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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Cura della Terra, cura della Persona

di Stefano Mambretti

Le decisioni migratorie sono influenzate da caratteristiche individuali, strategie familiari, contesti socioeconomici, istituzionali e culturali. Gli aspetti ambientali delle zone povere del mondo sono un altro fattore, spesso poco considerato, ma che sta assumendo sempre maggiore importanza.

All’uso indiscriminato delle risorse, negli ultimi decenni si è aggiunto il tema del cambiamento climatico, che provoca l’innalzamento del livello del mare (che può introdurre acqua salata nelle falde potabili), periodi di siccità prolungata seguiti da precipitazioni intense e distruttive. Per fare un altro esempio, la Corrente del Golfo sta rallentando e potrebbe cambiare rotta. E si potrebbe proseguire.

Quando si parla di cambiamenti climatici ci si focalizza sulla necessità di ridurre le emissioni: la “mitigazione”. Questa è una strategia a lungo termine, che deve essere affiancata ad un’attenzione al presente così da costruire una strategia di adattamento. Le incertezze di oggi richiedono un approccio progettuale flessibile, che devono rispondere alle situazioni regionali e locali: va evitata l’illusione di un unico rimedio valido in qualunque contesto. La gestione dell’adattamento deve essere abbastanza elastica da poter integrare le misure strutturali, basate sull’ingegneria, con le misure focalizzate su un approccio eco-sistemico, e con le misure più “leggere”, giocate sugli aspetti gestionali, giuridici e politici. La scienza sta proponendo approcci alternativi a quelli tradizionali, che richiedono però una piena condivisione, per produrre nuovi standard e nuovi paradigmi per la progettazione.

Stando così le cose, risulta evidente come l’approccio al problema, che nell’attuale età della scienza e della tecnica pare essere diventato estremamente specialistico, deve assumere caratteri di transdisciplinarietà, anche tornando a coinvolgere la società nelle scelte politiche, al fine di rimettere al centro delle decisioni la persona nella sua complessità.

Online il primo policy paper di Young voices against disinformation

Andrea Molle, Young voices against disinformation,

È online il primo policy paper nato dal gruppo di giovani che ha seguito il percorso di “Young voices against disinformation; building resilience“, progetto realizzato dalla Fondazione De Gasperi con il supporto della Public Diplomacy Division NATO.

Le ragazze e i ragazzi che hanno lavorato a questo documento si sono interrogati in particolare sulla natura della disinformazione e quale sia il suo ruolo in un’epoca come la nostra, caratterizzata da società interconnesse e della comunicazione di massa.

Hanno lavorato a questo progetto Valeria Awad, Angelo Sessa e Francesco Alimena.

Per poterlo consultare basta cliccare qui:

Perché si producono Fake news?

Prosegue la campagna di disseminazione informativa sulle Fake news della Fondazione De Gasperi, realizzata con la collaborazione del Centro Studi Internazionale. Per quale motivo si producono Fake news? Che vantaggi può trarre chi le mette in circolazione e le alimenta?

Proviarmo a spiegarlo con queste infografiche!

Il progetto è supportato dalla Public Diplomacy Divsion NATO.

I partiti politici nel tempo presente

Voto, Partiti Politici, Opinio Lab

di Pietro Di Grazia, Federico Micari, Marta Romano e Vanessa Wahling

Introduzione

Da quando è nato il concetto di “rappresentanza” nel senso moderno del termine, si è immediatamente affiancato quello di “crisi”, specialmente nell’esercizio di analisi dei sistemi democratici. La crisi della rappresentanza, infatti, può essere considerata come l’altra faccia della medaglia di un sistema democratico, repubblicano, dove la sovranità popolare è esercitata per lo più selezionando, appunto, i propri rappresentanti. Un modello complesso, che necessita sempre di continui studi e aggiornamenti, non identificabile come il migliore in assoluto ma, certamente, il migliore allo stato attuale in termini di compromesso tra efficienza e legittimità.

In Italia, la nascita della Repubblica ha coinciso con l’affermazione strutturale del pluralismo partitico, attorno al quale si è costituito l’asse della nostra democrazia così come l’abbiamo conosciuta. Raggruppamenti di individui, ognuno dei quali ha incarnato idealità, finalità e visioni di sistema differenti, che concorrevano all’elaborazione di un indirizzo politico complessivo del modello-paese. Un cantiere in costruzione secondo le prospettive stabilite dalla Carta costituzionale. I partiti sono stati delle piattaforme intermedie, spesso burocratizzate, che hanno identificato le istanze sociali della cittadinanza per poi sintetizzarle in Parlamento, luogo cruciale per la ricomposizione dell’interesse collettivo. “Parti” di un tutto, di una unità italiana che si ritrovava, al netto delle proprie differenze, plasticamente nelle Camere parlamentari. Non sfugge, quindi, la funzione determinante che essi hanno avuto nei processi di formazione e di filtro delle classi dirigenti. Individui che, grazie alle pesanti strutture interne da cui venivano continuamente esaminati, hanno potuto affrontare le imponenti sfide sistemiche con una cultura ancorata alle proprie tradizioni e alle esigenze della propria base. I partiti politici erano contenitori del popolo e catalizzatori dei conflitti sociali su livelli democratici. Realtà politico-culturali a confronto come rimedio alla disarticolazione sociale.

Gli effetti della crisi partitica

Tante ragioni (tra le quali si possono elencare le crisi economiche che si sono succedute, la fine delle ideologie, i fenomeni di corruzione, la ristrutturazione del capitalismo tradizionale e l’avvento massiccio del capitalismo finanziario, i fenomeni della globalizzazione non sorretti da una politica internazionale condivisa, gli indecisi processi di secolarizzazione) hanno indebolito il sistema partitocratico e aumentato un antico sentimento anti-partitico. Il risultato è stato non una sparizione, ma un cambiamento del partito nel senso novecentesco verso una trasformazione in “cacth-all party”, caratterizzato dai fenomeni della disintermediazione. Non più un rapporto intermedio con una struttura interna articolata, ma un rapporto diretto tra leader e base. Un partito liquido per una società liquida, che cambiava antropologicamente le proprie esigenze.

Alcune delle dirette conseguenze di questa metamorfosi sono state l’imperversare di fenomeni movimentisti (non necessariamente organizzati in modo spontaneo) e la mitizzazione della “società civile”, con annesse piattaforme politiche non sempre adeguatamente pronte alle difficoltà moderne.

 Con l’indebolimento dei partiti come contenitori in cui discutere, condividere e preparare una visione dell’indirizzo nazionale, si è registrato un rafforzamento di gruppi di interesse, economici e non, non più mitigati da partiti forti e radicati con cui interloquire, ma costretti a relazionarsi con soggetti nuovi, più simili a grandi comitati elettorali. A questo scenario si aggiungono le leggi elettorali che hanno favorito il proliferare delle liste bloccate, che hanno imposto una classe dirigente selezionata più dai leader che dalle strutture intermedie, aumentando il rischio di scarsa formazione del personale politico. Al contrario, i gruppi di interesse si caratterizzano per essere ben strutturati e per l’alta formazione dei propri membri, che difendono i propri obiettivi secondo un modello di “antagonismo” diverso da quello politico, che resta più classicamente conflittuale. Il conflitto sociale prevede un interesse di parte che ambisce a coincidere con quello nazionale e che, posto a confronto con altre visioni, viene mediato e sintetizzato verso una formula di governo. L’antagonismo, invece, punta alla difesa di un interesse particolare che, il più delle volte, è distante da quello collettivo.

In questo quadro, la disarticolazione partitica si manifesta come lo specchio di una frammentazione societaria ben più ampia, che incontra nei social un alleato importante. La comunicazione istantanea di internet favorisce il rapporto tra leader e base, ma non tra partito e base. Si indeboliscono ulteriormente le già fragili realtà intermedie, con la conseguenza che una leadership, ancorché forte, può perdere consenso alla prima battuta di arresto. E se il progetto politico si identifica col consenso del proprio leader, senza una struttura alle spalle, la battuta d’arresto può significare la scomparsa di tutta la prospettiva politica. Progetti che nascono e che muoiono a colpi di tweet. Non solo. L’assenza di strutture intermedie, di luoghi in cui discutere di cultura, di tradizioni, di prospettive future, di sogni e di modi con cui cambiare la propria società, indebolisce non solo l’identità del partito, ma soprattutto l’identità dei singoli, che è la prima cellula della più ampia identità collettiva.

Da dove ripartire

Se si riconosce il principio secondo cui non può esistere una democrazia rappresentativa senza dei soggetti pubblici cui delegare le proprie scelte, appare difficile immaginare la Repubblica parlamentare italiana senza partiti. Diventerebbe un esercizio accademico ai limiti dell’improponibilità. Occorre allora domandarsi che tipo di corpi intermedi sarebbe utile costruire, o ri-costruire, per gestire al meglio il rapporto tra masse e potere, tra cittadinanza e istituzioni. Che tipo di partiti, dunque.

Il punto di partenza di un soggetto che desidera contribuire alla determinazione dell’indirizzo pubblico del paese dovrebbe essere quello dell’ideale. La ricostruzione di una identità, di una speranza in base alla quale impegnarsi per il bene comune è la condizione essenziale per fare politica. O la politica ambisce al cambiamento della realtà data, o non ha senso di esistere. Il rapporto, quindi, tra cultura e politica, tra cultura e democrazia è fondamentale e prende in causa anche il ruolo degli intellettuali nel richiamo ai valori condivisi da ogni singola comunità.

L’altro elemento su cui dover intervenire è la riduzione della visione puramente plebiscitaria dei partiti. Ricucire un rapporto con gli iscritti, o con i simpatizzanti di un’area, serve a ristabilire il confronto tra i membri, a creare quindi una consapevolezza politica continua del cittadino, che può formarsi e migliorare solo dallo scambio di opinioni. Presupposto che vale sia nella dinamica interna al partito, che all’esterno con altri soggetti di estrazione diversa.

Naturalmente il recupero di luoghi di dibattito implica anche una maggiore considerazione degli iscritti stessi. A una democrazia interna partecipativa, infatti, occorre affiancare degli strumenti affinché vi siano anche alcuni elementi di democrazia deliberativa. È giusto che gli iscritti siano chiamati a dare il proprio parere su chi organizza la loro comunità interna? È giusto che siano chiamati a riflettere su alcuni argomenti di politica pubblica incidendo, nei limiti del possibile, insieme alle classi dirigenti, sulle tematiche analizzate? Valorizzare l’intelligenza collettiva non può non essere un obiettivo nell’era dell’interconnessione costante.

Una struttura partitica, quindi, meno rigida rispetto a quella conosciuta nel ‘900, ma ugualmente in grado di porsi come argine alla frammentazione sociale attraverso regole precise e percorsi di formazione permanente.

Anche il rapporto con i social deve essere posto al centro della questione. Se da un lato internet consente di arrivare a tutti e, come dimostrano le esperienze di alcuni parlamenti delle democrazie occidentali, può essere messo a servizio delle strutture politiche per avvicinare gli individui, dall’altro non può sostituirsi al presidio territoriale. Internet è e deve essere considerato come una risorsa capace di abbattere le frontiere, ma deve accompagnarsi a un lavoro di crescita di cittadini consapevoli, informati, che ambiscono a impegnarsi fisicamente nel proprio territorio. L’elemento corporeo resta imprescindibile per qualunque soggetto politico.

Conclusione

La piattaforma che in questo breve documento si immagina, dunque, prende spunto dalla migliore esperienza partitica italiana, nel tentativo di recuperare ciò che di positivo è stato seminato e di aggiornarlo alla realtà contemporanea. Un partito politico, dunque, da intendere come luogo della passione civile, organizzata e permanente, che contribuisca in modo determinante alla mediazione del bisogno come momento cruciale per la vita della società civile. Un soggetto prioritario, ma non esclusivo, nel processo di intermediazione tra cittadino e Stato. Imparare dalle proprie tradizioni, evitando di gettare “il bambino con l’acqua sporca”, consente di guardare all’avvenire con maggiore solidità nei punti di riferimento. Il passato, naturalmente, non può e non deve tornare, ma non sarebbe sbagliato immaginare un futuro dal cuore antico, pronto ad abbracciare la modernità.

Bibliografia parziale

  1. Calise M., Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari, 2010.
  2. Calise M., La Terza Repubblica, Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari, 2006.
  3. Campati A., La “democrazia immediata”: prospettive a confronto, in “Gli Annali X” di “Teoria Politica”, Marcial Pons, Madrid, 2020.
  4. Floridia A., Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito democratico, Castelvecchi, Roma, 2019.
  5. Galli G., I partiti italiani 1943/2000, Rizzoli, Milano, 2001.
  6. Ignazi P., Partiti politici in Italia. Da Forza Italia al Partito Democratico, il Mulino, Bologna, 2008.
  7. Ignazi P. Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Laterza, Roma-Bari, 2012.
  8. Mastropaolo A., Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000.
  9. Pasquino G., Strumenti della democrazia, il Mulino, Bologna, 2007.

Urbinati N. Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza, Roma

Chi produce Fake news?

Prosegue la campagna di disseminazione informativa sulle Fake news della Fondazione De Gasperi, realizzata con la collaborazione del Centro Studi Internazionale. Chi le produce disinformazione? cciamo con un video realizzato da Salvatore Mangano, parte attiva del gruppo di Opinio Lab – Geopolitica di EUPEOPLE.

La campagna è frutto della collaborazione con il Centro Studi Internazionale e fa parte del progetto Young voices against disinformation, promosso dalla Public Diplomacy Division NATO.

https://youtu.be/_4QZ_3NEfRw

Voi saperne di più? Scorri le slide qui sotto!

Festa della Repubblica, festeggiamo consapevoli: cosa significa essere cittadini di una repubblica democratica fondata sul lavoro

Liberata l’Italia dalle forze nazifasciste e finita la guerra civile che ne è conseguita, per il nostro Paese si trattava di rifarsi la pelle ed aprire una nuova era. L’appuntamento con la storia è segnato in data 2 giugno 1946, quando per la prima volta gli italiani e tutte le italiane saranno chiamati e chiamate a votare la forma di stato da dare al Paese e a comporre l’Assemblea Costituente che avrà il compito di redigere la nuova costituzione. Il risultato che oggi festeggiamo ha visto il 54% dei votanti preferire la repubblica alla monarchia, sebbene non siano mancate polemiche da parte dei più convinti sostenitori monarchici che denunciavano brogli elettorali e azioni di depistaggio. Fatto sta che il “re di maggio” Umberto II di Savoia, ultimo re d’Italia, sarà costretto a fuggire a Calais in Portogallo, il democristiano Alcide De Gasperi assumerà il ruolo di Capo provvisorio dello Stato, fino a quando l’Assemblea Costituente non convergerà sul nome di Enrico de Nicola, il quale verrà a sua volta succeduto da Luigi Einaudi, il primo Presidente della Repubblica eletto con le regole della Costituzione dal primo parlamento repubblicano così come emerso a seguito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

I risultati storico – giuridici di quel giorno furono recepiti dai nostri padri costituenti all’art.1 di apertura della nostra Costituzione. E’ questa l’occasione più puntuale che mai per capire a fondo che cosa significa essere cittadini di una repubblica democratica che si dice fondata sul lavoro ed esercitare la sovranità assegnatoci “nelle forme e nei modi stabiliti dalla Costituzione”.

Con il primo inciso viene ad essere recepito il risultato referendario, la forma di stato repubblicana, e la sua svolta storica, la democrazia. Essere in una repubblica non significa avere semplicemente un presidente della repubblica al posto del re; secondo la giurisprudenza costituzionale dietro l’espressione “repubblica” si celano tutti i grandi principi supremi inespressi che sorreggono il nostro ordinamento e la sua civiltà democratica. Al giorno d’oggi possiamo renderci conto di diverse repubbliche che molto democratiche non sono, pensiamo soltanto alle derive autocrati in Turchia, Bielorussia, Egitto; degli esempi per dire che si tratta di repubbliche de jure ma autocrazie se non dittature de facto. La repubblica e la democrazia nel nostro ordinamento rappresentano un tutt’uno inscindibile, la res publica rimane sulla carta se al metodo pluralista attraverso cui deve ordinatamente dipanarsi il dibattito politico, si annidano concentrazioni di potere o prendono forma monopartitismi autoreferenziali.

Alla repubblica democratica si decide poi di dare una caratteristica e di fondarla sul “lavoro”. Quali tra le alternative al lavoro quelle più prospettabili: la famiglia, la persona, l’uguaglianza? La scelta sul lavoro è assieme al concetto di democrazia un rovesciamento in positivo del precedente regime fascista e rifiuta due concezioni di comunità. La prima, quella retrograda assolutistica, che coerentemente se avesse fondato su qualcosa  la sua forma di stato  lo avrebbe forse fatto sul privilegio, sul diritto di nascita che avrebbe permesso di ereditare ai “soliti noti” il governo e le redini della società. Noi invece ci fondiamo sul lavoro per superare quell’altra visione di lavoro fascista che non ci piace, che non lo riconosce tanto come sviluppo morale della persona e delle sue capacità di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art.4 Cost.), quanto come servigio del lavoratore in favore del regime e per l’esaltazione della nazione.

Col secondo comma viene individuato il titolare della sovranità, dopo che l’Italia è detta repubblica democratica la sovranità è attribuita al popolo. E’ però interessante soffermarsi sulle declinazioni di questa sovranità, che trova un limite ben radicato nelle forme e nei modi stabiliti dalla Costituzione.

Non è irragionevole farsi venire un dubbio, cioè se sia veramente tale un sovrano che deve esercitare la sua sovranità con dei limiti. Probabilmente all’articolo primo i nostri padri costituenti vorrebbero dirci tra le righe qualcosa di più profondo.

La sovranità statale nasceva sciolta da vincoli, le monarchie assolute vedevano all’apice della struttura di stato i loro sovrani che esercitavano il potere sciolti da ogni tipo di vincolo terreno. Nei primi decenni del Novecento passeranno alla storia le forme di stato totalitarie, che concentreranno i poteri di governo nella figura totalizzante dei propri dittatori. Pensare che la forma di stato repubblicana sia speculare alle due e collochi come sovrano assoluto il suo popolo anziché un ministro di stato è fraintendere. Il concetto di sovranità non è infatti rivolto ad un’entità individuabile ma consiste nell’esercizio di funzioni, riconosciute al popolo, e che devono esercitarsi entro delle coordinate giuridico – costituzionali. Per cui, il cittadino è sovrano nell’esercitare i suoi diritti di voto ed eleggere i propri rappresentanti in Parlamento nelle tornate elettorali, ma non lo è di manomettere quel patto di popolo che si è siglato il 2 giugno 1946. Alcuni limiti sono valicabili, altri dimostrano di poter sospendere la sovranità di cui il popolo è portatore. La Costituzione non potrebbe mai considerarsi perpetua, gli uomini che l’hanno pensata lo hanno fatto inserendo delle norme programmatiche per il futuro ma è impensabile che potessero prevedere che cosa sarebbe potuto accadere fino ai giorni nostri. I mutamenti del tempo e il passare delle generazioni devono quindi esigere degli adeguamenti al testo così come pensato nel 1948; un modo legittimo per farlo c’è e la rigidità della nostra Carta impone che lo si faccia per il tramite di un procedimento aggravato ex art.138 Cost. a cui aderisca la quasi totalità delle forze politiche in campo. La Costituzione è la nostra casa comune, non è tollerato che il governo di turno possa intestarsela con la sola maggioranza semplice, è necessario un consenso allargato andandosi al di là delle ordinarie dialettiche tra maggioranza e opposizione solite di un procedimento di legge.

Quanto è invalicabile invece è tutto ciò che possiamo correttamente individuare nell’inciso dopo la virgola che limita la sovranità nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione. E qui ci torna utile la definizione che abbiamo dato di repubblica, una scelta sulla nostra forma di stato, certo, ma anche un’opzione gravida di una serie di principi, valori, condizioni in grado di concretizzarla in una democrazia. Che la forma di stato repubblicana non sia modificabile ce lo dice l’art.139 Cost.: la nostra Carta fondamentale dopo averci detto che cosa si può modificare e come farlo, ci dice cosa non lo è. Se però abbiamo inteso che i concetti di repubblica e democrazia devono necessariamente coesistere, deduciamo che altrettanto immodificabili sono quei principi sottaciuti che stanno dietro la scelta repubblicana e che fanno della nostra forma di stato una democrazia di nome e di fatto. Valori che riposano in larga parte nell’alveo dei “Principi fondamentali” della nostra Carta dagli artt.1-12, per cui sarebbe impensabile, per farne un esempio, escogitare una via costituzionale che appaghi un’insofferente ondata di popolo che vorrebbe privare il Parlamento dell’esclusivo potere di stabilire i casi in cui limitare la libertà personale e magari riconoscere una siffatta facoltà ai giudici. L’esempio inverosimile ci serve per dire che nell’ipotesi paventata un principio supremo del nostro ordinamento (la separazione dei poteri) sarebbe violato, ed urgerebbe al più presto un ripristino della democraticità del sistema.

Dire che queste operazioni non si possono fare, significa affermare che non sono regolate entro i canoni della legalità. Il popolo sovrano non trova un modo giuridicizzato per mangiarsi la repubblica o sbarazzarsi di uno fra i suoi principi più supremi: per la prima l’art.139 lo vieta espressamente, per i secondi sarebbe attentata quella nozione lata di repubblica con tutte le sue sottomanifestazioni. Un impasse da cui però si deve uscire può venire a crearsi: il popolo decide di

non demordere e insistere con l’autoattribuirsi queste spettanze. Nell’ipotesi non esisterebbe alcuna norma che tratterrebbe il “furor di popolo”, e nessuno potrebbe concretamente impedirgli questi strappi, ma l’unica via che gli è possibile é quanto di più eversivo le storie dei popoli possano conoscere nelle rivoluzioni. Possiamo vederla anche da un altro punto di vista, il fatto di avere un articolo 139 così importante di per sé non ci preserva dagli atti di violenza, di strappo e di eversione della legalità costituzionale.

E’ per questo motivo che quando si discute di sovranità in termini costituzionali bisogna sempre ragionare in termini giuridici, giuridicamente il popolo non può essere chiamato a prendere questo tipo di decisioni perché certe decisioni le ha già prese la Costituzione. L’idea di sovranità ascritta ad un’entità individuata o individuabile è dunque passatista, il popolo è sovrano ma il suo potere è un insieme di funzioni che non gli danno la possibilità di sopraelevarsi alla protezione ineludibile dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Probabilmente quello che i nostri padri costituenti tra le righe ci dicono è che la titolarità della sovranità sia nella Costituzione.

Cosa sono le Fake news?

Comincia oggi la nostra campagna di disseminazione informativa sulle Fake news e su quanto possano essere pericolose per la nostra sicurezza. Lo facciamo con un video realizzato da Salvatore Mangano, parte attiva del gruppo di Opinio Lab – Geopolitica di EUPEOPLE.

La campagna è frutto della collaborazione con il Centro Studi Internazionale e fa parte del progetto Young voices against disinformation, promosso dalla Public Diplomacy Division NATO.

https://youtu.be/5J_JKW15DQ4

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Maria Romana De Gasperi: “Papà dal carcere mi chiese di pregare la Madonna per lui”

di Corrado Occhipinti Confalonieri, pubblicato su “Maria con Te” – Dicembre 2020

 

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In occasione dell’uscita del libro di Alcide De Gasperi (1881-1954) “La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana” (Morcelliana, 2020) abbiamo incontrato l’erede dello statista democristiano per conoscere un aspetto poco noto del padre: la profonda devozione verso la Madonna.

De Gasperi e la moglie Francesca avvicinarono alla fede le quattro figlie, la secondogenita Lucia divenne suora. Maria Romana (classe 1924), dalla memoria lucidissima, è dotata anche di uno spirito arguto. Nello scrivere la prima biografa del padre, non citò i nomi dei politici ma solo la carica ricoperta per ricordare un insegnamento ricevuto da lui: il politico è al servizio dello Stato, quando termina l’incarico, torna a essere un semplice cittadino.

«La mamma mi aveva detto che era in viaggio di lavoro, invece era stato imprigionato dai fascisti. Portava sempre con sé un’effigie della Vergine dentro una piccola custodia d’argento. Nel 1946, prima di parlare con i rappresentanti dei Paesi alleati a Parigi, entrò in Nôtre-Dame e invocò Maria. I nostri pellegrinaggi al santuario di Pinè e il libro nato dall’album che mi preparò per il Natale del 1927»

 

In che epoca suo padre Alcide le realizzò l’album sulla vita di Gesù?

“Nel 1927 mio padre si trovava a Roma in prigione per le sue idee antifasciste e non mi poteva regalare nulla per il Santo Natale. Non si sa come, gli capitò fra le mani una copia del National Geographic dei primi del ’900 che conteneva un reportage su Nazaret. Decise allora di ritagliare le fotografe e di spiegarmi la vita di Gesù con delle didascalie a commento delle immagini. All’epoca avevo solo quattro anni e non capivo le parole: me le leggeva mamma Francesca”.

Per quale motivo le fece un regalo così “da grande”?

“Lui voleva darmi la possibilità d’immaginare Gesù. Il libro contiene le foto dei luoghi in cui Cristo abitò con Maria e Giuseppe, vediamo i pastori, le pecore, ma non c’è nessuna immagine del Redentore. Siamo abituati a immaginare Gesù biondo, vestito di bianco, in realtà con questo album tutti lo possiamo immaginare come lo abbiamo nel cuore, magari con la pelle scura, con addosso abiti grigi o marroni. Per mio padre Alcide l’importante era la semplicità nel raccontare solo cose vere fino a quando da grande le avrei potute vedere e valutare”.

Come fece Francesco d’Assisi nel presepe di Greccio: non volle figuranti, ma solo il bue e l’asino e una mangiatoia vuota perché diceva che il presepe è custodito nel cuore di ciascuno di noi. Qual è l’immagine del libro cui è più affezionata?

“Senz’altro quella della fontana: quando venne scattata la foto era l’unica presente a Nazaret, così come lo era all’epoca di Maria. Mi emoziona immaginare la Vergine che tenendo per mano Gesù bambino, si reca a prendere l’acqua da quella sorgente”.

Suo padre amava la Madre Celeste?

“Si era affidato a lei, dalla prigione mi scriveva: “Mia cara Pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà”. Io non sapevo che fosse incarcerato, mia mamma mi aveva detto che era in viaggio per lavoro. Terminata la prigionia, portava sempre me e le mie sorelle Lucia, Cecilia e Paola in pellegrinaggio dalla Madonna di Pinè».

Dove si trova questo santuario?

“Sorge in un bosco della media Valsugana, qui dal 1729 per cinque volte la Vergine apparve a una pastorella, Domenica Targa”.

Suo padre Alcide era legato a un’immagine in particolare della Madonna?

“Sì, teneva sempre con sé un piccolo portadocumenti argentato con all’interno l’immagine della Vergine. Ricordo che quando cambiava abito lo trasferiva subito di tasca, non usciva mai di casa senza”.

Recitavate con vostro padre il Rosario?

“Ricordo che lo facevamo per Pasqua, poi pregava per conto suo”.

Che cosa provava verso la Vergine?

“Si rivolgeva a lei quotidianamente, anche nei momenti difficili. Quando il 10 agosto 1946 si recò alla Conferenza di Parigi per tenere davanti agli alleati vincitori della guerra il discorso a sostegno della causa italiana, prima dell’incontro entrò nella basilica di Nôtre-Dame a pregare la Vergine. All’uscita mi disse: “Ecco, ora mi sento più tranquillo”. Quel giorno c’era freddezza da parte degli alleati. Al termine del suo intervento, solo il rappresentante americano gli strinse lamano, ma da quel gesto mio padre capì che era l’inizio della rinascita per la nostra Patria”.

Suo padre era devoto a un santuario mariano in particolare?

“A quello della Vergine di Loreto. Il 29 febbraio 1948, alla vigilia dell’importante tornata elettorale del 18 aprile di quell’anno, si recò da lei”.

Ricorda quel giorno?

“Mio padre proveniva da Ancona, aveva tenuto un importante discorso davanti a 80 mila persone. Giunto a Loreto in auto, entrò in Santa Casa, si mise in ginocchio e si raccolse in preghiera. Dopo aver visitato la basilica, uscì sul sagrato. Ad attenderlo c’erano migliaia di persone e improvvisò un discorso. Ad aprile vinse le elezioni: quando seppe della vittoria, commentò: “Mi aspettavo una pioggia di voti, non una grandinata”. Il trionfo delle forze democratiche contro quelle di ispirazione totalitaria garantì a mio padre quel consenso necessario che portò poi al boom economico”.

Anche sua madre Francesca era devota alla Madonna di Loreto?

“Sì, ormai vedova, il 24 maggio 1959 visitò il santuario in occasione del convegno “Le lavoratrici della Santa Casa”: io non potei parteciparvi perché impegnata con i miei due figli ancora piccoli”.

 

La famiglia: un nuovo protagonismo?

Il Consiglio dei Ministri ha approvato lo stanziamento in legge di bilancio per l’assegno unico e universale previsto dal Family Act.

di Francesco De Santis

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La famiglia è ormai vittima di una delle più gravi crisi economiche vissute dal sistema capitalistico (non solo in Europa) nel secondo dopoguerra. Il comportamento “dell’attore famiglia” risente, al giorno d’oggi, dell’influenza di diversi fattoritra cui, sicuramente, quello economico. Il nesso fra economia e famiglia, d’altronde, si rinviene già nel corpo della parola economia, unione di “òikos”, che significa casa, e “nomos”, che sta a significare la parola legge.

Si può affermare, difatti, che già all’interno del nucleo familiare vengono a sussistere determinati “fattori economici”, fondamentali per la vita in comunione. Basti pensare non solamente al ruolo giocato dal risparmio ma anche dal ruolo giocato dalla produzione e dal guadagno, oltre alla formazione vera e propria del bambino nella tabella dei “valori” da portare avanti nel corso della propria esistenza. In questo anche la perdita di influenza del Cristianesimo sulla nostra cultura e sulla nostra civiltà, come ricordato da Benedetto XVI nel suo “Caritas in veritate”, ci ricorda come i difetti dei mercati spersonalizzati hanno riunificato il mondo intero in un villaggio globale senza renderci davvero fratelli.

La salvaguardia della famiglia ha assunto, con il trascorrere del tempo, un’importanza assai elevata nel dibattito pubblico e nei tavoli di concertazione fra i diversi attori presenti sulla scena socio-politica-economia.

Famiglia che, però, non può essere analizzatacome un soggetto dalla mera razionalità “economicista”. Difatti, il ruolo giocato dalla famiglia, basato su un’interpretazione multidimensionale e interdisciplinare, venne già ben interpretato dalle parole di J. Stuart Mill, secondo il quale:

“La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finché non saremo capaci di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica.”

La famiglia pur rimanendo un soggetto forte è, infatti, un “progetto” che, seppur al centro delle volontà dei singoli individui, si trova, oggi, dinanzi alla necessità di emergere con forza per consentire uno sviluppo maggiormente armonioso dell’intera società. Abbattere le disuguaglianze sociali è un compito che deve essere perseguito e, attraverso l’analisi delle politiche messe in atto, un nuovo paradigma per il concetto di “famiglia” è diventato auspicabile. La riforma dei congedi parentali, ad esempio, se troverà effettiva attuazione, riporterà al centro della discussione un elemento dall’indubbio valore: il ruolo della “madre-lavoratrice”. Come non ricordare, in questo, il bellissimo esempio di Martina Camuffo, assunta a tempo indeterminato “nonostante” incinta? La parità di genere deve essere foriera di nuove possibilità di convivenza, in quanto armonizzare i tempi della vita familiare e della vita lavorativa può incentivare il rientro al lavoro delle donne dopo la maternità e una maggiore serenità per tutti i “protagonisti” del “mondo famiglia”.

Dal punto di vista demografico è interessante notarecome il paragone tra i dati italiani e la media europea sia impietoso. Mentre il tasso di natalità nel nostro paese si attesta all’1.29, nel resto del continente lo stesso indicesi attesta ad un valore pari a 1,59. Questo dato, indicativo senz’altro di un progressivo sviluppo (in senso negativo) della famiglia nel lungo periodo, ha trovato ampia descrizione nel “Family Act”, la misura del Governo Italiano che intende porre un freno non soltanto alla crisi demografica ma anche consentire unprogressivo ripensamento delle abitudini di vita all’interno degli stessi nuclei familiari.Il “Family Act”, che ha trovato approvazione alla Camera il 21/07/2020 e poi lo stanziamento in Legge di Bilancioper l’assegno unico e universale a partire dal 1/07/2021, è una passo in avanti senz’altro importante che va incontro, soprattutto, alle nuove generazioni e a chi, non senza fatica, culla il sogno della famiglia.

Ma in che misura l’intervento del governo si sostanzierà per armonizzare i livelli di benessere e regalare una maggior possibilità di “investire” nella famiglia? Dai 5 punti presenti nel Family ACT (assegno universale calibrato sul reddito per figli under 18; Riforma dei congedi parentali; Sostegno alle spese educative; Incentivi al lavoro femminile; Protagonismo dei giovani under 35) appare chiaro, infatti, come il Ddl, composto da 8 articoli, si pone l’ambizioso obiettivo di intervenire in un ambito, quello della famiglia, che non può più essere tralasciato. Ad ogni modo il “Family Act” andrà valutato all’interno del complesso sistema burocratico italiano. Come, ad esempio, si concilierà con le riforme previdenziali? Inoltre, i singoli decreti attuativi dell’assegno unico e universale si concilieranno con l’equità orizzontale e verticale previste dall’art. 53 della Costituzione? L’assegno sarà progressivo, come sembra, o ci saranno, in corso d’opera, alcune correzioni prendendo spunto da altri paesi Europei in è uguale per tutti?

In questo le somme da stanziare possono giocare un ruolo fondamentale. Difatti, essendo il Family Act finanziato in parte con la soppressione di misure già esistenti (vedi bonus bebè), i fondi del “Recovery Fund” potrebbero liberare risorse e convergere sull’assegno.

È necessariosostenere un cambiamento nella divisione delle responsabilità di cura, mirando a introdurre maggiore uguaglianza di genere nella famiglia, facendo sì che i ruoli familiari non siano più subordinati l’uno all’altro ma siano complementari.

Il futuro della famiglia potrà essere roseo solo se sicomprenderà, fino in fondo, che la famiglia è davvero un “soggetto” multidimensionale, e che per la sua comprensione occorre mettersi dinanzi alla sfida della complessità.

Blangiardo (Istat): “Con il Covid nascite ai nuovi minimi. Scenderemo sotto 400 mila, il welfare deve cambiare”

Riportiamo l’intervista di Federico Fubini pubblicata sul Corriere della Sera / L’Economia a Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat e membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi. 

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Gian Carlo Blangiardo, 71 anni, demografo, presidente dell’Istat dal 2019, ha notato una stranezza: nove mesi dopo l’arrivo della nube tossica di Chernobyl, nel maggio del 1986, la natalità in Italia è calata (temporaneamente) del 10% rispetto alla norma di quel periodo. Gli italiani avevano reagito all’incertezza e alla paura rinviando le scelte di procreazione.

Presidente, il Covid innescherà lo stesso effetto, magari moltiplicandolo?

«In Italia abbiamo una tendenza che dura dal 2009, con un calo di circa un quarto delle nascite da allora. Già gennaio 2020, prima della pandemia, ha un calo dell’1,5% rispetto a un anno prima. Vedremo dai dati di dicembre quanto la paura avrà inciso, a partire da marzo. Contano anche l’incertezza sul lavoro e le difficoltà della vita quotidiana, che inducono le persone a posticipare il momento di avere un figlio fin quando magari diventa tardi. Fare previsioni è difficile, ma temo che nel 2021 potremmo scendere sotto le 400 mila nascite».

Erano più di un milione nel 1964, 576 mila nel 2008.

«Da notare che il declino riguarda anche la popolazione straniera. L’immigrazione oggi porta 62 mila nati all’anno, dopo essere arrivata a 80 mila. Ma aldilà dei fattori congiunturali — la crisi, la pandemia — in Italia c’è soprattutto un effetto strutturale, perché si sta riducendo il numero di persone in età feconda. I nati all’apice del baby boom oggi hanno 56 anni. Le generazioni in età riproduttiva saranno sempre più ristrette».

Come reagire?

«Dobbiamo rendere compatibili lavoro e maternità, con un maggiore coinvolgimento dei padri».

Più congedi di paternità?

«C’è anche un aspetto culturale. Ci siamo sempre illusi che dovesse essere lo Stato a risolvere il problema con un bonus, un aiuto, una legge. Invece occorre coinvolgere su questa vera e propria emergenza anche altri attori: il non profit o le imprese, che possono offrire ai dipendenti il servizio di asilo nido. Non è paternalismo, è un investimento. Stiamo prendendo coscienza del problema solo ora, iniziamo a capire che se non facciamo niente la questione diventa veramente problematica per il welfare».

Che intende dire?

«Oggi abbiamo 33 ultrasessantacinquenni ogni cento soggetti in età attiva. Tra trenta o quarant’anni questo numero raddoppia, dunque raddoppia anche la fetta delle pensioni in proporzione al prodotto interno lordo. A quel punto o raddoppiamo la torta, ma sappiamo che non è così semplice…»

Oppure non ci saranno soldi per scuola o sanità?

«…oppure dovremmo tagliare altre cose, è inevitabile. Questa è la guerra tra poveri che sarebbe bene evitare. Ormai c’è una certa consapevolezza del problema. Ma anche resistenza nel prendersi la responsabilità di fare qualcosa per risolverlo».

Il Covid sta rovesciando il paradigma per cui in Italia la speranza di vita migliora più a Nord che a Sud?

«Senz’altro c’è una fortissima variabilità nei territori. A Roma o a Agrigento la mortalità quest’anno scende rispetto al 2019, mentre per Bergamo o per la Val d’Aosta naturalmente è vero l’opposto. Certo la speranza di vita riflette sempre i dati più recenti, ma è solo una proiezione statistica. Detto questo, l’effetto Covid dovrebbe produrre certo un numero di decessi drammatico, ma non enorme nel confronto storico. Non sono i 600 mila morti della febbre spagnola, per capirci».

Che cifre ha in mente?
«Abbiamo fatto delle simulazioni, immaginando diversi scenari. Si va dai 40 mila morti in più rispetto al 2019 agli 80 mila, ma in quest’ultimo caso solo con una seconda ondata che aumenti del 50% il rischio di morte per gli anziani».
Lo scenario centrale è di 60 mila morti in più?

«In teoria sì. Ma la seconda ondata, se ci sarà — speriamo di no — sarà meno dura dal punto di vista della letalità. Abbiamo capito come gestire meglio questo fenomeno. Noi all’Istat stiamo lavorando, con l’Istituto Superiore di Sanità e alcune università, per mettere in piedi un sistema di monitoraggio per identificare in fretta i focolai e segnalarli. Anche avere 40 mila morti in più sull’anno prima è drammatico, chiaro, ma sarebbe sempre meno di quanto è successo nel 1956 o anche nel 2015 rispetto agli anni precedenti».

La fuga dei giovani all’estero frena l’economia. In questo la riduzione della mobilità dovuta a Covid può aiutare?

«Prima del Covid, spesso il Paese non era in grado di dare un futuro ai giovani. Stupidamente investiva su di loro, li formava e li regalava al resto del mondo. Anch’io ho una figlia a Londra. Ora i giovani sono a casa, ma solo perché la mobilità si è bloccata. La scommessa sarà riuscire a creare condizioni che consentano loro di restare anche dopo per la ricostruzione. Altrimenti andranno a fare la ricostruzione degli altri Paesi».

I dati dell’occupazione durante la pandemia dicono che sono sempre i giovani a pagare.

«Sono le fasce meno protette, che si fanno carico di tutta la flessibilità. Credo che la parola magica sia opportunità. Magari con regole un po’ più adatte non a licenziare o a sfruttare, ma a dare a ciascuno la possibilità di trovare il posto giusto».