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L’eredità di Alcide De Gasperi
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Democrazia e Libertà

STATI UNITI E ARABIA SAUDITA: IL LEGAME SUL FILO DEL RASOIO

Il Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA) è legge. I parenti delle vittime dell’11 settembre 2001 sono ora autorizzati a fare causa ai paesi stranieri che ritengono essere direttamente coinvolti negli attentati terroristici sul suolo americano. Ed ecco che poche ore dopo, la vedova Stephanie Ross DeSimone lancia la prima azione legale: l’11 settembre, incinta di sua figlia, perde suo marito Patrick Dunn, comandante della marina militare che si trovava al Pentagono. L’accusa è diretta all’Arabia Saudita, sospettata di aver fornito supporto logistico e sostegno materiale al progetto di Bin Laden.

La prima volta non si scorda mai – La legge è stata definitivamente approvata il 28 settembre dalla maggioranza dei due terzi del Congresso, necessaria per superare il veto del presidente Obama. Ebbene sì: Obama infatti solo cinque giorni prima aveva bloccato la legge. Il Congresso però, per la prima volta in otto anni, ha deciso di opporsi al veto del presidente e questo ha generato non poche polemiche. È il primo veto su dodici della presidenza Obama ad essere respinto. Josh Earnest, il portavoce della Casa Bianca, ha dichiarato: “È la cosa più imbarazzante che il Congresso abbia fatto negli ultimi decenni”.

8408203919_051464909f_kRischi e conseguenze – Ricordiamo che quindici dei diciannove attentatori dell’11 settembre erano sauditi e questo ha generato da subito forti sospetti riguardo a un coinvolgimento diretto di Riad negli attentati dell’11 settembre. Proprio per questo Obama aveva tentato di impedire in tutti i modi che la legge Jasta fosse approvata: il quadro dei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita è infatti già molto delicato. Si teme che rapporti diplomatici incrinati già da tempo, siano definitivamente compromessi da un provvedimento così ambiguo. Inoltre secondo Obama la legge esporrebbe maggiormente funzionari americani, diplomatici e aziende a processi fuori dagli Stati Uniti. Infine, l’Arabia Saudita è uno dei maggiori detentori di titoli di Stato americani e, secondo quanto riportato dal New York Times pochi mesi fa, avrebbe utilizzato il ruolo di creditore per far pressione su Washington e minacciare una vendita generalizzata di titoli proprio nel caso in cui fosse stata approvata questa legge.

Vecchi amici – In questo complesso scenario di rapporti fra paesi è intervenuto anche Erdogan, che ha dimostrato ancora una volta come i rapporti tra Ankara e Riad divengano nel tempo sempre più solidi. Il presidente turco ha dichiarato come l’apertura di un procedimento giudiziario contro l’Arabia Saudita sia inopportuna e contro il principio della responsabilità individuale in caso di crimine.

L’umanità e la diplomazia – Si può dire che la legge ha prodotto una vera e propria serie di reazioni a catena, denotando tra l’altro l’atteggiamento americano di forte ambiguità riguardo ai rapporti con l’Arabia Saudita. I sospetti di un coinvolgimento diretto di quest’ultima su quegli attentati che hanno portato alla morte di più di tremila persone sono stati da sempre molto forti ma non ci sono state mai prove sufficienti che lo dimostrassero. Quello che si può dire con certezza è che da una parte si può considerare il lato umano della vicenda, con una moglie che per sete di giustizia fa addirittura qualcosa di così grande e probabilmente fuori dalla sua portata. E dall’altro lato c’è il desiderio di lasciare tutto così com’è, per non turbare nessun rapporto con gli altri paesi, in un silenzio diplomatico che a volte sembra davvero assordante.

Simone Stellato

FIRST HELMAND, THEN AFGHANISTAN

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Sune Engel Rasmussen | Foreign Policy | 21 Settembre 2016

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Sintesi tradotta

Qualunque cosa stiano facendo, non sembra funzionare. I combattimenti in Helmand hanno sempre alti e bassi, ma dal 2001 i talebani non hanno mai potuto circondare Lashkar Gah. I talebani hanno anche quasi completamente occupato diversi distretti della provincia che sono stati saldamente nelle mani del governo per un decennio o più.

Nella prima metà del 2016, il governo afgano ha perso il controllo di quasi il 5 per cento del suo territorio, secondo l’Ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), un “cane da guardia” del governo degli Stati Uniti. Le sue forze controllano il 65,6 per cento dei distretti in tutto il paese – il che significa che hanno perso il controllo dei 19 distretti in pochi mesi. Recentemente, il più grande canale di notizie afgana, Tolo News, ha riferito che gli attacchi degli insorti in Afghanistan sono aumentati del 28 per cento da giugno a luglio.

Ma è Helmand che contiene il più grande valore simbolico per gli Stati Uniti. La provincia sta arrivando a incarnare uno dei più grandi fallimenti di Barak Obama come comandante in capo.

Obama ha inviato migliaia di marines statunitensi a Helmand nel 2010 come parte di un tentativo di girare intorno al corso della guerra più lunga degli Stati Uniti. Nessun altro luogo in Afghanistan mostra più chiaramente perché la scelta strategica di Obama ha avuto poche possibilità.

“Una mattina, le forze governative sono venute e ci hanno detto di lasciare. Poi hanno iniziato a combattere dalla nostra casa”.

“Le forze governative sono ladri”, dice Ghulam Mohammad, 55 anni, che accusa la polizia di aver rubato le sue pecore e tacchini. “Al momento, i talebani ci trattano bene, ma non so per il futuro”.

I civili in Helmand che sostengono il governo concordano quasi all’unanimità che il ritiro delle truppe da combattimento americane e britanniche alla fine del 2014 è arrivato troppo presto. Molti vogliono che gli Stati Uniti assumano un ruolo più forte a Helmand.

Altri incolpano gli Stati Uniti di aver invitato l’arrivo di militanti islamici in una provincia in cui la violenza era tradizionalmente derivazione di rivalità tribali di lunga data.

Rahmatullah, 40, da Bolan. “A volte, anche se vi è un solo talebano in un villaggio, si bombardano e uccidono civili… Che cosa vogliono da noi? Devono lasciarci soli”. Piange senza sosta, raccontando di suo figlio, un poliziotto in Khanashin. “Quando i talebani hanno attaccato, è scomparso”, dice. “Era il mio unico figlio, e ha sostenuto la famiglia”.

Poco dopo il sorgere del sole, l’eco dei colpi ritmici e metallici dei picconi richiamano l’attenzione a un uomo che scava tra la ghiaia. Hanno trovato Abdul Hakim, il giovane ragazzo.

L’arbitrarietà della morte di Abdul Hakim è sintomatica di un conflitto che uccide e ferisce più civili che mai.

“Non sappiamo cosa accadrà. Preghiamo Dio che i combattimenti non si diffondano a Lashkar Gah “, dice Habibullah, l’anziano. “Questo ragazzo innocente fu martirizzato”, grida un mullah al gruppo assemblato in cerchio attorno a lui. “A volte Dio ci mette alla prova. A volte ci troviamo di fronte ad una situazione come questa in cui qualcuno dalla nostra famiglia viene ucciso”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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First Helmand, Then Afghanistan – Foreign Policy

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NON ESISTE UN’ALLEANZA POLITICO-MILITARE TRA RUSSIA E IRAN MA SOLO UNA CONVERGENZA TEMPORANEA E SELETTIVA DI INTERESSI

Quinta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Nicola Pedde*

La cronaca degli eventi in Siria e l’evoluzione delle sinergie che hanno visto il regime di Bashar al-Asad tornare concretamente all’offensiva a partire dai primi mesi del 2016, impone una ragionata riflessione sulla reale natura di quelle che troppo spesso la stampa si è affrettata a definire come alleanze.

In particolar modo è stato oggetto di ampia trattazione da parte dei media il sostegno fornito dalla Russia e dalla Repubblica Islamica dell’Iran alla Siria, ipotizzando la sussistenza di una rinnovata formula di alleanze che vedrebbe Mosca e Tehran condividere pienamente non solo il piano tattico ma anche l’obiettivo strategico del proprio intervento al fianco di Bashar al-Asad.

Il rapporto tra Iran e Russia ha radici antiche, soprattutto in conseguenza del lungo periodo di condivisione delle frontiere terminato solo nei primi anni Novanta con la dissoluzione dell’URSS e l’indipendenza delle repubbliche ex-sovietiche.

A dispetto delle apparenze, la storia delle relazioni russo-iraniane non è mai stata particolarmente costruttiva e pacifica, sia in epoca zarista che in quella sovietica e post-sovietica.

L’Iran non ha mai dimenticato – né tantomeno perdonato – come l’ex Unione Sovietica sia stata di fatto responsabile non solo di una prolungata ed ingiustificata occupazione militare del territorio iraniano nel corso del secondo conflitto mondiale, ma anche e soprattutto artefice di una politica di arbitraria appropriazione di territori storicamente facenti parte dell’insieme geografico e politico iraniano.

Sia in epoca monarchica che rivoluzionaria, quindi, il generale atteggiamento nei confronti dell’URSS è stato caratterizzato dal timore di ulteriori ambizioni territoriali e politiche, determinando l’adozione di una cauta politica di vicinato mai sfociata in formule di concreta  cooperazione politica e commerciale.

Particolarmente traumatica è stata l’interpretazione a Tehran dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1980, percepita per lungo tempo come manovra preliminare per un’espansione verso l’Iran delle mire egemoniche sovietiche e per la ricerca dello storico sbocco meridionale al mare che da sempre i russi avevano teorizzato nella definizione delle proprie ambizioni di proiezione.

Con il crollo dell’ex URSS e il venir meno della minaccia diretta rappresentata dalla condivisione dei confini, i rapporti tra Iran e Russia sono transitati in una dimensione certamente migliore e più costruttiva, senza tuttavia mai innalzarsi al livello di vera e propria alleanza o di condivisione della rispettiva visione strategica.

L’Iran e la Russia, al contrario, si sono di fatto reciprocamente serviti l’uno dell’altra nella gestione del complesso e sempre conflittuale rapporto individuale con gli Stati Uniti. La gran parte delle manifestazioni di reciproco interesse o la condivisione di specifici dossier ha quasi sempre avuti come reale obiettivo quello di alimentare la tensione dei rapporti della controparte con Washington, senza quindi costruire alcun concreto elemento di sinergia e collaborazione.

Anche sul piano economico, a dispetto di quanto spesso ipotizzato dai media, la collaborazione tra Mosca e Tehran è caratterizzata da valori non significativi, così come sul piano degli investimenti e delle joint-venture.

Anche la cooperazione militare non è mai sfociata in un reale sviluppo di sinergie, come dimostrato dall’assenza sostanziale di rapporti e dalla limitatissima sfera delle sinergie commerciali sul piano della tecnologia e degli armamenti. Il caso della fornitura delle batterie antiaeree S300 all’Iran è infatti esemplificativo della riluttanza di Mosca ad instaurare una reale politica di cooperazione con l’Iran.

Il più recente caso della crisi in Siria offre anch’esso un ottimo strumento per interpretare in modo corretto i rapporti tra Iran e Russia. Quella che infatti viene spesso descritta come un’alleanza strategica per favorire la vittoria delle forze governative siriane, è al contrario il prodotto di una divergente visione politica regionale ed una altrettanto complessa formula di cooperazione militare sul terreno.

Mentre la difesa dell’integrità territoriale siriana e la transizione politica inclusiva delle attuali forze di governo costituisce una priorità assoluta per gli iraniani, in funzione del loro interesse nazionale e della capacità di mantenere intatta la credibilità difensiva del proprio apparato di deterrenza, per i russi la guerra in Siria rappresenta un’opportunità negoziale con la comunità internazionale, per segnare i limiti della sfera di influenza occidentale in Medio Oriente ma soprattutto per sfruttare la tensione militare a favore di un ammorbidimento delle posizioni della comunità internazionale sull’Ucraina e sulle politiche sanzionatorie imposte alla Russia.

Mentre quindi per l’Iran è di vitale importanza garantire l’integrità territoriale della Siria e la continuità di una politica nazionale che non orienti il proprio interesse prioritariamente in direzione del mondo arabo e dell’occidente, per la Russia la Siria rappresenta una variabile con minori fattori di rigidità e con un alto potenziale negoziale con gli Stati Uniti e l’Europa.

La cooperazione militare sul terreno siriano tra le forze governative, russe, iraniane e delle milizie libanesi di Hezbollah è quindi regolata da una sostanziale temporanea formula di accordo sul piano tattico – è necessario per tutti vincere il conflitto, ristabilendo il predominio del ruolo di Damasco – ma al tempo stesso da una sempre più evidente divergenza sul piano strategico, dove gli interessi dei singoli attori tendono a mostrare le proprie peculiarità e soprattutto le loro profonde differenze.

Non deve quindi stupire la recente frizione politica tra Iran e Russia in relazione all’utilizzo della base aerea di Hamedan da parte dei bombardieri russi impegnati nelle operazioni sulla città siriana di Aleppo. Lo stazionamento degli aerei russi, durato solo sei giorni, è stato bruscamente revocato dall’Iran, in seguito ad una crescente ondata di proteste a livello parlamentare – dove è stata denunciata la violazione della costituzione, che impedisce la concessione in uso del territorio a forze straniere – e più generiche accuse alla Russia di aver diramato informazioni circa la segretezza dell’accordo di utilizzo, violando la rigida disciplina del segreto militare iraniano.

La natura della frizione tra Mosca e Tehran sembra tuttavia essere connessa al rifiuto dell’Iran di concedere ai russi l’uso prolungato della base, trasformandola di fatto in una postazione avanzata di attacco oggi necessaria per l’intervento in Siria ed un domani potenzialmente utile a rappresentare un deterrente nell’area del Golfo.

Il rapporto tra Russia e Iran, in sintesi, è da sempre condizionato da antichi livori e dal più recente pragmatismo che impone una temporanea cooperazione per il perseguimento di comuni interessi tattici e per la reciproca gestione del rapporto con gli Stati Uniti. Tutt’altro che un’alleanza, quindi, e anche fortemente suscettibile di influenze sul piano delle relazioni regionali e globali dei due attori, con il risultato di rendere il rapporto alquanto particolare, delicato e certamente mutevole.

* Direttore Institute for Global Studies

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio CampatiTempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa

IL PUNTO SULLA LIBIA

“Who do I call if I call Europe?”: Così negli anni ’70 Henry Kissinger, allora Segretario di Stato Usa, manifestava la frustrazione di non poter avere nel Vecchio Continente un interlocutore unico e affidabile a livello diplomatico. Oggi, a provare a chiamare la Libia, non si sa quale numero comporre, e quando anche se ne trovi uno, probabilmente sarà occupato in un’altra chiamata. Da quando, due anni fa, la seconda guerra civile ha spento ogni speranza di una stabilizzazione dell’area, non c’è un esecutivo che possa vantare un controllo effettivo sul paese. Ma cerchiamo di ripercorrere insieme i punti più critici.

Risiko – Due oggi sono i personaggi chiave dello scenario libico: Khalifa Haftar e Fayez al-Sarraj. Percorsi e personalità che non si sono mai incrociati, e che pure hanno fatto entrambi tappa nel regime di Muhammar Gheddafi. Haftar, prima di trasferirsi in America per ben 20 anni, ne era stato uno dei comandanti nella guerra con il Ciad; al-Sarraj aveva ricoperto alcuni incarichi ministeriali. Poi nel 2011 le strade si dividono. Haftar torna in patria ed entra nello Stato Maggiore del nuovo governo Islamista, per poi dichiararne la sospensione e dare inizio con i suoi uomini alla lotta alle milizie jihadiste nel paese. Da febbraio 2015 è Capo di Stato maggiore del governo di Tobruk.

Esattamente un anno fa al-Sarraj viene incaricato dall’ONU di formare un governo di unità nazionale che ottenga il voto favorevole dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk. Ma la lotta ad un nemico comune, le milizie dell’ISIS arroccate nelle città di Derna e Sirte, non basta a cementare tra le due parti un’alleanza abbastanza solida per prospettare un governo unico. Il parlamento di Tobruk non viene riconosciuto dalla comunità internazionale, con alcune significative eccezioni. In primis l’Egitto di Al-Sisi, alleato del generale Haftar nella lotta contro le milizie islamiche di Derna. Più velatamente poi c’è la Russia di Putin, che in questi giorni ha smentito le notizie circolate nei media internazionali di aiuti militari forniti agli uomini di Haftar.

Jihad libica – Se lo scacchiere delle forze schierate contro i fondamentalisti è di difficile lettura, quello delle forze jihadiste, se possibile, è molto più intricato. L’ISIS ne costituisce la parte più massiccia: ad ingrossarne le fila, molti degli ex lealisti di Gheddafi. È riuscito a conquistare roccaforti del calibro di Sirte e a difenderle con pochi uomini (donne comprese) infliggendo gravi perdite al nemico. Ma non è l’unica pedina in gioco: ai miliziani fedeli al Califfo si aggiungono diverse altre formazioni, alcune legate ad Al Qaeda, altre formate da ex ribelli in conflitto con Haftar, come Ansar al-Sharia, nata nel 2012.

La situazione oggi – Gli accordi firmati in Marocco a Skhirat nel dicembre 2015 sancivano la nascita del nuovo governo di unità nazionale, insediatosi a fine marzo del 2016, senza però ottenere la fiducia del parlamento di Tobruk. Haftar è un personaggio scomodo e gran parte della coalizione occidentale ne farebbe volentieri a meno. Ma ad oggi non si può cercare una soluzione di unità senza di lui per almeno tre validi motivi. Perché esercita un enorme influenza sulla Camera dei Rappresentanti, perché dispone di una milizia di almeno 20.000 uomini e del controllo della Cirenaica, e ultimo, ma non per importanza, perché da inizio settembre ha occupato quattro porti petroliferi cruciali per l’esportazione del greggio, togliendoli alla gestione del governo di unità nazionale. Esportazione che dalla caduta di Gheddafi è caduta vertiginosamente (da più di un milione e mezzo di barili a circa 200.000) e che ora il generale promette di far ripartire.

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Sarraj ha annunciato ripercussioni. Ma la credibilità del suo governo non gli permette di usare il pugno duro. Le sue forze militari sono attaccate alla spina del supporto occidentale. Per cacciare da Sirte l’ISIS ci sono voluti mesi e mesi di guerriglia estenuante, per di più in superiorità numerica e con l’aiuto dei raid americani: oggi i miliziani controllano ancora un quartiere della città con un pugno di cecchini.

In un’intervista al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat Sarraj ha dichiarato di non voler precludere nessuno dal nuovo governo e di avere avuto un incontro con Haftar. Punto di attrito in particolare il ruolo dell’esercito nella formazione del nuovo esecutivo. Il generale ha risposto dal canto suo che il paese non riconoscerà parlamenti al di fuori di quello di Tobruk e che alla Libia serve un leader di alta esperienza militare. Il progetto di una nuova costituzione sembra ora pura utopia. Quel che è certo è che se la Libia ricadesse in una nuova estenuante guerra civile i primi a trarne vantaggio sarebbero i miliziani dell’ISIS. Tra Sirte e la Sicilia ci sono poco meno di 200 miglia marine: non sorprende che la stabilità politica ed economica dello scacchiere libico sia un’assoluta priorità per l’Unione Europea.

Francesco Bechis

IT’S NO COLD WAR, BUT VLADIMIR PUTIN RELISHES HIS ROLE AS DISRUPTER

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David E. Sanger | The New York Times | 29 Settembre 2016

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Una escalation di attacchi aerei in Siria; attacchi informatici sofisticati, apparentemente allo scopo di influenzare le elezioni americane; nuove prove di complicità riguardo l’abbattimento di un aereo civile. Il comportamento della Russia nelle ultime settimane ha echi di alcuni dei momenti più brutti della guerra fredda, un periodo di battaglie per procura concluso nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica. Il presidente Obama, reduce da un incontro con il presidente Vladimir Putin questo mese, ha chiesto se il leader russo viva con una “costante tendenza al conflitto a basso grado”. Il suo riferimento era rivolto all’Ucraina, ma avrebbe potuto essere rivolto a qualsiasi arena in cui Putin ha mostrato il suo nuovo ruolo di grande distruttore di piani americani in tutto il mondo.

“Mi sembra che abbiamo la risposta di Putin”, ha dichiarato Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations e autore del libro “Un mondo nel caos”. “È risolta in senso affermativo. Il conflitto di basso grado è la sua costante. E la domanda è come, direttamente o indirettamente, introduciamo i costi”. Nessuno di questi conflitti ha, infatti, un costo elevato per Putin. Il cyberpower, in particolare, sembra fatto su misura per un paese che si trovi nelle circostanze in cui si trova la Russia ora.

Il problema più grande nel confronto con i funzionari dell’intelligence americana, però, è se il presidente russo abbia o meno  uno schema. Finora, la loro conclusione è che le mosse di Putin siano in gran parte tattica, destinata a sostenere la sua immagine internazionale, in un momento di tensione interna. Da un anno, la Casa Bianca ha sostenuto che questi scontri crescenti non costituiscano una nuova guerra fredda. Non c’è una lotta ideologica in corso. Nessuno brandisce le armi nucleari. La Siria è un disastro umanitario di portata inimmaginabile, ma non è una minaccia strategica fondamentale per gli interessi americani. L’accordo in Ucraina è sospeso: la Russia convenientemente ignora molti degli impegni firmati e ha negato il coinvolgimento nell’abbattimento due anni fa di un jet Malaysia Airlines che uccise 298 persone.

Le attività di intelligence sono state così concentrate negli ultimi 15 anni sul contro-terrorismo che gli obiettivi tradizionali hanno perso di interesse. Forse ci sono stati alcuni errori di valutazione. Era più di un anno fa quando il signor Obama disse che la Russia si trovava in un “pantano” in Siria; si può ancora dire, ma finora la guerra aerea di Putin ha dichiaratamente appoggiato Assad, anche se ad un costo umano terribile, come dimostra la situazione nella città di Aleppo – diventata “baratro spietato di una catastrofe umanitaria”.

Finora, però, Putin ha mostrato una certa cautela. Mentre  ha cercato di intimidire i paesi della NATO con sorvoli di bombardieri, sottomarini nucleari e le esercitazioni militari vicino ai confini di Estonia e Lettonia, è stato attento a rimanere dalla sua parte dei confini.

“Queste sono cose che si verificano in zone grigie con tattiche da zona grigia”, ha detto Robert Kagan, storico presso la Brookings Institution che ha scritto sul ritorno del conflitto geopolitico. La domanda che gli Stati Uniti dovranno affrontare, ha aggiunto, è: “Siamo disposti anche noi a operare nella zona grigia?”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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It’s No Cold War, but Vladimir Putin Relishes His Role as Disrupter – The New York Times

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L’EUROPA DEI MURI

Europa di Charlie, Europa di Orlando, Europa del Bataclan, di Dakka, della Brexit e oramai, Europa dei muri.

Verrà innalzato a Calais, nel nord della Francia, il muro anti migranti eretto a tutela del passaggio verso la Gran Bretagna. Dopo forse troppi “je suis”, l’Europa si vela di cemento nella speranza di celare la fragilità della propria identità storica dietro un chilometro di pietra.

Verrebbe da chiamarla, questa Europa, “l’Europa blindata”, coperta dalla stessa rabbia che infiammò l’Oriana, all’indomani dell’11 settembre, ma le mura innalzate allora erano di uomini stretti non tanto nel ricordo quanto nell’affetto ad una cultura dichiarata ed evidentemente sotto attacco.

Corsi e ricorsi, direbbe qualcuno, eppure no. No. Questo non è mai accaduto. Il mondo ha già difeso erigendo mura. Lo sanno bene quei berlinesi dell’est, gli ungheresi e gli sloveni, gli italiani dei monarchi e degli imperatori, la Russia nascosta del dopoguerra. Appena un chilometro e poi il nulla, un’idea abbozzata di difesa, senza identità e senza forza. La nostra Europa difende col vuoto, un vuoto di ideale.

Il nuovo rapporto annuale dell’UNHCR riporta un dato senza precedenti, 65.3 milioni di persone in fuga dalle loro case a fine del 2015, un dato in aumento rispetto ai 59.5 milioni di un anno prima. Ciò implica, come riporta l’UNHCR, che “con una popolazione mondiale di 7.349 miliardi di persone, 1 persona su 113 è oggi un richiedente asilo, sfollato interno o rifugiato”.

Il dato italiano è riportato daIla IOM secondo la quale, fino al 30 giugno 2016 sono sbarcati in Italia 78487 migranti, contro i 70354 sbarcati nello stesso periodo del 2015.

Scappano da guerre, conflitti, violenze e paura. Scappano inseguendo la speranza che il sogno europeo ancora esista.

È strano ricordare oggi che l’Europa unita nasce proprio dall’orrore della guerra e dalla fuga dalle violenze quando, a partire dal 1946, gli europei erano determinati a impedire il ripetersi delle devastazioni susseguite alla seconda guerra mondiale.

Nostra patria Europa, la chiamava De Gasperi, “I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche della loro crescita, debbono elevarsi anche a un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati. Lo sforzo di mediazione e di equità che è compito necessario dell’Autorità europea le darà un nimbo di dignità arbitrale che si irradierà al di là delle sue giuridiche attribuzioni e ravviverà le speranze di tutti i popoli liberi”.

Nata da un ideale, l’Europa di oggi si scontra con la paura e l’incertezza. La paura dei migranti, la sfiducia verso i vertici europei. Agli albori del sogno, nei primi del 2000, quasi il 60% degli italiani esprimeva fiducia verso le istituzioni comunitarie, oggi quella stessa fiducia è calata al 27%. Alla sfiducia sembra attualmente non esserci risposta: lo prova il fatto che gli accordi di Schengen siano in bilico, visto che in Italia il 48% della popolazione vorrebbe ripristinare controlli permanenti alle frontiere e un altro 35% lo farebbe solo in circostanze particolari, mentre appena il 15% manterrebbe gli accordi intatti.

La storia è scossa dall’attualità che si impone con nuove crisi e nuovi scenari, i nuovi muri cristallizzano le distanze tra l’Europa e il suo sogno, tra il presente e quella remota memoria dell’ideale che nella storia ha fatto dello scontro un’occasione e del dibattito una strada.

Giada Martemucci

DONALD TRUMP IS AN AMERICAN AHMADINEJAD

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Michael Axworthy | The Guardian | 28 Settembre 2016

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Over the years, Iran has sometimes played a disproportionately large part in US politics. Jimmy Carter blamed the 1979-81 embassy hostage crisis for his failure to secure a second term, and Reagan’s second term was damaged significantly by the Iran-Contra revelations.

The deal secured by the Obama administration with Iran over the nuclear question in July 2015 has proved violently divisive between Democrats and Republicans. So it was no surprise that Iran surfaced again in the debate between the presidential candidates on 26 September.

President Rouhani of Iran can scarcely be enthusiastic about the prospects for the US presidential election. Trump has said directly that the 2015 nuclear deal was “disastrous” and he would repudiate it, doubling and tripling sanctions (quite how, he doesn’t specify) to force the Iranians to renegotiate. Clinton has supported the nuclear deal and is more likely to follow in Obama’s footsteps, but she has consistently been more hawkish on Iran than Obama. She was enthusiastic in the drive to harden sanctions on Iran in the latter part of Obama’s first term, and Iranians have not forgotten her statement during the presidential nomination contest in 2008 that the US could “totally obliterate” Iran if it were to attack Israel with a nuclear weapon.

Rouhani himself is engaged in an election campaign (the election will take place in May 2017) and, though still popular, is under increasing pressure because economic benefits from the nuclear deal have yet to reach ordinary Iranians. Iran’s supreme leader, Ali Khamenei, has suggested that the US has failed to honour its commitment to lift sanctions. It is an unwritten rule of Iranian politics that Iranian presidents always get a second term, but Rouhani cannot be complacent. He has to appease hardliners, which is why he avoided meeting Obama at the UN general assembly earlier in September. Since the nuclear deal, Iran has drawn closer to Russia over Syria and the US has seemed keener to mollify its ally Saudi Arabia than to explore new opportunities for a better relationship with the Iranians. Iran and the US have retreated to their familiar comfort zones of mutual hostility.

If Trump were elected and really were to follow an America-first policy, retreating from global commitments, conciliating Putin and allowing Russia a larger role (as he has hinted, bizarrely) then relations between states would shift in the Middle East.

Saudi Arabia would be isolated (the folly of the UK’s support for Saudi Arabia in its sectarian cold war with Iran would be even more exposed) and the Iranian regime might rejoice. Trump would follow through on his rhetoric and take a hard line on Iran. Trump is plainly populist and unpredictable – an American version of Iran’s former president Mahmoud Ahmadinejad. But even to him, a US policy initiative to tear up the nuclear deal must look like only adding to the problems of a murderously chaotic region.

Perhaps if, as the polls still indicate, Clinton wins the US presidential contest, greater political freedom of action will permit her to be more imaginative, bold and judicious in the Iran context. Let’s hope so.

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Traduzione

Nel corso degli anni, l’Iran ha talvolta avuto un ruolo “sproporzionalmente” grande nella politica americana. Secondo Jimmy Carter è stata la crisi degli ostaggi all’ambasciata del 1979-1981 a non garantirgli un secondo mandato, e il secondo mandato di Reagan è stato danneggiato in modo significativo dalle rivelazioni Iran-Contra.

L’accordo fissato dall’amministrazione Obama con l’Iran sulla questione nucleare nel luglio 2015 ha svelato le violente divisioni che occorrono tra democratici e repubblicani. Per questo non è una sorpresa che l’Iran sia emerso ancora una volta nel dibattito tra i candidati alla presidenza il 26 settembre.

Il Presidente Rouhani non può essere troppo entusiasta circa le prospettive per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Trump ha detto espressamente che l’accordo nucleare del 2015 è stato “disastroso” e che tenterà di respingerlo, raddoppiando e triplicando le sanzioni (senza specificare come) per forzare gli iraniani a rinegoziare. Clinton ha invece sostenuto l’accordo nucleare, essendo più propensa a seguire le orme di Obama.

Rouhani si è impegnato in una campagna elettorale (le elezioni avranno luogo nel maggio 2017) e, anche se ancora popolare, è sempre più sotto pressione a causa del fatto che i benefici economici derivati dal patto nucleare non hanno ancora raggiunto gli iraniani “ordinari”. Il leader supremo dell’Iran, Ali Khamenei, ha suggerito che gli Stati Uniti non sono riusciti a onorare il loro impegno di abolire le sanzioni. Rouhani deve placare sostenitori della linea dura, motivo per cui ha evitato di incontrare Obama in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite all’inizio di settembre. Dall’accordo nucleare l’Iran si è avvicinato alla Russia sulla questione siriana, e agli Stati Uniti è sembrato più utile tornare ad assecondare l’Arabia Saudita piuttosto che esplorare nuove opportunità per un migliore rapporto con gli iraniani. Sia l’Iran che gli Stati Uniti si sono ritirati nei loro confortevoli ruoli di mutua ostilità.

Se Trump dovesse realmente essere eletto attuando quel tipo di politica di cui parla, ritirandosi dagli impegni globali e consentendo alla Russia un ruolo più importante (come ha lasciato intendere, stranamente), le relazioni tra gli stati nel Medio Oriente subirebbero un cambiamento. L’Arabia Saudita sarebbe isolata (a parte il folle sostegno del Regno Unito nella sua settaria guerra fredda con l’Iran) e il regime iraniano potrebbe gioire.

In linea di massima, nel valutare la probabile direzione della politica sotto uno dei due candidati, ci si deve aspettare che Trump segua la linea dura contro l’Iran. Trump è chiaramente populista e imprevedibile – una versione americana dell’ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Ma anche per lui, un’iniziativa politica degli Stati Uniti di questo tipo deve apparire come l’aggiunta di problemi ulteriori ad una regione mortalmente caotica.

A meno che la vittoria non vada alla Clinton e ad una politica iraniana sì più audace ma anche più giudiziosa.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Donald Trump is an American Ahmadinejad – The Guardian

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SYRIAN TROOPS LAUNCH GROUND OFFENSIVE AGAINST ALEPPO REBELS

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Emma Graham-Harrison | The Guardian | 27 Settembre 2016

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Syrian troops have launched a large-scale ground attack on rebel-held areas of Aleppo in a bid to make concrete military gains after nearly a week of punitive bombardment that has mostly hit civilians. Forces loyal to President Bashar al-Assad opened multiple fronts in an apparent attempt to increase pressure on rebel forces experienced in close urban warfare. They advanced on the old city of Aleppo, a former refugee camp in the north captured at the weekend then lost to rebel forces, and in two other districts, opposition forces and state television said. Rebel commanders were defiant about their chances of repelling troops on the ground, pointing to years of resistance against a better-armed enemy and the advantages of battle-hardened opposition fighters in close street-to-street combat.

The city is a fiercely contested prize. It was Syria’s cultural and economic hub before civil war broke out, and is the last major urban centre where rebels have a presence.

There are estimated to be about 250,000 people still living in the besieged area of eastern Aleppo, but the barrage of explosives, including alleged bunker-buster bombs, have brought what daily life still existed in the battered districts to a near halt. More than 200 people have been killed and many more injured in one of the most intense aerial attacks of the five-year civil war. Russia was directly accused of war crimes at the UN security council for its use of munitions against civilian targets.

Assad appears determined to try to break the stalemate that has gripped Aleppo since 2012 – when rebel forces seized most of the areas they hold now – at almost any cost. Many have died in hospitals where exhausted and overwhelmed doctors are running low on medical supplies and struggling to treat the victims flooding into their wards. Only about 30 medics are left to provide care in the besieged area of the city, The World Health Organisation and the International Committee of the Red Cross called on Tuesday for safe corridors into the city to allow ill and wounded people to be evacuated for treatment. The toll from the attacks has been exacerbated because they hit civilian infrastructure left in besieged areas, including hospitals, the White Helmet search and rescue group’s facilities, markets and homes. Syria bombings leave 1.75 million without running water in Aleppo. The Associated Press quoted a military official as saying the fighting would continue until opposition fighters were wiped out, but rebels insisted that their spirit had not been broken.

“The rebels prepared themselves for the siege well, even though of course our troops and munitions are being drained”, the opposition commander said. “The Russian bombers are relying on a scorched earth policy. We think they lack accuracy in targeting, because they couldn’t hit our troops near the frontline where they are deployed. They are taking revenge on civilians”.

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Traduzione

Le truppe siriane hanno lanciato un attacco di terra su larga scala sulle aree in mano ai ribelli di Aleppo, nel tentativo di guadagnare posizioni militari concrete. Il tutto è accaduto dopo quasi una settimana di bombardamenti punitivi che hanno colpito principalmente i civili.

Le forze fedeli al presidente Bashar al-Assad hanno aperto più fronti in un apparente tentativo di aumentare la pressione sulle forze ribelli dando il via ad una stretta guerriglia urbana.

La città è un premio ferocemente agognato. Era il polo culturale ed economico della Siria prima dello scoppio della la guerra civile, ed è l’ultimo grande centro urbano dove i ribelli hanno una presenza.

Si stima che  circa 250.000 persone vivano nella zona assediata di Aleppo orientale, ma la raffica di esplosivi, tra cui le presunte bombe bunker-buster, hanno forzato quel che restava della vita quotidiana nei distretti malconci di Aleppo ad una quasi totale battuta d’arresto. Più di 200 persone sono state uccise e molte altre ferite in uno dei più intensi attacchi aerei della guerra civile. La Russia è stata direttamente accusata di crimini di guerra presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il suo uso di munizioni contro obiettivi civili.

Assad sembra determinato a cercare di rompere la situazione di stallo che ha colpito Aleppo dal 2012 – quando le forze ribelli hanno sequestrato la maggior parte delle zone – che attualmente detengono – quasi ad ogni costo. Alcune delle vittime più giovani sono nate e morte in una città divisa e in guerra.

L’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa hanno organizzato corridoi di sicurezza per permettere alle persone malate e ferite di lasciare la città. Il bilancio degli attacchi è stato aggravato dalla distruzione di infrastrutture civili tra cui ospedali, strutture di ricerca e di salvataggio, mercati e case.

Il comandante di una milizia sciita irachena che lotta a sostegno di Assad ha dichiarato alla Reuters che un blocco guidato da forze NIMR o Tiger elite dell’esercito aveva iniziato a muoversi in veicoli blindati e carri armati per un attacco sulle aree controllate dai ribelli.

I bombardamenti in Siria lasciano 1,75 milioni senza acqua corrente a Aleppo. L’Associated Press ha citato un funzionario militare il quale sostiene che la lotta continuerà fino a quando i combattenti dell’opposizione non saranno stati spazzati via, ma i ribelli insistono, ancora, sono pronti a lottare.

“I ribelli si sono preparati bene per l’assedio, anche se naturalmente le nostre truppe e munizioni vengono sostenue”, ha detto il comandante opposizione.

“I bombardieri russi si affidano alla politica della terra bruciata. Non hanno precisione nel colpire gli obiettivi perché non possono colpire le nostre truppe nei pressi della linea del fronte dove sono distribuite. Loro si vendicano sui civili”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Syrian troops launch ground offensive against Aleppo rebels – The Guardian

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LA POLVERIERA BALCANICA

Nuove tensioni politiche nei Balcani, che furono teatro di una guerra fratricida a metà degli anni ’90, tra i popoli dell’ex Jugoslavia di Tito. Croazia e Serbia, i principali “players” di questa regione, nel corso del tempo hanno proseguito la loro rivalità secolare cercando alleanze strategiche antitetiche e ostacolandosi vicendevolmente nelle rispettive sfere d’influenza geopolitica. A cambiare le carte in tavola c’è stata la vittoria del “Partito Progressista Serbo” nel Marzo del 2014, e la nomina di Aleksandar Vucic come nuovo primo ministro della Serbia. Il giovane e rampante Vucic si è reso protagonista di una decisa svolta filo-europeista nella linea politica serba, accantonando per il momento pretese nazional-revansciste e soprattutto il rapporto con la Russia di Putin, da sempre interessata a giocare un ruolo fondamentale nella zona balcanica. Dal canto suo la Croazia, membro della Nato e dell’Unione Europea, si è opposta più volte ai negoziati portati avanti da Vucic per l’ingresso della Serbia nell’U.E.

La politica moderata e accorta del leader serbo, che si è palesata anche nella scelta di non avviare trattative ufficiali per l’entrata nella Nato, rischia di essere messa in pericolo dal referendum, che ha avuto luogo pochi giorni fa nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Scontato sin dall’inizio l’esito del referendum, che ha visto la minoranza serba riconfermare la “Festa nazionale e dell’entità statale” in programma ogni anno il 9 Gennaio. Malgrado le pronunce di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale di Sarajevo, il referendum è stato un autentico trionfo per il Presidente e leader carismatico della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina Milorad Dodik. Vladimir Putin ha esultato per l’esito della consultazione popolare, appoggiando l’iniziativa del nazionalista Dodik e definendolo come un diritto del popolo serbo. Vucic ha immediatamente sconfessato la visione e la spregiudicatezza politica di Dodik, che potrebbe far collassare il già precario equilibrio di uno stato come quello della Bosnia-Erzegovina, creatosi dopo gli accordi di Dayton del 1995. Con tale accordo vennero riconosciute a livello internazionale due entità ben definite: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina a maggioranza musulmana e croata, e la già citata Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.

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Il risultato del referendum ci consegna scenari poco rassicuranti sulla delicata e fragile convivenza delle due principali etnie del paese, infatti le repliche da Sarajevo sono state piuttosto forti e certamente poco diplomatiche. L’ex leader militare Sefer Halilovic si è pronunciato in maniera drastica: “Se necessario con una nostra reazione militare vinceremmo contro Dodik in 10-15 giorni”. Dodik, senza batter ciglio, ha risposto: “Siamo pronti a difenderci”. Vucic cerca di vestire i panni del moderatore, ma con scarsi risultati al momento. L’Unione Europea resta ancora alla finestra, ma nei Balcani la sottile linea rossa tra la pace e la discordia potrebbe drammaticamente sgretolarsi, gettando nuovamente nello scompiglio il “giardino di casa” dell’Occidente.

Gian Marco Sperelli

ELEZIONI USA, PRIMO ROUND: COM’E’ ANDATA E COSA ASPETTARSI

«Quando corri per la Presidenza (e ancor di più quando sei Presidente), le parole contano. Voglio rassicurare i nostri alleati che rispetteremo gli accordi di mutua assistenza»: probabilmente sta tutta qua la differenza tra Donald Trump e Hillary Clinton, in questa frase pronunciata dalla candidata democratica dopo che, verso la fine del dibattito (il primo di tre che ci accompagneranno verso il voto dell’8 Novembre), il candidato repubblicano aveva disegnato scenari di politica internazionale quantomeno originali (per citare i due più incredibili – l’Arabia Saudita ci paghi per la sicurezza che gli garantiamo e la Cina pensi a difendere la Corea del Sud perchè noi non possiamo).

La differenza sta tutta qua perchè, come forse mai, le elezioni americane non si giocano tanto sui contenuti, quanto sulle persone; il che, di per sé, non sarebbe neanche negativo, se non fosse una corsa al ribasso, nella quale (a seconda delle preferenze) almeno uno dei due candidati è sicuramente eccelso. Di conseguenza, davanti alla non-dimestichezza diplomatica, politica e “governativa” di Donald Trump, Hillary Clinton appare una statista di rango elevato, quando non fa altro che tenere botta con classe agli attacchi dell’avversario sviando il discorso mediante attacchi meglio piazzati.

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Una manna per lo spettacolo e lo share, senza dubbio: ma la politica, quella della principale potenza mondiale, dov’è finita? Eppure, lo schema della serata era ben disegnato e proporzionato per affrontare con serietà una vasta quantità di temi: tre spezzoni da mezz’ora, economia (“Achieving prosperity”), società (“America’s direction”) e politica internazionale (“Securing America”).

Il primo è stato forse il più “politico”, dato che si è potuta intravedere una differenza di visione: la Clinton sceglie di aumentare le tasse (soprattutto per i benestanti) per ricostruire la classe media e investire in infrastrutture, energie rinnovabili e tecnologia (creando, a suo dire, 10 milioni di posti di lavoro), mentre Trump punta sulle imprese, insistendo sulla necessità di impedire che vengano spostate all’estero e di riportare sul suolo americano quelle già uscite nonché abbassando il costo del lavoro e la regolamentazione, e sui trattati, da rinegoziare (il NAFTA è, secondo The Donald, il peggior accordo mai fatto da qualsiasi stato nella storia mondiale degli accordi commerciali).

Il secondo, senza dubbio, è stato il più tranquillo: il conduttore ha subito portato il dibattito sulla questione razziale, e chiaramente entrambi – e soprattutto Trump, visto il recente (e non) passato problematico in materia – hanno scelto un low profile, invocando più coesione, collaborazione tra polizia e società e pace sociale; certo, Hillary aggiunge una “rieducazione dei poliziotti” mentre Donald insiste su “law and order”, ma il succo del discorso non è poi così diverso.

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È molto diverso, invece, il profilo internazionale dei due candidati: è qua dove sembra che Hillary lasci indietro Donald per distacco, assumendo un profilo realmente presidenziale mentre l’avversario lancia accuse e – come detto in apertura – provocanti previsioni e allusioni. La democratica, ad esempio, non ha paura di entrare nello specifico (per quanto concesso da un format come questo) quando invoca supporto ai curdi contro ISIS; Trump, invece, si limita a sentenziare: “it’s a real mess” è l’espressione preferita per delineare il quadro geopolitico, e poco dopo allude al fatto che bisognerebbe ripensare alla posizione degli USA nella NATO o al loro impegno internazionale. La chiusa, poi, è abbastanza contraddittoria: “Quella nucleare è l’unica vera minaccia da affrontare, non il riscaldamento globale!”, dopo che circa mezzora prima si era difeso dall’accusa di relegare quest’ultimo ad una bufala inventata dai cinesi.

Insomma, lungi dall’essere pro-Clinton, questo dibattito conferma diverse considerazioni. Innanzitutto, giusto per tirare un sospiro di sollievo (o – forse – per preoccuparsi ancor di più), che la tendenza al ribasso del livello politico non è solo una caratteristica del nostro paese. Quindi, che il meno peggio, ad ora, sembra essere la candidata democratica, anche se sarebbe auspicabile una maggiore sollecitazione sulle sue posizioni – nel merito. Infine, che la consistenza delle due candidature è molto fragile (una più dell’altra, certo), e che basta un nulla per capovolgere i giochi. I prossimi dibattiti (9 e 19 Ottobre) saranno decisivi, anche se – come abbiamo visto – potrebbero bastare un tweet o un’email a decidere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (?!?).

Giovanni Gazzoli