’Europa, Papa Bergoglio ha denunciato apertamente, ribadendolo tra i principali temi oggetto di attenzione e condanna, il terrorismo. Se ne ricava ad ora il seguente quadro: 

Nessuna religione giustifica la guerra. Il Papa, rispondendo ad una domanda sulle guerre e il fondamentalismo religioso, dice: «Nessuna religione come tale può fomentare la guerra», perché in questo caso «starebbe proclamando un dio di distruzione, un dio di odio». Francesco ribadisce inoltre che «non si può fare la guerra in nome di Dio», «in nome di nessuna religione». Per questo, «il terrorismo, la guerra non sono in relazione con la religione». Quello che succede è che si «usano deformazioni religiose per giustificarle». Il Papa, poi, nel riconoscere che «tutte le religioni hanno gruppi fondamentalisti» sottolinea come la nostra non si sottragga a ciò.

Religione, vita pubblica e stato laico. Sospinto ad analizzare come le politiche attuali inducano la religione ad essere sempre più distante e relegata alla vita privata di ogni singolo uomo, tendenza nei fatti contraria ad una Chiesa missionaria in uscita verso la società, Papa Bergoglio risponde: «Questa impostazione è un’impostazione antiquata», e prosegue: «Il Vaticano II ci parla dell’autonomia delle cose, dei processi e delle istituzioni. C’è una sana laicità, per esempio la laicità dello Stato. In generale, uno Stato laico è una cosa buona; è migliore di uno Stato confessionale, perché gli Stati confessionali finiscono male. Però una cosa è la laicità e un’altra è il laicismo. Il laicismo chiude le porte alla trascendenza, alla duplice trascendenza: sia la trascendenza verso gli altri e soprattutto la trascendenza verso Dio; o verso ciò che sta al di là. E l’apertura alla trascendenza fa parte dell’essenza umana. Fa parte dell’uomo. Non sto parlando di religione, sto parlando di apertura alla trascendenza. Quindi, una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza della persona umana, “pota”, taglia la persona umana. Ossia non rispetta la persona umana».

Media, comunicazione e impatto sociale. È notorio ad oggi il ruolo ricoperto dai mezzi di comunicazione in tutte le sue forme e per tutte le classi del tessuto sociale. Papa Bergoglio non tralascia dunque il suo pensiero inerente ai media e alla importante funzione da essi svolta: «I mezzi di comunicazione hanno una responsabilità molto grande. Al giorno d’oggi hanno nelle loro mani la possibilità e la capacità di formare un’opinione: possono formarne una buona o una cattiva opinione. I mezzi di comunicazione sono costruttori di una società. Di per sé stessi, sono fatti per costruire, per inter-cambiare, per fraternizzare, per far pensare, per educare. In sé stessi sono positivi». Proseguendo, Papa Francesco sottolinea anche l’aspetto negativo che traspare sul mezzo, ossia «la disinformazione: è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità».

Il messaggio per i giovani. «Non abbiano vergogna della fede; non abbiano vergogna di cercare strade nuove». E prosegue in conclusione dell’intervista: «A un giovane io darei due consigli: cercare orizzonti, e non andare in “pensione” a 20 anni. È molto triste vedere un giovane pensionato a 20-25 anni, no? Cerca orizzonti, vai avanti, continua a lavorare in questo impegno umano».

Concludendo la sua ultima omelia del 2016, Papa Bergoglio non ha omesso di pronunciarsi con un ulteriore spunto a sostegno dei giovani, a cui si rivolge criticando dapprima la società odierna, colpevole di averli emarginati e non adeguatamente valorizzati, per poi spronarli con passione: «Il mondo si aspetta che le nuove generazioni “siano fermento di futuro”, seppur allo stesso tempo vengano “discriminate”. Se da una parte c’è una cultura che “idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna”, dall’altra “paradossalmente, li abbiamo emarginati” e costretti a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono». Per un domani degno dei giovani, la scommessa unica per una vera inclusione sarà dunque quella incentrata a fornire loro l’efficace supporto per un lavoro dignitoso, libero e creativo, affinché siano essi quel vero fermento di futuro.

Andrea Coppola

LA STORIA DI AMRI AIUTA A MIGLIORARE LE DIFESE DAL TERRORISMO

di Alessandro Burato*

Sono giorni delicati quelli che tutta l’Italia sta vivendo dopo l’eliminazione a Sesto San Giovanni, il 23 dicembre, di Anis Amri, tunisino che – scappato da Berlino dopo aver colpito la folla delle bancarelle natalizie nella capitale tedesca – ha terminato la sua corsa nella periferia milanese. 

Amri può essere la chiave di volta per iniziare a parlare diversamente di terrorismo in Italia. Sebbene infatti la penisola non sia stata il luogo dell’attacco, il nostro Paese ha comunque svelato il suo ruolo nella guerra ibrida del nuovo terrorismo. E lo ha fatto proponendoci un individuo che raccoglie in sé tutte le sfide che la diffusione, la pervasività e la delocalizzazione del nuovo conflitto mondiale pongono: dalle questioni legate al profilo del terrorista tunisino, all’utilizzo delle nuove tecnologie, al tema della radicalizzazione e del ruolo della propaganda.

La storia di Amri è ormai stata scritta ovunque, ma sono quattro i momenti che evidenziano tutte le vulnerabilità alle quali il sistema è esposto: di origini tunisine è sbarcato come migrante a Lampedusa nel febbraio 2011 e accolto in un centro a Catania; il 23 ottobre dello stesso anno viene arrestato per aver aggredito il custode della struttura e per aver incendiato il centro a Belpasso; oggetto di un decreto di espulsione mai eseguito (perché la Tunisia non lo riconosce come suo cittadino), lo si ritrova in Germania dove compie l’attacco a Berlino prima di rientrare in Italia. La vicenda di Amri riporta al centro della discussione sul terrorismo lo scambio di informazioni tra i paesi europei, il ruolo del sistema carcerario nei processi di radicalizzazione, le migrazioni e il sistema di espulsioni degli illegali. Temi da affrontare senza alcuna connotazione ideologica ma con l’onestà intellettuale sufficiente per ammettere la necessità di approfondire queste questioni per comprendere un fenomeno alquanto complesso.

Tutto ciò premesso, in relazione ad Amri si delinea un profilo abbastanza ricorrente: il lupo sciolto ma comunque connesso. Sono infatti le connessioni che stanno alla base del processo di radicalizzazione, tutte immerse in un contesto propagandistico del Daesh che ne favorisce lo sviluppo e l’orientamento verso una pianificazione strategica da parte del Califfato.

Le connessioni sono state il fattore centrale durante il periodo di detenzione di Amri. Il Dap segnala infatti rapporti con altri tunisini ritenuti fondamentalisti e in una nota della Questura di Catania si evidenzia come all’interno dell’istituto di detenzione Amri avesse sviluppato “una fede integralista islamica e un carattere violento”. Le relazioni strette durante il periodo in carcere hanno sicuramente avuto un ruolo importante nel processo che ha portato Amri a Berlino, tanto che, dopo la strage, il tunisino giunto a Torino sembrerebbe aver tentato di prendere contatto con un ex-galeotto compagno di cella. 

Le relazioni sono però anche quelle mediate tramite la tecnologia. Elemento chiave della nuova guerra ibrida, i sistemi di comunicazione – specie quelli garantiti da Internet – sono cruciali. Telegram, che opportunamente utilizzato assicura maggiori garanzie di riservatezza rispetto ad altri strumenti, sembra aver definitivamente rimpiazzato ogni velleità del Daesh di avere un proprio servizio di messaggistica istantanea. Lo strumento è diventato il luogo di diffusione di messaggi e materiali per il reclutamento e la radicalizzazione: è attraverso Telegram, per esempio, che Amri tiene i contatti con il nipote in Tunisia al quale invia denaro, dopo averlo radicalizzato convincendolo a giurare pubblicamente su Facebook fedeltà al califfo, per assicurargli un’identità falsa e il viaggio in Germania per unirsi al gruppo di Abou al Wala.

Si aggiungono quindi le connessioni con i gruppi jihadisti più strutturati o con i predicatori del jihad. A loro, perché ne diventino cassa di risonanza, viene affidato il messaggio della propaganda. E quelli rivolti ai combattenti, fin dal maggio scorso, sono chiari: utilizzate ogni mezzo a disposizione, dai coltelli ai camion, dall’esplosivo finanche al veleno. E sull’uso dei camion la propaganda ha ormai un esaustivo repertorio. Ancora prima dell’attacco di Nizza del 14 luglio scorso, già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) venivano suggeriti i camion come armi per “fare la più grande carneficina”. Dopo la strage sulla Promenade des Anglais è stato pubblicato dalla “Inspire Guide” un numero dedicato alle modalità di realizzazione dell’attacco (21 luglio 2016). Poi ulteriori indicazioni su quali mezzi e obiettivi scegliere sono pubblicati sul numero 2 di Rumiyah (edizione in inglese del 12 novembre 2016), poi riprese in traduzione bosniaca nel numero 4 della rivista uscita solo tredici giorni prima dell’attacco a Berlino. Ma Berlino è stato solo il gesto di emulazione di un radicalizzato, o frutto di una effettiva azione della propaganda? E più in generale quale è il ruolo della comunicazione del Daesh nell’identificare modus operandi e obiettivi? Sicuramente alcuni aspetti dell’attacco nella capitale tedesca pongono interrogativi sulla scelta della tipologia di mezzo e sulla fuga immediata dalla scena da parte del terrorista senza continuare il massacro, ma non pongono alcun dubbio sul ruolo più ampio della propaganda che prepara il terreno suggerendo modalità e strategie generali.

In quest’ottica, allora, Amri ha sbattuto in faccia a tutti quanto il suo arrivo in Piazza Primo Maggio a Sesto San Giovanni il 19 dicembre, dopo avere attraversato mezza Europa in treno, sia stato favorito da una mancanza di coordinamento e condivisione di informazioni che sempre più devono essere scambiate efficacemente tra i vari stati membri dell’Unione Europea e con paesi terzi, sia paesi di origine dei flussi migratori sia paesi a elevato rischio di terrorismo. Per alcuni versi il clima è cambiato anche in Italia (ne è la prova l’accettazione da parte della società civile delle nuove misure poste a difese di spazi di aggregazione) e questi temi possono essere affrontati in maniera serena rispondendo a un bisogno di sicurezza diffuso tra i cittadini.

* Ricercatore C.E.T.Ra. e Itstime (Università Cattolica del Sacro Cuore)

THE ART OF POLITICS – YOUNG PEOPLE LOOKING FORWARD TO THE FUTURE – 2° EDITION

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School of Political Education, Second Edition

Fondazione De Gasperi

Wilfried Martens Centre for European Studies

Instituto Amaro da Costa

Summary

  • Introduction. School of Political Education

Lorenzo Malagola, Secretary General, De Gasperi Foundation

  • Work as a gesture

Giovanni Maddalena, Professor of History of Philosophy, University of Molise
(Turin, October 21st-23rd 2016)

  • The Supranational Non-Political Paradigm

Luigi Crema, Visiting Professor, University of Notre Dame Law School Lisbon
(November 25th 2016)

  • Introduction to the role of centre-right think tanks in the policy-making process

Margherita Movarelli, Project Officer, Wilfried Martens Centre for European Studies
(Rome, December 2nd-4th 2016)

  • The future of global economy in post-capitalism

Emilio Colombo, Professor of International economics, Catholic University of the Sacred Heart, Milan
(Rome, December 2nd-4th 2016)

  • Geography, History and European Strategy

Raquel Vaz-Pinto, President, Editorial Board of idl Instituto Amaro da Costa
(Rome, December 2nd-4th 2016)

  • A new humanism as answer to the crisis

Alberto Maria Gambino, Vice-Rector, European University of Rome
(Rome, December 2nd-4th 2016)

EUROPA E TERRORISMO. DOBBIAMO ACCETTARE L’IDEA CHE SIAMO IN GUERRA

Piero Vietti | Il Foglio | 21-12-2016 – (qui l’articolo originale)

Parla Marco Lombardi, esperto di terrorismo dell’Università Cattolica di Milano: “I jihadisti hanno occupato il territorio e le generazioni future”. La soluzione è “israelizzare” l’occidente per i prossimi dieci anni almeno.

La prima domanda che si sono fatti in tanti, lunedì sera, è stata: “Come è possibile che sia successo ancora?”. Cinque mesi dopo Nizza – ma sembravano molti di più – un camion ha deliberatamente travolto delle persone in una città europea uccidendole. “L’Europol e le intelligence di diversi paesi avevano avvertito nei giorni scorsi che questo sarebbe stato un momento critico”, dice al Foglio Marco Lombardi, responsabile di Itstime, centro di ricerca su sicurezza e terrorismo dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna, e direttore scientifico del dipartimento C.E.T.RA. della Fondazione De Gasperi. Si poteva dunque evitare la strage di Berlino? “In assenza di una governance politica forte e unitaria in Europa non può esserci intelligence comune – prosegue Lombardi – c’è condivisione delle informazioni tra stati fatta con lo scopo di mettere in sicurezza il singolo paese. Ma siamo di fronte a un tipo di terrorismo diffuso, pervasivo, delocalizzato”. Difficile da prevedere. “Il terrorismo è tale per gli effetti che hanno i suoi attacchi, non per le ragioni che motivano chi attacca”, spiega, e in effetti arriviamo da anni in cui “lo Stato islamico fa propaganda intensa invitando a colpire ovunque e chiunque usando i mezzi della vita quotidiana”.

Sui canali ufficiali dei jihadisti ci sono istruzioni su come guidare un camion su una folla inerme, su come uccidere con un coltello o fabbricarsi una bomba in casa. “E’ un tipo di propaganda che colpisce tutti: islamisti, difensori della umma, sbandati. Sono percorsi di radicalizzazione diversi tra loro ma che si concludono tutti con attacchi su cui lo Stato islamico mette il cappello”. Ai jihadisti interessano soprattutto gli effetti di questi atti, che sono quindi “difficilmente prevedibili se non c’è una catena di comando in cui l’intelligence si può infiltrare”. Questo tipo di attentati è caratterizzato dall’opportunismo, dice ancora Lombardi: “L’idea è quella del massacro senza premeditazione”. Il professore non crede a chi dice che a Berlino sia stato colpito un simbolo cristiano: “Gli attentatori vanno a colpire dove c’è tanta gente, e un mercatino sotto Natale è il luogo ideale per questo”. Detto dell’imprevedibilità di certi attacchi, e lasciato ad altri il compito di definire le strategie militari migliori per colpire lo Stato islamico in medio oriente, chiediamo a Lombardi che tipo di politiche si possono attuare in Europa per limitare i danni: “La minaccia c’è ed è diffusa, al momento una soluzione possibile sarebbe la mediorientalizzazione delle nostre società”. Cavalli di frisia nelle vie del centro di Milano e Roma, posti di blocco e uomini armati disposti nelle nostre città, sul modello israeliano. “Non è un bello spettacolo, ma è una soluzione. E’ però urgente che la politica faccia scelte rapide in questo senso, anche scontentando parte dell’opinione pubblica e ascoltando la parte che è ormai disposta a vivere con questo rischio”.

E’ plausibile che per i prossimi dieci anni almeno si debba convivere con attentati jihadisti in Europa. “Lo Stato islamico ha occupato non solo il territorio, ma anche il tempo: ha conquistato le giovani generazioni, ormai si arrestano ragazzi di quindici-sedici anni, a volte persino dodici, pronti a uccidere”. La domanda da farsi, semmai, è sul tipo di società che abbiamo messo in piedi, chiosa il professore, in cui un dodicenne è attratto da una propaganda che lo vuole trasformare in terrorista. Sul lungo periodo, infatti, “bisognerà individuare politiche che intercettino i percorsi di radicalizzazione, impedendo che vadano a buon fine”. Nel frattempo però bisogna mettersi in testa che la nostra vita quotidiana deve cambiare, è già cambiata. “Bisogna promuovere consapevolezza tra la gente: come ci si può trovare in mezzo a un incendio sapendo come comportarsi dobbiamo essere coscienti che ci potremo trovare in mezzo a un attacco terroristico e sarà vitale sapere come reagire”. In tre parole: consapevolezza del rischio, informazione e formazione. C’è il problema dei rifugiati, però, su cui Lombardi è poco politicamente corretto: “I migranti non sono terroristi – dice – ma i terroristi sono dei migranti”.

Che l’estremismo islamico sfrutti le migrazioni per introdurre “combattenti” in occidente non è una novità. E proprio “la Germania è tra i paesi che meglio analizzano i flussi di ritorno e monitorano gli spostamenti. Ma non c’è dubbio che l’accoglienza tedesca è stata poco controllata: servono più controlli, identificazioni, diritti per chi ne ha le prerogative ma pugno duro per gli altri”. La domanda di tanti, adesso, è cosa aspettarsi nelle prossime settimane: “Il 2016 purtroppo non è ancora finito – conclude Lombardi – e avremo un 2017 in continuità con l’anno che sta finendo. Lo Stato islamico è ormai in 40 paesi del mondo, ha un esercito delocalizzato che combatte questo nuovo tipo di guerra ibrida che è in corso da anni, non geolocalizzata ma a pezzi. Abbiamo paura di ammetterlo, ed è un ritardo culturale grave, ma siamo in guerra”.

Piero Vietti