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L’eredità di Alcide De Gasperi
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Democrazia e Libertà

IL SUMMIT DI VARSAVIA

Si è chiuso a Varsavia il vertice NATO svoltosi nelle due giornate dell’8 e del 9 luglio. Accolto tra le proteste di gruppi di pacifisti, è stato l’ultimo del Presidente Obama, il primo dell’era post Brexit ed il più grande per partecipazione che si sia mai riunito.

Un summit che possiamo definire di ”consolidamento”, declinabile sia nella prospettiva dei propositi futuri dell’alleanza, sia in quella dei rapporti all’interno della ”piattaforma NATO”, nell’accezione data dal Segretario Generale Stoltenberg all’indomani del referendum inglese dello scorso 23 giugno.

Molti i temi trattati ed oggetto di dichiarazioni, ecco i principali.

L’Europa

Primo tra gli argomenti affrontati, la ”questione europea” ha animato il dibattito della prima giornata.
Firmando una dichiarazione congiunta, il Segretario Generale della NATO Stoltenberg, il Presidente del Consiglio Europeo Tusk ed il Presidente della Commissione Europea Junker hanno dichiarato la volontà, ”alla luce delle sfide in comune” considerate come ”senza precedenti”, di ”fare un passo avanti” nei loro impegni e nei loro rapporti con “un nuovo livello di ambizione”. Sette le priorità considerate strategiche dal documento:

  1. Migliorare le capacità di affrontare le minacce ibride (minacce capaci di utilizzare mezzi non convenzionali ed in grado di adattare le proprie azioni in base ai propri obiettivi);
  2. Aumentare la cooperazione nelle operazioni marittime e riguardanti il fenomeno dell’immigrazione;
  3. Aumentare la coordinazione in tema di cyber-security;
  4. Sviluppare capacità di difesa efficaci e complementari tra i membri dell’UE e membri della NATO;
  5. Favorire lo sviluppo dell’industria e della ricerca in ambito di difesa;
  6. Aumentare le esercitazioni coordinate (riguardanti anche le ”minacce ibride”);
  7. Aumentare le capacità di difesa e migliorare la resilienza delle infrastrutture civili dei paesi partner dell’est e del sud in base alle singole esigenze.

Una ”decisione storica”, le cui risorse necessarie, sia in termini politici che in termini economici, sembrano essere garantite dai firmatari della stessa e la cui prima azione concreta potrebbe essere il lancio della nuova operazione marittima nel Mediterraneo, nota come ”Sea Guardian”, che lavorerà a stretto contatto con l’operazione ”Sophia”, già messa in atto dall’UE.

Riguardo il tema ”post-Brexit”, già durante l’incontro tra i rappresentati dell’Unione Europea e il Presidente degli Stati Uniti svoltosi prima dell’inizio del Summit, il Primo Ministro Cameron ha concretamente risposto ai dubbi avanzati nei giorni precedenti dall’amministrazione americana uscente sul ruolo futuro del Regno Unito nell’alleanza atlantica, annunciando – oltre alla volontà di mantenere il tetto della spesa militare al di sopra del 2% del PIL – lo schieramento di ulteriori 650 militari sul fronte orientale. Altra notivà è stata l’annuncio del nuovo quartier generale della NATO, che avrà sede a Bruxelles, dove si terrà il vertice del prossimo anno.

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Russia

Proseguendo nella strategia della ”deterrenza e dialogo”, le dichiarazioni del vertice hanno seguito il duplice approccio adottato dall’alleanza:

  • Sul versante della deterrenza è stato approvato il dispiegamento, previsto dal possimo anno, di quattro battaglioni multinazionali composti da mille uomini ciascuno e schierati nell’est Europa, affinché risulti chiaro che “un attacco ad uno di questi paesi sarà considerato un attacco contro tutta la Nato” in piena attuazione dell’art. 5 del Patto Atlantico. Inoltre la messa in funzione delle difese antimissile non sembra essere messa in discussione, nonostante le continue reazioni russe.
  • Sul versante del dialogo sono state fissate dai 5 paesi leader dell’alleanza – USA, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania – le condizioni affinché le sanzioni economiche verso Mosca possano essere revocate: l’adempimento di tutti gli obblighi previsti dal Protocollo di Minsk siglato nel 2014.

A supporto di questo approccio molti Stati – prima fra tutti la Francia, ma anche Germania ed Italia – hanno preferito riconoscere nella Russia un partner – di certo colpevole nella sua politica estera – piuttosto che una minaccia, invitandosi reciprocamente ad evitare di favorire un nuovo isolazionismo del Cremlino che, a sua volta, ha fatto trapelare segnali di apertura vedendo ”grandi spazi di collaborazione”, a patto che la NATO abbandoni ”l’assurda retorica” sulla minaccia Russa.

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Partenariato

Come normale per il vertice più grande per partecipazione che vi sia mai stato, grande spazio è stato dato ai partner dell’alleanza.

Il ministro degli affari esteri della Georgia ha riaffermato la volontà del suo paese di raggiungere lo status di membro della NATO, definendola come una priorità del proprio paese. Dopo un aggiornamento sulle sfide da affrontare e sui progressi raggiunti, l’alleanza ha guardato con favore agli sviluppi in campo democratico ed economico compiuti dalla Georgia, ribadendo il pieno supporto al mantenimento dell’integrità territoriale e della sovranità del paese ed incoraggiandolo a proseguire nel percorso di riforma. Importante esame sarà quello delle prossime elezioni parlamentari che si terranno ad ottobre, che si aspettano essere compiute nel rispetto dei più alti standard democratici.

Decise le dichiarazioni riguardanti l’Ucraina, paese che ormai dal 2014 detiene con la NATO un rapporto – sia sul piano politico sia su quello strategico – senza precedenti e che non nasconde l’interesse futuro a divenire un membro dell’alleanza. I ”significativi contributi” alle operazioni degli Alleati, basate sulle ”decisioni prese in Galles”, hanno portato l’alleanza ad esaminare i passi necessari ad inserire gli interessi ucraini nei programmi per il partenariato. In questo senso può essere letta la dichiarazione del presidente ucraino Poroshenko, con cui ha istituito una commissione con lo scopo di ”assicurare il coordinamento delle iniziative di integrazione dell’Ucraina nell’area euro-atlantica” al fine di perseguire il percorso di adesione alla NATO nel modo più adeguato possibile.
Deciso il messaggio inviato alla Russia, accusata di aver violato la legge internazionale ”minando la sovranità, il territorio e la sicurezza dell’Ucraina”. Al Cremlino è stato intimato – richiamando la dichiarazione della commissione NATO-Ucraina del summit del 2014 – di cessare ”la sua illegale ed illegittima autodichiarata” annessione della penisola di Crimea, ”che non riconosciamo e non riconosceremo”, mostrando la ferrea volontà dell’alleanza di non retrocedere nel percorso intrapreso.

Il Montenegro, ormai prossimo a divenire il 29° membro firmatario del Patto Atlantico, era presente come osservatore ai lavori del Summit. Verosimilmente, entro l’estate del 2017, tutte le firme degli Stati membri necessarie a perfezionare l’atto di ratifica saranno raccolte, portando così a compimento il processo di adesione.

Tema rilevante oggetto di dichiarazione è stato l’impegno dell’alleanza in Afghanistan. Considerato un partner strategico in grado di favorire la stabilità regionale, l’alleanza ha mostrato la sua determinazione nel voler continuare a favorire il processo di integrazione dei processi democratici all’interno del paese. Durante la seconda giornata, il Segretario Generale Stoltenberg ha annunciato che l’impegno della NATO nella regione sarà prorogato oltre il 2016 e che l’Italia – assieme a Germania e Turchia – assumerà un ruolo guida nell’operazione. Richiesta accolta con favore dal Presidente del Consiglio italiano Renzi, che si è dichiarato soddisfatto dei risultati raggiunti dal Vertice.

In conclusione è stato un vertice che, a fronte di una grande volontà politica desiderosa di affrontare le sfide del tempo presente in maniera decisiva, non ha saputo mettere completamente a tacere le voci riguardanti ”l’assenza di leadership” contestata alla UE che si è potuta peraltro notare nelle diverse opinioni espresse sui rapporti con la Russia.
Summit che però non ha deluso le aspettative e che, in attesa delle prossime elezioni americane, ha saputo sia valorizzare il ruolo futuro della ”piattaforma NATO” come luogo privilegiato di dialogo tra le forze occidentali, sia dare una ferma risposta dal punto di vista militare tramite il netto dispiegamento di forze nei territori orientali, nel Mar Nero, oltre alla prospettiva già accennata sulla previsione di una nuova missione navale nel Mediterraneo.
Interessante, oltre le reazioni degli altri attori principali della scena mondiale, sarà vedere come proseguiranno i rapporti tra i firmatari delle varie dichiarazioni politiche nei prossimi mesi e se, a queste, sarà dato seguito concreto o meno.

Valerio Gentili

IL TTIP E’ SOLO UNA METAFORA

Il Ttip è il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ovvero un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Il trattato è in fase di negoziazione fra la Casa Bianca e Bruxelles, che stanno lavorando dal 2013 per raggiungere l’intesa finale. Il Ttip, la cui sigla sta precisamente per Transatlantic Trade and Investment Partnership, prevede la piena integrazione dei due mercati: la volontà è quella di favorire la crescita economica e maggiori flussi di investimenti per i paesi partecipanti.

Dall’altra parte ci sono gli scettici, che invitano a considerare il Ttip da un altro punto di vista. E proprio secondo loro il mercato che si verrebbe a creare non beneficerebbe affatto degli effetti dell’accordo; anzi accrescerebbe soltanto il potere delle multinazionali e avrebbe impatti negativi sul controllo dei mercati da parte dei governi, tanto che sono già partite le campagne di attivisti che vogliono fermare il Ttip e riconoscersi in slogan del tipo: “Le persone prima dei profitti”. E proprio gli scettici in questi giorni hanno motivo quantomeno di sorridere: la Brexit infatti ha messo in serio pericolo la realizzazione dell’accordo. Cerchiamo di capire il perché.

Gli inglesi erano certamente tra i maggiori sostenitori del Ttip. Ma dopo l’uscita di scena di Londra dall’Unione Europea, saranno Parigi e Berlino a condurre le trattative con Washington ed è qui che la situazione diviene quanto mai complessa. I francesi infatti non stravedono per questo accordo, ed è lo stesso premier Valls ad ammettere che il Ttip non fa gli interessi dell’Europa e a dichiarare che la Francia vigilerà perché non si realizzi un accordo di questo tipo. Chi invece ha sempre sostenuto il Ttip è l’Italia, che spinge per la realizzazione dell’accordo: il nostro Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda richiede a gran voce il Ttip per i suoi benefici e per le grandi opportunità che secondo lui garantirebbe. In questi giorni però, anche lui ha ammesso che il Ttip di questo passo non ci sarà a causa dei tempi dei negoziati troppo lunghi.

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Il problema pare infatti essere quello della finestra d’opportunità: il mandato di Obama scadrà a breve e, se anche il prossimo presidente degli Stati Uniti vorrà un accordo di questo tipo (diciamo che, per usare un eufemismo, sembra non essere una priorità dei due prossimi candidati alla Casa Bianca), bisognerà comunque ricominciare da capo con le trattative. Calcolando poi anche che dal 2017 inizierà in Europa una nuova tornata di elezioni che coinvolgerà a partire dall’anno successivo Italia e Germania, sembra che per il Ttip se ne dovrà riparlare pessimisticamente nel 2020. Fra pochi giorni ci sarà il quattordicesimo incontro tra le parti, diverse nella volontà americana di mettere alle strette l’Europa fino all’ultimo da una parte, ie nel lento e progressivo smussamento europeo per piccoli passi dall’altra.

Siamo alle solite: chi teme il populismo e chi teme l’isolazionismo, chi spinge per l’unificazione e chi per un distacco “nazionalista”. Metaforicamente parlando, visto che gli scettici fanno leva proprio su questo punto, siamo al confronto tra la massa e l’individuo. Chi non vuole il Ttip vuole liberarsi dalle multinazionali, dal potere lobbistico e dalla pressione che esercitano sulla politica. La schiavitù e l’appiattimento delle coscienze che si contrappongono alla volontà di migliorarsi da soli, nel sogno di “costruire se stessi”: ma il Ttip sembra essere un treno senza possibilità di sosta intermedia. Prevede solo due possibili arrivi: un paradiso infernale o un inferno paradisiaco.

La verità infatti è che qui come non mai, le due cose vanno di pari passo. Si potrebbe dire che il miglioramento economico, nell’ipotetico caso in cui ci fosse, sia direttamente proporzionale all’accrescimento del potere delle multinazionali. Invece in un’ottica diametralmente opposta, ovvero di fallimento dell’accordo, le multinazionali perderebbero almeno una parte del loro potere. È solo un’ipotesi, come lo sono gli studi che dimostrano gli effetti positivi e quelli negativi del Ttip e che pretendono di dimostrare l’indimostrabile.

Quello che si può dire senza problemi è solo questo: non c’è trattativa peggiore di quella che comincia solo per essere conclusa.

Simone Stellato

LA CORSA PER L’ARTICO

La ‘’Polar Rush’’ si sta svolgendo sotto traccia. Gli interessi in gioco, specialmente sul lungo periodo, sono altissimi. I paesi che si stanno muovendo maggiormente in questa direzione sono Russia e Cina, che intendono assicurarsi una posizione di vantaggio sia per lo sfruttamento delle risorse energetiche presenti nell’Artico che per il controllo delle nuove rotte mercantili, che si stanno aprendo a causa dello scioglimento dei ghiacci. La Russia, in quanto membro del Consiglio Artico, è attratta in misura sempre crescente dalle risorse naturali della regione e dalla possibile estensione dello spazio geopolitico a suo favore nel nostro pianeta. Non è un caso che stia incrementando e rafforzando le basi di soccorso, in particolare nella vasta penisola siberiana dello Yamal, per le navi container che dovrebbero andare a rifornire partner commerciali come il Giappone, risparmiando in tal modo almeno il 40% del tempo rispetto alle ormai consolidate rotte a sud. La Cina del resto, pur non facendo parte del Consiglio Artico, ma partecipando ad esso come osservatore esterno, ha preso la decisione di costruire un’ambasciata a Reykjavìk, capitale della repubblica islandese, in grado di ospitare fino a 500 persone, a dimostrazione del fatto che gli obiettivi politici cinesi sono sempre più grandi in quest’area.

Si può già prevedere nel futuro prossimo una completa militarizzazione della regione artica? Certamente chi sta investendo oggi in questa zona, avrà innumerevoli vantaggi geostrategici ed economici nei prossimi 10-15 anni. Si tratta di una politica che non darà frutti nell’immediato, ma soltanto nel medio-lungo periodo. Quindi non appare strano che la Groenlandia cominci ad avanzare sempre più frequentemente richieste indipendentiste nei confronti della Danimarca, comprendendo che il progressivo scioglimento dei ghiacciai faciliterà le attività di estrazione mineraria. Rimangono invece ancora in disparte e poco interessati nei riguardi dell’Artico gli Stati Uniti, nonostante facciano parte del Consiglio Artico come membro fondatore dal 1991. Probabilmente ancora per poco, se si considerano le mire egemoniche sulla regione da parte della Russia di Putin.

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L’Europa, dal canto suo, non può permettersi di restare indietro in un’area dal così grande potenziale economico e strategico. Una nazione che ha dimostrato negli ultimi anni un vivo interesse per gli sviluppi politici della regione artica, è l’Italia: il nostro paese è stato infatti nominato nel 2013 come osservatore permanente nel Consiglio Artico. Si tratta per l’Italia di un importante riconoscimento, alla luce del grande impegno italiano nella regione sia in ambito scientifico – è da tener presente la costruzione di piattaforme osservative come la Climate Change Tower a Ny Alesund nelle isole norvegesi Svalbard – sia nel campo economico grazie agli investimenti dell’Eni in programmi di estrazione in Russia e Norvegia. Da pochi mesi l’Eni ha dato il via alle attività della piattaforma galleggiante “Goliat” al largo della Norvegia, in grado di arrivare ad estrarre fino a 100 mila barili al giorno, confermandosi in quell’area come uno dei leader nel settore energetico. Colossi come Eni e Fincantieri si spendono anche per il miglioramento delle condizioni di sicurezza dei trasporti marittimi (Oilspill) e per la riduzione dell’impatto ambientale in un ecosistema particolarmente fragile a causa del riscaldamento globale. Questo insieme di cose altro non è che la base su cui costruire una importante e fruttuosa collaborazione con i paesi dell’Artico. Infatti non è un caso che alla fine del 2015 sia stato pubblicato per conto del Ministero degli Affari esteri un importante documento dal titolo “Verso una strategia italiana per l’Artico: linee guida nazionali”, e contemporaneamente il deputato e Vice Presidente dell’assemblea parlamentare Nato Paolo Alli abbia presentato alla commissione Affari Esteri della Camera una proposta di indagine conoscitiva sull’Artico. Condurre e creare gruppi di collaborazione e di amicizia con i parlamenti islandesi e norvegesi, risulta una strategia vincente se si ha la volontà concreta di perseguire una politica comune nell’Artico.

Gian Marco Sperelli

NATO, VERSO IL VERTICE DI VARSAVIA: QUALI LE SFIDE?

L’8 e 9 luglio si terrà a Varsavia il prossimo vertice NATO. Atteso da molti, vari saranno gli argomenti in agenda: la situazione dell’Europa dell’est ed il rapporto con la Russia, le minacce provenienti dal terrorismo, la riforma delle partnership politiche dell’alleanza ed il suo allargamento ed il dibattito sulle future strategie in tema di nucleare, cyber-security difesa antimissile. Altro tema di grande rilevanza potrebbe essere quello attinente alle crisi nel Mediterraneo.

Dopo le rassicurazioni agli alleati orientali avvenute (anche) grazie al più grande dispiegamento di forze verificatosi negli ultimi anni per mezzo delle esercitazioni “Anakonda 16” e “Baltops 16” di inizio mese, l’incontro si pone l’obiettivo principale, secondo fonti privilegiate, di passare dalla fase di deterrenza alla fase di dialogo con l’ex partner russo, proseguendo sul solco della strategia decisa al Summit del 2014 in Galles. Stoltenberg ha già fatto sapere che proporrà un nuovo Consiglio NATO-Russia subito dopo Varsavia.

Innegabile è infatti il clima di diffidenza e tensione, alimentato da motivazioni storiche, tra i paesi della c.d. “Nuova Europa” e la Russia. Clima che ormai da qualche anno ha reso lo scenario di conflitto armato non più inimmaginabile.

Su questa linea la richiesta di pochi giorni fa alla NATO del comandante dell’esercito estone, Generale Riho Terras, di inviare al Cremlino un segnale “che lo costringa a credere all’articolo 5, al fine di eliminare con fermezza la possibilità di un’azione militare contro i Paesi Baltici”.
Dal lato opposto però non sono mancate voci che hanno mosso critiche alla recente strategia della NATO, vedendo in essa una provocazione gratuita verso la Russia. Queste, provenienti per lo più dai paesi del centro-sud dell’Europa, hanno constatato che -per quanto colpevole- la Russia sia più un partner che un nemico e che in questa “Terza guerra mondiale a pezzi”. Ben altre minacce meritano la prioritaria attenzione, come quella proveniente dal terrorismo di matrice religiosa che continua a mietere vittime nel mondo.
Sul fronte Is infatti, nonostante le rassicuranti notizie giunte dall’Iraq dovute dalla conquista di Falluja, la situazione nel Nord Africa, probabile prossimo scenario di conflitto, resta ancora molta complessa, considerando che:

  • gli Stati Uniti, sempre più proiettati sulle sfide dell’oceano pacifico, da tempo sembrano procedere ad un progressivo disimpegno nel mediterraneo e, di certo, non prenderanno decisioni rilevanti di politica estera sino alla conclusione delle prossime elezioni presidenziali;
  • l’Europa, in piena crisi politica post Brexit, risulta ancora troppo divisa sulle singole priorità da perseguire e nei modi per farlo per pervenire ad un piano unitario realmente incisivo per affrontare la crisi dei migranti che attenta alla sua stabilità e credibilità;
  • la Turchia, nonostante sia talvolta apparsa come uno Stato concentrato esclusivamente sui propri interessi, sia di politica interna che di politica regionale – declinabili in una svolta “neo-ottomana” -, resta un alleato fondamentale. Da segnalare le recenti ed apparentemente contraddittorie dichiarazioni del ministro degli Affari esteri turco, con le quali Cavusoglu, prima ha immaginato un’apertura alla Russia – i rapporti tra i due Stati si sono molto distesi dopo la lettera di scuse di Erdogan a Putin che ha chiuso il contrasto apertosi con l’abbattimento del caccia russo nel novembre 2015 – per utilizzo della base di Incirlik, disponibile per “chiunque voglia cooperare” alla battaglia contro l’Is, salvo poi smentire.

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Tema rilevante sarà quindi quello della Cooperazione. Su questo fronte, indipendentemente da una reale prospettiva di ingresso, la NATO da sempre concorre attivamente ad avere rapporti positivi e prolifici con i propri partner strategici. Tra questi ad esempio l’Ucraina che, reduce dal 92 seminario Rose-Roth, ha iniziato un progressivo avvicinamento alla sfera di influenza atlantica.

Sul versante balcanico invece il Montenegro nel maggio 2016 ha firmato il protocollo di accesso all’alleanza atlantica -penultimo passo del processo di adesione – divenendo così, salvo sorprese, il 29 paese a farne parte, contribuendo ad un consolidamento dell’area, seguendo la via intrapresa da Albania e Croazia che nel 2009 firmaro il Patto Atlantico.

Queste decisioni ci segnalano che il processo di allargamento della NATO non è terminato e che dunque, in futuro, altri paesi potrebbero fare il loro ingresso nell’alleanza. La constatazione che due soggetti primari del diritto internazionali non dialoghino se non a parità di forza e la conseguente logica della deterrenza, hanno portato ad un incremento delle questioni politiche riguardanti gli armamenti. Nonostante la tragica ed inesorabile cultura pacifista che da decenni accompagna l’occidente – cosa che ha portato, oltre che il ridimensionamento della spesa militare degli stati membri al di sotto del 2% del PIL, la sottovalutazione della possibilità di un conflitto militare – sempre più nel mondo si respira un clima da rinnovata guerra fredda.

Problematico sin dalle precedenti elezioni russe, incentrate sul riarmo militare, il sistema di difesa dai missili balistici intercontinentali (Icbm) da sempre destra preoccupazioni a Putin che, nonostante le rassicurazioni ricevute, resta convinto che tali sistemi siano una minaccia per la Russia e che abbiano effetti di squilibrio sulla deterrenza nucleare.

Gli Stati Uniti, proseguendo nella loro strategia dichiarata di difesa dalle minacce provenienti da oriente, hanno recentemente inaugurato il sito dell’Aegis Ashore in Romania, preparandosi ad aggiungerne entro il 2018 uno analogo in Polonia. Questi, assieme ai sistemi navali ed alle basi presenti in Turchia, completeranno la linea di difesa dagli Icbm provenienti dall’est dell’area euro-atlantica.

Temi collegati saranno quelli legati alla lotta al cyberterrorismo, minaccia sempre più rilevante in un mondo tecnologizzato come il nostro, e quelli legati all’evoluzione delle armi nucleari trasportabili da droni – meno potenti, ma meno eludibili – , siano esse aeree o subacquee e sviluppate -a quanto sembri- da Cina, Russia e Stati Uniti.

Comprensibile quindi il perché si guardi con molto interesse al prossimo vertice di Varsavia, nonostante verosimilmente si tratterà di un incontro diretto al consolidamento delle politiche già intraprese e, tutt’al più, di programmazione sul breve-medio termine, proseguendo sul solco già tracciato in precedenza.

Interessante piuttosto sarà vedere a quali sfide si darà maggior risalto e se l’alleanza atlantica riuscirà a porsi verso queste con un’unica prospettiva, affrontandole così in maniera coesa, unitaria e decisa.

Valerio Gentili

NEL REGIME DI AL SISI NON C’E’ SPAZIO PER I DIRITTI UMANI

È di pochi giorni fa la notizia della condanna a 40 anni di carcere dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi. Per la precisione di 25 anni (coincidenti, in Egitto, con l’ergastolo) per essere il capo di un’associazione terroristica (il partito dei Fratelli Musulmani, messo fuori legge nel 2013 con la rivoluzione militare) ed altri 15 per aver rubato documenti segreti per la sicurezza di Stato.

La notizia non ha fatto breccia, come tante altre, sull’opinione pubblica occidentale. Si tratta infatti dell’ennesima prova, se ancora di prove ci fosse bisogno, del vuoto che ha lasciato la primavera araba in Egitto, dove la democrazia non ha mai trovato terreno dai tempi della decolonizzazione. A dire il vero Morsi era stato il primo presidente eletto con libere elezioni, rovesciato da un colpo di stato militare che ha portato il generale Al Sisi al potere nel luglio di tre anni fa. La condanna all’ergastolo è solo l’ultima di una serie: sul capo di Morsi pendeva già, tra le altre, una condanna a morte, poi rovesciata in appello.

La continua violazione dei diritti umani da parte dell’Egitto ha drammaticamente occupato le prime pagine dei giornali in questi ultimi mesi. Il caso del povero Giulio Regeni, ricercatore italiano trovato ucciso il 3 febbraio dopo aver subito torture di ogni genere nella periferia del Cairo, ha posto davanti agli occhi dell’opinione pubblica la vera faccia del regime di Al Sisi. Migliaia di sparizioni forzate e di condanne a morte ogni anno, la connivenza nei confronti dei trafficanti di migranti, i reiterati crimini commessi dalle forze di polizia sulla popolazione civile e la continua censura dei media sono solo alcuni tasselli di un puzzle che non può più essere ignorato. Qualora venisse accertata la responsabilità dell’Egitto per l’assassinio di Giulio Regeni risulterebbero evidenti le gravi violazioni di norme internazionali e dei diritti umani. Tra queste la più odiosa ed ignobile di tutte: il crimine di tortura. Dal 2001 il Comitato Internazionale contro la Tortura, nato dalla Convenzione ONU del 1984, non riceve più rapporti dall’Egitto, così come il Comitato sui diritti umani. Le continue richieste da parte di organi internazionali di inviare osservatori nel paese sono tutt’oggi senza risposta. E lontano ancora dall’essere risolto rimane il caso Regeni. Ad oggi l’unica consolazione, dal valore simbolico, è la risoluzione di marzo del Parlamento Europeo, che il 15 giugno ha voluto ascoltare in aula i due genitori della vittima.

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Il rapporto dell’ufficio di presidenza dell’Assemblea parlamentare della NATO sulla visita al Cairo di inizio aprile dipinge un paese dalle mille contraddizioni, legato da più fila al mondo occidentale e al tempo stesso pedina strategica per gli equilibri in medio oriente. Oggi l’Egitto partecipa indirettamente alla coalizione anti-ISIS in Siria ed in Iraq, fornendo supporto militare e logistico. Trova nell’Arabia Saudita e negli Emirati Arabi uniti i suoi alleati di primo piano, che con la conclusione recente di un enorme piano di cooperazione economica gli forniscono aiuti per oltre 50 miliardi di dollari. Il più grave pericolo a cui gli egiziani devono far fronte è quello del terrorismo di matrice islamica. Diverse sono infatti le minacce provenienti dal Califfato Nero che toccano in prima persona lo stato egiziano. In particolare la soluzione della crisi libica è di assoluta priorità: Al Sisi si è reso disponibile ad appoggiare un governo di unità nazionale insieme all’Italia, riconoscendo fin da subito Tobruk come unico esecutivo legittimo del paese.

L’Italia d’altra parte si presenta come il primo partner egiziano del Vecchio Continente, leader in particolare nel settore energetico grazie ad una presenza radicata da anni di EDISON ed ENI. La scoperta, da parte di quest’ultima, di un immenso giacimento di gas sulle coste egiziane apre a nuovi scenari, con l’Egitto che potrebbe ridurre notevolmente la dipendenza estera nel settore energetico.

Il caso di Giulio Regeni ha però notevolmente incrinato i rapporti diplomatici tra i due paesi, mettendo a rischio la cooperazione economica. In un’intervista a Mario Calabresi per “La Stampa” Al Sisi si è detto sincero amico degli italiani ed ha promesso l’impegno del team investigativo egiziano per assicurare alla giustizia i colpevoli. Ma la notizia della condanna a vita dell’ex presidente e il quadro del rispetto dei diritti umani che emerge dall’Egitto, così come la netta dipendenza degli organi giudiziari dall’esecutivo e i continui depistaggi per nascondere la verità e intralciare il lavoro della procura di Roma dimostrano che il caso del ricercatore friulano non è isolato e non lasciano sperare in una collaborazione utile.

Francesco Bechis

GUARDARE AL PASSATO PER COSTRUIRE IL FUTURO: UNA PROSPETTIVA DELLE RELAZIONI TRA UE E SUD AMERICA

Paper e introduzione di Matteo Radice*

Sin dai primi anni del suo processo interno di integrazione regionale, l’Unione Europea ha cercato di promuovere un regionalismo di stampo comunitario nelle varie aree del mondo in via di sviluppo per le quali gli stati europei hanno sempre nutrito forti interessi commerciali. Tra queste, quella che ha saputo ricalcare al meglio un percorso di integrazione regionale simile a quello europeo è il Sud America. Dalle istituzioni più antiche, come il MERCOSUR, fino alle forme di integrazione regionale più recenti, come la CELAC, i paesi sudamericani hanno sempre cercato un dialogo che andasse ben oltre i meri aspetti commerciali, abbracciando un progetto di più ampio respiro: dalla tutela dei diritti umani, alla lotta al narcotraffico, passando per la tutela dell’ambiente.

Negli ultimi anni, tuttavia, il dibattito sulle relazioni tra Unione Europea e gli Stati Latino Americani in merito ad uno sviluppo del regionalismo, pur non avendo subito sostanziali cambiamenti sul piano dei programmi congiunti di sviluppo, sembrava aver subito un rallentamento; ma ora, grazie anche ai recenti cambiamenti politici che stanno progressivamente riportando la classe dirigente sudamericana su un piano potenzialmente più vicino ai partner atlantici, per l’Unione Europea si potrebbero riaprire opportunità interessanti per riprendere un discorso fermo al Vertice UE-CELAC di Madrid di un anno fa.

Ma se dall’emisfero Sud arrivano segnali incoraggianti, a rischiare di trovarsi impreparata a promuovere il processo di integrazione in America Latina è proprio l’Unione Europea che, tra lo stallo politico in Spagna, il pericolo Brexit e l’emergenza nel Mediterraneo, vede il suo soft power notevolmente depotenziato. Per non perdere l’iniziativa diplomatica in Sud America, Bruxelles non deve assolutamente vanificare gli sforzi fatti in questi 20 anni di promozione del regionalismo, ma anzi deve ripercorrere quel percorso.

Scarica qui il paper PDF.

Matteo Radice è studente del Master in European Union Studies alla Universidad Católica San Antonio de Murcia.

IL PROCESSO DI PACE IN LIBIA TRA INTERESSI PARTICOLARI E BENE COMUNE

Seconda puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Riccardo Redaelli*

Lo stallo politico in Libia sembra senza fine: ormai a distanza di mesi dalla nascita laboriosa del governo di al-Sarraj, non si riescono ancora a vincere le resistenze che ne ostacolano il pieno riconoscimento interno. Come noto, la nomina di questo nuovo governo di unità nazionale – fortemente voluta dalle Nazioni Unite e strenuamente appoggiata dall’Italia (che si è spesa, in questi mesi, più di ogni altro paese occidentale) – aveva lo scopo di superare la pericolosa diarchia fra i governi di Tripoli e di Tobruk e di contrastare la continua frammentazione degli schieramenti. Soprattutto era pensata come unico argine credibile contro l’ascesa di Daesh in Libia, le cui milizie stavano sfruttando il vuoto di potere e la balcanizzazione del paese.

Forti opposizioni erano state preventivate, ma vi è forse stato un eccesso di ottimismo nella capacità di superarle. In particolare, il generale Khalifa Haftar – l’uomo forte di Tobruk – si oppone a questo compromesso politico che ne mina lo stra-potere personale, certo del sostegno politico, economico e militare di Egitto e monarchie del Golfo. La determinazione (o arroganza) di Haftar è altresì rafforzata dalle ambiguità della posizione britannica e soprattutto francese, le quali – pur sostenendo ufficialmente il processo avviato dall’ONU e dall’Italia – “giocano” pericolosamente con le spinte secessioniste delle zone orientali e meridionali. La conseguenza è che la rigidità di Tobruk si riverbera sulla miriade di ambizioni e rivalità personali uscite deluse dal processo di formazione del nuovo governo di unità nazionale, fomentando gli opposti estremismi.

Anche sullo scacchiere libico, in sostanza, fatica a ricomporsi l’unità della politica estera e di sicurezza occidentale, mentre permangono i tatticismi dei tanti attori locali, regionali e internazionali, incapaci di superare logiche puramente nazionali o di corto respiro. Nonostante appaia ormai evidente come la frammentazione politica libica rappresenti un pericolo oggettivo a livello macro-regionale; si pensi, ad esempio, agli effetti destabilizzanti sui paesi confinanti (Algeria e Tunisia in primis), allo sviluppo di cellule jihadiste che si richiamano al califfato jihadista di Daesh e al ruolo in negativo che la Libia di oggi gioca nel cinico traffico di migranti verso l’Europa.

Particolarmente grave non capire come la crisi di questo paese non possa essere disgiunta dalle altre crisi mediorientali, quando al contrario il sistema internazionale abbisogna di una visione maggiormente olistica e di ampio respiro. La continua e spesso superficiale ripetizione della celebre definizione di Papa Francesco sulla “Terza guerra mondiale a pezzi” rischia di banalizzare quella che è una grande intuizione del pontefice sui nessi che collegano i troppi conflitti. E sulla necessità di mitigare i meri interessi nazionali (che esistono e di cui bisogna tenere conto) con i bisogni delle popolazioni coinvolte e con l’impegno assunto – solo formalmente? – dalle Nazioni Unite di promuovere la cosiddetta Human Security. Una sicurezza che mette al centro le popolazioni più che gli stati e che collega indissolubilmente il concetto tradizionale di sicurezza, con quello di sviluppo e di libertà. Una Human Security minacciata da molti ma soprattutto dall’ascesa della violenza religiosa di marca jihadista, con la quale il sistema internazionale deve fare di più e meglio. Anche in Libia, un paese che rappresenta la cartina di tornasole della capacità degli attori interni e internazionali di combattere il terrorismo e i trafficanti di esseri umani, promuovendo una stabilizzazione politica credibile. Anche a costo di obbligare qualche protagonista a fare “dei passi indietro” e di rinunciare all’inseguimento cinico dei soli interessi nazionali di breve respiro.

* Professore ordinario di Geopolitica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Puntate precedenti:

      0. | Ornaghi Lorenzo – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine

92° SEMINARIO ROSE-ROTH TRA L’ASSEMBLEA PARLAMENTARE NATO ED IL CONSIGLIO UCRAINO

Tra gli strumenti di cui la NATO dispone per raggiungere i propri obiettivi merita speciale menzione il programma di cooperazione Rose-Roth. Fondato nel 1990 dall’allora Presidente della Assemblea parlamentare NATO Charlie Rose e dal Senatore Bill Roth, in origine aveva l’obiettivo di assistere i paesi partner dell’area sovietica nei processi di transizione democratica e nelle riforme economico/politiche necessarie dopo la caduta del Muro di Berlino ed il diradarsi della cortina di ferro.

Successivamente mirato principalmente all’area dei Balcani e sud-caucasica, oggi il programma include molti paesi dell’area non-Nato con il fine di condividere informazioni, buone pratiche e soprattutto per promuovere il principio del ”controllo democratico delle forze armate” provvedendo così allo sviluppo di politiche militari sostenibili. In questi paesi, a tal fine, ogni 2 o 3 anni vengono organizzati dei seminari aventi come tema le maggiori problematiche di sicurezza locale e le varie istanze regionali, in collaborazione con i parlamenti nazionali e con degli esperti indipendenti.

Fin dalla sua nascita il programma è stato fortemente finanziato dalla US AID, dal Geneva Centre for the Democratic Control of the Armed Forces (DCAF), dalla NATO, e da vari Stati.

Il 15 giugno scorso a Kiev si è tenuto il 92° seminario Rose-Roth tra l’Assemblea Parlamentare della NATO ed il Consiglio ucraino, svoltosi sotto le crescenti spinte Atlantiche di integrità territoriale dell’Ucraina e diretto verso un nuovo ed auspicato assetto geopolitico ad est dell’Europa: gli strascichi della Guerra del Donbass infatti sono ancora troppo evidenti. Le forze politiche locali infatti, tuttora profondamente separate, non sono riuscite a superare la strutturale dipendenza dalle industrie russe a causa dell’incapacità di fare le riforme necessarie a stabilizzare il paese: l’aumento del prezzo di mercato del Gas fino a picchi dell’80%, a fronte di un aumento salariale del 5%, ne è stato solo l’ultimo esempio.

NATO_Parliamentary_Assembly_logoUlteriore motivo di tensione regionale è la politica estera aggressiva attuata da Putin che, incurante degli avvertimenti del segretario generale della NATO Stoltenberg, continua a sostenere i ribelli in vari modi e a rafforzare la presenza militare in Crimea, annessa illegittimamente alla Federazione russa nel 2014, ove ha sede la flotta navale sul Mar Nero di Mosca.

In questo contesto le parti, decise ad aumentare la cooperazione nell’attuazione dei programmi di riforma – la cui relativa sessione è stata presieduta dal Vice-Presidente dell’Assemblea atlantica Paolo Alli – hanno firmato un nuovo importante accordo avente ad oggetto le forniture militari e la loro manutenzione ”con lo scopo di diversificare le fonti per il supporto logistico delle forze armate ucraine” e quindi ”annullarne la dipendenza dall’industria militare russa” come dichiarato nel comunicato ufficiale diffuso della rappresentanza di Kiev nella NATO a seguito dell’incontro.

Nonostante voci americane ed europee contrarie ad una prossima espansione delle forze atlantiche, preoccupate per una eventuale escalation regionale a causa dell’impossibilità di pervenire ad un accordo unanime con la Russia, il sostegno all’Ucraina da parte dell’alleanza guidata da Stoltenberg non sembra essere in discussione ma, anzi, sembra progressivamente aumentare. In questo senso corre anche l’ipotesi, sempre più concreta, di una partecipazione delle forze armate ucraine nella flotta atlantica nel Mar Nero, centro geo-strategico che sta acquisendo con il passare del tempo sempre più importanza nello scacchiere internazionale.

Su questo e su molti altri temi grande importanza avrà il prossimo Summit NATO a Varsavia, previsto per l’8 ed il 9 luglio prossimi, che avrà proprio ad oggetto la presenza militare nel centro-est dell’Europa e le risposte atlantiche alle spinte egemoni ormai quasi ”neo-zaristiche” della federazione russa.

Summit che, svolgendosi in questo clima di nuova ”Guerra Fredda”, avrà certamente la necessità di mantenere soddisfatte le istanze di sicurezza provenienti dai paesi della ”Nuova Europa”, più esposti rispetto ad altri alle minacce del Cremlino, ma che verosimilmente non potrà produrre rilevanti novità soprattutto a causa dalla pendenza delle elezioni americane, oltre che per gli interessi particolari dei paesi europei appartenenti all’Alleanza, ancora fin troppo contrastanti.

Valerio Gentili

UE-TURCHIA, CHI VUOLE COSA?

La Turchia trema. Trema sotto i colpi del terrorismo, che in questi giorni ha provocato due attacchi consecutivi. Il primo martedì scorso, una bomba nella metropolitana di Istanbul che ha causato 11 morti e 36 feriti; il secondo, il giorno successivo, un’autobomba davanti a un commissariato nella provincia del Mardin che ha ucciso almeno un poliziotto e due civili, ferendone altri 30.

Trema, insomma, sotto i colpi della rinnovata guerriglia del PKK e, secondo i dati diffusi da Amnesty International, anche sotto il peso degli oltre 2,7 milioni di profughi siriani, che fanno della Turchia il paese con il più alto numero di rifugiati al mondo – numero peraltro destinato ad aumentare in seguito alle clausole dell’accordo con l’Unione Europea del Marzo scorso.

È proprio da Bruxelles che arrivano i segnali meno incoraggianti per i piani del Presidente Recep Tayyip Erdoğan: segnali che possono addirittura far saltare ogni tentativo di avvicinamento dello Stato degli Stretti con l’Unione Europea. Infatti, se da una parte l’UE si mostra vicina alla Turchia e convinta di fare fronte comune nella lotta al terrorismo, dall’altra resta invischiata in una partita controversa, incastrata in delicate relazioni diplomatiche. Suscita ancora molta risonanza, infatti, la dura accusa lanciata all’Unione da Erdoğan durante la chiusura dei lavori del Word Humanitarian Summit dello scorso 24 Maggio: secondo il Presidente, infatti, i 6 miliardi di euro di aiuto promessi dall’UE per l’accordo sui migranti non sarebbero mai arrivati alla Turchia, e la promessa di liberalizzare le procedure per i visti e facilitare l’ingresso della Turchia nell’area Schengen sarebbe stata rimandata ad una indefinita data di fine Giugno.

Le cause per questo rinvio sarebbero le famose 72 richieste, da rispettare alla lettera, che l’Unione Europea ha presentato alla Turchia; tra queste, sono inclusi provvedimenti giudicati essenziali, quali la revisione delle leggi nazionali anti-terrorismo, la libertà di stampa, la lotta alla corruzione e la cooperazione giudiziaria con i paesi membri dell’Unione Europea. In aggiunta, vi è anche la preoccupazione espressa dalle parole di Angela Merkel, la quale ha “caldamente” invitato Erdoğan a rispettare gli obblighi di fornire la Turchia di un Parlamento “forte”.

Siamo così di fronte ad una nuova impasse nelle trattative UE – Turchia, che mette nuovamente in discussione l’annoso e controverso processo di integrazione della stessa nell’Unione Europea.

Processo complicato già dalla sua nascita, e inevitabilmente farraginoso nel suo sviluppo. Non è un mistero, infatti, che non solo il Parlamento Europeo, ma anche molti parlamenti nazionali, tra cui quello italiano, hanno sollevato questioni di legittimità e di opportunità nel sottoscrivere un accordo che, ad oggi, stenta a raccogliere un ampio consenso. È vero che il numero di partenze di migranti dalla Turchia si è sensibilmente ridotto negli ultimi mesi, ma è altresì vero che il numero di profughi sulle coste greche rimane ancora insostenibile, e che i rimpatri sono stati ben al di sotto delle aspettative. Diverse organizzazioni internazionali presenti nei campi profughi denunciano che basse percentuali dei richiedenti asilo in Turchia ricevono un trattamento adeguato: è inevitabile, in tal caso, che violazioni dei diritti umani distruggano la legittimità dell’accordo e sgretolino la convinzione europea che la Turchia sia un “paese sicuro”. Anche se, bisogna dirlo, la narrazione europea spesso si esime da una descrizione onesta della situazione sul campo, che a rigor del vero parla di programmi molto seri del governo turco per i rifugiati siriani e iracheni.

Başbakan Recep Tayyip Erdoğan, AK Parti Genişletilmiş İl Başkanları Toplantısı'na katıldı. Başbakan Erdoğan, partilileri ''Rabia'' işareti yaparak selamladı. (Evrim Aydın - Anadolu Ajansı)

Certamente, ciò che desta maggiori perplessità in merito ad una futura reale implementazione degli accordi, è il fatto che non sembrano esserci segnali che aprano spiragli di concreto avvicinamento: Erdoğan, si sa, è un leader con cui è complicato discutere, ed è tutta da appurare la sua reale volontà di abbandonare il sogno della leadership del Medio Oriente a favore di un ruolo da comprimario (seppur di peso) in una Unione che lo vede con sospetto.

Inoltre, con l’estromissione di Davotoğlu dal Governo, le cose si fanno ancora più complesse: l’Unione Europea, infatti, perde un interlocutore fidato e si ritrova a dover avere a che fare con Erdoğan “uomo solo al comando”, sempre più restìo a cedere alle pressioni esterne e intollerante contro le minacce interne. Ora, l’Unione Europea sta correndo precipitosamente ai ripari con un piano da 62 miliardi da stanziare nei paesi di origine dei flussi migratori, nella tardiva speranza di fermarne l’emorragia: questo, in attesa di capire se potrà ottenere un reale progresso nell’asse con la Turchia, nella speranza che il suo tremolio non sia il nostro terremoto.

Matteo Radice

LA FINE DEL SOGNO. L’EUROPA E’ ANCORA IL NOSTRO FUTURO?

Grexit, Brexit, Nexit. Un exit collettivo sembra devastare l’European Dream. Un effetto domino, inatteso?! Sperato?! O forse inizialmente sottovalutato? La Brexit è però solo l’ultima spina che si è conficcata nel fianco dell’UE, che, assieme alle precedenti (chiusura dello Schengen, iniziale rischio Grexit, affermazione dei partiti anti-Ue, complessa governance economico e bancaria), ha pian piano portato al logoramento dell’identità di una già fragile Europa.

Il famoso disegno degli “Stati Uniti d’Europa” che Churchill decantava, nel suo discorso del 1946 all’Università di Zurigo, come soluzione per un’Europa libera, felice e sicura, forse non ha mai avuto la sempre agognata realizzazione completa. È evidente che sono troppi gli scenari venuti a delinearsi nell’Europa di questi anni, eventi che meritano una grande attenzione e consapevolezza. Non è stato quindi un caso che il secondo appuntamento del ciclo di incontri sul “Mondo che sarà”, organizzato dalla Fondazione De Gasperi, abbia posto l’attenzione su una domanda quanto mai appropriata: “L’Europa è ancora il nostro futuro?”.

Enzo Moavero Milanesi, giudice di primo grado presso la Corte di giustizia dell’Unione europea in Lussemburgo e collaboratore della Commissione europea in qualità di Direttore Generale del Bureau of European Policy Advisors, già Ministro per gli Affari Europei nel governo Monti e Letta, è stato il relatore dell’incontro.

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La “generazione europea”, quella dell’Erasmus, dell’Euro, delle frontiere aperte e del commercio europeo, è probabilmente l’unico spiraglio di salvezza per un’Europa che stenta a restare unita ed in piedi. Già Francia e Paesi Bassi, rifiutando il Trattato Costituzionale, hanno spezzato in partenza l’ambizione di dare all’Europa un assetto più compiuto. La ragione non è cosi diversa da quella che oggi spinge altri paesi alla frattura per il remain o il leave dall’Europa.

I meteoriti che permettono il vacillamento continuo europeo sono diversi. La globalizzazione è uno di questi, e con essa la conseguente necessità, per gli europei, di confrontarsi con nuovi popoli.

La crisi economica e finanziaria e l’immigrazione che ci ha colti impreparati (sia da un punto di vista economico che morale), hanno contribuito al declino europeo, insieme al terrorismo e le guerre. È evidente che se l’Europa non è in grado di affrontare questi  grandi problemi, gli incessanti dubbi di molti Paesi membri difficilmente si placheranno.

Quando la domanda dell’exit viene da un Paese che si può definire già in parte fuori dall’Europa, è un grande segno di un incessante declino, soprattutto in un momento così precario per questa istituzione. Allora, sarà meglio far prevalere la “pancia” che spinge verso l’uscita, o la “testa” che tende ad una stabilizzazione europea?

È evidente che non è più tempo per un ibrido europeo, che si divide tra federalismo e non federalismo, perché non soddisfa più i tempi attuali. Per cui, in una visione futura dell’Europa, in una sua prossima ricostruzione, se si dovesse ripartire da un nucleo di virtuosi coesi ed economicamente simili, viene da chiedersi se si debba riparte dalla zona dell’Euro.

Il sogno europeo, basato sul federalismo, sarebbe in grado di realizzarsi? Attraverso questa analisi attenta e limata in ogni suo piccolo dettaglio, l’incontro è stato condotto verso l’unica domanda che ogni italiano dovrebbe porsi in questa fase di un’Europa in ginocchio: “L’Italia, che fine farebbe? Sarebbe compresa in questo nucleo di virtuosi?”; “la nostra Italia, che rappresenta il secondo paese con il debito pubblico più alto al mondo, con una crescita limitata da vent’anni, che non sfrutta i fondi europei, davvero farebbe parte del grande progetto di rinascita?”; e ancora, “Che disegni resteranno della geopolitica attuale?”