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L’eredità di Alcide De Gasperi
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Democrazia e Libertà

UNA “NUOVA” GUERRA FREDDA? CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’ TRA IL SISTEMA BIPOLARE E L’UNIPOLARISMO SFIDATO

Settima puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Gabriele Natalizia*

È in corso una “nuova” Guerra fredda? La domanda circola sempre più incessantemente negli ambienti politico-diplomatici e nel dibattito accademico. Una tendenza confermata dalla pubblicazione di volumi come The New Cold War di Edward Lucas (2014) o Return to Cold War di Robert Legvold (2016) e dei recenti numeri di Foreign Affairs e The Economist, rispettivamente intitolati Putin’s Russia Down But Not Out (3/2016) e Putinism (Oct 22nd 2016). Il dibattito, peraltro, ha ormai generato un effetto spill over. È uscito dai circuiti ristretti degli specialisti della materia, occupando spazi importanti anche sui mass media, tanto da divenire un fenomeno percepito dall’opinione pubblica mondiale.

Il ricorso alle categorie del passato, tuttavia, rischia di impedire l’effettiva comprensione delle dinamiche del presente e conferma la lentezza della lingua e della cultura a rispondere agli stimoli provenienti dalla realtà. Il concetto di “nuova” Guerra fredda, infatti, se da un lato coglie alcuni elementi di continuità tra il sistema bipolare e l’assetto internazionale contemporaneo, dall’altro lascia in un cono d’ombra alcune – rilevanti – discontinuità tra le due fasi storiche.  

Tra gli elementi di continuità, alcuni sembrano particolarmente significativi. Il primo rappresenta la condicio sine qua non dell’intero dibattito. A differenza degli anni Novanta e, anche se in misura minore, degli anni Duemila, attualmente l’esistenza di una sfida al potere degli Stati Uniti sembra un dato oggettivo e non un esercizio intellettuale o un wishful thinking. Il cambio di passo è stato ufficializzato direttamente da Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007, quando il presidente russo parlò di un’incompatibilità tra il primato globale americano e l’idea di democrazia e delle disfunzioni del sistema unipolare. A partire dalla Guerra russo-georgiana del 2008, alle parole sembrano essere seguiti i fatti secondo un climax ascendente. 

Un secondo elemento di continuità è il fatto che il confronto tra Stati Uniti e Russia non si svolge solo nella dimensione politico-strategica e attraverso gli strumenti dell’hard power ma, come avvenuto durante la Guerra fredda, anche nella dimensione delle idee. Se dal triennio 1989-1991 era scaturita la teoria della fine della storia, che parlava anzitutto del tramonto dei modelli politici antagonisti a quello liberal-democratico e postulava l’esaurimento del soft power di quegli attori che avrebbero comunque continuato a riempire le cronache dei giornali con la loro opposizione all’Occidente, la Russia di Putin ha posto la parola fine sulla validità di queste previsioni. Mosca, infatti, ha sviluppato un suo originale assetto politico e affinato nuovi strumenti per competere con gli Stati Uniti nella battaglia per “le menti e i cuori”. La cosiddetta “democrazia sovrana” è un mix tra fragili vincoli al potere esecutivo, elezioni formalmente libere, libertà economica limitata e uno spiccato nazionalismo. Questa ha contribuito alla stabilizzazione del Paese e al superamento delle crisi economiche degli anni Novanta, diventando oggetto di emulazione negli Stati post-sovietici. La classe dirigente putiniana, inoltre, si è dotata di un nuovo potere di “persuasione”, meglio noto sotto l’etichetta di Russkiy Mir (“mondo russo”, ma anche “pace russa”). Secondo questa formula, Mosca non solo si propone quale garante dei diritti delle popolazioni russe e russofone che vivono al di fuori dei confini nazionali ma, nell’ambito di un sistema di appartenenze fondato su cerchi concentrici, rivendica tale ruolo anche nei confronti dei popoli cristiano-ortodossi, dei cristiani d’Oriente, nonché dei cosiddetti “compatrioti”, ossia quanti avvertono un legame spirituale e culturale con la Russia. 

Infine, un ultimo elemento di continuità è il duplice livello su cui prende forma la competizione tra Washinton e Mosca. Non riguarda, infatti, la sola sfera internazionale e i rapporti interstatali, ma all’interno degli Stati “in bilico” insiste sulla tipologia di regime per cui optare. L’allineamento con gli Stati Uniti e i Paesi NATO si sovrappone con la scelta – o, quanto meno, con il tentativo – di adottare istituzioni e procedure tipiche della liberal-democrazia (Paesi dell’Europa dell’Est che hanno aderito alla NATO, Ucraina, Georgia, Moldova), mentre l’allineamento alla Russia corrisponde allo sviluppo di un sistema di gestione del potere simile alla “democrazia sovrana” o allo scivolamento verso un autoritarismo compiuto (Bielorussia, Armenia e alcuni Paesi dell’Asia centrale). Solo l’Azerbaigian e il Turkmenistan sfuggono a tale lettura per la neutralità politica che cercano di mantenere e i rapporti con altri attori forti dell’area (Turchia e Iran) che subentrano nella loro equazione strategica.

Sebbene gli elementi di continuità siano rilevanti, quelli di discontinuità non sono da meno. Anzitutto, alcuni indicatori relativi alle differenti componenti del potere fanno apparire incommensurabili la dialettica Casa Bianca-Cremlino della Guerra fredda e quella odierna. Ancora negli anni Ottanta le due superpotenze avevano un coefficiente di potenza militare pressoché equivalente e si trovavano al centro di due sistemi economici altrettanto ampi. Nel 2015, invece, gli Stati Uniti hanno sostenuto il 36% della spesa militare globale mentre la Russia il 4% (anche se la Russia spende di più in proporzione al suo PIL, fonte: SIPRI) e, similmente, i primi nel 2014 hanno prodotto il 18% del PIL mondiale contro il 3% della seconda (fonte: World Data Bank). Va ricordato, inoltre, che non solo la liberal-democrazia è l’unica formula politica a essere sopravvissuta alle tragedie del XX secolo, ma è anche l’unica che resta in grado di esercitare il suo fascino in ogni angolo del globo. Viceversa, la formula del Russkiy Mir è priva di quella carica universalista che aveva contraddistinto il comunismo. Anche nella dimensione del soft power, quindi, il raggio di azione della Russia odierna è molto più circoscritto rispetto a quello dell’Unione Sovietica. Se quest’ultima era una superpotenza e costituiva l’altro “polo” del sistema internazionale, la Federazione Russa è “solo” una grande potenza regionale. 

La più immediata conseguenza della differente collocazione di Mosca nella gerarchia del potere internazionale nelle due fasi, è la differente ampiezza che intercorre tra il perimetro politico-strategico della Guerra fredda e quello attuale. Globale il primo, come indicato da un confronto che si realizzava dalla Corea fino al Cile contaminando qualsiasi dialettica tra forze politiche contrapposte praticamente in ogni Stato. Il secondo, al contrario, ha una portata molto più limitata. La sfida della Russia, d’altronde, agisce evidentemente solo in aree ad essa geograficamente o culturalmente prossime, come la “nuova Europa orientale” (Ucraina, Bielorussia e Moldova), il Caucaso meridionale (Armenia, Azerbaigian e Georgia) e i Balcani sud-occidentali (in particolare Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia). Differente, invece, è il caso del Medio Oriente, dove il rilancio dell’influenza russa si realizza nell’ambito di una strategia attuata di concerto con l’Iran e i suoi alleati. Negli altri quadranti geopolitici, inoltre, Mosca non è un attore decisivo, né ha interessi vitali in gioco. Contrariamente all’immagine avanzata dalle teorie sulla globalizzazione, quindi, la vita politica internazionale sembra caratterizzata da logiche prevalentemente regionali piuttosto che globali, il cui vettore esclusivo di connessione è la capacità degli Stati Uniti di proiettare potenza in tutti i teatri. Tale condizione fa sì che le tensioni presenti fuori dallo Spazio post-sovietico, dai Balcani e, più di recente, dal Medio Oriente non si ricolleghino in alcun modo al confronto Washington-Mosca, né rendano verosimile lo scenario dello scoppio di nuova guerra mondiale, che era sempre stato all’orizzonte nel periodo bipolare. 

Da questi primi due elementi di discontinuità, deriva l’odierna differenza tra le poste in gioco. Quella russa è solo una – anche se la più evidente e preoccupante – delle forme di contestazione all’unipolarismo americano. A differenza dell’URSS, l’obiettivo della Federazione Russa non è più l’instaurazione di un’egemonia globale, ma il ripristino del suo primato sui territori del cosiddetto “Estero Vicino”, il ritorno a una condizione di grande potenza che la faccia “pesare” nei quadranti a essa immediatamente limitrofi e la ridefinizione multipolare del sistema internazionale (o, meglio, tripolare: Stati Uniti, Russia, Cina).

In conclusione, nonostante la carica evocativo-simbolica suscitata dalle tensioni tra Washington e Mosca, il diretto coinvolgimento di quasi tutti i Paesi europei per via della loro membership alla NATO e la scomoda posizione geopolitica del nostro continente dovuta alla sua contiguità territoriale con la Russia, la percezione dello scontro in atto è più ampia della sua realtà effettiva. I rapporti tra le forze in campo, il perimetro dello politico-strategico della competizione e la sua posta in gioco restano – almeno per il momento – circoscritti. Non bisogna escludere, inoltre, che una volta esaurito il periodo della lame duck negli Stati Uniti e con l’ingresso alla Casa Bianca del nuovo presidente, la politica della Russia di Vladimir Putin non torni ad essere ispirata da maggiore prudenza e disponibilità alla cooperazione.

* Ricercatore Link Campus University, Centro Studi Geopolitica.info

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane

UNESCO APPROVES NEW JERUSALEM RESOLUTION

Al Jazeera | 27 Ottobre 2016

Il comitato per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO ha approvato una nuova risoluzione sullo stato di conservazione della Città Vecchia di Gerusalemme. Durante lo scrutinio segreto di mercoledì, l’organismo culturale delle Nazioni Unite ha deciso di mantenere l’area del muro, luogo sacro per musulmani, cristiani ed ebrei, sulla lista del patrimonio mondiale in pericolo.

Essa ha anche criticato Israele per il suo continuo rifiuto di far accedere gli esperti del corpo nei luoghi santi di Gerusalemme per determinare il loro stato di conservazione.

Il documento si riferisce al sito di Gerusalemme solo con il suo nome arabo.

I musulmani lo chiamano al-Haram al-Sharif, in arabo “il Nobile Santuario”: il sito comprende la moschea di al-Aqsa e la cupola dorata. Il palestinese Saeb Erekat ha detto che il voto di UNESCO mirava a ribadire l’importanza di Gerusalemme per il cristianesimo, ebraismo e islam.

“Si chiede il rispetto dello status quo dei suoi luoghi di culto, tra cui il composto di al-Aqsa, che continua ad essere minacciato dalle sistematiche azioni provocatorie del governo israeliano e di gruppi ebraici estremisti”, ha detto Erekat.

La risoluzione è stata approvata da 21 paesi membri del Comitato del Patrimonio Mondiale. Dieci paesi hanno votato a favore, due contro, otto si sono astenuti e uno era assente.

Makram Queisi, l’ambasciatore giordano all’Unesco, ha detto che il Comitato per il Patrimonio stava cercando di affrontare la questione da un “punto di vista tecnico”.

Israele aveva già sospeso i finanziamenti all’Unesco, quando l’adesione palestinese è stata approvata.

Né Israele, gli USA né la Palestina sono nel Comitato del Patrimonio Mondiale.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha criticato la decisione di mercoledì e ha detto che avrebbe richiamato il suo ambasciatore all’Unesco per ulteriori consultazioni su come procedere.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Articolo originale: UNESCO approves new Jerusalem resolution – Al Jazeera

 

THE THREAT FROM RUSSIA

The Economist | 22 Ottobre 2016

Ogni settimana Vladimir Putin trova nuovi modi per spaventare il mondo. Dal recente trasferimento di missili con capacità nucleare vicino alla Polonia e alla Lituania, all’invio di un gruppo di portaerei lungo il Mare del Nord e il Canale della Manica. Ha minacciato di abbattere qualsiasi aereo americano che attacca le forze del despota siriano, Bashar al-Assad. La tensione aumenta, soprattutto nei rapporti con gli Stati Uniti ma Putin fermamente dichiara: “Se una lotta è inevitabile, si deve colpire per primi”.

E il primo passo per rispondere a tale minaccia è capire che la belligeranza russa è il segno di una malattia cronica. Il Pil russo è cresciuto del 7% l’anno all’inizio del regno di Putin, ma ora l’economia è in calo. Le sanzioni sono in parte responsabili, ma la corruzione e un calo del prezzo del petrolio hanno sicuramente inciso maggiormente. Putin ha cercato di compensare la vulnerabilità dello stato russo con l’aggressività in politica estera, ma a differenza di leader sovietici dopo Stalin, Putin governa da solo.

Obama, che in genere dice sempre le cose giuste, rispetto al “putinismo” sembrava abbastanza duro nel corso di una conferenza stampa di questa settimana; nonostante ciò, Putin ha appreso che egli può sfidare l’America. Le sanzioni occidentali danno al popolo russo un nemico contro cui schierarsi.

Che cosa dovrebbe fare l’Occidente? Il tempo è dalla sua parte. 

Un errore di calcolo sulla politica russa potrebbe portare ad una escalation incontrollata, l’America deve continuare a impegnarsi in colloqui diretti con Putin anche quando l’esperienza è scoraggiante.

I colloqui devono includere il controllo nucleare, nonché il miglioramento delle relazioni militari nella speranza che le armi nucleari possano essere tenute separate dagli altri aspetti come lo erano ai tempi dell’Unione Sovietica.

Un’altra area di controversia sarà la politica della Russia nei confronti degli stati esteri più vicini. La crisi in Ucraina mostra come Putin cercchi di destabilizzare alcuni paesi: il prossimo presidente degli Stati Uniti deve garantire che, contrariamente a quanto il signor Trump ha detto, se la Russia utilizza queste tattiche contro un membro della NATO, come la Lettonia o l’Estonia, sarà trattato come un attacco contro tutti, e un attacco contro un paese membro della NATO solleverà la possibilità per gli altri stati membri di armare il paese attaccato.

Putin alimenta l’idea che l’Occidente è esclusivamente un sistema corrotto, come la Russia, e che il suo sistema politico è altrettanto truccato. L’intento è quello di creare un Occidente diviso, che ha perso la fede nella sua capacità di plasmare il mondo. In risposta l’Occidente dovrebbe mostrare un’unità inattaccabile.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Qui l’articolo originale

L’AMICIZIA E’ RARA PERCHE’ E’ SCOMODA

La svolta – Rodrigo Duterte, Presidente della Repubblica delle Filippine, ha comunicato da poche ore una decisione in qualche modo storica. In visita di Stato in Cina ha colto l’occasione per annunciare le distanze che intende prendere dallo storico alleato delle Filippine: nientemeno che gli Stati Uniti.

L’occasione – L’opportunità si è presentata la sera del 19 ottobre. Duterte ha incontrato la comunità filippina di Pechino e, sotto gli occhi del vice-premier cinese Zhang Gaoli, ha dichiarato: “È ora di dire addio agli Stati Uniti. Forse andrò anche in Russia a dire a Putin che siamo in tre contro il mondo: Cina, Filippine, Russia”.

Duterte non ha affatto inteso smentirsi il giorno dopo o fare qualche in passo indietro. L’occasione era ghiotta dal momento che il 20 ottobre si riuniva il China-Philippines Economic and Trade Forum: il presidente cinese Xi Jinping e Duterte hanno siglato accordi bilaterali per 13,5 miliardi di dollari. 

L’inversione di rotta – In questa vicenda c’è da fare una distinzione tra due tipi di rotte: quella marittima e quella diplomatica.

La rotta marittima è quella del Mar Cinese Meridionale, una rotta con una storia molto tormentata. La Cina nei mesi scorsi aveva infatti rivendicato alcune isole (in particolare l’arcipelago delle isole Spratly, le cui acque sono ricche di giacimenti petroliferi), ma l’ex Presidente delle Filippine Benigno Aquino aveva osato sfidare la potenza cinese e lo aveva fatto davanti alla Corte Arbitrale dell’Aja. Quest’ultima solo qualche mese fa aveva rigettato le pretese della Cina, dando ragione alle Filippine.

Da allora le relazioni tra i due paesi sono state praticamente inesistenti. Ed è qui che si inserisce la seconda rotta, quella diplomatica. Duterte infatti, di fronte alla possibilità di investimenti concreti, ha invertito la tendenza del suo predecessore Aquino e ha voltato le spalle ad Obama, che aveva sostenuto le Filippine nella contesa con la Cina in un’ottica di contenimento dell’ascesa cinese tra le potenze mondiali.

TRIAD CONNECTION. President Rodrigo R. Duterte shows a copy of a diagram showing the connection of high level drug syndicates operating in the country during a press conference at Malacañang on July 7, 2016. KING RODRIGUEZ/Presidential Photographers Division

Un rapporto tormentato – Per sottolineare ulteriormente cosa significa – per un paese come le Filippine – voltare le spalle agli Stati Uniti, conviene fare qualche passo indietro.

Nel 1898, in seguito alla guerra ispano-americana, gli Stati Uniti evadano assunto formalmente il controllo delle Filippine e solo un anno dopo le tensioni crescenti avevano portato alla guerra filippino-americana, alla quale sarebbe succeduto il dominio americano sulle isole fino al 1946. Il 4 luglio di quell’anno (curiosamente la stessa data dell’Indipendenza americana) si aprì una nuova fase: venne concessa l’autonomia, anche se solo formalmente visto che l’economia delle Filippine era forse ancora più dipendente di prima da quella americana. Per tutta la seconda metà del novecento gli Stati Uniti hanno continuato ad esercitare in parte il loro controllo sulle Filippine (dall’epoca di Marcos fino ad arrivare a quella di Corazon Aquino).

Duterte ha ereditato un paese che in proiezione fa registrare il PIL annuo in crescita del 7% e questi accordi bilaterali erano probabilmente un’occasione che non poteva farsi sfuggire in nessun modo. 

Lo strappo con Washington – La politica di contenimento cinese del secondo mandato Obama passava anche dalle Filippine. La “pax pacifica” era garantita proprio da queste isole e le cinque basi americane sul suo suolo testimoniavano la volontà di costituire l’ultimo baluardo contro il Dragone. 

In queste ore il Presidente delle Filippine sta leggermente mitigando le sue forti dichiarazioni contro Washington, ma alla Grande Sala del Popolo Duterte sembrava deciso a cambiare la storia: “Basta con le ingerenze degli Stati Uniti. Basta con le esercitazioni americane. Non metterò mai più piede negli Stati Uniti, lì sanno solo insultarci. L’America ha perso”.

Simone Stellato

DIBATTITO PRESIDENZIALE, ULTIMO ATTO. NON C’E’ DUE SENZA TRE.

Se è vero che tre indizi fanno una prova, allora Hillary Clinton dovrebbe essere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Chi ha vinto? – Certo, è un incipit provocatorio: in realtà, la questione è un po’ più complessa, e anche se i sondaggi – ogni giorno di più – fanno credere che proprio questo debba essere l’esito finale, non si può certo fischiare ora la fine della partita. In effetti, però, il terzo dibattito presidenziale tra la Clinton e Donald Trump non è stato poi molto differente dai primi due, in termini di impressione generale: l’ex First Lady e Segretario di Stato è andata sicuramente meglio, sia dal punto di vista retorico che da quello contenutistico, anche se più per mancanze dell’avversario che per effettivi meriti suoi.

In modo simile allo scontro precedente, inoltre, si è visto un Donald Trump particolarmente istituzionale nella prima mezzora, ma progressivamente sull’offensiva con il passare del tempo, arrivando all’ormai celebre mitragliata di “wrong…wrong!”, diventati un marchio di fabbrica. Progressione accompagnata dalle domande poste dal moderatore, che – differentemente dalle volte precedenti – ha incalzato i duellanti con domande mirate ed esigenti; purtroppo, dopo i primi 30 minuti si è riacceso il clima da “Far West”, e dalla proposta si è passati all’attacco.

Giustizia – La prima domanda, infatti, a sorpresa si è concentrata su un tema molto specifico, sfiorato la volta precedente: l’elezione della Corte Suprema, per poi affrontare il tema generale della giustizia. I due candidati, a proposito, hanno dato risposte “politiche”, offrendo due proposte diverse, soprattutto in merito al tema delle armi (dove Hillary si pone in modo nettamente più restrittivo di Trump, che invece vanta l’appoggio della lobby di categoria) e dell’aborto (con Donald che si definisce pro-life e Hillary che sostiene l’aborto e la planned parenthood). Il primo round, insomma, si conclude in pareggio.

Immigrazione – L’ambiente comincia a scaldarsi con la seconda questione in gioco: l’immigrazione, che sappiamo essere un tema che divide i due. Trump insiste sulla droga, auspicando la chiusura dei confini per prevenire l’ingresso di eroina nel paese: “bad people have to go out”, e in fondo – afferma – nel 2006 anche la Clinton voleva costruire il muro. Hillary puntualizza che le cose non stanno così, che certamente auspica la sicurezza dei confini ma senza una deportazione di massa; inoltre, lo stesso Trump – dice lei – ha costruito la Trump Tower sfruttando lavoratori irregolari. Dopo aver chiarito un passaggio ambiguo di un suo discorso rivelato da Wikileaks, però, la moglie di Bill devia sul tema “hackeraggio russo”, e quando cita 17 agenzie d’intelligence miliari e civili, ottenendo come risposta da The Donald: “I doubt it”, sembra vincere il passaggio.

 

Economia – Forse per questo, o forse per il tema “economia”, Trump comincia ad essere più irrequieto. Così facendo, però, scade sempre più nella mera offensiva: e se Clinton spiega la sua visione della classe media, del piano per infrastrutture, manifatturiero ed energia e dell’obiettivo di alzare il salario minimo nazionale, lui ripete per l’ennesima volta che i membri della NATO devono pagare, che gli accordi commerciali sono da rifare e che i lavori sono da riportare indietro. Facile no? Del resto, se India e Cina crescono di 7% e 8%, come è possibile che noi cresciamo solo dell’1% (si, l’ha detto veramente)?

Vinca il migliore – Da qui in poi è guerra vera, grazie anche al tema introdotto dal moderatore: “adeguatezza al ruolo”. Apriti cielo. Si sentono, in ordine sparso, accuse e contro-accuse su: molestie sessuali, email, tasse, fondazioni, carriera, ecc.. Le sentenze “Quando perderò ti dirò se riconosco la sconfitta” e “Donald dà sempre la colpa agli altri” chiudono tre quarti d’ora non particolarmente memorabili per la storia della politica a stelle e strisce.

Politica estera – Sul finire, come di consueto, la politica estera. Anche qui, le posizioni sono le stesse già espresse nelle settimane precedenti. Da una parte, quella democratica, ci sono il diniego a dispiegare forze terrestri per colmare un eventuale vuoto di ISIS e la proposta di una no fly zone sulla Siria. Dall’altra, quella repubblicana, c’è la richiesta di rivedere gli accordi NATO, considerando l’eventualità che i membri paghino per la protezione americana; c’è l’accusa all’Iran, o meglio alla politica accondiscendente nei suoi confronti, prima mediante l’accordo nucleare poi con la scellerata strategia in Siria; e c’è la grande boutade finale, ossia che l’offensiva di questi giorni a Mosul è un espediente per far vincere le elezioni a Hillary: “The only reason they did it is because she is running for the office of president, and they want to look tough. They want to look good”.

Il finale, sotto forma di “appello alle masse”, fa emergere la vis politica di Hillary e la vis pugnandi di Donald. Calato il sipario, restano soprattutto i sondaggi, che danno Hillary vittoriosa: nelle due occasioni precedenti, la realtà li aveva confermati. A questo punto, dunque, il finale è apparecchiato per la vittoria democratica.

Giovanni Gazzoli

UNA SETTIMANA DI ESCALATION

La situazione è ”piuttosto negativa, probabilmente la peggiore dal 1973”: così l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite Vitaly Churkin ha commentato – durante un’intervista rilasciata ad Associated Press – la settimana di escalation appena conclusasi.
Diverse infatti sono state le tensioni che, proprio perchè appartenenti ad ambiti diversi e quindi in grado di alterare nella loro eventuale sintesi gli equilibri inter-regionali, hanno animato il dibattito mondiale. Queste le principali:

I missili Iskander a Kalingrad – Considerati tra i vettori più sofisticati nello scenario mondiale, la notizia del dispiegamento di missili balistici Iskander (SS-26 stone) nella città di Kalingrad – enclave russa situata tra Lituania e Polonia – ha destato molta preoccupazione tra i paesi NATO. Capaci di trasportare testate nuclearie ed eludere i sistemi anti-missilistici in dotazione, la loro gittata stimata fino ad oltre i 500 km permetterebbe potenzialmente al Cremlino di colpire Berlino, oltre che tenere sotto minaccia di tiro (cosa peraltro già possibile attraverso il confine russo condiviso con le Repubbliche Baltiche) la Polonia e parte della Germania orientale.

Dopo le tensioni provocate dal reiterarsi di violazioni dello spazio aereo ad opera di caccia russi ai danni di Finlandia, Svezia, Estonia, Lettonia e Regno Unito avvenute nei mesi scorsi, questo fatto ha rapidamente riacceso i vecchi e profondi attriti riguardanti lo ”Scudo Spaziale” che perdurano fin dalla amministazione Bush. Da sempre Putin infatti, nonostante oggi il Cremlino releghi la questione ad una ”normale operazione di addestramento militare”, si è sempre dichiarato pronto ad ”implementare certe contromisure” contro i sistemi anti-missilistici NATO capaci di alterare gli equilibri militari.

Le ambiguità di Ankara – Dopo le violente frizioni con l’Europa in seguito al fallito golpe militare dello scorso 15 luglio, dovute ad una supposta ”mancanza di solidarietà” dei leader occidentali verso la Turchia, ed alle ambiguità di Ankara nella gestione della base di Incirlik, il clima sembrava essersi disteso a seguito delle rassicurazioni fornite dal governo turco alla delegazione dell’assemblea parlamentare NATO in visita nel paese.

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In questi giorni, tuttavia, sembra che i sogni egemoni del sempre più ”sultano” Erdogan si siano risvegliati, portandolo ad una nuova brusca sterzata nei suoi rapporti diplomatici sotto diversi fronti. Deciso ad aumentare la produzione interna di energia, è di pochi giorni fa l’annuncio sulla ripresa della realizzazione del Turkish Stream, giunto a seguito dell’incontro avvenuto il 10 ottobre ad Istanbul tra il presidente russo e quello turco; il precedente accordo era stato sospeso lo scorso anno a causa del deteriorarsi delle relazioni tra i due stati a causa dell’abbattimento di un caccia russo sul confine turco-siriano compiuto dalla Turchia.

Secondo il presidente del CdA di Gazprom, ”i primi lavori per la costruzione del gasdotto Turkish Stream inizieranno nel 2018” ed il suo completamento permetterà alla Russia di esportare il suo gas nei paesi dell’Europa occidentale, tra cui Grecia ed Italia, attraverso un canale atto palesemente a bypassare l’Ucraina che, infatti, non vedrà rinnovarsi il proprio contratto per il transito del gas ulteriormente. Il progetto, inoltre, si combina perfettamente con quello ormai già in essere della prima centrale nucleare ad Akkuyu, nella provincia di Mersin, che consentirebbe ad Erdogan di assicurarsi il 10% del fabbisogno nazionale in energia nucleare.

Altro settore nel quale Erdogan e Putin si sono ripromessi di rafforzare la reciproca cooperazione è quello tecnico-militare. Secondo Ntv, dopo aver cancellato nel 2015  l’accordo con la China National Precision Machinery Import & Export Corporation per i missili cinesi HQ-9, la Turchia sarebbe pronta a ricevere un’offerta dalla Russia per la fornitura di sistemi anti-missile da schierare a propria difesa. Una scelta che, pur non alterando irrimediabilmente gli equilibri regionali, consentirebbe da un lato a Mosca di acquisire un cliente membro della NATO in un momento di frizioni e proprio in un ambito oggetto di tensione, dall’altro permetterebbe ad Ankara di ottenere quella ”indipendenza” che a più tratti ha voluto dimostrare.

Come corollario, infine, il nuovo ambasciatore turco in Russia dovrebbe essere Lazip Dirioz, già segretario generale per la pianificazione e la politica di difesa della Nato.

Il dispiegamento delle Forze Nato – Proseguendo nella strategia decisa e dichiarata pubblicamente durante il Vertice di Varsavia, l’Alleanza Atlantica ha iniziato i procedimenti per il dispiegamento per la prima volta nella sua storia dei battaglioni militari nei Paesi Baltici e nella Polonia orientale, come gesto dimostrativo di contenimento verso la Russia sulla scia della strategia ”deterrenza e dialogo”.
Contestualmente, inoltre, è stato ordinato l’aumento dei pattugliamenti aerei e navali al fine di rassicurare quegli alleati che un tempo erano satelliti dell’Urss e che, soprattutto in questi giorni, si dichiarano fortemente preoccupati per le minacce russe. Quattro i battaglioni previsti per un totale di soldati compreso tra le tremila e le quattromila unità, tutti forniti dai vari paesi membri. Tra questi anche i militari italiani (140 uomini), che partiranno nella primavera del 2017 e contribuiranno con il loro esempio agli sforzi che l’alleanza sta compiendo per rassicurare i propri alleati, come dichiarato dal generale Pavel durante la visita nel nostro paese.

Infine, parlando di Russia, il segretario generale Stoltenberg, nonostante si sia dimostrato preoccupato dai continui bombardamenti su Aleppo e dalle continue attività militari provocatorie su larga scala ai confini dei territori NATO, ha dichiarato che la sua responsabilità è quella di ”prevenire la guerra” e ”conservare la pace”. In quest’ottica va dunque letto il dispiegamento delle forze atlantiche, una logica che prevede contemporaneamente sia la fase di difesa dei propri territori e di rassicurazione degli alleati, sia quella della diplomazia con gli altri attori dello scacchiere geopolitico. Una logica consapevole del fatto che purtroppo, come più volte verificatosi nella storia, il dialogo sincero possa esservi solo a parità di condizioni.

Valerio Gentili

DEATH PENALTY ‘NOT ON THE AGENDA’ IN TURKEY

Al Jazeera | 15 Ottobre 2016

Il ministro del lavoro turco ha accusato gli Stati Uniti di essere i registi del tentativo di colpo di stato e di ospitare la presunta mente del golpe, Fethullah Gülen. Anche il presidente turco porta avanti la tesi secondo cui gli Stati Uniti stanno sostenendo il terrorismo appoggiando i curdi in Siria legati al PKK.

Nel frattempo, l’ipotesi della reintroduzione della pena di morte potrebbe incrementare l’attrito nei confronti dell’Unione Europea, a cui la Turchia sta tentando di aderire.

Il vice primo ministro turco Mehmet Simsek discute le relazioni della Turchia con gli Stati Uniti e l’UE, definendo i legami con gli Stati Uniti “forti” e aggiungendo che la Turchia vede “convergenza di valori con l’UE”.

Sintesi di Giada Martemucci

Di seguito il video originale dell’intervista.

LA RUSSIA DI PUTIN ALLA LUCE DELLE ELEZIONI GEORGIANE

Sesta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Paolo Alli*

Le recenti elezioni politiche in Georgia hanno riportato l’attenzione internazionale su un quadrante geografico assai trascurato, quello della regione caucasica. Si tratta di un’area strategicamente importantissima, in quanto costituisce una cerniera naturale tra la Russia di Putin e le sue strategie espansionistiche, l’Iran e il suo rinato protagonismo e la Turchia, la cui immagine internazionale appare per lo meno appannata dopo il fallito colpo di stato.

La campagna elettorale georgiana è stata estremamente aspra, l’afflusso alle urne di poco superiore al 50%, e le elezioni hanno sancito il trionfo dell’attuale partito di governo, il Georgian Dream, che potrebbe addirittura arrivare ad avere in Parlamento la maggioranza necessaria per la riforma costituzionale. Lo United National Movement (UNM), il secondo partito, ha annunciato la propria intenzione di boicottaggio sulla base di presunti brogli elettorali.

In realtà, gli osservatori internazionali, dei quali ho avuto la possibilità di far parte come capo della delegazione dell’Assemblea Parlamentare della Nato, non hanno rilevato significative irregolarità, al di là della presa d’atto di sporadici incidenti al di fuori di alcuni seggi. L’impressione che ho ricavato dal monitoraggio elettorale è legata alla maturità del popolo georgiano, probabilmente superiore a quella dei propri governanti.

In ogni caso, il dato politico rimane legato al fatto che il 90% degli elettori ha votato per partiti che hanno dei propri programmi l’adesione all’Unione Europea e alla NATO. Non si è trattato, pertanto, di un risultato che in qualche modo abbia decretato significativi cambiamenti nella linea politica del Paese ma, al contrario, di una schiacciante conferma delle aspirazioni euroatlantiche della Georgia.

Alle elezioni, ancora una volta, non hanno partecipato le due province militarmente occupate dai russi: l’Abkhazia e il Sud Ossezia. Se, da un lato, si tratta di province relativamente poco importanti dal punto di vista della quantità di popolazione coinvolta (meno di 300.000 persone in tutto), d’altra parte questa situazione permane assai significativa, ancorchè sottovalutata, per l’Europa. La politica estera russa, infatti, da decenni mantiene sul fianco Est dell’Europa e della Nato alcuni presidi militari che si incuneano dentro territori di paesi che rifiutano l’ipotesi di un proprio ritorno nella sfera di influenza russa. È sufficiente enumerare la Transnistria, la Crimea e il Donbass in Ucraina, e, appunto, le due province della Georgia, senza dimenticare il Nagorno-Karabakh (provincia contesa tra l’Armenia e l’Azerbaijan dove il conflitto iniziato dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica ha già prodotto più di 50.000 morti).

La presenza russa in Georgia appare silenziosa ma è in realtà molto vigile e attiva: la scorsa estate i confini della parte occupata, che distano solo una cinquantina di chilometri dalla capitale Tbilisi, sono stati spostati unilateralmente in avanti dai russi con lo scopo di includere dentro l’area occupata il percorso previsto per il futuro corridoio energetico denominato Southern Stream, che dall’Azerbaijan porterà gas attraverso la Georgia e la Turchia in Europa alimentando il TAP.

Proprio in queste situazioni, apparentementre marginali ma in realtà assai significative, si svela la tattica di Putin che approfitta del ruolo che gli è stato concesso dalla assenza americana e dalla debole risposta europea per rafforzare il proprio posizionamento e cercare di ricostruirsi quel cuscinetto verso ovest, costituito un tempo dai paesi satellite dell’Unione Sovietica. La Federazione Russa è in grado di accendere e spegnere questi piccoli conflitti a suo piacimento, nell’indifferenza generale, utilizzandoli come minacce per le popolazioni caratterizzate da un forte spirito identitario e nazionalista, come l’Armenia, la Georgia, l’Ucraina e la Moldova, quasi ad ammonirli a desistere dal proprio avvicinamento verso l’Europa e l’alleanza euro-atlantica.

Appare sinceramente sbalorditivo che gli osservatori internazionali siano così distratti rispetto a una situazione così densa di pericoli. Siamo molto interessati alle ipotesi di hackeraggio che la Russia avrebbe commesso nei confronti dei sistemi informatici statunitensi o alle legittime preoccupazioni di Angela Merkel per il posizionamento di missili balistici a Kaliningrad, ma trascuriamo quelle situazioni di reale conflitto conficcate nel fianco est dell’Europa.

Un confine, quello europeo, che si allarga inevitabilmente fino alla Russia, sulla spinta del principio di autodeterminazione di popoli che vogliono assolutamente staccare il proprio destino da quello del gigante post-sovietico del quale temono la strategia di riappropriazione neo-imperialista.

Putin sa benissimo che non bastano il pragmatismo georgiano, che comunque non chiude a un dialogo almeno commerciale con la Russia, né il fatto che l’Armenia abbia accettato di aderire al trattato euroasiatico, di fatto costrettavi da una situazione di estrema difficoltà economica, per cancellare o cambiare in modo significativo lo spirito europeista di questi paesi. Quindi ha bisogno della minacciosa presenza militare per tenere sotto controllo queste situazioni ed evitare che esse degenerino in una aperta deriva di questi paesi verso l’Europa. Fatto, questo, che nella sua narrativa indica la volontà della Nato di estendersi ad est ma che in realtà rappresenta soltanto la fotografia di una realtà che dopo decenni di dominazione sovietica vuole riaffermare la propria capacità di autodeterminazione, come già altri paesi dell’ex Patto di Varsavia hanno fatto aderendo all’Unione Europea e alla NATO.

* Deputato alla Camera e Vice Presidente dell’Assemblea Parlamentare della NATO

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi

AMERICA’S RUSSIA POLICY HAS FAILED

Thomas Graham & Matthew Rojansky | Foreign Policy | 13 Ottobre 2016

Qualsiasi criterio si adotti, è chiaro che la politica di Washington nei confronti della Russia ha fallito. Mentre apparentemente soffre di isolamento diplomatico ed economico, Mosca è riuscita a sfidare una vasta gamma di interessi americani, in particolare in Ucraina, Siria, e nel cyberspazio. Un nuovo approccio nei confronti della Russia dovrebbe quindi essere una priorità sia per il presidente Hillary Clinton, sia per il presidente Donald Trump. Finora, tuttavia, nessuno dei due candidati ha offerto una visione che vada oltre i fallimenti del passato.

Le più comuni reazioni statunitensi verso la Russia – da amministrazioni repubblicane e democratiche attraverso tre decenni – sono sempre state basate sulla speranza che Mosca potesse essere completamente sconfitta o che possa diventare una democrazia. Ma la Russia non è una democrazia. Il prossimo presidente deve accettare il fatto che Mosca non può semplicemente essere sconfitta o contenuta nell’ordine mondiale globalizzato emergente. L’obiettivo del prossimo presidente USA dovrebbe comportare la costruzione di una rete di interazioni, sia cooperative e competitive, che produca l’equilibrio più vantaggioso per i nostri interessi nazionali. Ma soprattutto, invece di partire per sconfiggere o trasformare la Russia, un nuovo approccio degli Stati Uniti dovrebbe trattare con la Russia come è realmente. 

1) Gli Usa devono capire che non si tratta solo di Putin

Il prossimo presidente deve abbandonare i due assiomi che hanno afflitto le politiche di Washington  in Russia negli ultimi 25 anni: il primo, che Mosca si oppone agli Stati Uniti a causa della politica non democratica del Cremlino. In secondo luogo, che le aree di accordo tra i due paesi possono essere portate al di fuori dalle zone di conflitto.

È anche essenziale riconoscere che i problemi dell’America con la Russia non si esauriscono con Putin. Si tratta di geopolitica. Putin rappresenta esattamente secoli di tradizione del pensiero strategico russo, e la sua politica estera gode del sostegno delle elite.

La prossima amministrazione ha bisogno di rompere con i suoi predecessori e rendersi conto che le relazioni con Mosca non possono semplicemente essere compartimenti stagni in settori o di cooperazione o di disaccordo. L’amministrazione di George W. Bush, per esempio, senza successo ha cercato di isolare la cooperazione antiterrorismo conseguente all’11/9 dalla concorrenza con Mosca nello spazio ex sovietico. L’amministrazione di Barack Obama spera di proseguire la cooperazione in materia di sicurezza nucleare. Tutte operazioni fallimentari.

2) La questione Ucraina non deve diventare una nuova guerra fredda

L’aggressione russa contro l’Ucraina è stata il punto di svolta che ha aumentato le tensioni e la sfiducia che definiscono il rapporto Stati Uniti-Russia di oggi. Qualsiasi tipo di progresso diplomatico con il Cremlino dipenderà da come il prossimo presidente degli Stati Uniti interpreterà  le ragioni di Mosca in Ucraina. La NATO ha deciso di ruotare nuove forze attraverso gli Stati baltici. Il sostegno dell’Occidente per la riforma politica ed economica in Ucraina – per aiutare a costruire uno stato democratico competente ed aumentare gli standard di vita – è un’altra parte importante della strategia. Un ritiro russo volontaria dall’Ucraina dipende per ora dall’imperfetto accordo di pace di Minsk II firmato a febbraio 2015 da Francia, Germania, Russia e Ucraina. Anche se Washington non è firmataria dell’accordo, gli Stati Uniti possono aiutare a incentivare Minsk collegando sanzioni specifiche.

3) Avere un dibattito onesto con l’Europa

Nel bene o nel male, Mosca mantiene potere sufficiente per influenzare la sicurezza in Europa. In questo ambito, il compito per il prossimo presidente nella definizione della politica degli Stati Uniti sarà isolare alleati europei contro l’azione russa nel breve termine, ponendo contemporaneamente le basi per un accordo di sicurezza europeo più resistente, con la partecipazione russa, nel lungo periodo.

L’obiettivo più urgente ed immediato della prossima amministrazione dovrebbe essere quello di mantenere l’integrità della NATO come garante della sicurezza europea. Washington deve anche rafforzare le capacità di difesa collettiva della NATO, coordinando gli sforzi e le spese; la leadership degli Stati Uniti in questo campo è essenziale, e la credibilità americana in Europa sarà giudicata non solo da ciò che viene detto e fatto sul continente, ma dalle prestazioni di Washington nella gestione della sicurezza mondiale, come ad esempio in Asia orientale e in Medio Oriente.

4) Premere per di più sul controllo delle armi

Più di 25 anni dopo la guerra fredda, entrambe le parti mantengono le loro forze nucleari in allerta. Ciò significa che la possibilità di una crisi crescente ed uno scambio nucleare è ancora molto reale, anche se la probabilità rimane bassa. La stabilità nei rapporti nucleari Stati Uniti-Russia non è solo uno dei temi più importanti per i due paesi, ma è anche fondamentale per la stabilità tra le altre grandi potenze mondiali.

Inoltre, la Russia, come gli Stati Uniti, è uno dei pochi paesi con la prodezza scientifica e la capacità industriale di militarizzare le nuove tecnologie che possono cambiare l’equilibrio globale del potere. La Russia è il secondo più grande venditore di armi dopo gli Stati Uniti; le vendite russe all’Iran, per esempio, rimangono una delle principali preoccupazioni per Israele, l’Arabia Saudita, la Turchia e il Medio Oriente, mentre la vendita di armi avanzate in Cina allarma Giappone e Corea del Sud e complica gli sforzi degli Stati Uniti per garantire la sicurezza in Asia orientale. 

5) Collaborare con la Russia in Asia

Contenere la Cina è un compito impossibile nel mondo di oggi. Invece, il prossimo presidente dovrebbe perseguire coalizioni flessibili con altre grandi potenze per incanalare le energie cinesi in modo che non mettono in pericolo gli interessi fondamentali dell’America.

La Russia potrebbe essere uno di quei partner se gli Stati Uniti saranno in grado di evitare che il Cremlino si trovi in una posizione di dipendenza di fatto commerciale e strategica su Pechino. Nonostante i suoi tentativi sulla scia delle sanzioni occidentali per ridurre la sua dipendenza dai mercati energetici europei con la costruzione di legami con la Cina, la Russia rimane profondamente preoccupata per la crescente influenza di Pechino lungo i suoi confini.

6) Riconoscere che la Siria è qualcosa di più che la Siria

La crisi siriana richiede urgente attenzione. Piaccia o no, gli Stati Uniti non hanno alcuna altra possibilità che continuare a cercare di lavorare con la Russia. Mosca ha i mezzi per mantenere il suo dispiegamento militare in Siria per un periodo prolungato, e potenze regionali come l’Iran, e forse anche la Turchia, sostengono la sua continua presenza. 

Le discussioni con Mosca sulla Siria non avranno una maggiore possibilità di successo a meno che non includano una nuova disponibilità a discutere il rapporto più ampio con la Russia, in Europa. Nelle sue dichiarazioni e proposte, Mosca ha di fatto legato la situazione in Siria alla crisi Ucraina e al più grande problema della sicurezza europea, ma Washington ha finora rifiutato di riconoscere questo legame. Solo riconoscendo che i collegamenti tra le varie sfide regionali poste dalla Russia sono reali, il prossimo presidente potrà estrarre un equilibrio favorevole per gli interessi degli Stati Uniti.

7) Mostrare le promesse dell’America

Come nella guerra fredda, c’è un elemento ideologico nella concorrenza Stati Uniti-Russia di oggi. Tuttavia, invece di difendere la lotta di classe comunista, Mosca è focalizzata sulla diminuzione della credibilità americana. La Russia sarà rafforzata dal fallimento delle iniziative economiche e politiche degli Stati Uniti.

Come il prossimo presidente degli Stati Uniti affronterà i ben noti problemi nazionali e globali di ricchezza e disuguaglianza, il pluralismo culturale, la migrazione, l’insicurezza delle risorse, e il cambiamento climatico, determinerà il grado in cui gli Stati Uniti saranno vulnerabili alla propaganda russa.

La guerra fredda si è conclusa perché i russi hanno visto gli Stati Uniti come una società di successo e prospera, il cui modello speravano di emulare. Al contrario, il deterioramento di oggi nei rapporti è stato acuito dai fallimenti americani in Iraq e in Afghanistan e dalle conseguenze ancora persistenti della crisi finanziaria globale del 2008-2009, che hanno frantumato la fede dei russi nel modello americano per lo sviluppo economico. Un’aura di rinnovato successo e crescente potere condurrà verso il ripristino degli Stati Uniti come un partner interessante, e forse alla fine come un leader. 

Traduzione di Giada Martemucci

Articolo originale: America’s Russia Policy Has Failed – Foreign Policy

THE WAY AHEAD

Barack Obama | The Economist | 8 Ottobre 2016

Dovunque io vada in questi giorni, che io mi trovi a casa o fuori, mi fanno tutti la stessa domanda: cosa sta accadendo al sistema politico americano? Come è possibile che un paese che ha beneficiato – forse più di tanti altri – dall’immigrazione, dal mercato, dall’innovazione tecnologica, sviluppare improvvisamente una sorta di protezionismo contro l’immigrazione e contro l’innovazione? Perché alcuni dell’estrema destra e dell’estrema sinistra hanno abbracciato un crudo populismo che promette un ritorno al passato che non solo non è possibile restaurare, ma che per la maggior parte degli americani non esiste più?

È vero che una certa ansia dovuta alla globalizzazione, al cambiamento in sé, ha preso piede in America come in gran parte del mondo. Una paura che spesso si manifesta attraverso lo scetticismo nei confronti degli organi internazionali, come ha dimostrato la recente esperienza inglese della Brexit, oltre che la crescita dei partiti populisti in tutto il mondo. Gran parte di questo malcontento è dovuto a paure che non hanno radici economiche, o meglio, parte di questo malcontento è dovuto a eventi economici di lunga durata quali decenni di crisi, di declino della crescita della produttività e la disuguaglianza sociale in aumento.  La globalizzazione e l’automazione hanno indebolito la posizione dei lavoratori e la loro capacità di garantire un salario decente. Troppi fisici e ingegneri potenziali trascorrono la loro carriera a spostare denaro in giro per il settore finanziario, invece di applicare i loro talenti per l’innovazione nell’economia reale. 

Ma in mezzo a questa comprensibile frustrazione, in gran parte alimentata da politici che sembra vogliano peggiorare il problema invece di migliorarlo, è importante ricordare che il capitalismo è stato il più grande pilota di prosperità e di opportunità che il mondo abbia mai conosciuto.

Nel corso degli ultimi 25 anni, la percentuale di persone che vivono in estrema povertà è sceso da quasi il 40% al di sotto del 10%, i guadagni sono stati molti e sarebbero stati impossibili senza la spinta data dalla globalizzazione. Questo è il paradosso che definisce il nostro mondo di oggi. Il mondo è più prospero che mai, eppure ancora le nostre società sono segnate da incertezza e disagio.

Siamo davanti a  una scelta: ritirarci in vecchie economie chiuse oppure spingerci oltre, riconoscendo la disuguaglianza che può venire con la globalizzazione, impegnandoci a far funzionare l’economia globale perchè sia prospera per tutti senza distinzioni. Il profitto può essere una forza potente per il bene comune; gli economisti hanno da tempo riconosciuto che i mercati, lasciati a se stessi, possono fallire. Un capitalismo delineato da pochi e inspiegabile per molti è una minaccia per tutti, senza fiducia il capitalismo e i mercati non possono continuare a fornire i guadagni che hanno portato nei secoli passati.

La presidenza è una corsa a staffetta, che richiede a ciascuno di noi di fare la nostra parte per portare il Paese più vicino alle sue più alte aspirazioni. Quindi partendo da qui, dove si dirigerà il mio successore? L’economia non è un’astrazione, non può essere ridisegnata all’improvviso senza che ci siano conseguenze reali per le persone. Al contrario ripristinare la fiducia in un’economia in cui gli americani laboriosi hanno modo di crescere, implica affrontare quattro sfide principali: stimolare la crescita della produttività, lottare contro la crescente disuguaglianza, garantire che tutti coloro che vogliono un lavoro possano ottenerne uno e costruire un’economia resiliente che funga da innesco per la crescita futura. Le recenti innovazioni tecnologiche hanno radicalmente cambiato la vita delle persone ma non hanno ancora aumentato la crescita della produttività. Negli ultimi dieci anni, l’America ha goduto della crescita della produttività più veloce del G7, ma la crescita è rallentata in quasi tutte le economie avanzate.

Una delle principali fonti del recente rallentamento della produttività è stata una carenza di investimenti pubblici e privati causati, in parte, dai postumi dalla crisi finanziaria, ma anche da vincoli autoimposti: un’ideologia anti-tasse che rifiuta virtualmente tutte le fonti di nuovi finanziamenti pubblici; un blocco sul deficit e un sistema politico eccessivamente partitico. Visti i benefici economici derivanti dalle esportazioni, io continuerei a spingere il Congresso ad approvare la Trans-Pacific Partnership per concludere il partenariato transatlantico con l’UE. Questi accordi, e il rafforzamento delle strutture commerciali, livelleranno il campo di gioco per i lavoratori e le imprese. Come Abraham Lincoln ha detto: “Mentre noi non proponiamo alcuna guerra sul capitale, noi desideriamo permettere all’uomo più umile la stessa probabilità di arricchirsi che hanno tutti gli altri”. Questo è il problema, con l’aumento della disuguaglianza diminuisce la mobilità verso l’alto. 

Un’economia di successo dipende anche opportunità significative a disposizione di tutti coloro che vogliono un posto di lavoro. La crisi finanziaria ha dolorosamente sottolineato la necessità di una economia più resistente, che cresce in modo sostenibile, senza saccheggiare il futuro al servizio del presente. Non dovrebbero più esserci dubbi che un libero mercato prospera solo quando ci sono delle regole per proteggerlo da un malfunzionamento sistemico e quando è garantita una concorrenza leale.

L’America dovrebbe anche fare di più per prepararsi a shock negativi prima che si verifichino. Con i tassi di interesse bassi di oggi, la politica fiscale deve svolgere un ruolo più importante nella lotta contro le recessioni future; la politica monetaria non dovrebbe sopportare tutto il peso della stabilizzazione della nostra economia.

La buona economia può essere accompagnata purtroppo da cattiva politica. I miei successori non dovrebbero lottare per ottenere misure di emergenza in un momento di bisogno, dovrebbero invece garantire il supporto alle famiglie più colpite dalla crisi. Il sistema politico degli Stati Uniti può essere frustrante. Mi creda, lo so. Ma è stata la fonte di più di due secoli di progresso economico e sociale. Il progresso degli ultimi otto anni dovrebbe anche dare al mondo un certo grado di speranza. Nonostante tutti i tipi di divisione e discordia, una seconda Grande Depressione è stata impedita. È tempo di scrivere il nostro nuovo futuro. Deve essere un futuro di una crescita economica che non sia solo sostenibile, ma condivisa. Per raggiungerlo, l’America deve impegnarsi a lavorare con tutte le nazioni per costruire economie più forti e più prospere per tutti i nostri cittadini per le generazioni a venire.

Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

Articolo originale: B. Obama – The way ahead – The Economist