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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

LA CORSA PER L’ELISEO

Sarà François Fillon il candidato per la presidenza della Repubblica del partito nazional-popolare francese, Les Républicains”. L’elettorato moderato francese ha scelto lui come avversario di Marine Le Pen, leader indiscussa del Front National”, per le elezioni presidenziali che si terranno nella primavera del 2017. Saranno loro a contendersi con ogni probabilità la corsa per l’Eliseo, se si considera la totale assenza di candidati credibili nel partito socialista e la presidenza disastrosa di Hollande, tra le più impopolari della storia della Quinta Repubblica francese.

Fillon ha vinto nettamente le primarie del partito, surclassando avversari molto più quotati -almeno per i sondaggisti- come Alain Juppé, il delfino di Chirac negli anni ’90, e l’ex Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. Con la débâcle di Sarkozy forse si chiude un’epoca tra le fila dell’ ex partito gollista, tuttavia queste votazioni ci consegnano un nuovo leader come Fillon, che altro non è che una creatura politica dello stesso Sarkozy.

Primo ministro sotto la presidenza di Sarkozy (2007-2012), Fillon poco alla volta si è allontanato dal sarkozysmo, si è fatto largo tra le correnti e ha messo in un angolo la leadership del partito capeggiata dell’ex-presidente del partito Jean-François Copé. Intanto il partito nel 2015 aveva cambiato il proprio nome da “Unione per un movimento popolare” a quello di “I Repubblicani”. E Fillon in questa svolta si è inserito perfettamente, riportando di fatto in auge l’eredità politica e storica del repubblicanesimo di de Gaulle.

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Con Fillon la figura del “Generale” non soltanto viene ripescata dai libri di storia, ma torna ad essere al centro del dibattito politico, soprattutto nel confronto tra la Francia e gli altri Stati europei. Il taglio della spesa pubblica, la razionalizzazione degli interventi pubblici, la riorganizzazione della pubblica amministrazione, il recupero di un rapporto dialettico con l’Unione Europea e il rifiuto di acquiescenza alle sue politiche rappresentano il programma elettorale di un politico del quale tutto si può dire tranne che non sia un liberal-conservatore dall’indole nazionalista in continuità con la lezione del Generale, modernizzata e nei toni adeguata ai tempi. 

Qui la domanda sorge spontanea: con un’ipotetica presidenza di Fillon tornerebbe in voga l’espressione di de Gaulle Europa delle patrie”, quindi l’idea di un’Europa confederale? Questa suggestione potrebbe mettere in crisi Marine Le Pen, che è stata la paladina del nazionalismo francese negli ultimi 5 anni mostrando una conclamata diffidenza e ostilità nei confronti di Bruxelles. 

Questa retorica potrebbe pagarla a caro prezzo durante il ballottaggio per le presidenziali, che la vedrà quasi sicuramente impegnata ad affrontare Fillon. Quest’ultimo avrebbe la strada spianata conquistando anche i voti di buona parte della sinistra moderata, a differenza di quanto potrebbe accadere in Austria domenica prossima, dove un candidato anonimo e indecifrabile come Alexander Van der Bellen avrà un agguerrito e folcloristico avversario come il nazionalista Norbert Hofer.

Forse l’esempio di François Fillon potrebbe fare scuola e tornare utile a molti partiti europei.

Gian Marco Sperelli

CHINA IN A CHANGING WORLD

Durante la sessione che lo ha visto eletto come nuovo Presidente dell’Assemblea Parlamentare della NATO, svoltasi tra il 19 ed il 20 Novembre scorso ad Istanbul, l’On. Paolo Alli ha presentato al consesso un rapporto dal titolo “China in a Changing World”. Approvato all’unanimità dalla Commissione Politica, offre un’ampia panoramica sui possibili sviluppi futuri del colosso cinese rilevanti per gli Stati Membri dell’Alleanza Atlantica.

All’interno di uno scenario dove le sfide cercano di essere trasformate in opportunità, la visione del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Commissione Militare Centrale, viene descritta come principalmente proiettata verso una ricerca di stabilità interna, necessaria a garantire al Governo da lui guidato il tempo utile a varare quelle riforme necessarie per stabilizzare un paese caratterizzato da profondi e radicati squilibri economici e sociali.

Nonostante un tasso di crescita ancora molto maggiore rispetto ai dati provenienti dall’Europa, l’innegabile rallentamento di un’economia ancora fin troppo legata al credito pubblico delle aziende a conduzione statale (SOEs) non manca di destare serie preoccupazioni. Infatti tale politica economica, associata ai rischi derivanti dalle iniquità prodotte dall’esclusivo sviluppo delle aree costiere dello Stato, dalla presenza di circa 280 milioni di lavoratori migranti con basso accesso all’istruzione e senza accesso al welfare (che prima o poi dovranno rientrare in patria) e dal rapido invecchiamento della società (dovuto anche alla “politica del figlio unico”),  potrebbe concorrere sul lungo termine a far collassare su se stessa quella che è attualmente la seconda più grande economia del mondo sottoposta ai peggiori risultati degli ultimi 25 anni.

Iniziativa in grado di comporre unitariamente questi problemi e dalle enormi potenzialità economiche e politiche è la “Belt and Road initiative”.

Concepita come una moderna restaurazione della Via della Seta -comprendente sia una rotta marittima che una terrestre- questo ambizioso progetto viene ritenuto idoneo a sfogare la sovra-produzione cinese, soprattutto nel settore manifatturiero e siderurgico, grazie agli investimenti necessari alla costruzione di strade, rotaie e porti previsti al fine di connettere direttamente la Cina con la regione del Mediterraneo.
In grado di alterare gli equilibri geopolitici e militari grazie alla sfera di influenza che innegabilmente si genererebbe attorno questa imponente rotta commerciale, si stima che potrebbero essere fino a 60 i paesi coinvolti nel progetto, portando i commentatori cinesi a paragonare l’iniziativa, sia per le sue potenzialità che per i suoi effetti, al Piano Marshall di occidentale memoria.

Attenta ai suoi rapporti internazionali, Pechino sta divenendo progressivamente sempre più ambiziosa anche nella sua politica estera: dal 2015 il Renminbi è stato incluso nel paniere delle riserve monetarie del Fondo Monetario Internazionale (assieme al Dollaro, l’Euro, la Sterlina e lo Yen), offrendo al governo cinese un marchio di approvazione della comunità internazionale da sfruttare ad uso e consumo interno.

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Ancora più rilevante (e forse esplicativo delle reali intenzioni del governo cinese) è poi l’atteggiamento descritto rispetto una delle questioni calde del momento: il conflitto ucraino.
Seppur non abbia riconosciuto l’annessione della Crimea alla Russia, allo stesso tempo la Cina ben si è guardata dal condannare le azioni di Mosca. Alcuni osservatori hanno spiegato tale ambiguità rilevando similitudini tra i fatti avvenuti in Ucraina e quelli avvenuti nei mari meridionali ed orientali della Cina: infatti il governo di Pechino, nonostante la condanna subita nel luglio 2016 ad opera della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja nell’ambito della normativa internazionale UNCLOS, da anni continua a reclamare ed imporre la propria sovranità regionale per mezzo di varie operazioni aggressive atte ad escludere illecitamente i diritti degli altri Stati costieri della zona e comprendenti la costruzione di isole artificiali a scopo militare, continuando al tempo stesso le sue operazioni economiche nell’area (Stimati in 3,5 triliardi di dollari il valore degli scambi commerciali annuali passanti nell’area), mostrando così una chiara volontà egemone.

Con commerci che raggiungono i 300 miliardi di dollari offrendo 2 milioni di posti di lavoro cinese, altro rilevante rapporto descritto è quello con l’Africa ove la Cina, ormai da anni, possiede grandi interessi commerciali (soprattutto nella parte orientale del continente) finalizzati soprattutto all’ottenimento di materie prime chiave.
Già largamente partecipe alle missioni di Pace dell’Onu compiute in questa area, l’evoluzione della politica estera cinese è rilevabile qui anche nella relativa volontà di protezione dei propri interessi: sempre più agli investimenti economici sta venendo affiancata una tutela militare indiretta, nei pressi degli stessi.
Importante esempio di questo può essere ravvisato nel pronto annuncio da parte del Governo di Gibuti, susseguente quello di partecipazione dello stesso alla “Via della Seta Marittima”, della concessione di un avamposto militare cinese nel proprio territorio al fine di favorire le operazioni di anti-pirateria in grado di tutelare la rotta commerciale.

Altro ambito dalle straordinarie implicazioni al quale il governo presieduto da Xi Jinping si sta progressivamente interessando è quello relativo all’Artico. Territorio ricchissimo di risorse minerarie ed energetiche, nell’ultimo periodo sempre più governi si sono rivelati attenti alle enormi possibilità derivanti dall’apertura delle nuove rotte commerciali settentrionali, createsi a causa dello scongelamento dei ghiacci, capaci di ridurre enormemente i tempi di navigazione, e quindi di collegamento, con l’occidente.
Nonostante sia priva di sbocchi diretti sul Mare Artico, l’accesso allo stato di Osservatore Permanente del Consiglio Artico della Cina è da leggere come una chiara volontà di partecipazione alla discussione in atto con una chiara e dichiarata prospettiva volta ad istituire relazioni “win-win” tra tutti i players coinvolti.
Dette rotte, in combinato disposto con le già citate rotte commerciali di futura costituzione, potrebbero in ogni caso posizionare di fatto il colosso cinese come soggetto imprescindibile nell’ambito della competizione commerciale globale e questo, di certo, non passa inosservato.

Il rapporto si conclude con la valutazione che tutti questi elementi hanno numerose implicazioni, dirette ed indirette, per gli Alleati ed i partner NATO, sia dal punto di vista individuale che collettivo.
Nonostante la Cina sia l’unico Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a non avere formali regole di ingaggio diplomatico con l’Alleanza Atlantica, molte sono innegabilmente le sfide comuni: anti-pirateria, anti terrorismo, sviluppo della legge internazionale (UNCLOS su tutte) e stabilizzazione della regione sono solo alcuni degli ambiti nei quali NATO e Cina condividono l’interesse ad un comune sviluppo e nei quali potrebbero trovare reciproco giovamento.

Tutte queste valutazioni (e le altre descritte nel Draft) pongono con chiarezza la necessità, in questo mondo sempre più interconnesso ed interdipendente, di far evolvere un rapporto fin troppo trascurato rispetto all’importanza dei players in gioco, le cui conseguenze potrebbero avere un grande peso.

Un rapporto in grado di descrivere le sfide poste dal governo cinese che, sul lungo termine, potrebbero avere effetti decisamente non trascurabili sui partner dell’Alleanza Atlantica a causa, ad esempio, delle modificazioni delle sfere di influenza nel Medio Oriente e nell’Africa in conseguenza delle nuove rotte commerciali previste dalla “Belt and Road initiative” o rispetto agli equilibri regionali nel Mare della Cina.

Quel che è certo è che, se quanto descritto dal rapporto diventerà realtà, i prossimi secoli rischieranno di vedere la comparsa, con ancor maggior decisione, di una nuova potenza egemone non ascrivibile ai due tradizionali blocchi (U.S.A. e Russia) che, nella nostra storia recente passata, avevano occupato tutti gli spazi apicali della dialettica internazionale e che si erano dimostrati gli unici in grado di influenzare vaste aree con la loro politica. Gli squilibri derivanti da questa possibile perdita a favore di un nuovo soggetto, la Cina guidata da un leader dalla chiara ed incisiva visione globale (e che sta accumulando un’enorme quantità di potere esclusivamente nelle proprie mani), sono tuttavia ancora non del tutto prevedibili.

Valerio Gentili

Leggi il Draft completo.

SHOULD THE ARAB WORLD FOLLOW THE EUROPEAN UNIFICATION MODEL?

Nona puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Hasan Abu Nimah*

For the last three and a half decades I have been convinced that the Arab States, the 22 Arab League members, should study the example of European unification right from the Treaty of Rome in the mid twentieth century up to the creation of the European Union. The idea kept growing in my mind while serving as diplomatic envoy for my country, Jordan, in many European countries from 1973 till 1995. (I spent 12 years in Brussels as Ambassador to all the three Benelux countries in addition to the EC from 1978 till 1990; 5 years in Rome as ambassador to Italy, FAO, WFP, San Marino and Portugal, 1990 till 1995; in London previously as Counsellor of the Jordanian Embassy from 1973 till 1978).

Perhaps this is not the most appropriate moment to advance such an idea as for sometime cracks in the new European unanimity have been raising doubts about the entire scheme, seen hitherto as one of the most promising regional assemblages of our time. Since 2009, the Eurozone has been beset with a sovereign debt crisis primarily involving Greece, Ireland and Portugal, which threatened its stability and culminated in the historic British referendum last June in which Britain voted to leave the EU.

Because the world economy is globalizing fast, it is becoming increasingly difficult for any country to manage its affairs independently from the impact of external factors. Like everywhere else European difficulties are homegrown as well as external. Europe may have to deal with temporary set backs but my firm conviction is that the many factors that brought the European nations together in the first place, will prevail in the end. The structure of the Union may have to undergo some changes but the European Unity eventually  will not be destined to collapse.

This is why I still believe the Arab states need to study the European experiment and benefit from it for a more secure and prosperousArab future.

Most of the modern independent Arab states emerged in the aftermath of the dismemberment of the Ottoman Empire, of which most of the Arab World were a part of for at least four centuries.

Arab Nationalism, a movement led by various groups of Arab intellectuals began to manifest itself towards the end of the 19th Century, demanding independence from the Ottoman rule followed by unification of all the Arabs into one political entity. The movement, also referred to as Pan Arabism, is based on the fact that the Arabs speak the same language, they share the same history and the same culture, they pursue the same aspirations and the lands they exist on are territorially connected. Although Islam is the religion of the majority, it was not included as one of the the unifying factors of the Arabs out of due consideration to the Christian Arabs, of whom many prominent figures contributed largely to the dissemination of the Arab Nationalist doctrine.

Sherif Hussein Of Mecca, a descendent of Prophet Mohammad, entered into an agreement with the British in 1916, to lead an Arab Revolt against the Ottomans, in return for British recognition of a United Arab Kingdom under his leadership once the First World War had ended with an allied victory. Although the British never kept their part of the deal, the Arabs continued to cherish that Pan Arab dream. They blamed their failure to achieve it on the artificial dividing lines imposed by the colonial powers- mainly by the British and the French during the post-First World War settlements.

The so-called artificial borders, however, did not only outlive the departure of all colonial effects, but eventually became solid divisive walls that often made it much more difficult for an Arab to cross than for other nationals.

The foundering of Arab unity can broadly be summarized into four reasons:

  1. The first is the emergence of non-democratic regimes in many Arab states where autocratic rulers at the top viewed unification as a threat to their dictatorial ambitions and continuity.
  2. The second is the discovery of precious resources in some states prompting them to make sure that their wealth remained solely for themselves, while unity with others would imply sharing which they strictly ruled out.
  3. The third reason relates to external factors. Many dictatorial regimes allied with external powers to protect themselves and to guarantee their undue power positions. In return they committed themselves to submit to those powers dictates no matter how incompatible they were with their national interests or the interests of their own people.  With their loyalties firmly in place for their foreign protectors and backers rather than towards their own people, who did not elect them any way, those petty dictators had no power to make any tall or independent decisions. Mostly they acted as dependancies.
  4. The fourth and final reason is the failure of a collective Arab endeavor to tie together the interests of the Arab people regardless of their local country identity. The Arab League, despite its many specialized agencies dealing with education, trade, economy, health, security, culture and more, has failed in convincing the Arab individual that his interests are better served when in a larger union than in separation.

But if the Europeans managed to get together in a practical unity, though incomplete, after two major and devastating wars and despite massive differences why should the Arabs not be able to do the same?

The 28-member European Union has 20 official languages yet all the Arab states speak one language and belong to one culture. The Arab states economic interests are indeed complimentary with each other albeit some owning the natural resources while others having the human resources. Territorial contiguity is an important factor too. Consider the amount of potential that would unfold if the Arab World from Algeria West to the Gulf states East was open for free movement of people ad trade; if the Arab natural wealth was utilized for development, education, modernization, life advancement and good democratic governance;  imagine the amount of capital savings if the Arabs were united in both purpose and method. It is precisely because of these obstacles that have prevented any Arab mobilisation towards unification that the European experiment should be examined. 

A significant aspect of the European scheme that would be well suited to the Arab states is the gradual approach. Whereas some Arab attempts to force instant unity by decree failed, the Europeans started with modest steps. The European process began with the economy, trade, customs, agriculture and any other forms of possible  joint cooperation that wouldn’t pose any threat or compromise either the state entity or the national identity. This way Europeans were offered practical examples of the unification promise. 

On the other hand, the attempts by unelected Arab leaders to impose by decree total and immediate unity such as between Syria and Egypt in 1958 (the United Arab Republic) by Egyptian president Jamal Abdul Nasser, or with Yemen, later on, or between Jordan and Iraq at the same year (the Arab Federation) all failed due to their abrupt, forced and artificial nature. The Gulf Cooperation Council (GCC) on the other hand has managed to succeed and continue simply because it adopted the gradual approach which, like in Europe, did not require the individual Gulf States to melt in the union. 

But the GCC is also a club of rich nations, for which unity has a security dimension,  and that should not be overlooked as a significant helpful factor.The current situation in the Arab world in general is far from normal. If it is hard to predict when these abnormal conditions will end, it is equally hard to believe that such conditions will last indefinitely. Eventually the dawn of democratization will illuminate  the entire Arab world and one will be able to expect the individual Arab states to see moves towards closer cooperation in the direction of unification as more of a promise rather than a threat. Only then will the European model be a feasible choice. 

* Member of the Senate of the Hashemite Kingdom of Jordan, Member of the Jordan delegation at the NATO Parliamentary Assembly.

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi HuhtanenPopulist influence and how to fight it

POPULIST INFLUENCE AND HOW TO FIGHT IT

Ottava puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Tomi Huhtanen*

Inequality has never been so clear in the Western society in the last century as it is today. The economic crisis, the reduction of average salaries, the rising unemployment and the decline of investments created a strong insecurity and an increasingly strong social resentment leading to the rise of populism. The mainstream parties of the centre-right and centre-left that could once rely on 40% of the vote are now reduced to 20 or 25%.

Policy uncertainty usually rises after a financial crisis, pushing voters to be attracted to the political rhetoric of populists. Trump, Grillo and Le Pen, all have one thing in common – someone to blame, and that someone is the establishment. Half of the United States feels penalized by the economic and social changes that hit hard its interests and identity. And this is the half that transformed Donald Trump into a hero. The more Trump attacks the establishment, the media and traditional politics, the more this America supports him even if they perceive his excesses.

A similar scenario is found in Europe, where countries struggle to shake off the Eurozone’s financial crisis and where migration and Islamist terror constitute most voters’ main concerns. This is when the anti-austerity, anti-EU or anti-immigrant narrative is embraced. Populists are in power in Poland and Hungary, they are in the coalition government in Finland, they top the polls in the Netherlands, and their support is at record highs in Sweden.

In France, even if a Le Pen presidency remains extremely unlikely, the support for Front National is clearly on the rise. In Italy, Grillo’s Movimento Cinque Stelle (M5S) has succeeded in breaking into the old Italian two-party system establishing itself as a radically new political and opposition force. Additionally, unlike other populist movements in Europe that are clearly associated either with right-wing politics, such as Ukip in Britain, or with left-wing politics, such as Podemos in Spain, M5S has been able to attract votes across the political spectrum. The result is nonetheless the same: across continents, populist forces are challenging mainstream parties that for decades dominated national politics.

Two core issues lie at the root of today’s rising populism: the inflow of refugees and the persistent economic crisis. In the case of Europe, the continent’s problems can only be addressed through increased cooperation among the Member States, but European electorates refuse to authorize any further transfer of sovereignty to Brussels.

What populists from both sides of the spectrum tend to have in common is that they contrast themselves with the political elites, claiming that they alone represent the people, portraying the established political parties as self-serving and corrupt. Populists dislike representative democracy and love referendums. Moreover, they have a unique style and many voters find populists’ clear, and their simplistic messages appealing. It is much easier to relate to the colourful populist talk, the one that doesn’t feel the need to be politically correct and which does not consider insults to be taboo in political messages.

It remains to be seen, however, if the number of malcontents has truly risen to a critical level, or if there’s simply more opportunities to express dissatisfaction. Because in addition to the content, the means have changed too, with social networks having become an incessant referendum on any topic.

Either way, in an age where voters are both confused and easily malleable via the internet and social media, the populists’ way of communicating clearly helped to mobilise the masses. Yet, for many, voting for these forces is not a matter of agreeing with their policies, or lack thereof, but a revenge against the establishment parties, which, according to the electorate, lost connection with the people they are supposed to represent. Populists seem to attract young voters, many of whom cast their vote as a statement against the political elites, which hold the power as the youth unemployment rises and the economic system collapses. What is on the march across Europe may not be the far right or the far left, but distrust, disillusion, even full-scale rejection of the political establishment.

Europe is a victim of its own historic burden. For years it has been the continent of prosperity, growth and bright future, clearly clashing with the current situation. However, the EU is an important part of peoples’ lives, often taken for granted, often criticised and much too often under-estimated. Those in favour of Europe should be proud of what has worked, and what makes the EU relevant and important. The EU “peace project” should not be underestimated considering the presence of violence and war in the European neighbourhood.

Centre-right clever and simple slogans are needed to counter the populist diatribes. Those who favour Europe must be as charismatic, eloquent and single-minded as those who oppose it. Parties who believe in the EU will have to take their arguments to the people, and in return listen to the people.

However, strong and charismatic leadership is not an easy item to produce. It requires education and training. This is why both current and future leaders must be trained to communicate directly with their audience, connect with the angry generation of voters who feel disconnected from the political elites and bring back the sense of direction. And of course we need action. We need to actually resolve the problems rather than pretending that we are addressing them.

Populists are winning through their strong words. We, especially the Christian Democrats, can only win through strong actions. Small changes cannot address big challenges. Structural reforms within the party system are needed, which imply putting the whole organisation under evaluation. Changes are difficult to accept and carry out in parties which are founded on tradition, however more risk taking is necessary in order to evolve and to react faster, quicker and simpler to citizen’s request.

The sense of responsible citizenship is essential in the electoral process. The feeling of being represented by establishment politicians has to be brought back to the voters and the way to success lies in reforming our social, educational and health systems through communication with the middle-class, support of trade that benefits all and reactivation of the social elevator.

* Executive Director of the Wilfried Martens Centre for European Studies

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele NataliziaUna “nuova” Guerra Fredda?

IL SOGNO DI ERDOGAN

Se la figura storica più rilevante della storia turca nel ‘900 è senza dubbio quella di Atatürk, la figura politica più importante- e anche più controversa- del nuovo secolo è certamente quella di Erdoğan. Da circa 14 anni è il leader incontrastato della politica nazionale turca. Il sogno erdoganiano di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale neo-ottomana sta procedendo ad un ritmo costante, ma tale processo ha subito un’improvvisa accelerazione nell’ultimo biennio.

 Il 28 Agosto 2014 Erdoğan viene eletto con il 52% dei consensi come dodicesimo Presidente della Turchia, nelle prime elezioni presidenziali della storia della nazione, visto che fino a quel momento l’elezione del Presidente spettava al parlamento. Si tratta di un tassello fondamentale nello stravolgimento politico istituzionale del paese, e soprattutto dell’affermazione personalistica della politica erdoganiana. Da repubblica laica e parlamentare- così come era stata plasmata dal padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatürk- a repubblica presidenziale dai forti connotati religiosi, questo è in fondo il nuovo disegno istituzionale della Turchia di Erdoğan. Tuttavia con le elezioni politiche del 2015 si presenta un ostacolo nei progetti del presidente turco. Nelle consultazioni di quell’anno, con la guida di Selahattin Demirtaş il Partito democratico del Popolo (Hdp)- formazione politica filocurda- conquista il 12,7 % dei voti, supera la soglia del dieci % ed entra nel parlamento per la prima volta nella storia del paese, diventando la principale forza di opposizione al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdoğan. Il Partito democratico del Popolo rappresenta il braccio politico della minoranza curda, presente in particolar modo nel sud-est della Turchia, se si considera che il tanto vituperato Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare e braccio armato dei Curdi) è costretto a portare avanti le proprie attività in clandestinità, in quanto osteggiato dal regime di Erdoğan perché ritenuto un movimento terroristico. Il partito di Demirtaş dal 2015 ha cercato di raccogliere a livello nazionale l’eredità culturale del Partito Repubblicano Popolare, formazione politica di tradizione kemalista, che fino a quel momento era stato l’unico partito d’opposizione al regime, peraltro con scarsi risultati.

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Ma nel pieno delle epurazioni erdoganiane, dopo il fallito golpe del Luglio del 2016, l’élite del partito filocurdo viene colpita da una serie di arresti nella notte del 4 novembre, con l’accusa di essere complici del Pkk. Tra gli arrestati ci sono i leader dell’Hdp, il già citato Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ. La strana coincidenza in questi ultimi avvenimenti è che il governo turco circa due settimane prima aveva abolito l’immunità parlamentare, spianandosi di fatto la strada per una repressione immediata contro l’opposizione curda. In questo contesto proseguono le “purghe” erdoganiane, che il regime vuol far passare come una sorta di riforma o snellimento della pubblica amministrazione, dopo il colpo di stato fallito clamorosamente da parte delle alte sfere dell’esercito.

A poche ore dalla vittoria inaspettata di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, il primo ministro turco Binali Yildirim congratulandosi con il nuovo presidente ha ribadito la richiesta di estradizione del magnate e imam Fethullah Gülen, ritenuto la mente del golpe in Turchia, esprimendo inoltre l’auspicio che gli Stati Uniti mostreranno la dovuta sensibilità rispetto al problema del terrorismo in Turchia. Erdoğan sembra davvero ostinato nel perseguire il suo progetto ambiziosissimo di diventare il nuovo “Mustafa Kemal” rovesciato. A qualunque costo e con qualsiasi mezzo.

Gian Marco Sperelli

AFGHANS WEIGH IN ON US PRESIDENTIAL CANDIDATES

D. Parvaz | Al Jazeera | 8 Novembre 2016

Kabul, Afghanistan – L’esito delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti ha un impatto di vasta portata, e nella capitale dell’Afghanistan alcuni hanno idee precise su chi vorrebbero vedere in carica: il candidato repubblicano Donald Trump o il candidato democratico Hillary Clinton.

Questo è il paese dove la guerra degli Stati Uniti è stata una partita lunga iniziata dal 2001. È dove i droni statunitensi e gli attacchi aerei della NATO hanno ucciso gli obiettivi di al-Qaeda e i civili allo stesso modo. È anche il luogo dove un ritiro delle truppe degli Stati Uniti ha determinato un aumento attacchi dei talebani e l’aumento delle vittime civili.

Per gli afghani, ciò che gli americani decidono dall’altra parte del mondo potrebbe avere conseguenze di vita o di morte.

“Purtroppo, ci sembra aver comunque perso in questa elezione. Nessuno dei due candidati sembra avere un piano per l’Afghanistan”, ha detto Bashir Ahmad Qasani, che copre la politica per la prima TV dell’Afghanistan. La vicinanza del voto sta creando nervosismi, soprattutto in riferimento ad alcune delle affermazioni di Trump – come il suo voler impedire ai musulmani di entrare negli Stati Uniti. “La signora Clinton sarà una scelta migliore, perché lei capisce i problemi delle donne in tutto il mondo”, ha detto Hellai Amiri, 35. “E qui, in Afghanistan, abbiamo un sacco di problemi – con la sicurezza, nei luoghi di lavoro, a casa, nella società”.

“La conoscenza di Hillary Clinton dell’Afghanistan e della regione è un bene per noi, quindi, avrebbe a che fare con qualcosa con cui lei è stata impegnata un certo numero di anni. Più di due decenni. Il suo interesse per l’Afghanistan è cominciato quando i talebani erano al potere e con i problemi delle donne”.

Tuttavia, questo tipo di esperienza, ha detto Moradian, “può avere un proprio svantaggio”. “Ciò significa rafforzare lo status quo e come al solito non è quello di cui l’Afghanistan ha bisogno. Abbiamo bisogno di nuove idee”.

“Con Trump arriva la crudezza, e l’Afghanistan è una specie di vaso di Pandora”, ha detto Moradian, aggiungendo che i cambiamenti dovrebbero avvenire a Washington.

Trump manca di esperienza politica, ha detto, ma ha aggiunto: “La politica internazionale è come il mondo delle imprese. Non ha alcuna regola, è pieno di concorrenza e di pugnalate alle spalle. E Trump ha esperienza nel mondo aziendale. Tutti si impegnano nel doppio gioco, e Trump ha il potenziale per giocare a quel gioco “.

I democratici, ha detto, hanno permesso di farsi manipolare da tutti nella politica globale, gli Stati Uniti sono stati pugnalati alle spalle dai talebani, dai signori della guerra afghani, da parte di Teheran, da parte di Mosca, da tutti.”

Il suo un consiglio per il futuro presidente degli Stati Uniti: “Riconsiderare gli amici – quelli in Afghanistan e quelli della regione”.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Articolo originale

ERDOGAN: SYRIAN KURD FORCES USED TO TAKE RAQQA ‘NAIVE’

Al Jazeera | 8 Novembre 2016

ll presidente della Turchia ha detto lunedì che è “ingenuo” usare  i combattenti curdi siriani per riprendere Raqqa, roccaforte di ISIS. “Nessuno al mondo può sostenere questo atteggiamento ingenuo, attaccare Daesh con un’altra organizzazione terroristica”, ha detto Recep Tayyip Erdogan. Erdogan ha chiamato i gruppi curdi siriani che combattono contro ISIL “un ramo laterale” del Partito dei lavoratori del Kurdistan della Turchia (PKK), e ha criticato gli Stati Uniti per il supporto di tali gruppi.

“L’uso di forze non arabe per liberare Raqqa non contribuirà alla pace”, ha aggiunto il vice primo ministro della Turchia Numan Kurtulmus.

“La legittimità non può essere garantita con la partecipazione delle organizzazioni terroristiche armate. Si richiede la partecipazione di stati legittimi e le loro forze armate”, ha aggiunto il reporter di Al Jazeera Mohammed Adow, riferendo da Gaziantep sul confine della Turchia con la Siria.

La Turchia ha lanciato un’operazione all’interno della Siria nel mese di agosto a fianco delle forze ribelli alleate che sono riuscite a conquistare Jarabulus e l’importante città di Dabiq, strappandola all’Isis. Uno degli obiettivi dell’operazione è anche verificare l’avanzamento dei curdi siriani; le forze turche hanno effettuato attacchi aerei contro le posizioni curdi nel nord della Siria.

Traduzione e sintesi di Giada Martemucci

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LE ELEZIONI AI TEMPI DEGLI HACKER

“Bisogna aspettarsi di tutto in politica, dove tutto è permesso, fuorché lasciarsi cogliere di sorpresa”. Questa frase sembra cucita su misura per l’abito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma anche per un abito molto più grande e generale, come quello della politica dei nostri tempi. Un’epoca segnata dalla minaccia degli hacker.

11 luglio. Attacco hacker alla portaerei americana Ronald Reagan. La rivelazione è di FireEye, una società americana di sicurezza informatica. Il giorno prima della sentenza della Corte Arbitrale dell’Aia, che condannerà di fatto l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, alcuni funzionari di governo vengono inondati da mail infette mentre si trovano a bordo della portaerei statunitense. Secondo gli esperti (pur non avendo prove certe) l’attacco proviene dalla Cina, la quale cercava in questo modo di carpire informazioni sulle manovre e sugli spostamenti americani. La notizia verrà riportata solo il 21 ottobre dal Financial Times.

21 ottobre. Attacco hacker sulla costa orientale degli Stati Uniti. Netflix, Twitter, Spotify, Cnn, New York Times, eBay, Visa sono soltanto alcuni dei siti internet che sono rimasti inaccessibili per ore. Dyn, colosso del web hosting (ovvero traduce i nomi in indirizzi IP) statunitense, è stato sovraccaricato da informazioni inutili. Sembra siano stati tre gli attacchi hacker durante la giornata, ma i motivi non sono ancora chiari.

La cyber-guerra fredda. Non c’è dubbio: è un’espressione rischiosa quella che si sta sentendo sempre di più in questi giorni. Come definire però altrimenti il conflitto tra gli Stati Uniti e la Russia di queste ore?

In questa campagna elettorale la Russia non ha certo nascosto di vedere di buon occhio l’elezione di Donald Trump e già da tempo si sono verificati molti cyber-attacchi diretti a destabilizzare le elezioni presidenziali; non è dunque un’eventualità impossibile quella di assistere a un attacco hacker da parte dei russi proprio il giorno del voto. Di conseguenza Obama, tramite il suo vice Joe Biden, ha fatto sapere che hacker del Pentagono sono riusciti a far già breccia nei sistemi di sicurezza del Cremlino e se si dovesse verificare un cyber-attacco diretto contro gli Stati Uniti da parte della Russia nel giorno delle elezioni, Obama risponderebbe con la stessa moneta.

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Le email di Hillary Clinton. Inoltre, tutti ne abbiamo sentito parlare negli ultimi mesi, la campagna elettorale americana si è infervorata in seguito allo scandalo riguardo alle email di Hillary Clinton mentre era Segretario di Stato. Proprio negli ultimi giorni Assange, fondatore di WikiLeaks, rilancia le sue accuse contro il candidato democratico: “La Clinton ha voluto la guerra in Libia. E lo si può vedere chiaramente dalle sue email”.

Lo scandalo emailgate va avanti da mesi con uno scambio di accuse tra l’FBI, rea di perseguire oltremodo la candidata democratica, e Hillary, sulla quale si vuole fugare qualsiasi dubbio. Pare che proprio in queste ore James Comey, numero uno dell’FBI, abbia dichiarato che le conclusioni sulle recenti email siano le stesse del cinque luglio scorso: Hillary Clinton non verrà incriminata.

Etica e governo. Oltre tutti questi casi particolari, si potrebbe tentare di fare un discorso più approfondito riguardo all’hackeraggio. Le stime sulle perdite a causa di questo fenomeno nell’ultimo anno ammontano a circa 315 miliardi di euro e la diffusione della tecnologia in tutto il pianeta fa in modo che sempre più governi, chi più, chi meno, abbiano a che a fare con gli hacker.

Ma un uomo fin dove può arrivare per far valere le proprie ragioni? Che limiti e qual è la libertà che deve considerare un hacker per la diffusione di informazioni segrete? Sono domande a cui è difficile dare una risposta: probabilmente gli hacker da un lato aumentano la preoccupazione dei governi, che temono di essere “scoperti” da un momento all’altro, e dall’altra parte sono semplicemente un incentivo all’onestà.

Si ritorna fondamentalmente al tema della verità: è giusto dirla, ma può essere anche molto pericoloso. Addirittura alcune volte dire la verità può risultare uno sforzo inutile, soprattutto se non c’è nessuno che vuole sentirla.

Simone Stellato

MOSUL NEIGHBORS WAKE UP TO A DAY WITHOUT ISIS

Tim Arango | The New York Times | 2 Novembre 2016

Per la prima volta in più di due anni, i residenti della parte orientale di Mosul hanno goduto di una giornata senza lo Stato islamico. Alcuni uomini fumavano sigarette, mentre altri le avevano nascoste dietro le orecchie. Stavano celebrando la vittoria delle forze irachene sullo Stato Islamico nella loro area, assaporando alcuni dei piccoli piaceri proibiti in più di due anni di governo militante.

“Siamo molto, molto felici”, ha detto un uomo, Qais Hassan, 46 anni, circondato da soldati. “Ora abbiamo la nostra libertà”. Lo Stato Islamico, ha detto, “ci ha chiesto di incrementare la religione. Ma loro non avevano nulla a che fare con la religione”.

I soldati iracheni hanno visto in prima persona ciò che era la vita a Mosul sotto il dominio dello Stato Islamico imposto nel 2014. Ma hanno anche intravisto alcune delle sfide che ci attendono, spingendo contemporaneamente la lotta verso il centro della città e andando verso l’instaurazione di un’autorità governativa. Nel quartiere recentemente liberato, le truppe antiterrorismo – la maggior forza di combattimento professionale dell’Iraq – cercavano di essere attenti a non alienare i civili. Questa non è l’unica battaglia che sarà combattuta e molti hanno paura di attacchi e vendette nelle aree liberate. Un rapporto di Amnesty International pubblicato mercoledì ha affermato che una milizia tribale che ha partecipato all’offensiva ha torturato i detenuti nei villaggi liberati vicino Mosul.

I cittadini di Mosul non aspettano altro che potersi di nuovo sentire cittadini iracheni. “L’amore per il paese è più grande dell’amore per la religione”, ha detto Hassan, cittadino di Mosul. “Ora lo abbiamo capito”. Il signor Sharif, suo amico, ha detto: “Ora, sì, siamo con l’esercito iracheno, con la legge, con l’Iraq”. Con le forze irachene ora all’interno della città, l’attenzione si concentrerà presto sulla questione politica, cioè se i politici, dopo la battaglia, riusciranno a riunire le comunità di Mosul – sunniti, sciiti, cristiani, yazidi e altri – come parte attiva per riunificare il paese. Nella lunga storia dell’Iraq, le conseguenze politiche delle guerre hanno solitamente portato a conseguenze peggiori.

“Credo che i politici abbiano imparato una lezione con Mosul”, ha dichiarato in una recente intervista al New York Times Brig. Gen. Abdul-Wahab al-Saadi, comandante di una delle forze speciali: “Devono fare il loro lavoro”.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

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IL NUOVO FRONTE “FREDDO” TRA STATI UNITI E RUSSIA

Come ormai noto, da diversi mesi la corsa alla Casa Bianca è accompagnata da delle attività cibernetiche “parallele” volte a destabilizzare la realtà politica e sociale degli Stati Uniti. Gli attori coinvolti in questo scenario, oltre agli Stati Uniti, sembrerebbero essere la Russia e la Cina (anche se la partecipazione attiva del Governo cinese non sembrerebbe ancora confermata).

Negli ultimi giorni si è assistito ad un forte inasprimento dei toni e delle accuse reciproche, portando gli Stati Uniti a formulare un atto di accusa ufficiale nei confronti della Russia nella giornata del 7 Ottobre.

Ciò che ha portato i 2 Paesi sull’orlo di una guerra cibernetica è stata la violazione dei server del Partito Democratico americano (tralasciando in questa sede quanto accaduto in relazione alle Olimpiadi di Rio, con la pubblicazione di documenti ufficiali della WADA – World Anti-Doping Agency – riguardanti test eseguiti su vari atleti statunitensi, risultati positivi a diverse sostanze dopanti; la pubblicazione di questi report fù una “risposta” all’esclusione di molti atleti russi, anch’essi positivi all’antidoping), con la conseguente pubblicazione da parte WikiLeaks di migliaia di mail della candidata Hillary Clinton. Ovviamente, tutte le accuse sono state respinte al mittente dalla Russia, che ha mostrato inoltre il suo non gradimento alle affermazioni del Vice Presidente Joe Biden sulla preparazione di un’importante azione cibernetica offensiva nei confronti della Russia, già pianificata, in grado di mettere in ridicolo il Presidente Putin agli occhi dei cittadini russi e del mondo intero. Risulta necessario quindi aprire una piccola parentesi che ricostruisca i fatti, specificando brevemente gli attori coinvolti.

Per ciò che concerne gli attacchi contro i server della WADA, tutte le accuse sono state dirette contro un gruppo di hacker conosciuto con il nome di Fancy Bears (cugini degli Energetic Bears, prevalentemente indirizzati a colpire le infrastrutture critiche sul territorio europeo), ma in realtà collegato direttamente al G.R.U. e al FSB (le due agenzie di intelligence della Russia). Ma come mai questo collegamento automatico con la Russia prima, e con il Governo russo dopo? Analizzando brevemente i gruppi maggiormente operativi, avremo più chiarezza.

Secondo il “NATO Cooperative Cyber Defence” di Tallin, i gruppi di hacker attualmente operanti possono essere ricondotti a 2 unità: “Advanced Persistent Threat” Group 29 e 28.

L’ APT 29 ha avuto come obiettivo quello di ottenere informazioni, ovviamente in modo illecito, strettamente connesse agli interessi geopolitici della Russia (vedasi ultimi accadimenti legati all’Ucraina); altri obiettivi con priorità risultano essere Istituzioni internazionali, think tanks e centri di formazione, con l’elemento comune di trattare tematiche di security.

L’APT 28 (conosciuto anche come Tsar Team/Sofacy/Pawn Storm) risulta essere particolarmente attivo contro Enti pubblici e organizzazioni private operanti nel mondo security, come i gemelli dell’APT 29, concentrando però le loro attività nella ricerca delle cosiddette “zero-day vulnerabilities” e nel loro “exploit”, riuscendo ad aggiornare sistematicamente i loro tool e rendendoli in grado di attaccare anche device mobili.

Il modus operandi dei gruppi risulta essere particolarmente efficace ma, allo steso tempo, richiede importati efforts sia in termini economici che di gestione e implementazione dei vari tools a loro disposizione. Inoltre, l’analisi dei codici effettuata dagli hacker forensi americani, ha rilevato un buon livello di complessità degli attacchi lanciati. Queste considerazioni, unite alle rilevazioni degli orari degli attacchi (che risultano essere sempre in fascia UTC + 4, Russia, dal 2007 al 2014) e alle diverse sospensioni degli attacchi in corrispondenze di festività russe, fanno pensare che dietro a questo gruppo possa esserci un attore dotato di importanti risorse finanziarie che permettano la continua evoluzione delle “armi cibernetiche”, capacità di gestione e coordinamento di una struttura operante 24/7/365, con forti interessi sui contesti geopolitici internazionali.

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Ad oggi quindi, l’amministrazione Obama considera come responsabile degli attacchi il Presidente Putin, considerandolo un nemico della democrazia e degli Stati Uniti. Allo stesso tempo però, il candidato alla Presidenza Donald Trump, plaude agli attacchi contro il partito democratico ed a WikiLeaks, invitando più volte gli hacker russi a smascherare la sua diretta rivale Hillary Clinton. Questo atteggiamento incoraggiante da parte di Trump, oltre che renderlo il primo candidato della storia degli Stati Uniti chiaramente schierato a favore della Russia, porta i suoi frutti: agli inizi di Ottobre, nella stessa giornata in cui “The Washington Post” pubblicava la nota in cui Trump esprimeva i suoi particolari istinti sessuali, veniva violato l’account privato del Presidente della campagna elettorale democratica, John Podesta.

In questo scenario, le continue affermazioni del Presidente Obama volte ad accusare la Russia degli attacchi informatici (oltre che del mancato rispetto degli accordi sull’intervento in Siria), sembrano rappresentare più degli spot a favore della candidata dei democratici americani, per diverse ragioni:

  • Qualora fosse stato realmente pianificato da tempo un attacco cibernetico clandestino su larga scala contro la Russia, perché rivelarlo? Gli effetti di deterrenza di un tale annuncio sembrano essere quasi inesistenti e volti soltanto ad aumentare i livelli di tensione tra le due potenze nucleari;
  • Qualora un attacco del genere fosse già pianificato e pronto ad essere lanciato, ammettendo come logico un annuncio in merito, perché farlo annunciare dalla CIA e non dalla NSA (attore principale su queste tematiche)?
  • Dalle informazioni che si hanno al momento, l’attacco non avrebbe come obiettivo la neutralizzazione di un network infrastrutturale critico per la Russia, ma rappresenterebbe comunque un “precedente” pericolo di attacco ufficiale nei confronti di un altro Paese (senza peraltro avere delle basi certe al 100% della provenienza governativa degli attacchi) che potrebbe essere utilizzato da altri Paesi in un futuro non troppo lontano;
  • Tutto ciò che avviene all’interno del dominio cibernetico ha delle ripercussioni sul mondo fisico e reale, sia per la ormai assodata convergenze fisico-logica delle infrastrutture critiche, sia perché una parte di codice malevolo diretta contro un determinato target potrebbe diffondersi a macchia d’olio e colpire in modo indiscriminato.

     

Al netto delle considerazione di cui sopra, è fondamentale ricordare anche le ripercussioni di una risposta all’attacco (certa in termini di probabilità e con tempistiche ovviamente rapide). Per dare una rapida idea, basta fare un piccolo esercizio di pensiero: chi subirebbe più danni (in senso ampio del termine) da un attacco di questo genere? Considerando l’effetto delle dipendenze ed interdipendenze dei sistemi, basta tenere a mente che il centro dell’economia e della finanza mondiale non è in Russia, ma negli Stati Uniti..

Risulta fondamentale quindi stabilire e capire il valore delle minacce legate al dominio cibernetico, ormai sempre più diffuse ma spesso utilizzate come “warning” in risposta ad azioni compiute nell’universo fisico, come dislocamenti di truppe non graditi, creazioni di basi avanzate o il dotarsi del missile nucleare Satan 2.

Mauro Pastorello

Ricercatore ITSTIME
Security Manager Sicuritalia Professional Service