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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

ALFANO: DE GASPERI, PADRE FONDATORE DELL’ITALIA REPUBBLICANA.

Ricordare oggi l’anniversario della morte di De Gasperi assume una valenza del tutto particolare a settant’anni dalla fondazione della Repubblica italiana.
Lo statista trentino visse solamente i primi otto anni della nostra storia repubblicana, ma si può ben dire che la pace e il benessere dei quali ancora oggi godiamo dopo molte decadi sono il frutto prezioso di una semina che lui fece proprio in quegli anni.

De Gasperi seppe interpretare al meglio il nuovo paradigma repubblicano, incardinando la grammatica istituzionale e la dialettica politica nell’alveo sicuro della democrazia parlamentare. Ciò permise che nessuna delle parti in gioco potesse sentirsi tagliata fuori dal processo democratico e fece maturare anche nel popolo quel necessario coinvolgimento senza il quale una democrazia non potrebbe definirsi tale.

Oggi siamo a un nuovo tornante della nostra vita repubblicana. L’Italia ha davanti sfide che chiedono uno sforzo comune pari a quello espresso nel secondo dopo guerra. L’inverno demografico e la dissolvenza dei corpi intermedi, la lotta al terrorismo e la pressione dei flussi migratori, la crisi economica e l’involuzione del processo di unificazione europea, la compressione dello Stato sociale, rappresentano problemi che paiono insormontabili e spesso – per la loro natura che travalica la dimensione nazionale – fuori dalla nostra portata di soluzione. Ma De Gasperi ci ha insegnato che la speranza non è l’illusione di qualcosa che non c’è ma la certezza di qualcosa che è possibile, affidandosi al buon senso e alla Provvidenza.
Pertanto, di fronte a una fase così delicata per l’Italia e l’Europa, di fronte alla congiuntura economica segnata da una crescita ancora troppo flebile e soggetta a possibili improvvisi rovesci e insidiati dal consolidamento di forze politiche antisistemiche e demagogiche, a focolai di guerra non lontani dai nostri confini, la risposta delle istituzioni deve essere all’altezza di tali sfide, pena la rottura, che sarebbe esiziale, di quel legame con il popolo senza il quale nessuna democrazia, e quindi convivenza civile, può restare pacifica e generare benessere. In fondo De Gasperi ci ha lasciato proprio questo, un popolo.
Tramite la sapiente costruzione della nostra architettura democratica, la profonda azione riformatrice e l’ambizioso sogno di una Europa unita, ha saputo plasmare l’identità di un popolo per renderlo protagonista nella storia.
Le forze politiche responsabili sono chiamate oggi a riallacciare questo rapporto con il popolo per poterlo guidare fuori dalle secche nelle quali ci troviamo. Perché è proprio la forza del popolo a poterci risollevare. Per tale motivo De Gasperi facilitò in ogni modo la capacità generativa del popolo, sollecitandone le risorse migliori e valorizzando le molteplici sensibilità che lo caratterizzavano per la ricostruzione materiale e democratica del paese.

La sua era una visione alta arricchita dai valori della tradizione cristiana, mai vissuta in modo confessionale ma sempre tradotta in una piena laicità, affinché tutti, anche i non credenti, potessero riconoscersi in essa. È così che De Gasperi divenne padre della patria italiana e europea e oggi la comunità nazionale e internazionale giustamente lo celebra.

Angelino Alfano

LIBIA. RADICI STORICHE DI UN CASO GEOPOLITICO

Dopo una premessa storico-diplomatica concernente l’interesse italiano per la Libia ad inizio Novecento, l’autore passa ad illustrare alcuni dati di natura economica che mettono in luce l’importanza del Mar Mediterraneo quale crocevia strategico del commercio regionale e globale. Nell’ultima parte si contestualizza quanto descritto relazionandolo alla situazione e ai destini della Libia post Gheddafi, i cui destini sembrano dipendere in buona parte dal sostegno internazionale alla governance del deep State libico.

Scarica il paper: “Libia. Radici storiche di un caso geopolitico”.

Di Roberto Motta Sosa, studioso di geopolitica e storia delle relazioni internazionali, autore e analista per varie testate e centri studi italiani. Si è laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Storia, con indirizzo storico-religioso, approfondendo gli aspetti storici e geopolitici legati al Vicino Oriente ottomano nel periodo compreso tra la fine del XIX e l’inizio XX secolo.

TEMPO SCADUTO. DALLA CRISI NUOVE ELITE PER L’EUROPA

Quarta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati*

Uno dei temi più discussi fra gli osservatori delle vicende internazionali è il deficit democratico dell’Unione europea. Molte analisi dedicate allo stato di salute di quest’ultima non dimenticano di sottolineare come la sola legittimazione elettorale del parlamento non sia sufficiente per un buon funzionamento degli organi legislativi e che quindi sarebbe auspicabile l’introduzione di nuove forme di rappresentanza per rivitalizzare il progetto europeo. Ancor più radicalmente, non mancano coloro che auspicano la diffusione di canali di partecipazione diretta, capaci di far sentire protagonista del processo decisionale anche il cittadino che vive a migliaia di chilometri da Bruxelles.

Dopo il referendum inglese che ha decretato la Brexit, il quadro è divenuto ancora più complesso. Infatti, per alcuni, la consultazione dei cittadini è fondamentale, ma non per le questioni più delicate e cruciali come appunto la permanenza o meno all’interno dell’Unione. In questi casi sono necessari momenti di discernimento che hanno la loro sede naturale all’interno delle assemblee, dove i rappresentanti democraticamente eletti propongono, discutono e votano le decisioni da adottare. A una simile prospettiva controbattono i critici di tale dinamica istituzionale che, a loro dire, ha accentuato l’inadeguatezza delle classi dirigenti europee, incapaci di cogliere, nella società globalizzata, l’immediatezza dei cambiamenti e quindi di soddisfare le reali esigenze dei cittadini. E dove, pertanto, l’insieme delle decisioni da adottare deve essere vagliata e confermata dalla platea di cittadini-elettori più ampia possibile.

È abbastanza prevedibile che il vivace dibattito di queste settimane non si risolverà né con la prevalenza di chi sostiene che la più classica delle forme di partecipazione diretta (il referendum) sia la panacea di tutti i mali politici europei, né con l’affermazione di chi, invece, vede nel caso inglese un grave precedente da imputare alla leadership governativa d’oltremanica. Per non rimanere intrappolati in una simile polarizzazione, è forse utile tornare a sottolineare le funzioni che le élite europee possono avere nel delineare il futuro dell’Unione. Élite europee e non élite nazionali che agiscono nell’arena europea.

La sensazione che si è avuta dopo il referendum di giugno è che l’Europa costituita da élite sia ora messa sotto accusa dai popoli. Tutto ciò che si è sviluppato dall’azione lungimirante di De Gasperi, Schuman, Adenauer è oggetto di una condanna senza precedenti da parte degli elettori: dal rifiuto del Trattato che istituisce una Costituzione europea alla richiesta di far uscire il proprio paese dal recinto comunitario. Un’inedita (e neppure troppo inaspettata) edizione dell’eterna disputa fra l’azione dei «pochi» e le aspettative dei «molti».

Seppur suggestiva perché semplificatoria, una simile rappresentazione della crisi europea potrebbe indurci a compiere un errore prospettico. Giacché continueremmo ad avallare lo scontro che vede protagonisti, da un lato, i «popoli» europei e, dall’altro, le oligarchie dei pochi che operano a Bruxelles. Questa contrapposizione offusca però quella che deve (o dovrebbe) essere l’azione delle élite. Proprio trascurando il ruolo di quest’ultime, si è alimentata l’illusione di poterne fare a meno, ovvero di poter creare un sistema istituzionale senza attori intermedi. Che sia in atto un processo che accentua l’immediatezza nel processo decisionale è fuor di dubbio. Ma credere che questa tendenza possa evitare di fare i conti con l’azione dei «pochi» è illusorio, non per altro perché a prevederne la presenza è innanzitutto il particolare tipo di democrazia che abbiamo adottato.

In altre parole, se da un lato si sono trascurate le procedure di formazione e selezione di una élite politica realmente europea, dall’altro, i normali meccanismi democratici ne hanno restituita una che è figlia, inevitabilmente, della somma dei singoli interessi e collettività statali. E, per questo, molto spesso propensa a operare come un’oligarchia autoreferenziale, la cui colpa principale è quella di non agire avendo presente il senso della prospettiva.

L’Europa deve investire su una virtuosa circolazione di élite politiche, che può attivarsi per mezzo di partiti veramente europei, con una rigorosa formazione erogata da università e think tank e all’interno di una cornice istituzionale rinnovata e includente. Gli esiti del referendum inglese e ancor più le trasformazioni dentro e fuori i suoi confini ci inducono a investire ulteriori risorse sul Vecchio continente. E farlo oggi quando esso è in crisi ci offre un’opportunità preziosa dal momento che è proprio nei momenti di difficoltà che emergono le élite più autentiche e durature, dotate di quella speciale capacità che consente loro di gestire il contingente con lo sguardo sul futuro.

* Dottore di ricerca in Istituzioni e Politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore, fellow del Centro Studi Tocqueville-Acton e membro del Comitato di redazione della Rivista di Politica

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo

ROUEN E LA SPERANZA DI RITROVARE LA NOSTRA IDENTITA’

 

Colpire una chiesa per colpire l’Occidente. I terroristi islamisti hanno capito (e risolto) questa equazione. Quelli che sembrano averla intesa meno sono gli stessi occidentali, frastornati dai bisogni contingenti del momento che non solo dimenticano le proprie radici, ma non riconoscono neppure la propria identità di occidentali.

Ed è su questo campo che i terroristi islamici possono fare più danni, non solo uccidendo un parroco, ma attaccando un mondo avanzato, forte nelle sue innovazioni e nelle sue libertà, ma debole e timoroso nella propria identità. Una prateria sterminata da colonizzare, da intimorire a colpi di pistole, pugnali e video, dove chi vi abita da generazioni ha abbandonato la pretesa di esprimere una cultura forte, capace di dare risposte comunitarie ma ha deciso di incassare, con inerzia, i colpi di un fondamentalismo che non punta a vincere la partita con lo sterminio, ma con la paura.

E ci sta riuscendo.

Ma quale può essere la risposta da mettere in campo, rispetto a questa minoranza di diffusori di odio, che tengono in ostaggio la tranquillità del mondo?

Per prima cosa capire che sono i malesseri sociali che stanno producendo la propagazione dei sentimenti di radicalizzazione. È ormai chiaro che l’ISIS punta a destabilizzare il nostro mondo principalmente tramutando i problemi di una difficile integrazione di migranti di prima e seconda generazione in Europa, in opportunità per raggiungere il promesso Paradiso. Occorre quindi non lasciare che questa corruzione delle menti possa realizzarsi, dapprima monitorando le periferie delle città che, soprattutto nei paesi ad alto tasso di immigrazione, stanno tramutandosi sempre più in ghetti, incentivando l’integrazione attraverso l’apertura durante tutto il giorno di scuole, di costruzione di nuove biblioteche e luoghi di incontro e scambio, di attività sociali che tengano impegnati e coinvolgano tutti i “nuovi cittadini”.

Poi occorre rafforzare una propria identità (nazionale, europea e occidentale), ponendo una barriera a chi non riconosca i fondamenti valoriali come l’uguaglianza di diritti tra uomo e donna, verso coloro che non rinunciano all’uso della forza e della violenza per regolare le proprie dispute, nei confronti di chi si dimostra intollerante verso le leggi e i culti differenti rispetto ai propri.

È solo grazie a una ricetta che punti, nel nostro Occidente, ad una effettiva integrazione di migranti e cittadini di prima e seconda generazione assieme al rafforzamento della nostra identità che il radicalismo alle porte delle (o dentro le) nostre case potrà essere sconfitto. Altrimenti dovremmo abituarci a vivere nel regime del terrore, dove la principale vittoria dei terroristi – come ricorda lo studioso Adriano Frinchi – non sarà quella di sgozzare un prete, ma quella di trovare una chiesa con solo due fedeli in preghiera.

Virgilio Falco

“DIRITTI UMANI E CRISTIANESIMO”: LA CHIESA ALLA PROVA DELLA MODERNITA’

 

“Dal Romanticismo in poi, i grandi scrittori sono prigionieri che scuotono freneticamente le sbarre di quella gabbia che è diventato il mondo senza Dio”

Il Nietzsche del Sudamerica, Nicolas Gomez Davilà, con questa invettiva non solo ha racchiuso la principale linea interpretativa della civiltà occidentale, all’alba del nuovo mondo post Rivoluzione Francese, ma implicitamente ha saputo cogliere gli interpreti principali di questa battaglia: secolarizzazione e cristianesimo. Per l’Occidente, ormai, la secolarizzazione è divenuta sinonimo di democrazia; sintomo di questa nuova concezione culturale è la dottrina dei diritti umani, che ha assunto i connotati di una vera e propria “religione”.

“Diritti umani e cristianesimo” (2015), l’ultima monografia di Marcello Pera, prende le mosse da questo humus culturale per analizzare le contraddizioni intrinseche tra ideologia dei diritti, della ragione secolare e religione cristiana. Se nel 2008 Pera, con il suo saggio “Perché dobbiamo dirci cristiani”, considerava altissimo il debito che il liberalismo classico doveva pagare nei confronti del cristianesimo, con “Diritti umani e cristianesimo” prosegue, in maniera unitaria e coerente, la propria riflessione politico-filosofica: quale prezzo la dottrina cristiana deve pagare all’ideologia dei diritti? Il messaggio cristiano assecondando il mondo moderno, a partire dal Concilio Vaticano II, non ha fatto altro che sancire la propria subordinazione alla sfera secolare?

Per comprendere il nodo cruciale della questione dei diritti, l’unica via – anche se la meno battuta – da percorrere e attraversare è quella della dottrina dei doveri, intesa naturalmente nell’accezione cristiana. Con tale intuizione, Pera svela la chiave di volta del rapporto tra liberalismo e cristianesimo, e in particolar modo il grande fraintendimento che l’ideologia dei diritti ha portato nella dottrina cristiana dei doveri, giungendo a snaturarla quasi del tutto. I diritti umani sono una parte imprescindibile di un progetto di vita e civiltà che intende fare a meno di Dio, mentre i doveri cristiani portano ad una maggiore coesione comunitaria dei cittadini-credenti sotto la persona del Padre.

Il fondamento della dottrina liberale, pilastro a volte dimenticato delle nostre odierne democrazie, trova la sua attestazione più forte nella carta d’indipendenza americana (1776), all’interno della quale la libertà è definita come “un dono di Dio”: la libertà viene quindi definita nel suo fondamento come un dovere dell’uomo dinanzi a Dio. I diritti umani, invece, quale giustificazione possono portare di fronte al Tribunale secolare?

Certamente l’argomentazione più incontrovertibile, sostenuta dai grandi assertori della “religione” dei diritti umani, sarà la concezione di persona umana legata – utilizzando in questi termini una sorta di equazione – in maniera indissolubile al principio di dignità umana, tuttavia privato di ogni riferimento divino. L’uomo come immagine di Dio (“homo imago Dei“) non ha più alcuna ragion d’esistere nell’odierna dottrina dei diritti, anche se la Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II ha cercato di portare avanti entrambe le soluzioni teoriche, tuttavia con notevoli contraddizioni di sistema.

cover“L’umanesimo integrale” di Maritain altro non è che lo scacco finale portato a termine dalla secolarizzazione, travestita sotto le sembianze dell’ideologia dei diritti, nei confronti del cristianesimo. Maritain, cercando di coniugare le istanze della dottrina cristiana con quelle del Secolo, ha formalizzato – secondo Pera – il principio secondo cui ogni persona umana è intrinsecamente detentrice di diritti. La Chiesa in questo modo, sulla scorta del pensiero di Maritain, ha legittimato – anche inconsapevolmente – il fenomeno dell’autofagia dei diritti umani. Caso esemplare nella storia italiana è stato il referendum abrogativo sull’aborto del 1981: una democrazia liberale come quella italiana schierata incondizionatamente nella difesa del diritto alla vita (sottolineo un diritto pre-politico), si è ritrovata con l’opinione pubblica del paese spaccata a metà tra abortisti e antiabortisti. Perfino un laico e progressista come Bobbio fu costretto a mettere in guardia l’intera opinione pubblica sul pericolo di una giurisdizionalizzazione dei diritti. Profonda convinzione di Bobbio è che i tanto citati diritti inalienabili non siano altro che diritti storico-politici. In ultima analisi qual è il fondamento della dottrina dei diritti umani? Una maggioranza parlamentare. Quest’ultima può decretarne la legittimità e la liceità e, di conseguenza, la sua supremazia. Le maggioranze parlamentari non sono che l’emblema del pensiero comune e del conformismo sociale dilagante, frutti rigogliosi del processo di secolarizzazione in atto della nostra civiltà.

La Chiesa come si è posta, di fronte a questo mutamento radicale della cultura dell’Occidente? A suo modo restando ingabbiata e per molti versi inglobata dal Secolo. “La Chiesa, in forza del Vangelo affidatole, proclama i diritti umani”. Questa è l’espressione usata dal Concilio Vaticano II, con cui dopo secoli di grande ostilità si è cercato di riaggiornare il messaggio cristiano, accantonando, forse drasticamente, la dottrina dei doveri, pilastro imprescindibile del sistema di pensiero cristiano-cattolico. La Chiesa, dal secondo Novecento in poi, ha scelto di assimilare il linguaggio della cultura secolare e allo stesso tempo, ha preteso di intrattenere con essa un dialogo e un rapporto proficuo, secondo i suoi criteri e le sue regole. La speranza fu quella di creare, sotto l’influsso universalmente riconosciuto di Jacques Maritain, un nuovo umanesimo tenuto a battesimo dal secolarismo. I moniti e le critiche dei papi dell’Ottocento contro i diritti umani erano un vago e lontano ricordo di una Chiesa ritenuta dall’opinione pubblica semplicisticamente come retrograda e oscurantista. Tale semplificazione preclude qualsiasi tentativo di analisi serio e rigoroso su questioni cruciali dal punto di vista dottrinale, ma soprattutto su una valutazione il più oggettiva possibile dei pontefici del secondo Ottocento: nella speranza di lasciarci definitivamente alle spalle etichette di comodo come quelle di “reazionari” oppure di “despoti” poco inclini ad abbondonare una volta per tutte lo scettro del potere.

La teoria dei diritti non sembra minimamente conciliabile con la dottrina cristiana, e questo è da attribuire al fatto che la dottrina dei diritti appartiene più alla storia temporale che alla storia escatologica della salvezza. Marcello Pera sottolinea come la scissione agostiniana tra città di Dio e città terrena risulti, in definitiva, ineludibile: il progetto escatologico cristiano non potrà mai coincidere con lo sviluppo particolare della storia e della civiltà umana. Sono due piani che s’incrociano ma che non combaciano. La Chiesa, pur di abbracciare il Secolo, è disposta a retrocedere dalle proprie posizioni, anche a costo di venir meno alla propria funzione originaria?

 Gian Marco Sperelli

ULTIMA CHIAMATA PER IL VECCHIO CONTINENTE

La ripetizione del ballottaggio presidenziale in Austria e il referendum sulla ripartizione dei profughi in Ungheria rappresentano un banco di prova decisivo per il futuro dell’Unione Europea. Ma da Bruxelles non sembrano poi così preoccupati, forse ancora troppo presi dalla ‘’Brexit’’.

Il terremoto provocato dall’esito, quanto mai inaspettato, del referendum sulla Brexit ci consegna uno scenario politico europeo a dir poco drammatico. Come amava ripetere Ortega y Gasset, quasi un secolo fa, l’Europa è ancora la soluzione? C’è tempo per salvare il progetto federalista europeo, oppure siamo arrivati alle battute finali di questo miracolo incompiuto? I catastrofisti fiutano il possibile e imminente crollo dell’unità politica europea; chi invece si considera tuttora sostenitore del progetto di integrazione dei paesi del vecchio Continente, il più delle volte liquida le forze anti-europeiste, ritenendole genericamente populiste. Il tempo a disposizione per un cambio di rotta è ormai scaduto: il 2 Ottobre in Austria si ripeterà il ballottaggio per le elezioni presidenziali tra il candidato nazionalista del Partito della Libertà Hofer e l’anonimo e indecifrabile candidato dei Verdi Alexander Van der Bellen; nello stesso giorno in Ungheria avrà luogo il referendum sul ricollocamento obbligatorio dei profughi e in questo modo i cittadini magiari potranno esprimersi direttamente sulla linea politica sostenuta da Bruxelles.

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Il rischio concreto è lo sgretolamento dell’Unione Europea, e la causa principale è la paura degli immigrati che stanno invadendo gli stati della ‘’Mitteleuropa’’: se dovesse passare la “linea del no” in Ungheria e Hofer vincesse le presidenziali in Austria, sarebbe una sconfitta su tutti i fronti per Bruxelles. Se il populismo, incarnato in questi due casi da Norbert Hofer e Viktor Orban, non è una soluzione politica praticabile, lo si deve almeno accettare come sintomo palese di un malessere collettivo che si continua evidentemente a sottovalutare. Gridare al lupo populista serve soltanto a spingere elettori delusi e disaffezionati dai partiti tradizionali nelle braccia dei movimenti anti-sistema.

In Ungheria Viktor Orbàn, leader del partito Fidesz-Unione civica ungherese, è il padrone assoluto dal 2010 della scena politica: fautore di una linea di governo sempre più marcatamente nazionalista ed isolazionista, contraria quindi ad ogni forma di integrazione dei profughi provenienti dal Medio-Oriente, non mostra alcun timore reverenziale nei confronti di Bruxelles. Ormai Orbàn gode di un consenso quasi assoluto nel proprio paese, quindi il referendum di Ottobre appare come una vera e propria investitura plebiscitaria di quest’ultimo, per sferrare il colpo decisivo ad una UE inerme e paralizzata. D’altro canto, in Austria la situazione risulta ancora più “tragicomica”: la vittoria di strettissima misura di Van der Bellen al ballottaggio contro un outsider come Hofer è stata annullata con una sentenza della Corte Costituzionale austriaca, per le molte irregolarità riscontrate nello scrutinio dei voti per corrispondenza. Tutto ciò gioca a favore di Norbert Hofer, che si appresta a vincere piuttosto facilmente la ripetizione del ballottaggio. A nulla servirà lo sforzo dei partiti tradizionali (Partito Popolare austriaco e Partito Socialdemocratico d’Austria) di sostenere il più pacato Van der Bellen: Hofer ha infatti conquistato l’endorsement del popolo austriaco, stanco della mancanza di leadership della classe politica tradizionale. Gli eventi in Austria e in Ungheria rappresentano un “aut aut” per l’Europa intera. Il populismo si è insediato come attore protagonista all’interno dei nostri sistemi democratici. Ignorare questo dato concreto, rappresenterebbe il seppuku europeo.

Gianmarco Sperelli

TTIP, ALLARGARE LO SGUARDO

Terza puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Simona Beretta*

Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non gode complessivamente di buona stampa: se ne parla poco, e la letteratura esplicitamente pro o contro prevale sulla presentazione accurata (inevitabilmente “noiosa”) delle implicazioni di un possibile accordo commerciale e regolamentare fra paesi che rappresentano una quota importante della popolazione e del sistema economico mondiale – importante, ma oggettivamente destinata a ridimensionarsi. Eppure conviene parlarne: in tempi di crescente frammentazione e di nuove barriere, è bene che ci siano negoziati dove si possa “litigare in santa pace”. Il negoziare ha infatti valore in sé, anche indipendentemente dall’esito.

In questi giorni (11-15 luglio 2016), i negoziatori statunitensi e dell’Unione Europea si incontrano per il quattordicesimo round negoziale del TTIP. Domina un atteggiamento tra l’indifferente e l’insofferente nei confronti di questo negoziato – anche perché i suoi protagonisti stanno attraversando un momento particolare: l’incombenza di elezioni presidenziali e la recrudescenza delle tensioni etnico-sociali interne negli USA; la Brexit e il sempre più evidente calo di consensi sul TTIP in Europa. L’atteggiamento critico nei confronti del TTIP da parte della pubblica opinione europea non è un a novità: le istituzioni europee preposte al negoziato si sono trovate sistematicamente a giocare “in difesa” nella loro comunicazione esterna. Ma secondo alcune rilevazioni recenti (Bertelsmann Stiftung), in Germania solo il 17% degli intervistati nel 2016 è convinta che il TTIP sia una buona cosa – contro il 53% nel 2014. Quanto alla Brexit, l’incertezza complessiva sul futuro delle relazioni fra UE e Regno Unito pesa anche sulle prospettive del TTIP. L’unico elemento di certezza è che, nel momento in cui il governo britannico farà ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona per recedere dall’Unione, scatteranno i due anni di tempo previsti per concordare i termini del recesso – un arco di tempo in cui sono improbabili progressi significativi nel negoziato TTIP (di cui il Regno Unito è stato peraltro uno fra i principali sostenitori).

Questo tempo di incertezza, tuttavia, può essere una grande risorsa. Serve, a mio parere, una pausa di riflessone per andare a fondo delle ragioni (e non solo della reciproca convenienza) dell’accordo fra le parti; soprattutto, è indispensabile guardare al TTIP allargando lo sguardo alla realtà globale. Altrimenti, il TTIP nasce vecchio.

Cercare il compromesso ragionando su costi e benefici del TTIP e bilanciando il do ut des per le parti è forse inevitabile, ma non all’altezza della situazione. Innanzitutto, costi e benefici aggregati sono difficili da stimare in maniera robusta e affidabile, in quanto emergono da una mappa molto complessa di soggetti vincenti e perdenti, di qui e di là dell’Atlantico. Ragionare per grandi aggregati è dunque pericoloso per la qualità del processo politico. Ad esempio, se si perdono posti di lavoro in un dato settore (e nella regione in cui tale settore è insediato) e se ne guadagnano altrettanti altrove, è inadeguato concludere che non ci sia impatto occupazionale: l’impatto c’è, eccome. In questa fase di incertezza nei negoziati, è forse possibile e senz’altro opportuno mettere in circolo una riflessione sull’impatto del TTIP non solo a livello aggregato (scambi, crescita economica) per l’area transatlantica, ma soprattutto sui suoi settori, regioni e gruppi sociali meno favoriti. Negoziare a partire da questi ultimi sarebbe una vera innovazione, consona ai segni dei tempi.

Ancora più urgente è una riflessione sulle conseguenze dell’accordo nel resto del mondo – soprattutto nei paesi a reddito medio-basso così “vicini”, specie all’Europa, da rendere del tutto irragionevole il non considerarli. Con o senza TTIP, la differenza di potenziale demografico e di condizioni di vita fra macroregioni ormai connesse da legami assolutamente “reali” (anche se viaggiano per via satellitare), continuerà ad esistere a muovere le decisioni di tante persone. Con o senza TTIP, la struttura produttiva e degli scambi mondiali continuerà ad evolvere rapidamente; ed è irragionevole sottostimare la dinamica tecnologica di paesi fino a pochi anni fa catalogati come “imitatori”. I paesi già “emersi” – dire emergenti è ormai anacronistico – hanno dimostrato la capacità di promuovere nuove istituzioni economiche e nuove reti di relazioni internazionali (pensiamo alla Asian Infrastructure Investment Bank, voluta dalla Cina, al China-Africa Cooperation Forum, o ancora alla Eurasian Economic Union, promossa dalla Russia).

Eppure, nel dibattito sui negoziati TTIP, il mondo sembra assente. L’unico riferimento esplicito alla realtà globale riguarda il possibile consolidamento dell’area transatlantica come riferimento per gli standard di regolamentazione globali ruolo. L’argomentazione che USA e UE dispongono di sistemi di regolamentazione tra i più avanzati al mondo, e che la loro collaborazione in tale materia può consolidare il loro ruolo globale è plausibile, ma sembra non convincere neppure l’opinione pubblica USA e UE (per il sospetto – non senza ragioni – di eccessiva ingerenza degli interessi consolidati delle grandi imprese nel processo). Figuriamoci il resto del mondo!

Alla luce delle dinamiche globali, contare sul TTIP per incrementare o mantenere il peso di USA e UE nel sistema globale appare quanto meno dubbio. Paradossalmente, allargare l’orizzonte della riflessione, invece di chiudersi nel compromesso a tutela degli interessi di chi sa farli valere, potrebbe rivelarsi l’unica strategia realistica perché le economie USA e UE ritrovino un ruolo di riferimento nella comunità internazionale: non tanto per il peso quantitativo della loro potenza materiale, ma per la qualità inclusiva del loro promuovere l’integrazione.

* Professore ordinario di Politica Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore del Master in International Cooperation and Development, ASERI.

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune

DOPO NIZZA NON SI PUO’ PIU’ ESSERE SUPERFICIALI

L’attacco di Nizza del 14 luglio ha visto nuovamente la Francia nel mirino di attentati terroristici che confermano la strategia del Daesh per diffondere il terrore: colpire la popolazione nei luoghi della vita quotidiana.

Tuttavia, le interpretazioni e i commenti all’attacco che sono seguiti denotano ancora una cerca approssimazione nell’analisi del fenomeno che rischia di avere, sia per le forze politiche, che per l’opinione pubblica, pericolose ripercussioni.

Partendo proprio dall’attacco e dalla sua rivendicazione si sono succedute diverse opinioni circa la vera paternità del Daesh dell’attentato. La strategia delle rivendicazioni è prettamente comunicativa: poco interessa e poco conta che l’attacco sia stato voluto dal Daesh, anzi, da quello che è noto la maggior parte degli attacchi rivendicati non sono stati comandati da una centrale operativa che detta modalità, tempi e luoghi dell’attacco, ma sono invece il frutto dell’adesione degli attentatori ad una propaganda che fa riferimento ad una catena di comando e controllo “loose”. L’effetto prodotto è uguale, se non di maggior impatto, di quello che si sarebbe ottenuto se il comando di attaccare fosse arrivato direttamente da Raqqa.

E proprio sulla catena “sciolta” che collega gli attenti europei all’Iraq e alla Siria si gioca la partita ora più importante per la politica e per la “lotta al terrorismo”. Le rassicurazioni fornite negli ultimi giorni che “giustificano” i più recenti attacchi come “colpi di coda” di un Daesh che progressivamente perde terreno proprio in Iraq e Siria sono pericolose. Sicuramente le forze della coalizione stanno infliggendo al califfato perdite nei luoghi che per primi hanno identificato il territori controllato dal Daesh. Tuttavia, sarebbe alquanto pericoloso ritenere che le azioni portate a termine fuori da quei luoghi siano gli ultimi spasmi di un Daesh morente, come se annichilendo, se mai fosse possibile, la sua presenza in Siria e Iraq si estirpasse a livello globale la minaccia. Quarantasei gruppi, sparsi per diverse regioni del mondo, hanno giurato fedeltà e agiscono in nome del Daesh e la sorte di queste sacche di islamismo radicale non è minimamente legata in maniera diretta a ciò che accade in Siria e Iraq. Abbassare la guardia, e con essa anche la consapevolezza sociale del fenomeno, è tanto pericoloso quanto non eliminare coloro che pongono la minaccia.

Ancora, lo stupore che ogni volta si ha nei confronti delle modalità di attacco è sempre più legato ad una volontà mediatica dettata dal sensazionalismo che da un’analisi consapevole del terrorismo e da una certa percezione sociale. L’utilizzo di mezzi di locomozione da lanciare contro la folla non è certo una novità nel panorama degli attacchi terroristici: diversi sono infatti quelli portati a termine con questa modalità ad esempio in Israele, anche recentemente, ma anche in Francia a Digione e Nantes nel dicembre del 2014. E seminare il panico e mietere vittime con un furgone lanciato in mezzo alla folla veniva suggerito già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) nelle sue sezioni di open source Jihad: “To achieve maximum carnage, you need to pick up as much speed as you can while still retaining good control of your vehicle in order to maximize your inertia and be able
to strike as many people as possible in your rst run”. “The ideal location is a place where there are a maximum number
of pedestrians and the least number of vehicles”.

Infine, diventa sempre più urgente approfondire il tema della radicalizzazione che porta a compiere questi gesti. Il panorama di profili che aderiscono alla causa o si ispirano alla modalità di esecuzione di atti spettacolari propagandati dal Daesh è esteso e contempla diverse tipologie: dai piccoli criminali che intraprendono il percorso di radicalizzazione nelle carceri, a quelli che si indottrinano online, a quelli che respirano l’aria del radicalismo nei tessuti sociali nei quali sono inseriti per tramite di relazioni familiari o amicali, a individui per i quali il processo di integrazione è fallito e ad altri che invece potrebbero essere sponsor della loro riuscita incarnando le giovani generazioni istruite di una comunità non necessariamente immigrata.

Capire le cause della radicalizzazione e i tempi, che in alcuni casi sono estremamente brevi, gioca un ruolo fondamentale nell’intercettare situazioni potenzialmente a rischio.

Alessandro Burato

Ricercatore “Itstime”

SANAFIR E TIRAN, LE ISOLE DELLA DISCORDIA

È fresca di poche ore la decisione della Corte permanente Onu di arbitrato sulla Legge del Mare, secondo la quale le pretese cinesi su alcune isole del Mar cinese meridionale sono ingiustificate: il giudizio della Corte, che le cataloga come scogli (riducendo quindi la porzione di mare appartenente al paese che ne ha la sovranità), manda dunque un forte messaggio all’espansionismo aggressivo del gigante asiatico, che ovviamente rifiuta il pronunciamento.

Se però, all’Europa, questo sviluppo interessa indirettamente, ha una rilevanza ben maggiore un’altra decisione di una Corte amministrativa, quella egiziana, in merito ad una “questione insulare”.

Premessa: il 9 Aprile scorso, in occasione della visita al Cairo del re saudita Salman, il Governo egiziano ha annunciato un accordo con la monarchia del golfo, a coronamento di una trattativa di – stando alle dichiarazioni governative – ben sei anni. Oggetto dell’affare una quindicina di intese in materia di sviluppo ed energia, per un valore totale di svariati miliardi di dollari (tra i 16 e i 22, a seconda delle fonti) a disposizione del Governo di al-Sisi. Tra questi, quello che ha destato più scalpore è stata la cessione ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir, importanti per la loro posizione strategica situata all’ingresso del Golfo di Aqaba.

10562347213_633dcfe9e0_oEd ecco il fatto: l’operazione ha scatenato violentissime proteste popolari, represse con la forza dai militari e a cui sono seguiti più di 150 arresti, che denunciavano come illegittima la decisione unilaterale di ridisegnare i confini nazionali. Proprio su questo punto, un gruppo di avvocati ha fatto causa al Governo, motivando come incostituzionale l’operazione di al-Sisi: l’articolo 151 della Costituzione egiziana, infatti, stabilisce che ogni azione riguardante i confini nazionali debba passare dal Parlamento, oltre al fatto che è necessario un referendum popolare prima di qualsiasi decisione finale.

Ebbene, a grande sorpresa, la Corte Amministrativa del Consiglio di Stato ha dato ragione, il 21 Giugno, agli avvocati, annullando l’accordo: “L’accordo egiziano-saudita per ridisegnare i confini marittimi e le sue conseguenze circa il posizionamento di Tiran e Sanafir in acque saudite sono annullati. Le due isole restano all’interno dei territori egiziani e dei confini statali egiziani. Nelle due isole continuerà a vigere sovranità egiziana. È proibito cambiarne lo status in qualsiasi modo e per qualsiasi altro paese”.

Una presa di posizione netta, di fronte alla quale il Governo ha annunciato ricorso: in un comunicato del Primo Ministro si dice che verranno presentati tutti i documenti che dimostrano come le isole, disabitate, non appartengano all’Egitto, bensì alla stessa Arabia Saudita, che richiese tuttavia un intervento di militari egiziani nel 1950, in seguito al quale la monarchia saudita non si riappropriò mai del possesso fisico delle isole. Tesi tutta da dimostrare, dal punto di vista giuridico.

Ciò che interessa qui, invece, è dare un giudizio geopolitico, che consideri due dati: l’accordo e l’annullamento dello stesso.

In merito al primo, è doveroso far notare che tale cessione è spiegabile nel quadro dell’assestamento del mondo sunnita: l’attivismo saudita, rinnovato con l’ambizioso National Transformation Program, ha bisogno di espandere il controllo sugli alleati, e la drammatica necessità economica egiziana va a nozze con tale progetto. Da qui, l’ingente investimento in cambio di un hub strategico sia per la costruzione del “King Salman Bridge”, che collegherebbe l’Arabia con Sharm-el-Sheik, sia per il controllo del golfo di Aqaba, cruciale via commerciale; inoltre, tale controllo permette di aprire o meno le rotte verso la giordana Aqaba e l’israeliana Eilat: da registrare, a tal proposito, le dichiarazioni di Hanegbi, membro del partito israeliano Likud, che ha affermato che “noi abbiamo un interesse nell’approfondire la cooperazione con l’asse sunnita, che sta combattendo contro l’asse radicale guidato dall’Iran (quello sciita, ndr)”.

14088417459_b08bcf751a_oPer quanto riguarda il secondo, invece, desta sorpresa un tale atto di forza contro al-Sisi, soprattutto per la sua “pubblicità”. Se confermato, metterà il Presidente egiziano in grosse difficoltà sia da un punto di vista diplomatico, perdendo credibilità con l’alleato saudita, sia interno, in quanto la legge egiziana prevede l’ergastolo per gli ufficiali che negoziano con paesi esteri danneggiando l’interesse nazionale – motivo per cui l’accordo è stato firmato dal Primo Ministro: certo, sarebbe comunque un duro colpo alla “legittimità” di al-Sisi.

Se invece sarà l’accordo ad essere confermato, esso dovrà passare dal Parlamento, dove l’ampio supporto ad al-Sisi non lascia adito a dubbi circa una sua ratifica. Certo, in tal caso al-Sisi sarebbe ricordato come Awaad, protagonista di una canzone appartenente alla tradizione popolare egiziana, degno della vergogna collettiva per aver venduto la propria terra.

Giovanni Gazzoli

IL SUD SUDAN RICADE NEL SANGUE

Il paese più giovane del mondo, nato solo 5 anni fa dopo una lunghissima lotta per l’indipendenza, non ha mai davvero visto sorgere il sole.

Il 9 luglio si erano fatti i preparativi per una modesta festa d’indipendenza. Ad agosto sarebbe passato solo un anno dall’armistizio che aveva posto fine, nell’estate del 2015, ad una lunga guerra civile che aveva lasciato sul campo più di 50.000 mortimilioni di sfollati e quasi 4 milioni di denutriti. Ma era l’epoca delle primavere arabe ed il sangue sudanese scorreva all’ombra dei media internazionali.

Nel gennaio del 2011 si spegnevano le ultime manifestazioni per lo storico referendum popolare che sanciva l’indipendenza del Sudan del Sud, con capitale Juba, dalla capitale del Nord, Karthoum, centro del governo di quello che sarebbe divenuto il Sudan del Nord. Il distacco aveva avuto luogo per via quasi consensuale, culmine di una situazione insostenibile, con il Sudan del Sud relegato tra i paesi più poveri al mondo, anche e soprattutto per il monopolio della rete di oleodotti da parte di Karthoum che privava la regione meridionale della risorsa che tutt’oggi costituisce il 99 % dell’export.

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Ma nel 2013, solo due anni dopo la tregua che aveva dato vita al 193° Stato delle Nazioni Unite, il pomo della discordia era caduto tra i due leader del paese, il presidente Salva Kiir ed il vicepresidente Riek Machar, rappresentanti di due etnie in conflitto, rispettivamente quella Dinka e la Nuer.

Di qui una nuova guerra fratricida per il potere, senza risparmiare le popolazioni civili, trucidate a seconda dell’etnia di appartenenza. L’armistizio di agosto aveva tutte le premesse per essere un castello di carte pronto a crollare al primo soffio. Machar era tornato in città con le sue truppe riacquistando il ruolo precedente e si cominciava a parlare di governo di unità nazionale, per portar fuori il paese neonato da una crisi che aveva avuto conseguenze devastanti sull’economia e sulla sussistenza della popolazione. La convivenza pacifica tra le diverse fazioni nella capitale è rimasta però sulla carta.

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Pochi giorni fa la gente di Juba ha risentito l’eco di un incubo che sembrava un po’ più lontano: spari, granate, elicotteri, fumo ovunque. E se l’ufficialità della riapertura delle ostilità non è ancora arrivata dai due leader, che anzi hanno annunciato lunedì un cessate il fuoco, si contano già 300 morti, tra cui 2 caschi blu cinesi dell’ONU abbattuti da un colpo di mortaio e diversi attacchi a sedi di ONG.

Una riapertura del conflitto avrebbe ripercussioni che vanno ben oltre la lotta civile interna al paese. Alle due fazioni infatti corrispondono alleanze che travalicano i confini del Sudan, in particolare l’Uganda per Kiir e l’Etiopia a protezione di Machar e del Sudan del Nord, da sempre vicino alle milizie rivoluzionarie: l’Africa Centrale rischierebbe di divenire una polveriera dalle conseguenze incerte. Nel frattempo, assieme alle speranze di vivere in un paese verso una transizione democratica e dalle enormi risorse economiche, hanno abbandonato Juba, su un aereo diretto verso il Vecchio Continente, 126 italiani ed altri cittadini UE che avevano chiesto aiuto.

Francesco Bechis