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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

OPERAZIONE RINNOVAMENTO CON DUE DISEGNI DI LEGGE

Quotidianamente riconosciamo la portata straordinaria delle trasformazioni del modo di vivere, consumare, produrre e lavorare indotte dalle tecnologie digitali. Al punto che, in atto, le definiamo come la quarta rivoluzione industriale. E, rispetto alle tre precedenti, ne individuiamo i caratteri originali della velocità e della imprevedibilità. Paradossalmente, si riscontra invece una certa timidezza a mettere in discussione quel tradizionale, rigido, quadro regolatorio che è stato via via costruito nel tempo della stabilità. Prima di realizzare che il futuro non sarebbe più stato quello di una volta.

Eppure è evidente che il diritto pubblico, ed in particolare il complicato e incerto diritto amministrativo, ci separano dai processi evolutivi dei Paesi con Amministrazioni più flessibili. Così come è evidente che nel Paese con il più grande Partito Comunista dell’Occidente il diritto del lavoro è stato edificato con caratteristiche particolarmente pesanti. Ne è stata controprova la cronica diffidenza degli imprenditori verso il fattore lavoro.

Oggi, lo stesso interrogativo sull’impatto delle nuove tecnologie sulla occupazione, per cui molti temono una polarizzazione delle competenze e dei redditi su pochi privilegiati, può trovare risposte nel segno dell’inclusione solo se non si frappongono ostacoli al pieno accesso di tutti alle innovazioni. E, spesso, il vecchio diritto del lavoro si rivela un impedimento alla piena espressione delle capacità e delle vocazioni di ciascuno perché edificato nel segno dell’omologazione.

Per queste ragioni, con i colleghi Fucksia, medico del lavoro, e Berger, piccolo imprenditore in Alto Adige, ho assunto l’iniziativa di due ddl “sovversivi” del tradizionale impianto giuslavoristico. L’uno contiene deleghe al governo per la redazione di un Testo Unico denominato Statuto dei Lavori, l’altro riguarda la delicatissima materia della salute e sicurezza nel lavoro. Il presupposto delle due iniziative è quindi il venir meno del vecchio mondo, fatto di gerarchie verticali, di mera esecuzione seriale degli ordini impartiti, di predeterminazione rigida della postazione fissa, dell’orario e del salario. Il vecchio mondo su cui è stato costruito tutto il pesantissimo diritto del lavoro. Lo stesso Jobs Act contiene apprezzabili modifiche ma le compensa con definizioni ancor più rigide circa la separazione tra lavoro autonomo e subordinato proprio nel momento in cui la realtà li avvicina.
Alla base dei due ddl si pone una sorta di “salto” metodologico, quello per cui la fonte legislativa, per definizione rigida e perciò incapace di rincorrere i cambiamenti, si deve limitare alle norme fondamentali e inderogabili che sono espressione dei principi costituzionali e comunitari. Per tutto il resto si deve fare rinvio alla duttile contrattazione, soprattutto di prossimità, compresa quella individuale sviluppando la certificazione dei contratti. L’art. 8 della manovra 2011 ha in realtà già segnato questa discontinuità e, non a caso, il governo francese ha recentemente imposto a sindacati fortemente conflittuali un’analoga disciplina. Si tratta ora di estenderne l’uso nella contrattazione e di ampliarne l’applicazione a una parte del salario nazionale come ai contratti individuali attraverso la legge.
La regolazione della salute e sicurezza nel lavoro è per molti aspetti emblematica di quel diritto pesante che si vuole abbandonare senza ridurre i livelli di prevenzione. Anche in questo caso, la riduzione del precetto legislativo ai fondamentali principi comunitari consente la rapida evoluzione di strumenti scientificamente validati come le linee guida, le buone prassi, le norme tecniche. Se il Testo Unico contiene ben 306 articoli e 50 allegati, la nostra proposta si limita a 21 articoli e ad un allegato. Il passaggio dal formalismo giuridico ad un approccio sostanzialista, fatto di formazione insistita, sorveglianza sanitaria di tipo olistico, continuo rinnovamento delle tecnologie, induce più salute. E la certificazione delle professioni esperte può esimere il datore di lavoro da responsabilità garantendo al contempo ambienti di lavoro oggettivamente più sicuri rispetto ai meri adempimenti cartacei.
All’origine di queste proposte sono le visioni di Marco Biagi, la sua diffidenza verso la iperregolazione, la sua intuizione sui cambiamenti dei lavori e sulla fondamentale tutela sostanziale dell’apprendimento continuo. Esse provocheranno discussioni e forse anche le usuali invettive. Con i due colleghi replicheremo pazientemente ai giudizi sommari e saremo aperti a recepire ogni critica costruttiva perché abbiamo inteso soprattutto provocare una riflessione politica e culturale.

Maurizio Sacconi

Intervento pubblicato su Il Sole 24 Ore del 12 ottobre 2016

TESTO DDL SALUTE E SICUREZZA

TESTO DDL STATUTO DEI LAVORATORI

UKRAINE IS GOING TO BE A BIG PROBLEM FOR THE NEXT U.S. PRESIDENT

Mark Pfeifle | Foreign Policy | 7 Ottobre 2016

L’Ucraina sembra scomparsa dalla coscienza nazionale americana, come altri – anche più recenti e molto più spettacolari – fiaschi di politica estera (Siria, Libia e lo stato islamico).

La maggior parte degli americani ha del tutto dimenticato l’invasione russa della Crimea nel 2014, e almeno un candidato presidenziale americano sembra disposto a perdonare tutto. Tuttavia, i russi occupano ancora la Crimea, e i ribelli filo-russi, supportati da militari russi, controllano gran parte di due province orientali del paese: Donetsk e Lugansk. La Russia sta inoltre implementando una massiccia forza militare lungo i confini dell’Ucraina.

I politici filo-russi, come Alexander Medvedchuk e il primo ministro russo Dmitry Medvedev, occupano ancora posizioni di potere a Kiev, e inoltre c’è la corruzione, del tipo più sistemico e onnipresente, che l’amministrazione Obama ha individuato come una delle principali minacce per lo stato ucraino. 

Ma la stessa amministrazione Obama preferisce una combinazione prudente di sanzioni economiche contro la Russia e il sostegno economico per il governo ucraino a Kiev. Un delicato approccio “carota-e-bastone” che non ha funzionato, e la questione Ucraina rischia così di peggiorare la crisi dei rapporti tra Mosca e Washington.

Dalla sua indipendenza dall’ex Unione Sovietica, nel 1991, l’Ucraina è una cleptocrazia. La sua storia politica è particolarissima, con un leader eletto dal popolo cacciato dal paese in una rivolta popolare, un altro sospettato di omicidio, e il terzo accusato per le istituzioni indebolite e le opportunità perdute.

Tra i milioni di documenti trapelati dallo studio legale Mossack Fonseca lo scorso aprile, è comparso anche il presidente Petro Poroshenko, occupato nella registrazione di conti offshore mentre le sue truppe si stavano ritirando da una delle più sanguinose sconfitte della guerra.

Poroshenko è il leader più ricco d’Europa secondo Forbes, e nonostante le sue promesse di “incorporare nuove tradizioni” e di svendere i suoi beni, a conti fatti non ha venduto nulla. In realtà, egli è stato l’unico dei ricchi uomini d’affari ucraini a vedere il suo valore netto effettivamente aumentare nel 2015, a 858.000.000 $. Ha cancellato la linea sottile che una volta esisteva tra affari e politica in Ucraina. Ora, però, l’acquisizione post-elettorale di Leshchenko di abitazioni di lusso ha attirato l’attenzione dell’Agenzia anticorruzione dell’Ucraina, un organo di indagine istituito sotto la spinta degli Stati Uniti.

Recenti studi hanno rivelato che le spese di Leshchenko per partecipare ai forum internazionali sono stati pagati dall’oligarca Viktor Pinchuk, contribuente della Fondazione Clinton con 8,6 milioni di dollari.

Nel frattempo, il prossimo Presidente troverà sicuramente l’Ucraina assediata da tutti i lati da truppe russe e ribelli filo-russi, con in aggiunta la corruzione dilagante che sta distruggendo l’Ucraina dall’interno. Il nuovo Presidente dovrà imparare a distinguere i veri riformatori dell’Ucraina da chi ha fatto crociate contro la corruzione in favore di un business redditizio, ed essere in grado di distinguere l’azione reale da parole vuote. In caso contrario, i due decenni e mezzo dell’esperimento dell’indipendenza ucraina potranno evaporare completamente.

Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

Qui il link all’articolo originale

PERCHE’ LA STRATEGIA DI PUTIN SUL PETROLIO PASSA PER LA PACE CON RIAD

Il Foglio | 10 Ottobre 2016

La guerra del petrolio sembra ormai in una fase di tregua grazie all’accordo tra Mosca e Riad sul taglio della produzione. Il mercato dei combustibili fossili rappresenta una grande opportunità per due paesi quali la Russia e l’Arabia Saudita, attualmente in grave crisi economica.

Lunedì il benchmark del mercato ha toccato i massimi dal 2015, a 53,45 dollari al barile, dopo che il presidente russo Vladimir Putin si è detto pronto a congelare o tagliare la produzione in linea con quanto deciso dall’Opec ad Algeri. L’accordo di Algeri dovrà passare l’esame degli altri grandi produttori che non fanno parte del Cartello, in particolare gli Stati Uniti.

Il mercato deve fare i conti con l’Iran, che non sembra intenzionato a tagliare la produzione. Mosca potrebbe quindi rivelarsi l’intermediario ideale tra Teheran e i sauditi, approfittando anche di un allontanamento tra Washington e Riad che pare destinato ad allargarsi.

Sintesi di Giada Martemucci

Articolo originale: Perché la strategia di Putin sul petrolio passa per la pace con Riad

TIENI STRETTI GLI AMICI E ANCOR PIU’ STRETTI I NEMICI

Se è vero che la politica è questione di compromessi e opportunismo, allora Putin non smette di dimostrare di esserne un fine intenditore.

Per un grande attore, gli USA, che dal Medio Oriente si sta progressivamente ritirando, ce n’è infatti un altro, appunto lo “Zar” Vladimir, che espande i suoi tentacoli. A dimostrazione di ciò, lunedì è riuscito nell’impresa di stringere importanti accordi economici con la Turchia, ossia lo stato che in Siria è suo avversario e che solo un anno fa aveva abbattuto un suo jet militare. Insomma, non proprio amici per la pelle.

Eppure, l’operazione è molto importante: Erdogan ha ospitato il suo omologo russo per un meeting in cui discutere di accordi commerciali e alleanze militari. In particolare, è stata confermata la costruzione di TurkStream, un gasdotto che attraverso il Mar Nero unisca la Russia e la Turchia, fungendo sia da fornitore che soddisfi la domanda interna turca, sia da via del gas per l’Europa che tagli fuori la critica Ucraina.

In cambio, Putin ha annunciato che Mosca avrebbe revocato il divieto ad importare alcuni alimenti dalla Turchia, restrizione imposta a seguito proprio dell’incidente dell’anno scorso: in particolare, il Presidente russo ha specificato che si tratta di prodotti agricoli (per lo più agrumi), valutando i benefici in 500 milioni di dollari. Inoltre, si è parlato anche del progetto della centrale nucleare di Akkuyu, per la cui implementazione la Russia sta investendo nella formazione di oltre 200 studenti turchi. Insomma, si va verso una normalizzazione dei rapporti, quasi paradossale vista la radicale differenza sul teatro siriano.

Ed è proprio questa la notizia più importante, che spesso sfugge: in politica internazionale non ci sono posizioni fisse e statiche, ma opportunità da cogliere, finestre che si aprono e nelle quali infilarsi cogliendo l’attimo. Infatti, in seguito al golpe e contro-golpe turco, la (de facto) dittatura di Erdogan ha dato uno strattone al rapporto con l’Occidente: sia con l’Unione Europea, che ha congelato le trattative per far entrare la Turchia nel consesso europeo, sia con la NATO, tanto che addirittura Erdogan aveva minacciato di cingere d’assedio una base statunitense.

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Putin ha colto l’attimo, sapendo accantonare le divergenze siriane per dare seguito allo strattone e flirtare con un paese che formalmente giace nell’alveo occidentale.

E proprio lo scenario siriano potrebbe permettere a Putin di raggiungere, tramite l’aiuto turco, lo scettro di dominus politico dell’area. Come ha fatto intendere nella conferenza stampa post-meeting, vuole sfruttare questa partnership per oltrepassare gli USA, che si oppongono alle sue proposte in merito: “Condividiamo l’opinione che debba essere fatto di tutto per portare ad Aleppo gli aiuti umanitari. Il problema è garantirne la sicurezza. Ho informato il nostro partner turco che abbiamo proposto ai colleghi americani di fare tutto quanto in nostro potere per ritirare le truppe siriane e le forze di opposizione da Castello Road, che può e deve essere usata per consegnare gli aiuti ad Aleppo, e perciò le provocazioni – tra cui gli strike sui convogli umanitari – non avverranno più. I nostri partner americani hanno però rifiutato di farlo. Sono impossibilitati o nolenti a farlo, per qualche ragione”. Il successivo endorsement (condiviso) a De Mistura chiude il cerchio.

Certo, c’è anche la contro-narrativa, che parla di un veto russo in Consiglio di Sicurezza ONU alla proposta di risoluzione francese di imporre il cessate il fuoco, segno del fatto che la volontà russa di arrivare ad un accordo non può prescindere dalla soddisfazione delle proprie aspirazioni.

Del resto, diceva Mandela, “il compromesso è l’arte della leadership e i compromessi si fanno con gli avversari, non con gli amici”: Putin sembra averlo bene in mente, e la controparte? Il tentennamento di Hollande a riceverlo a Parigi, lascia dei dubbi a riguardo.

Giovanni Gazzoli

Aggiornamento: il Presidente russo Putin ha effettivamente annunciato la cancellazione del viaggio a Parigi a seguito delle dichiarazioni di Hollande. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha dichiarato: “Il Presidente Putin ha affermato che è pronto a recarsi a Parigi qualora il Presidente Hollande si trovi a proprio agio con ciò. Pertanto, aspetterà fino all’avvento di tale rassicurante momento”.

ELEZIONI USA, LA TRILOGIA. SECONDA PUNTATA

La seconda puntata di una delle trilogie più accattivanti della storia recente del cinema (ops, politica) made in USA è effettivamente come quasi tutte le altre: un ponte tra la prima e la terza.
Sono infatti davvero molto pochi gli spunti reali che escono dal dibattito di stanotte, che si è tenuto alla Washington University di St. Louis, nel Missouri. Un dibattito in cui i due candidati hanno tirato fuori il peggio dell’avversario, facendo a gara per mostrare gli errori e l’inadeguatezza dell’altro: una corsa al ribasso in piena regola, nonostante il continuo riferimento fatto da Hillary alla frase di Michelle Obama: “When they go low, we go high”.
Al contrario, fin dall’inizio il tentativo è quello di mandare l’avversario più low di quanto egli già si ponga, e le domande di pubblico e intervistatori – come biasimarli – non fanno altro che aizzare questa tendenza.
Si parte con la domanda sull’importanza del candidato di essere un perfetto role model per le giovani generazioni. Un invito a nozze, ovviamente non prima di essersi lavati la propria coscienza: “Sono cambiato, non lo rifarei più”, dice Trump in riferimento all’umiliante video in cui parla poco educatamente delle donne; “Ho fatto un errore, me ne assumo le responsabilità, e certamente non lo rifarei”, garantisce Clinton quando sollecitata a proposito della cancellazione delle 35 mila e-mail private in cui trattava anche argomenti top secret.
Espiati i propri peccati, si può cominciare a evidenziare quelli altrui.

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Il primo passaggio, in realtà, è più politico che mediatico, sollecitando i contendenti ad un giudizio sulla riforma sanitaria conosciuta come “Obamacare”: la Clinton elogia l’allargamento dei beneficiari dell’assicurazione, ricordando che la copertura arriva al 90%, e glissa dalla mezza gaffe del marito Bill, che l’aveva sconfessata; mentre Trump, chiaramente, la denigra come “total disaster”, invocando la rimozione dei confini d’azione e affermando: “We want competition”.
La seconda domanda, fatta da una ragazza musulmana, offre però lo spunto per abbassare la qualità della discussione, punzecchiando “The Donald” sulle politiche verso i musulmani: Trump, con un evidente sforzo ad usare mezzi diplomatici, cerca di ribadire la sua posizione non particolarmente muslim-friendly, arrivando a denunciare la comunità musulmana di San Bernardino per non aver rivelato la possibilità di attentati pur essendone a conoscenza, e subito dopo attacca Hillary per voler far entrare nel paese – senza alcuna restrizione – chiunque lo voglia; la Clinton, in risposta, afferma di voler includere i musulmani nelle sue politiche, sottolineando le inopportune espressioni di Trump nell’alludere alla necessità di essere coalizzati con stati musulmani per sconfiggere il terrorismo.
Subito dopo, è l’ex Segretario di Stato ad essere messa all’angolo per le dichiarazioni circa il doppio gioco che ogni politico è costretto a svolgere in pubblico e in privato: lei ne esce piuttosto goffamente, tirando in ballo Lincoln e offrendo a Donald un’alzata a rete che viene schiacciata senza particolare difficoltà. Favore ricambiato subito dopo, quando alla domanda: “Ha sfruttato la perdita di 916 milioni di dollari per poter evitare di pagare le tasse?”, Trump risponde: “Of course I do”, con una naturalezza alquanto inopportuna per timing e modo.
Insomma, il dibattito scivola via in modo abbastanza piatto, nonostante la carne al fuoco degli ultimi giorni fosse davvero molta: ormai, però, sembra che dai due candidati ci si aspetti solo una bomba ancora più grossa di quella precedente, e che fino a che non succede non ci sia niente da ricordare.
Effettivamente, i passaggi sulla Siria, sull’elezione di un membro della Corte Suprema di giustizia e sull’energia scorrono abbastanza veloci, sottolineando le scelte errate che l’avversario farebbe o ha già fatto.
Il finale, tuttavia, è sorprendente: una domanda eccezionale, assolutamente inaspettata, viene posta da uno spettatore: “Cosa stima dell’altro?”. La Clinton, con astuzia, risponde: “I figli”; Trump, incassato il colpo e colto alla sprovvista, ammette: “Hillary non molla mai”.
Insomma, è stato un dibattito che doveva essere fortemente scoppiettante, ma che ha regalato perlopiù scene utili a creare video simpatici su Twitter. È stato “il respiro prima del balzo”, prendendo a prestito l’espressione di Gandalf in “Il ritorno del Re”: dal “Signore degli Anelli” ai dibattiti tra candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, il passo da una trilogia all’altra sembra essere più piccolo del previsto.

Giovanni Gazzoli

THE AMERICAN BREXIT IS COMING

James Stavridis | Foreign Policy | 6 Ottobre 2016

In una recente riunione alla Casa Bianca, il presidente Barack Obama ha riunito un cast eclettico di personaggi: il Ceo di IBM, una delle più grandi aziende del mondo; un trio di politici di entrambi i partiti, tra cui il sindaco di Atlanta e i governatori di Louisiana e Ohio; un ex segretario del Tesoro; un recente sindaco di New York City, il preside di una scuola di specializzazione delle relazioni internazionali e l’ex comandante supremo alleato (che sono io, James Stavridis). Nonostante fossimo personaggi molto divergenti, tutti nella stanza eravamo d’accordo su una cosa: il valore del libero scambio a livello mondiale e la particolare urgenza e necessità per la Trans-Pacific Partnership (TPP).

Washington ha trascorso sette anni a negoziare questo accordo massiccio (circa 6.000 pagine e 30 capitoli), firmato a febbraio che consentirebbe di livellare il campo di gioco in termini di commercio, condizioni di lavoro e flusso delle merci tra una decina di nazioni. L’accordo sul tavolo ha un’ultima possibilità di passaggio dopo le elezioni di novembre. Entrambi i candidati alla presidenza hanno promesso di rifiutare o di rinegoziare completamente l’accordo a causa delle preoccupazioni sulla competitività interna, e il momento si preannuncia essere la versione americana di un Brexit dalla regione del Pacifico. In termini geopolitici la Brexit è stata un errore grave per la Gran Bretagna e sarebbe altrettanto grave per gli Stati Uniti lasciare il TPP sul tavolo e effettivamente allontanarsi da una posizione di leadership in Asia.

Il caso per il TPP ha una logica geopolitica interessante. Si tratta di un accordo che la Cina avrà grande difficoltà ad accettare, in quanto porrebbe Pechino fuori da un circolo virtuoso di alleati, partner e amici su entrambi i lati del Pacifico. Il trattato porta così insieme non solo Giappone, Australia, Malesia, Vietnam e altri partner asiatici, ma anche Cile, Messico, Canada e Perù. Il membro mancante è la Corea del Sud, ma nel tempo i sudcoreani vorranno essere parte dell’accordo.

Ciò che è particolarmente interessante per il TPP, tuttavia, è l’argomento geopolitico a suo favore. Tre punti fondamentali sono particolarmente salienti: Pechino intende chiedere in sostanza l’intero Mar Cinese Meridionale come sue acque territoriali, sulla base di argomenti storici improponibili sonoramente respinti dai tribunali internazionali; la Cina intende chiaramente essere l’attore dominante in Asia; in qualità di leader di quella che sarebbe la più grande zona di libero scambio in tutto il mondo, gli Stati Uniti continueranno ad esercitare una vera leadership in questa regione cruciale.

Mentre la Cina è al di fuori del TPP, l’appartenenza a questo club esclusivo non farà che aumentare di valore nel prossimo decennio. Dobbiamo evitare di ripetere l’errore della Brexit nel Pacifico. Il chiaro vincitore, se gli Stati Uniti rifiutano la Trans-Pacific Partnership, sarà la Cina, con un sempre più autoritario presidente Xi Jinping sempre più forte in oriente.

Questo è un momento di vulnerabilità reale per molte nazioni asiatiche. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte sta guardando questa potenziale Brexit degli Stati Uniti dall’Asia e già si parla di aumentare i legami militari con la Cina. Il Vietnam, storicamente diffidente nei confronti del suo vicino del nord, discute spesso della sua vulnerabilità con i leader degli Stati Uniti. Il Giappone è scosso dalle attività cinesi intorno alle isole Senkaku, e anche la Corea del Sud – che mantiene forti legami con la Cina – è preoccupata per la riluttanza apparente di Pechino di tenere a freno il comportamento del suo stato cliente, la Corea del Nord. Un fallimento degli Stati Uniti nel mantenere una forte presenza economica nella regione – evidenziato dal TPP – avrà effetti negativi significativi sulla nostra posizione politica e diplomatica nel corso del tempo.

Sintesi tradotta di Giada Martinucci

Articolo originale: The American Brexit Is Coming – Foreign Policy

SAUDI ARABIA AND ITS TOXIC RELATIONSHIP WITH AMERICA

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Roula Khalaf | Financial Times | 5 Ottobre 2016

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Sintesi tradotta

Poche settimane dopo le atrocità dell’11 settembre, sono stato in Arabia Saudita, a caccia di uomini arrabbiati. Per le strade di Riyadh, ce n’erano molti che esprimevano ammirazione nei confronti di Osama bin Laden, il capo saudita di al-Qaeda che aveva inviato 19 dirottatori – 15 dei quali sauditi – che hanno causato l’incidente aereo contro il World Trade Center e il Pentagono.

Ma mentre bin Laden era, con mio grande shock, una specie di celebrità per la sua  audace ostilità verso l’alleato americano del regime, i sauditi vivevano anche una sorta di negazione. Sembravano convinti che non poteva essere responsabile del massacro di migliaia di americani innocenti. La negazione era molto più evidente nei circoli governativi. Ben presto la monarchia assoluta, il suo sistema educativo altamente religioso e il suo slam wahhabita è stato posto sotto esame. Le richieste occidentali di riforme radicali sono diventate standard negli scambi diplomatici con Riyadh. Mi sono ricordato del voto schiacciante nel 2001 del Congresso degli Stati Uniti per ignorare il veto presidenziale di un disegno di legge che consentisse alle famiglie delle vittime dell’11 settembre di citare in giudizio l’Arabia Saudita per presunta complicità. Nessuna prova evidente del coinvolgimento ufficiale saudita è stata finora rivelata.

Quanto poco sembra essere cambiata la situazione in 15 anni. Nonostante i numerosi sforzi per guarire le fratture, il “rapporto speciale” tra l’America e l’Arabia Saudita non è mai stato recuperato. Ci sono ancora alcuni benefici che derivano dall’alleanza.

L’Arabia Saudita è uno dei pochi paesi che possono ancora essere descritti come stabili in una regione dove scoppiano rivolte e falliscono gli stati. Eppure gli interessi degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita sono costantemente divergenti. Hanno preso posizioni contrastanti sulle più grandi crisi del Medio Oriente, che vanno dalle rivolte arabe per l’accordo nucleare iraniano e, in misura minore, la guerra civile siriana. Mentre gli Stati Uniti vedono l’atteggiamento saudita verso l’Iran come inflessibile, i sauditi considerano le aperture americane nei confronti di Teheran come ingenue.

La tensione nei rapporti Usa-Arabia è stata evidente anche nella guerra contro il terrorismo. È vero, l’Isis minaccia la monarchia saudita, ma la sua ideologia e alcune delle sue pratiche sono vicine agli insegnamenti dei religiosi sauditi radicali. In Arabia Saudita, gli Stati Uniti sono ora l’inaffidabile alleato; per gli Stati Uniti, i sauditi sono un fattore destabilizzante nella regione.

Un alto funzionario saudita ha descritto una volta il rapporto Usa-Arabia come un “matrimonio cattolico”: un legame che non può mai essere spezzato. Dopo gli attacchi dell’11 settembre è stata una unione disfunzionale, in cui la coppia riconosce che il matrimonio è finito, ma non può concordare i termini della separazione.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Saudi Arabia and its toxic relationship with America – Financial Times

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IL LEADER DEL ‘’VISEGRAD’’: VIKTOR ORBAN

“Vittoria di Pirro” – Perdere un battaglia politica, pur con il 98% dei consensi, è possibile? E se è possibile, si può davvero considerare come una sconfitta? Il caso ungherese è in tal senso emblematico: infatti i cittadini magiari sono stati chiamati alle urne domenica 2 Ottobre per la consultazione popolare sulle tanto contestate e mal digerite quote per la ripartizione dei rifugiati in Europa, e la stragrande maggioranza dei votanti ha espresso –  in maniera piuttosto scontata – il proprio rifiuto per il sistema di ricollocamento dei migranti. Ma il totale dei votanti (43%) non ha raggiunto il fatidico quorum del 50%+1, rendendo non valido de iure il referendum e depotenziandone de facto la rilevanza politica. Il grande promotore del referendum Viktor Orban, leader del partito nazional-conservatore “Fidesz”, sin da domenica ha sottolineato che la consultazione avrebbe avuto effetti politici, anche senza il raggiungimento del quorum. Per Orban si tratta di un  vero e proprio braccio di ferro con l’Unione Europea, e il premier magiaro non è disposto ad arretrare di un solo centimetro nei confronti delle politiche dettate da Bruxelles. I filo-europeisti tirano un bel sospiro di sollievo, ma il risultato elettorale di domenica sembra un argine di contenimento più che una risposta concreta alle continue pressioni e provocazioni politiche da parte di Orban, che è disposto ad una nuova e immediata revisione della costituzione (dopo quella portata a termine nel 2011), pur di ribaltare l’esito non soddisfacente del referendum del 2 Ottobre. Per Orban è stata quindi una disfatta in termini assoluti? Per l’Unione Europea non sembra invece l’ennesima ‘’vittoria di Pirro’’?

Orban e il “Visegrad”– Il gruppo del “Visegrad” è un’alleanza politica siglata nei primi anni ’90 tra Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, presso la località ungherese di Visegrad dove già nel 1335 si era tenuto un incontro storico tra i sovrani Carlo I d’Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni I di Boemia. Accanto alle evidenti suggestioni storiche, lo scopo dell’incontro era favorire e promuovere il processo d’integrazione europea degli stati post-comunisti citati in precedenza. I membri del “Visegrad” entrarono ufficialmente nell’Unione Europea nel Maggio del 2004. Il tanto agognato ingresso nell’U.E. fu considerato da questi ultimi non soltanto come una forma di risarcimento per essere stati condannati all’interminabile giogo comunista, ma una sorta di passepartout” per essere traghettati nel sogno europeo e a quel processo storico-politico che Francis Fukuyama chiamò come Fine della Storia”, ovvero il trionfo assoluto del modello liberal-democratico, il simbolo della civiltà occidentale nel secondo ‘900. Dalla pubblicazione del saggio di Fukuyama sono trascorsi più di 20 anni, e la tesi del noto politologo americano è stata più volte smentita.

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Nel caso specifico, non stupisce affatto che il vero trascinatore del gruppo “Visegrad”, Viktor Orban, abbia messo addirittura in discussione la forma democratico-liberale dei paesi europei, etichettandola come residuo dell’ideologia occidentale. Il marcato nazionalismo di Orban, coadiuvato dall’esperto leader polacco Jaroslaw Kaczynski, non deve gettare fumo negli occhi sulla visione politica e strategica del premier ungherese. Orban sta certamente sfruttando le gravissime indecisioni di Bruxelles sul tema dei rifugiati: numeri alla mano si parla di appena 1300 rifugiati da ricollocare sul territorio ungherese. Il suo voltafaccia da liberal-progressista a “difensore” del conservatorismo europeo lo ha portato a sottolineare l’importanza della centralità della tradizione cristiana nella cultura europea. Questa mossa è dettata tuttavia dal grande pragmatismo politico che lo contraddistingue. Oltre a queste cifre peculiari, Orban si è reso tuttavia portavoce di un nuovo ed alternativo progetto all’interno del processo d’integrazione europea. Il piano dei paesi del “Visegrad”, esposto da Orban in un documento di tre pagine durante il summit europeo di Bratislava del Settembre scorso, esprime con forza la volontà di rafforzare la legittimità democratica dell’Unione Europea: “Le attuali sfide dimostrano che la stessa Unione può essere forte solo se i Paesi e i loro cittadini hanno un ruolo influente nel processo decisionale”. In sostanza il “Visegrad” chiede un rafforzamento del ruolo dei singoli parlamenti nazionali. La replica del Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz non si è fatta attendere: quest’ultimo ha definito tale proposta come una ri-nazionalizzazione delle politiche europee. Lo scontro è appena cominciato.

 Gian Marco Sperelli

WHY SYRIAS’S BASHAR AL-ASSAD IS STILL IN POWER

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Zoe Hu | Al Jazeera

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Sintesi tradotta

Gli artifici retorici hanno consentito ad Assad di trascurare le riforme politiche e di coltivare il supporto con l’elite benestante. Nel gennaio 2011, i cittadini di tutto l’Egitto e la Tunisia hanno dato il via a dimostrazioni contro i loro governi. Le loro richieste di cambiamento sono esplose in una indignazione collettiva che, in Tunisia, ha rapidamente portato all’esilio del presidente.  Prima che iniziasse l’anno della famosa primavera, le agitazioni popolari scuotevano alcuni dei regimi più radicati nella regione. Ma tutto questo non aveva ancora toccato la Siria.
In un’intervista con il Wall Street Journal, il presidente siriano Bashar al-Assad ha riconosciuto il volume crescente di rivolte nei paesi vicini, ma ha rapidamente risposto : “La Siria è stabile”, ha detto. Prima di essere denunciato a livello internazionale come criminale di guerra, Assad una volta rappresentava il cambiamento per la Siria. La sua ascesa al potere nel 2000, ha segnato la fine di un lungo governo, notoriamente brutale, di suo padre, Hafez.

Samer Abboud, professore associato presso l’Arcadia University che ha scritto molto sulla Siria, ha detto che questa era la rappresentazione comune del governo di Assad. “Ci sono un paio di narrazioni dominanti veramente semplicistiche nel modo in cui inquadrano la presidenza di Assad”, ha detto Abboud. “In questa teoria, c’è una vecchia guardia [dei politici] e Assad ha rappresentato la nuova guardia che doveva prenderli in consegna”. La vecchia guardia, presumibilmente composta da politici della generazione del padre di Assad, è diventata una comoda fonte di colpa quando le riforme attese del presidente non si sono realizzate. I media occidentali hanno cominciato a speculare che la loro resistenza era paralizzata dall’autorità di Assad. Il suo governo ha effettuato le stesse tattiche di intimidazione di suo padre, facendo uso di processi iniqui, una legge sulla stampa corazzata e forze di sicurezza notoriamente crudeli per mantenere il controllo. Una nuova cricca di imprenditori ha iniziato a formarsi nell’ambito delle politiche neoliberiste di Assad. Hanno assunto il controllo delle maggiori industrie di telecomunicazioni, dell’energia e delle costruzioni.

Nel 2011, il Financial Times ha stimato che il cugino di Assad, Remi Makhlouf, detenga fino al 60 per cento dell’economia nazionale. Anche se le narrazioni multimediali spesso sostengono che il sostegno ad Assad venga dalla sua setta alawita, oggi molti dei sostenitori principali del regime risiedono in questa generazione di tecnocrati – alcuni dei quali sunniti – che hanno trovato la prosperità economica sotto il suo regime. Molti di loro avevano visto anche i loro mezzi di sussistenza migliorare sotto Assad, e non avevano alcun interesse a cambiare lo status quo, anche quando è iniziata la rivolta.

Non appena la rivolta si è trasformata in conflitto, Assad ha iniziato a sfruttare un nuovo racconto popolare per mantenere il sostegno. Si è rimposto come il presunto protettore delle minoranze della Siria. Molti drusi, cristiani e altre minoranze in Siria hanno constatato che l’opposizione non riuscisse a garantire la loro sicurezza.  Mentre gruppi come lo Stato Islamico dell’Iraq e il Levante (ISIL, noto anche come ISIS) cominciavano ad aumentare il potere, il regime di Assad ha alimentato quei sentimenti, presentandosi come l’unico alleato sicuro. Questa tattica si è rivelata efficace a causa della storia della Siria, fatta di tensioni settarie, e per la posizione di Assad come un leader della minoranza.

Assad è diventato un punto focale della speculazione nella guerra civile siriana. Con l’avvento di ISIL, Assad beneficia di un’immagine finale come il cosiddetto “male minore”. Nel confronto pubblico tra Assad e gruppi estremisti di opposizione come ISIL, Assad può fare appello all’Occidente come una presenza disposta a sedersi al tavolo della politica internazionale.

La guerra civile siriana probabilmente continuerà per molto tempo,  i commentatori temono che la comunità internazionale si rivolgerà ad Assad come sua ultima risorsa. Questa possibilità sembra trovare la sua incarnazione nel ministro degli esteri britannico Boris Johnson, che sembra guardare positivamente al governo siriano nonostante consideri Assad un tiranno. La guerra civile è diventata frammentata su entrambi i lati, con milizie pro-regime che guadagnando autonomia
nelle comunità in cui vivono. “Ottenere la fedeltà è molto difficile”, ha detto Landis. “E noi vediamo che l’identità nazionale non è stata abbastanza forte da produrre una forma legittima di governo e di Stato di diritto. Ricostruire uno stato centralizzato è estremamente difficile con la quantità di sangue che è stato versato in Siria oggi”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Why Syria’s Bashar al-Assad is still in power – Al Jazeera

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SYRIA CONFLICT: US SUSPENDS TALKS WITH RUSSIA

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BBC | 4 Ottobre 2016

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The US has said it is suspending talks with Russia over Syria, accusing Moscow of having “failed to live up” to its commitments under a ceasefire deal. Washington blamed Russia and the Syrian government for intensifying their attacks against civilians. Last week, the US warned it would halt the talks unless Moscow stops bombing the city of Aleppo. Russia said it regretted the US move, accusing it of shifting the blame for the collapse of last month’s truce. Aleppo, Syria’s largest city in the north, has come under heavy aerial bombardment since the end of the ceasefire two weeks ago. Hundreds of people, including children, have died since government forces launched an offensive to take full control of Aleppo after the week-long truce lapsed. Some 250,000 people are trapped in eastern Aleppo. In a statement, state department spokesman John Kirby said: “The United States is suspending its participation in bilateral channels with Russia that were established to sustain the cessation of hostilities“. Unfortunately, Russia failed to live up to its own commitments… and was also either unwilling or unable to ensure Syrian regime adherence to the arrangements to which Moscow agreed. Moscow strongly denies involvement of its own or Syrian planes in the deadly aid convoy strike, and says the incident was caused by fire on the ground and not by an air strike. In response to the US suspension of the talks, Russian foreign ministry spokeswoman Maria Zakharova said: “We regret this decision by Washington”. Washington simply did not fulfil the key condition of the agreement to improve the humanitarian condition around Aleppo.

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Traduzione

Gli Stati Uniti stanno sospendendo i colloqui con la Russia sulla Siria, accusando Mosca di non avere tenuto fede ai suoi impegni rispetto all’accordo di cessare il fuoco.

Washington ha accusato la Russia e il governo siriano per aver intensificato i loro attacchi contro i civili. La scorsa settimana, gli Stati Uniti avevano avvertito che avrebbero bloccato i colloqui se Mosca non avesse smesso di  bombardare la città di Aleppo.

La Russia si è detta rammaricata per la mossa degli Stati Uniti, accusati di spostare la responsabilità per il crollo della tregua del mese scorso. Aleppo, la città più grande nel nord della Siria, è stata oggetto di pesanti bombardamenti aerei a partire dalla fine del cessate il fuoco di due settimane fa.

Centinaia di persone, compresi i bambini, sono morti da quando le forze governative hanno lanciato un’offensiva per prendere il pieno controllo di Aleppo dopo il decadimento della tregua . Circa 250.000 persone sono intrappolate ad Aleppo.

In una dichiarazione, il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby ha dichiarato: “Gli Stati Uniti stanno sospendendo la partecipazione nei canali bilaterali con la Russia stabiliti per sostenere la cessazione delle ostilità. Purtroppo, la Russia non è riuscita a tener fede ai propri impegni… Non è stata in grado di assicurare l’adesione del regime siriano alle intese concordate con Mosca”.

Mosca nega con forza il coinvolgimento russo o siriano rispetto all’incidente mortale che ha coinvolto il convoglio con aiuti umanitari, sostenendo che l’incidente sia stato causato da terra e non da un attacco aereo. In risposta alla sospensione dei colloqui da parte degli Stati Uniti, il Ministro degli Esteri russo ha dichiarato: “Ci rammarichiamo per questa decisione da Washington”. “Washington semplicemente non soddisfaceva le condizioni chiave della convenzione per migliorare la condizione umanitaria intorno Aleppo”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Syria conflict: US suspends talks with Russia – BBC

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