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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

L’AMICO RITROVATO? PROVE D’INTESA TRA USA E ARABIA SAUDITA DOPO IL GRANDE GELO

La scorsa settimana è stata un misto di emozioni positive e negative che hanno tenuto molto impegnata la stampa italiana. È stato un viavai di notizie che meritavano attenzione, ma che hanno fatto passare inosservato un evento che – per le dinamiche della politica internazionale – può significare molto.

È stata, infatti, la settimana del viaggio negli Stati Uniti del Principe Mohammed bin Salman al-Saud, ossia l’uomo che, de facto nel presente e de jure in un futuro prossimo, guida uno degli stati più importanti nel panorama politico mondiale, l’Arabia Saudita. Visita che cade in un momento delicato: se è vero che USA e AS sono storici alleati, è pur vero che il rapporto si è incrinato negli ultimi anni, rischiando di compromettere il già precario equilibrio mediorientale.

Casus belli, metaforicamente parlando, è la strategia americana che punta a disimpegnarsi dal ginepraio mediorientale, avendo Obama ridefinito il pivot della politica estera statunitense nel Pacifico, ponte di collegamento con il vero mondo che – con la sua vertiginosa ascesa – minaccia la leadership degli USA, ossia la Cina; disimpegno reso possibile soprattutto dagli sviluppi tecnologici in tema di shale gas, che hanno permesso agli USA di non dover più dipendere dal petrolio mediorientale. Il che significa inevitabilmente un abbandono dell’annoso (e mediaticamente fortemente dispendioso) coinvolgimento in Medio Oriente, lasciando scoperte le potenze alleate (in primis proprio l’Arabia Saudita) che vedono così le rivali avvantaggiate, in particolare l’Iran (peraltro spalleggiato dalla Russia).

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il raggiungimento dell’accordo nucleare tra USA e – quasi fosse una beffa – proprio l’Iran, che è così uscito dall’isolamento internazionale in cui era relegato: questo fatto ne ha sancito il ritorno sulla scena politica, ed ha inferto un ulteriore duro colpo all’Arabia Saudita. Quest’ultima si è ritrovata improvvisamente a dover contare esclusivamente sulle proprie forze, come dimostra l’intervento militare in Yemen. A questo, si aggiungono diversi scenari minori – le cosiddette proxy wars – in cui si propaga la rivalità saudita-iraniana: basti pensare alla Siria, dove l’Iran (con la Russia) sostiene Assad, mentre l’Arabia Saudita finanzia i ribelli al regime.

Insomma, l’Arabia Saudita si è quasi sentita tradita dagli USA, a maggior ragione per il grave danno economico subito in seguito all’accordo nucleare: l’Iran, riabilitato a commerciare petrolio, ha subito iniziato una guerra economica che ha inferto gravissimi danni all’economia saudita.

Ebbene, il rischio di un relegamento politico-economico per l’Arabia ha imposto alla famiglia reale un cambio di passo, soprattutto nella riorganizzazione dell’economia del paese: proprio Mohammed si è imposto come promotore di un progetto, Vision 2030, che mira a rendere indipendente la Monarchia dal mercato petrolifero, obiettivo raggiungibile mediante una diversificazione dell’economia e un massiccio investimento finanziario in quote di società ad alto sviluppo.

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È proprio questa la motivazione ufficiale della visita negli USA: il Principe, infatti, ha visitato la Silicon Valley, patria indiscussa delle società ad alto rendimento, nonché Wall Street, centro della finanza mondiale.

Tuttavia, la mera motivazione economica appare insufficiente, tanto più se si evidenzia che il Principe ha incontrato, nella mattinata di venerdì, il Presidente Obama alla Casa Bianca. Un incontro passato sotto silenzio, e di cui la stessa comunicazione governativa offre (senza particolare pubblicità) uno stringato e asettico comunicato che parla di “opportunità per discutere questioni di reciproca preoccupazione”. Ovviamente “closed press”.

Varie le tematiche sul piatto: da ISIS, alla Siria, passando per l’Iran e Vision 2030. Piccoli pezzi di un puzzle più grande, la cui sana (o meno) composizione influenzerà non solo gli interessi degli attori coinvolti in prima persona nella regione mediorientale, ma anche di coloro che ne vivono ai margini, Unione Europea in primis. Di certo, gli sviluppi dei prossimi mesi – se letti alla luce di questo importante viaggio – renderanno chiaro cosa ci aspetta.

Giovanni Gazzoli

LA BREXIT SI TINGE DI SANGUE: L’OMICIDIO DI JO COX E’ UNA TRAGEDIA EUROPEA

Il tragico destino di Jo Cox si è consumato il 16 Giugno 2016 ad una settimana esatta dal referendum, che segnerà il futuro della Gran Bretagna nell’Unione Europea. La deputata laburista, fervente sostenitrice del No al referendum, è stata prima accoltellata e poi freddata con un colpo d’arma da fuoco da un ultranazionalista del movimento pro-Brexit “Britain first”. Inutile dire che il movimento abbia cercato di correre subito ai ripari: ”I media stanno cercando disperatamente di coinvolgerci in questo fatto. Britain first chiaramente non è coinvolto e mai incoraggerebbe un comportamento di questo tipo”. Il dibattito politico sulle conseguenze di un’ipotetica uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si è infiammato ulteriormente, con l’innescarsi -soprattutto sul web- da parte del fronte pro-Brexit, di teorie complottiste e cospirazioniste, dopo la morte della Cox.

Si tratta di un duro colpo per i promotori della Brexit, a partire dall’ex sindaco conservatore di Londra, nonché principale avversario del premier Cameron, Boris Johnson, per arrivare a Nigel Farage, leader controverso del partito Ukip e vero trascinatore del comitato pro-Brexit. La morte della Cox elimina uno dei volti nuovi del Labour Party dall’agone politico. Ex dirigente dell’associazione umanitaria Oxfam, la Cox si è battuta per un modello di integrazione sostenibile e fruttuoso degli immigrati in Gran Bretagna dopo lo scoppio della guerra civile siriana e delle “Primavere arabe” in nord Africa. Pochi mesi fa l’elezione di Sadiq Khan, esponente del partito laburista, a sindaco di Londra ha assunto un valore simbolico importante: per la prima volta un candidato di religione islamica viene eletto come primo cittadino della capitale inglese. Come Jo Cox , Sadiq Khan ha fatto dell’ integrazione e della lotta per i diritti umani il vessillo della propria battaglia politica. Questi due eventi mostrano chiaramente le due anime culturali e identitarie del Regno Unito, e se da un lato abbiamo il multiculturalismo britannico eredità -gradita o meno- dell’impero di Sua Maestà, dall’altro continua a reclamare spazio l’indipendentismo o particolarismo britannico all’interno del vacillante “concerto europeo”.

24600489394_35b53e4822_bA prescindere il risultato del referendum, due riflessioni risultano lampanti: la Gran Bretagna con il suo atteggiamento sta di fatto alimentando le spinte centrifughe e secessioniste dei popoli europei, e non è un caso che proprio la leader del Front National Marine Le Pen guardi con tanta attesa e trepidazione all’esito di Brexit; il secondo punto su cui interrogarsi è la profonda contraddizione che sostiene tutto il movimento pro-Brexit: infatti lo Ukip ha ottenuto grandi consensi grazie alla sua capacità di alimentare paure collettive legate all’immigrazione e alla crisi economica dell’eurozona, ma è qui che viene a crollare il castello di carte costruito dagli euroscettici. La Gran Bretagna si è autoesclusa sia dalla moneta unica sia dalla zona Schengen, quindi è stata interessata in minor misura dalla crisi del sistema comunitario. C’è da ricordare inoltre che lo stesso David Cameron a Febbraio ha strappato un accordo importante con L’Ue, per favorire la permanenza del Regno Unito in Europa: si è visto infatti riconfermato il diritto di sottrarsi ad una ever closer union. Molti in questi giorni stanno riscoprendo le ormai celebri parole di Winston Churchill, datate 1946,: “Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa”. Si dimentica ,tuttavia, che quelle parole furono dettate più per pragmatismo politico che per uno spiccato europeismo. Settant’ anni dopo il particolarismo britannico riemerge più forte di prima, e forse, l’uscita di Londra dall’Ue, ci consegnerà un’ Europa sicuramente più sola. Tuttavia, la stessa Gran Bretagna non smetterebbe di essere influenzata dalla legislazione europea che tanto rifiuta. Gli stessi rapporti con gli Stati Uniti ne risentirebbero. C’è da vedere come andranno a finire le presidenziali in America tra Trump e Clinton, ma lo scossone si sta già avvertendo.

Gianmarco Sperelli

STRAGE ORLANGO: QUANDO IL TERRORISMO SI MISCHIA ALLA DISCRIMINAZIONE E ALL’INDIFFERENZA

Orlando, Florida. È la notte tra l’11 e il 12 giugno. Sono circa le 02:02 (ora locale) quando Omar Mateen imbracciando un fucile semiautomatico entra nel locale frequentato da gay “Pulse” e comincia a sparare. Venti minuti dopo l’uomo, mentre continua ad uccidere, chiama il 911 e giura fedeltà allo Stato Islamico. Alcuni agenti alle 05:00 inoltrate fanno irruzione nel locale e di lì a poco riescono ad uccidere il killer. Alla fine della nottata si contano 50 morti (compreso l’attentatore) e 53 feriti.

Una strage è sempre colma di interrogativi e questa, se possibile, lo è ancora di più. Nella questione stavolta s’intrecciano fili che sembrano paradossalmente scorrere su due binari paralleli. La pista terrorismo da un lato e quella omofoba dall’altro, da una parte l’odio per l’America e per il suo famigerato tentativo di esportazione della democrazia e dall’altra l’odio per la diversità. Il padre di Mateen ha dichiarato come suo figlio fosse omofobo, ma non un terrorista e ha dichiarato come suo figlio sia stato lui sì “usato e ucciso dai terroristi” (proprio il padre sembra essere un sostenitore dei talebani in Afghanistan). Sulla moglie dell’uomo invece proprio in queste ore stanno avanzando ombre inquietanti, in quanto è possibile che fosse a conoscenza delle intenzioni del marito. In soggetti così particolari è sempre complicato comprendere quanto la religione, l’integrazione nella società, la famiglia o altre componenti abbiano influito su una decisione così tragica, ma quello che è certo è che l’uomo era già stato segnalato all’Fbi dopo gli attentati di Boston del 2013. Mateen sognava il martirio ed è emerso in questi giorni successivi alla strage come guardasse video di propaganda dell’Isis e sognasse un Afghanistan libero dai bombardamenti americani. Proprio alcune testimonianze all’interno del locale hanno riferito che la volontà di Mateen era che gli Stati Uniti smettessero di bombardare il suo paese d’origine.

Inoltre l’opinione pubblica e la politica si scontrano su uno dei temi scottanti proprio durante questa campagna elettorale per le elezioni che contrappone Hillary Clinton e Donald Trump: la reperibilità delle armi. A quante stragi e a quante follie dovremo ancora assistere perché ci si convinca che una tale diffusione delle armi porti solo a queste tragedie? È stata proprio quella facilità a procurarsi un’arma che ha portato alcune persone a rinchiudersi nei bagni del locale nell’ultimo, umano, tentativo di salvare la propria vita, o forse dignità. Quella notte di festa, che ricorda quella del Bataclan di Parigi del 13 novembre scorso, si è trasformata in una notte di sangue. L’America ogni giorno si risveglia più vulnerabile.

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E le domande di fronte a una tale tragedia insensata sono infinite. Quanto è difficile muoversi in mezzo a tutti questi moventi? Quante domande frullano nella testa di chi assiste per la prima volta all’annuncio di una notizia del genere? Quanto conta il senso di appartenenza in chi compie un atto così… definitivo? Ma soprattutto: perché? Le conclusioni sono amare: non ci sono risposte soddisfacenti, non ci sono e non ci saranno mai studi scientifici che dimostreranno quanto conti una certa cosa rispetto a un’altra. Quello che possiamo fare è cercare di partire da noi, dalla nostra società e tentare di non guardare sempre a “loro” agli “altri”: perché questa ennesima strage non prova nient’altro che alla fine chi ci rimette è sempre l’uomo.

Ma la cosa sconcertante che questa strage ci fa notare, ancor più di altre, è che per ogni attentato che passa è come se noi… ci annoiassimo. Quando le stragi si susseguono una dopo l’altra, la prima viene condivisa in tutto il mondo sia dalla politica che dal popolo, la seconda attecchisce di meno sulle nostre coscienze, la terza ancora meno e così via. E l’abitudine sopravviene sulla paura, le consuetudini sulle lacrime, e la società viziata in cui viviamo continua a nutrirsi delle sue stesse colpe, autoalimentandosi. E quello che si scopre, purtroppo, è che non c’è umanità nella massa che piange i morti. Chissà se stavolta dire “je suis gay” risulta più difficile che dire “je suis Charlie”.

Simone Stellato

 

LA «GUERRA A PEZZI» DI UN MONDO IN DISORDINE

Prima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Damiano Palano*

Sono passati venticinque anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dal momento in cui il mondo scoprì di essere diventato «unipolare». Con la fine del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss, la politica globale non perse infatti semplicemente una delle due «superpotenze» protagoniste dalla «guerra fredda», ma le basi stesse su cui per quasi mezzo secolo si era retto l’equilibrio bipolare. Nel corso di questi venticinque anni il dibattito politologico ha cercato di fissare i tratti distintivi del «nuovo ordine mondiale», soprattutto nel tentativo di trovare precedenti storici e così di prevedere le possibili traiettorie di sviluppo. Realisti come Kenneth Waltz e John Mearsheimer formularono per esempio previsioni che – pur procedendo in una direzione diversa – concordavano sull’idea che si sarebbero riproposte le classiche dinamiche dell’equilibrio di potenza, e che dunque la riconquista di un nuovo ordine sarebbe giunta a seguito di un (problematico) processo di bilanciamento e ridefinizione delle alleanze consolidate. Altri osservatori ritennero invece che la novità del quadro emerso dopo il 1989 e il 1991 fosse tale da rendere del tutto inservibili le chiavi di lettura tradizionali. Francis Fukuyama – con una formula spesso fraintesa, eppure destinata a fissare rapidamente lo Zeitgeist degli anni Novanta – scrisse che la «Storia» (nel suo significato hegeliano) si era conclusa, perché la liberaldemocrazia occidentale aveva sconfitto per sempre i suoi storici avversari, ponendo dunque termine alla stessa «evoluzione ideologica» del genere umano. Sottolineando invece che, per la prima volta nella storia moderna, la politica mondiale era dominata da un’unica potenza, Charles Krauthammer scrisse che la nuova fase politica poteva essere descritta come un «momento unipolare». Negli anni seguenti non pochi si spinsero d’altronde a prevedere che quel «momento» era destinato a trasformarsi in una duratura «era unipolare». E qualcuno proposte anche più o meno ingegnose analogie tra l’Impero di Roma e il ‘nuovo Impero’ di Washington, o tra la lunga Pax Augustea e la stagione della Pax Americana che sembrava profilarsi dopo la conclusione della Guerra Fredda. Pur senza disconoscere almeno alcuni tratti dell’assetto «unipolare», Samuel Huntigton attirò invece l’attenzione sul ruolo che le «civiltà» – e non più gli Stati – avrebbero avuto nei conflitti del futuro. E proprio questa lettura, fissata nella formula dello «scontro delle civiltà», avrebbe fornito forse la chiave di lettura mediaticamente più efficace per interpretare gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.

Nel quarto di secolo trascorso dalla fine dell’Urss, come sappiamo molto bene, il lungo dopoguerra non ha generato uno stabile ordine internazionale. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi, giungendo fino alle porte dell’Europa, senza che neppure si siano profilate ipotesi realistiche di soluzioni durature. E anche se alcune tracce della ‘vecchia’ politica di potenza hanno fatto nuovamente la loro comparsa in Europa, le alleanze ereditate dalla Guerra fredda non sono state messe sostanzialmente in questione. Anche se l’immaginario dell’Occidente continua a essere molto simile a quello di un mondo «post-storico», la «Storia» non si è mai davvero fermata. L’«era unipolare» probabilmente non è mai neppure cominciata, e sicuramente non ha consegnato agli Stati Uniti quel ruolo di unica superpotenza globale, che avrebbe consentito di garantire la stabilità di un «impero liberale», fondato sui principi democratici e sulla libertà di mercato. Ma anche lo spettro dello «scontro delle civiltà» diventa sempre più evanescente, perché la sensazione – di fronte soprattutto ai conflitti che lacerano il Nord-Africa e il Medio Oriente – è piuttosto di avere a che fare con scontri ‘dentro’ le civiltà.

Proprio di fronte a questo quadro, la formula della «guerra mondiale a pezzi», che Papa Francesco ha proposto in diverse occasioni, deve essere presa sul serio anche sul piano teorico. «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli», disse Francesco nell’agosto 2014. E non si trattava semplicemente di una provocazione, perché il Papa è tornato in altre occasione, anche di recente, su questa lettura. L’immagine della «terza guerra mondiale a pezzi» contiene infatti una vera e propria interpretazione generale, capace di tenere insieme i diversi ‘frammenti’ di un mondo in conflittoMa, soprattutto, è un’immagine che ci consente di cogliere le principali dimensioni problematiche che attraversano lo scenario contemporaneo. E che per molti versi rendono la costruzione di un ordine non solo ‘politicamente’ complesso, ma ‘strutturalmente’ davvero difficile, sia in virtù del carattere ‘multipolare’, se non addirittura ‘apolare’, del sistema internazionale odierno, sia per il venir meno della possibilità di conflitti generali che non implichino rischi fatali per la stessa sopravvivenza dell’intero genere umano.

In primo luogo, nessuna analisi e nessuna previsione sul prossimo futuro può fare a meno di considerare, più che semplicemente il ‘declino’ relativo degli Stati Uniti, l’ascesa della Cina e di nuove importanti potenze regionali, come l’India, il Brasile, il Sudafrica, oltre che la ‘vecchia’ Russia: e proprio questa ascesa renderà inevitabilmente ‘multipolare’ il sistema dei prossimi decenni. Ma questo probabilmente non comporterà – come spesso si sostiene, pensando alla transizione egemonica tra Impero britannico e Stati Uniti – che il XXI secolo sia destinato a essere il «secolo cinese». Piuttosto, come ha scritto per esempio Charles Kupchan, il mondo del futuro non apparterrà a nessuno, nel senso che sarà al tempo stesso multipolare e politicamente plurale. Il numero delle grandi potenze sarà dunque molto elevato (comunque più elevato di quanto non sia mai stato). E ognuna di esse, sulla base dei propri valori e interessi, si farà portatrice di una specifica visione di cosa sia un ordine internazionale ‘giusto’. Un nuovo ordine – la cui conquista è però tutt’altro che scontata – non potrà allora che implicare una ridefinizione degli standard che stabiliscono la legittimità e la rispettabilità internazionale di uno Stato. In secondo luogo, non si può però trascurare il fatto che la costruzione del nuovo ordine è resa oggi ‘strutturalmente’ difficile, oltre che dal multipolarismo, anche dell’ingresso del mondo in un’era in cui diventa tecnicamente possibile l’autodistruzione nucleare. È infatti proprio l’impossibilità di ricorrere alla guerra generale, come estrema risorsa strategica degli attori, a rendere il sistema davvero ‘anarchico’ e a rendere fragile qualsiasi ordine. E proprio per questo, come ha osservato Luigi Bonanate, i «pezzi» di guerra di cui Francesco ha colto le connessioni possono anche essere letti come l’annuncio di «un mondo in pezzi», e cioè come il segnale della «totale perdita di un’idea di ordine internazionale che possa ricomporre una vita politica pacifica» (Un mondo nuovo a ‘pezzi’ tra incubo e speranza, in «Vita e Pensiero», 2/2016).

Nel mondo multipolare e ‘disordinato’ che ci attende, non possiamo così affatto escludere l’eventualità che i diversi «pezzi» della «guerra mondiale» non possano ricomporsi in un conflitto più ampio. Ciò nondimeno, è dalla rassegnazione alla guerra e dalle tentazioni del millenarismo apocalittico che bisogna guardarsi, se non altro per evitare di adottare quelle chiavi di lettura – come quelle offerte dalla tesi dello «scontro delle civiltà» – destinate a diventare profezie autoavverantesi. Perché è solo prendendo atto della complessità degli scenari, ma resistendo alla seduzione del millenarismo, che può essere ripensata, e politicamente coltivata, la possibilità di un nuovo ordine internazionale.

*Docente di Scienza politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Ornaghi Lorenzo – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

UNA SIFDA NECESSARIA: RIALLACCIARE AZIONE POLITICA E AZIONE CULTURALE

Che la politica – poco importa se nazionale o europea – sembri costretta sempre di più dentro una sorta di letto di Procuste, non è soltanto una di quelle umorali rappresentazioni da cui sono manifestamente propiziati gli atteggiamenti di indifferenza, pesante critica o permanente sospetto, nei confronti di ogni istituzione e ceto politico. È anche, ormai, la constatazione frequente da parte di chi, consapevole che la politica non è un’attività superflua o di quart’ordine, con attenzione e crescente preoccupazione scruta il senso – ossia la direzione e il significato – di ciò che sta mutando o di ciò che per la prima volta sta avvenendo in Europa. E a una simile constatazione si accompagna, con altrettanta frequenza, la sottolineatura che quelle che realmente sono o appaiono essere le più pericolose lentezze, indecisioni e condizioni di malessere o affanno delle democrazie d’Europa, dipendono soprattutto dal restringersi, se non addirittura dal progressivo affievolirsi, di una visione culturale in grado non solo di cogliere l’orientamento delle trasformazioni in corso, ma anche di far comprendere quanto la politica – proprio rispetto allo stato di incertezze e inquietudini in cui versiamo – possa risultare utile, oltre ad essere necessaria.

Il richiamo al ruolo che il rapporto fra politica e cultura ha sempre avuto nelle età di grande trasformazione, però, quando si faccia troppo insistente rischia di diventare evasivo. E di essere facilmente scambiato con l’ammissione definitiva di impotenza nei confronti di quella ‘migliorabilità’ (o, se si preferisce, ‘riqualificazione’, ‘riabilitazione’) della politica odierna, i cui ristretti tempi residui male si coniugano con le esigenze temporali che contrassegnano svolgimenti e risultati dell’azione culturale. E quasi certamente così sarebbe, in effetti, qualora considerassimo il ridursi o l’indebolirsi della visione culturale esclusivamente come una caratteristica negativa delle attuali classi politiche e dirigenti, come un deficit che automaticamente si estende ai governati e di cui noi cittadini, semplicemente e senza possibilità di alternativa, paghiamo lo scotto. No; l’accorciata visione culturale, che sembra affliggere proposte e decisioni dei principali attori delle democrazie europee, è invece la faccia solo maggiormente visibile di quel più ampio e profondo processo che sta atrofizzando ciò che rende viva e vitale la cultura: vale a dire, la sua capacità di farsi tutt’uno con la condotta individuale e con i comportamenti collettivi, rendendo la libertà di ciascuna persona un’occasione continua (e in ogni campo dell’agire umano) di positiva creatività.

«Quindicina internazionale» – la nuova sezione on line che la Fondazione Alcide De Gasperi dedica, sul proprio sito, alla chiarificazione e all’approfondimento dei temi e delle questioni di maggiore rilevanza e attualità – intende mostrare che questa capacità della cultura italiana ed europea è ben lungi dall’essersi esaurita. E che, affinché si allarghi nuovamente la visione culturale delle classi politiche e dirigenti, incominciando nel contempo a lavorare alla preparazione di quelle di un futuro che è già parte del nostro presente, occorre ripartire con onestà e semplicità dai principi e dai valori di cui si alimenta, e che a sua volta nutre e promuove, una cultura viva e autenticamente vitale.

Com’è noto, «Quindicina internazionale» era il titolo della rubrica di politica estera che Alcide De Gasperi tenne su «Illustrazione Vaticana» dal 1933 al 1938. Riproporre oggi quel titolo e farne – per ciascun lettore, oltre che per i giovani collaboratori che si dedicheranno alla redazione della nuova sezione del sito della Fondazione – la stella di continuo riferimento, è anch’esso il segno, nonostante ogni apparenza contraria, degli intendimenti semplici e onesti con cui la nuova rubrica nasce. Dei principi e valori, cristiani e popolari, che guidarono convinzioni e azione politica di De Gasperi, quando ne lamentiamo l’odierna carenza sentiamo simultaneamente l’intatta forza. E, ogniqualvolta più greve sembra diventare il peso della politica o incomprensibile la logica di quest’ultima, sono proprio tali valori e principi a restituirci la ragionata confidenza nel fatto che, se talvolta o troppo spesso la politica inquina e degrada l’esistenza di una collettività, essa è anche il solo strumento per cercare il bene comune, per rendere meno incerto il futuro assicurando il presente, per far fronte a ogni grande trasformazione prevista o inattesa.

La «Quindicina internazionale» cercherà di destare, innanzi tutto, interesse e curiosità del lettore. L’attenzione si appunterà su fatti e notizie che rischiano di restare tra le pieghe dell’informazione prevalente o più replicata. E i commenti, per quanto possibile, metteranno sotto osservazione le tendenze sotterranee da cui sono mossi i più importanti cambiamenti in atto. La costruzione politica europea – con tutte le sue difficoltà, con le disillusioni mescolate alle aspettative ancora fiduciose, con le perduranti potenzialità di avanzamento – sarà naturalmente al cuore della «Quindicina». In parallelo alla rubrica, il sito internet della Fondazione De Gasperi si arricchirà di articoli, focus paper, ricerche e studi inediti o ripresi dai siti dei principali network dedicati allo studio e all’approfondimento di tematiche politiche, economiche, sociali, con particolare riguardo per i lavori presentati nell’ambito del Martens Centre for European Studies.

Riallacciare proficuamente fra loro azione politica e azione culturale è di sicuro, oggi, impresa non solo tanto complessa da apparire temeraria, ma anche esposta sin dai suoi primi passi al rischio di autoconsumarsi in una banale, retorica convenzionalità. Per la Fondazione Alcide De Gasperi, quello di incominciare una simile impresa è però un dovere. Come le odierne, larghe fratture fra cittadini e ceto politico non potranno mai essere stabilmente ricomposte con rozze manipolazioni demagogiche o con sovradosaggi continui di personalizzazione del potere, allo stesso modo non si riuscirà a migliorare, o riqualificare, o riabilitare la politica, se non ripopolandola culturalmente di principi e valori. E mettendola maggiormente in grado, così, di adempiere il suo compito, indispensabile e utile, nei riguardi dell’intero Paese, delle comunità e dei gruppi sociali che lo compongono, di ciascun cittadino.

Lorenzo Ornaghi

Presidente del Comitato Scientifico Fondazione De Gasperi

Membro Academic Council, Martens Centre for European Studies

LAMPEDUSA-EUROPE. A COMMON WAY

Gli sbarchi in Italia sono passati da 43mila nel 2013 ad oltre 150mila. L’instabilità del Nord Africa rischia di far crescere ancora questi dati. I fenomeni migratori rappresentano pertanto una sfida epocale per l’Italia e per l’Europa, sia dal punto di vista geopolitico che sociale ed economico. La Fondazione De Gasperi ha promosso, pertanto, un convegno internazionale dal tema “Lampedusa-Europe: a common way”, al quale è intervenuto il ministro dell’Interno Angelino Alfano.

Di fronte agli emergenti populismi ed a un certo buonismo che pervadono il dibattito pubblico, è necessaria una riflessione approfondita e realista, riaprendo canali di dialogo istituzionale e sociale tra le due sponde del Mediterraneo. All’evento sono intervenuti, inoltre, l’Ambasciatore Mohammed Shaker, Presidente del Consiglio per la politica estera della Repubblica Araba d’Egitto, l’Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia Hassan Abouyoub, mons. Giorgio Bertin, Nunzio Apostolico in Gibuti e Somalia e Laurens Jolles, Delegato UNHCR per il Sud Europa.

All’evento è seguita la pubblicazione (grazie all’editore Guerini e associati) di quanto emerso durante i lavori: è possibile scaricarla al seguente link: “Lampedusa-Europe. A common way

EDITORIALE

A più di trent’anni dalla costituzione, la Fondazione De Gasperi conserva intatti i principi fondanti che ne hanno caratterizzato la nascita e il significato storico che ne indirizza il cammino. Il portato ideale dell’intuizione e dell’impegno di Alcide De Gasperi, padre della ricostruzione democratica dell’Europa post-bellica, rappresenta oggi la cifra di quell’europeismo concreto di cui siamo eredi e verso cui volgere orgogliosamente lo sguardo.

“L’attuazione di tale idea – dichiarava De Gasperi nell’ottobre del ‘47 all’Assemblea Costituente, con riferimento all’unione degli Stati europei – sarà lenta, ma essa costituirà la speranza dell’avvenire”. L’Europa di oggi vive un punto di svolta fondamentale: se non farà proprie, coerentemente con la tradizione culturale che ne ha ispirato la nascita a partire dalle radici giudaico-cristiane e greco-romane, questioni come la centralità della persona e della famiglia, l’attenzione ai temi del lavoro e della solidarietà, corre il rischio di uscire dalla rotta tracciata dai padri fondatori. La Fondazione, pertanto, intende sviluppare la propria attività nella diffusione del pensiero degasperiano come faro che illumini quella strada. Nessun singolo paese dell’Unione può avere un futuro da protagonista nel mondo globalizzato al di fuori di un’Europa forte e coesa.

In questo percorso di divulgazione e conoscenza, i giovani saranno protagonisti. L’attività della Fondazione De Gasperi rappresenta una guida culturale e un punto di riferimento saldo nella formazione storica e politico-istituzionale dei giovani europei. Il loro spirito di appartenenza e il desiderio di cittadinanza globale sono la testimonianza più evidente e incoraggiante che il sogno europeo di De Gasperi, che non vide realizzarsi in vita, è patrimonio delle nuove generazioni dei cittadini dell’Unione.
Il 19 agosto del prossimo anno ricorre il 60esimo anniversario della sua scomparsa. Le celebrazioni, alle quali la Fondazione dedicherà un significativo programma di iniziative, saranno impreziosite dal semestre di presidenza italiana dell’Unione europea: concomitanza straordinaria che assegna al nostro Paese una responsabilità di rilievo nella costruzione dell’edificio politico europeo.
La Fondazione opererà a partire da queste premesse, memore e testimone dell’insegnamento politico e morale e della lungimiranza di un grande padre dell’Italia. Che in un tempo lontano, prima del meritato riconoscimento della storia, sentiva già l’Europa come sua patria.

Angelino Alfano

Presidente Fondazione De Gasperi