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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

“La Banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”. Per una storia economica del Paese

Di Emanuele Lorenzetti

 

Dal 1947 l’annuale Relazione proposta dal Governatore all’assemblea dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia si è arricchita delle “Considerazioni finali”. Queste pagine conclusive riassumono gli elementi fattuali e analitici contenuti nel corpo della Relazione. Soprattutto danno al Governatore l’opportunità di esprimere in forma sintetica e con un diverso, personale linguaggio la propria visione degli accadimenti, dei problemi, delle soluzioni. […] Lungo settant’anni le Considerazioni degli otto Governatori della Banca d’Italia che dal 1947 al 2017 si sono succeduti offrono uno spaccato – storico appunto – della vicenda, non solo economica, italiana e mondiale”.

È con queste parole che Pierluigi Ciocca e Federico Carli, co-autori de “La banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”, introducono la loro pubblicazione a motivazione dell’opera omnia sull’Istituto di Via Nazionale. Si tratta di un’opera suddivisa in sei tomi che raccoglie tutte le Considerazioni finali pronunciate dai governatori della Banca d’Italia, dalle prime di Einaudi alle ultime di Visco, passando per Menichella, Carli, Baffi, Ciampi, Fazio e Draghi.

La Banca d’Italia ha sempre rivestito un ruolo di primo piano nel Sistema Paese, garantendo stabilità non solo economica, ma politica ed istituzionale. A detta di Federico Carli, nipote dell’ex Governatore Guido Carli, questa opera “vuole essere innanzitutto un omaggio e uno strumento per preservare il prestigio di una istituzione fondamentale della Repubblica”. Numerosi sono i fatti storici documentati con estrema chiarezza, profondità intellettuale ed informazioni statistico-econometriche che, legati tra loro, sottendono un filo rosso che ricostruisce la storia economica del Paese. A partire da Donato Menichella “banchiere e capitano d’industria”, così viene definito dagli autori Federico Carli e Pierluigi Ciocca, che resse da Direttore Generale la Banca d’Italia nel periodo giugno 1947/maggio 1948 con Luigi Einaudi governatore, negli anni della ricostruzione democratica ed economica del Paese. Erano anni difficili quelli del dopoguerra, durante i quali l’obiettivo primario era preservare la stabilità monetaria. Obiettivo, rammentano gli autori, che Menichella riuscì a raggiungere in quanto “il livello dei prezzi ingrosso, seppure fra oscillazioni, nel 1959 era lo stesso del 1947.”

Ma Menichella è ricordato anche per essere stato tra i protagonisti della cosiddetta stabilizzazione monetaria del 1947 insieme allo statista Alcide De Gasperi, il quale durante il suo quarto gabinetto ebbe il grande merito di ripristinare quella fiducia necessaria all’azione di governo, consentendo l’implementazione della strategia antinflazionistica nota come “Linea Einaudi”. Insomma un pezzo di storia italiana, un esempio vincente di collaborazione istituzionale tra politica, alta dirigenza pubblica e Banca d’Italia, in cui le migliori menti vollero unirsi per delineare strategie comuni di lungo periodo, nell’unico intento di consentire il progresso e lo sviluppo economico del Paese. Insomma, come si ebbe modo di definire altrove,è stato il “primo esempio di collaborazione tra politici e tecnici nell’Italia repubblicana”.

Ebbene una collaborazione istituzionale, quella tra l’Istituto di emissione centrale e le altre istituzioni pubbliche e private, che abbraccia tutte le fasi dell’arco costituzionale italiano.Se allora, nel dopoguerra, il tema prioritario era la garanzia della stabilità monetaria, negli anni a seguire in via Nazionale si dovette seguire molte altre questioni economiche. Se con Menichella gli sforzi convergevano su come far ripartire l’economia dopo le devastazioni della guerra, negli anni Sessanta l’economia italiana viveva una fase di splendore. L’alta dirigenza economica italiana si doveva porre la domanda: quale politica economica necessaria a seguire il formidabile sviluppo di quegli anni? Sono gli anni del governatorato Guido Carli in via Nazionale che “lasciò un’impronta marcata su tutti gli ambiti in cui una banca centrale è chiamata a operare: sull’economia internazionale, non solo europea, nella quale l’economia italiana si andava integrando sempre più saldamente, attraverso l’ascoltato contributo analitico, la costante opera di proposta, l’incisiva cooperazione sullo scacchiere finanziario mondiale; sull’attività di indagine statistica e sul governo dell’economia nazionale; sullo studio, la supervisione e l’orientamento del sistema creditizio e finanziario; sulla gestione e modernizzazione dell’Istituto”. Carli, economista lungimirante, fu però tra i primi a intravedere i segni di contraddizione della struttura socioeconomica italiana di quegli anni, quando ancora non erano visibili. Esperto di questioni monetarie internazionali, Carli contribuì inoltre all’internazionalizzazione della Banca d’Italia. Seguì con attenzione gli sviluppi con il crollo dell’ordine monetario internazionale istituito a Bretton Woods, in cui egli “manifestò perplessità sulla possibilità di ricostituire un sistema monetario mondiale basato sul principio della universalità, individuò la soluzione nell’istituzione di grandi aree valutarie che offrissero strumenti di regolamento dei pagamenti internazionali atti a facilitare il processo di aggiustamento tra vasti aggregati: Stati Uniti, Comunità economica europea, Giappone, paesi produttori di petrolio, paesi emergenti. Le fluttuazioni dei tassi di cambio tra grandi aree avrebbero dovuto rispecchiare l’andamento delle bilance dei pagamenti e non subire brusche oscillazioni provocate da flussi di capitali a breve termine”. Guido Carli è considerato da tutti Il Governatore, a lui infatti furono riconosciute doti manageriali sofisticate. Come scrivono Federico Carli e Pierluigi Ciocca, “Einaudi ripristinò l’indipendenza della Banca d’Italia, Menichella la consolidò, Carli la accrebbe”.

Ma quel prestigio e quegli alti splendori dell’Istituto di via Nazionale sotto la guida di Carli trovarono negli anni a venire una serie di eventi negativi come la vicenda Fazio dove “la Banca d’Italia non fu in condizione di ottenere il consenso del Presidente del Consiglio Berlusconi, del Ministro dell’Economia Tremonti e del Capo dello Stato Ciampi per una successione interna al vertice dell’Istituto.” Pertanto, la scelta ricadde su di un uomo esterno come Mario Draghi, il quale dovette avere come obiettivo primario il dover “ristabilire un clima di normalità”. È lo stesso Draghi a dire nel 2006: “A me (…) stava, sta, la responsabilità di accompagnarla nel ritorno al prestigio di cui ha sempre goduto; di guidarne il cambiamento in un contesto nazionale e internazionale profondamente diverso da quello che ha caratterizzato la sua storia”. Oltre a ciò, il Governatore Draghi ebbe come obiettivo primario il dover tornare alla crescita dell’economia nazionale: egli disse “La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso” (2011).

Tutti questi aneddoti, storie di vite ma soprattutto storie di persone che, attraverso la loro alta preparazione intellettuale, anteposero e tutt’ora antepongono l’interesse generale su quello particolare, ci aiutano a comprendere che la Banca d’Italia è tra le migliori istituzioni che il Sistema Paese abbia mai potuto avere. Il forte monito va alla politica, che sappia vedere in Via Nazionale un baluardo imprescindibile per il progresso e lo sviluppo dell’Italia. Ed anche quando tutto sembra andare bene ascolti i moniti che il Governatore sintetizza nelle sue “Considerazioni finali”.

 

 

Popolari e leghisti. La politica vista dal presidente del Copasir Raffaele Volpi

di Luca Di Cesare, Responsabile Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

Cosa è rimasto dell’eredità politica di De Gasperi? Popolari e populisti sono la stessa cosa? Cosa significa essere cattolici in politica? Abbiamo girato queste domande a chi la politica la conosce, e la fa, da tanto tempo. Raffaele Volpi, pavese, leghista della prima ora, oggi presidente del Copasir, il comitato di raccordo fra Parlamento, governo e agenzie di intelligence, non fa mistero di rivendicare le sue radici popolari e spiega perché, oggi, quella lezione politica appartiene a tutti quelli che ne sappiano fare tesoro.

 

Presidente, sappiamo che la sua storia politica non è stata estranea alla cultura della Dc, tra i cui fondatori ricordiamo Alcide De Gasperi, di cui la Fondazione porta appunto il nome. Chi oggi è erede di quella tradizione politica?

L’esperienza della Democrazia Cristiana è irripetibile per un elemento storico. Probabilmente serve una riflessione sui valori.Penso che ci sia un aspetto fondante: con Luigi Sturzo abbiamo sbagliato un punto alla base, cioè quello di tradurre le teorie economiche in quelle politiche, passando dal socialismo reale al liberismo. La politica non può essere subordinata all’economia ma deve essere in grado di governare i cambiamenti economici, altrimenti si rischiano i fallimenti che abbiamo vissuto.

 

Cosa direbbe ad un giovane che le chiedesse se si può essere oggi allo stesso tempo democristiani e leghisti?

Non si può essere democristiani perché non esiste più la Dc, ma si può essere popolari in qualsiasi partito. Io sono per il confronto.Oggi credo che ci siano delle anomalie nel sistema politico. La politica dovrebbe partire dall’interpretazione dei valori. Nel nostro Paese, per fortuna, apparteniamo tutti ad una radice valoriale comune, legata all’Occidente e all’atlantismo. È chiaro però che ci sono diverse declinazioni. Ritengo che parlare da un lato di un popolarismo non necessariamente centrista e dall’altro di un riformismo creerebbe un confronto più sano in questo momento.

 

Sentiamo molto spesso dire che esiste una domanda politica al centro, si parla di “moderati”. Chi sono, oggi, i moderati?

Penso che sia una declinazione meno interpretabile in assoluto. Il moderatismo è l’elemento personale per il quale ci si mette a servizio della politica o, meglio,un approccio più che una posizione politica. Questo significa che si può essere “moderati” in qualsiasi schieramento politico e ciò dovrebbe essere il richiamo per i giovani che vogliono impegnarsi nella politica.

 

Oggi in Europa il Partito Popolare europeo ha molte anime al suo interno che a volte sembrano parcellizzate, come spiega questa situazione?

È necessario un ripensamento da parte del Partito Popolare Europeo perché per molti anni in Europa ha governato con i socialisti europei. A mio avviso, rimane centrale la bontà del confronto politico. A livello sistemico, abbiamo una politica europea di compromesso; forse bisogna nuovamente considerare quali sono gli spazi comuni, ma tenendo a mente le differenze,anche perché nel Ppe ci sono delle diversità enormi; forse ha perso la sua anima più profonda di partito europeo.Oggi potrebbe essere considerato una coalizione e non più un partito.

 

Ci sono tanti cristiani in politica che rivendicano la loro appartenenza al cattolicesimo, De Gasperi ha sempre tenuto ben distinto i concetti di cattolici in politica e politici cattolici. Oggi cosa significa essere cattolici in politica?

Bisogna essere cattolici in un Stato laico. Il legislatore deve affermare i suoi valori sapendo che la legge ha un carattere generale perché è riferita a tutti gli italiani. Parlando delle riforme costituzionali, come dice quel vecchio detto, quando si fanno certe cose bisogna che i banchi del Governo siano vuoti.

 

De Gasperi è stato cristiano, europeo e democratico. Settant’anni fa ha operato una scelta di campo con l’entrata nella Nato, schierandosi con gli Stati Uniti d’America. Eppure ancora oggi, con un nuovo Oriente che si fa largo, la Cina, assistiamo all’eterna tentazione italiana di fare da ponte pontiere fra Est e Ovest. È giusto ribadire quella scelta di campo degasperiana?

La scelta di campo è necessaria, importante e non prorogabile. Cito spesso, anche se non riguarda la storia democristiana, il professor Andrea Carandini, che a mio parere è il più grande divulgatore di storia romana e di archeologia. In una importante presentazione, Carandini dichiarava che nella parte geografica occidentale, come in Grecia e a Roma, nascevano corrispettivamente l’Agorà e il Foro, mentre in Oriente sbocciavano le grandi dinastie. In fondo, è un richiamo storico a due visioni completamente diverse della vita sociale, ovvero, di quali sono le regole della vita sociale. Da tali valori si può determinare l’area di appartenenza, non per essere nemici di qualcuno, ma per essere sicuri che le amicizie abbiano delle fondamenta serie.

I sequestri di persona. Verso quale modello di security risk management in aree di crisi? Parla Saccone

di Emanuele Lorenzetti

Il tema della sicurezza privata nelle aziende e per le ONG che operano in aree di crisi è sempre più rilevante nel dibattito pubblico e di settore. Come prevenire i sequestri di persona ad opera di gruppi criminali o terroristici? Alla luce del recente caso Silvia Romano, la Fondazione De Gasperi ha voluto compiere una riflessione più generale sull’importanza del security risk management nelle aree di crisi insieme ad Umberto Saccone, presidente di IFI Advisory, già direttore Controspionaggio del SISMI (ex Servizio segreto militare italiano pre-riforma L. 124/2007, ora AISE) e capo della security ENI.

Dott. Saccone, negli ultimi periodi assistiamo ad un crescente fenomeno di rapimento dei volontari e di personale aziendale occidentali che operano nei teatri di crisi. Perché?

Dal 2001 ad oggi sono stati sequestrati nel mondo 65 italiani, 19 di questi erano operatori umanitari. Negli ultimi anni il 52,5% dei rapimenti, è avvenuto ai danni di cooperanti delle Ong (34,5%) e dei giornalisti (18%). Si tratta di lavori, quelli delle ONG, che per loro stessa natura portano gli operatori in zone di conflitto o di sconvolgimenti umanitari; il contatto diretto con la popolazione, la volontà di penetrare tutte le realtà del Paese e la mancanza di adeguati sistemi di sicurezza ne fanno obiettivi altamente remunerativi sia sotto il profilo economico sia sotto quello dell’organizzazione del rapimento. E’ questa la ragione per la quale il 7 Settembre 2004 in Iraq, a Baghdad, un gruppo armato ha fatto irruzione negli uffici della ONG “Un ponte per…” sequestrando Simona Pari e Simona Torretta. Il 14 agosto 2011, nella regione del Darfur, in Sudan, è stata la volta del cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011, nel campo profughi saharawi di Hassi Raduni, in Algeria, è stata rapita Rossella Urru impegnata con la ONG CISP (Comitato Internazionale per lo sviluppo dei popoli). Il 9 gennaio 2012 Giovanni Lo Porto, trentottenne palermitano, è stato sequestrato in Pakistan dove lavorava come capo progetto per l’Ong tedesca “Welt Hunger Hilfe” (Aiuto alla fame nel mondo) e, il 13 marzo 2013, in Siria, è stato rapito il cooperante italo-svizzero Federico Motka che si trovava nel Paese per conto della ONG tedesca “Welthungerhilfe”. Greta Ramelli, ventenne di Gavirate (Varese) e Vanessa Marzullo, ventunenne di Brembate (Bergamo) sono state invece rapite rapite il 31 luglio 2014 ad Aleppo, nel nord della Siria dove operavano per conto della ONG “Progetto Horryaty”. Per ultimo, ma non ultimo, il rapimento di Silvia Romano che operava in Kenia per la ONG Africa Milele.

La normativa internazionale, UE e nazionale vieta allo Stato la possibilità di recuperare gli ostaggi mediante pagamento del riscatto al gruppo criminale o terroristico. Tale pratica, tuttavia, è ancora perseguita da alcuni governi europei, compresa l’Italia. Qual è il motivo, quali le conseguenze negative e come i governi dovrebbero muoversi?

Il diritto internazionale esclude ogni forma di finanziamento del terrorismo. La norma trova il proprio fondamento nella Convenzione di New York del 1979 e in particolare nelle risoluzioni n. 2161 e 2170 del 2014 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che vietano agli Stati membri di finanziare organizzazioni terroristiche, qualsiasi sia la causa della corresponsione, incluso il pagamento del riscatto. A prescindere dalle norme internazionali l’ordinamento italiano punisce il favoreggiamento reale. L’art. 379 c.p. prevede che chiunque aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato (in questo caso pagando un riscatto), è punito con la reclusione fino a cinque anni. Maria Callimachi, giornalista del New York Times ha in più occasioni affermato che i governi europei hanno pagato 125 milioni di dollari in riscatti ai rapitori negli ultimi sei anni’’. Ma restando ai fatti e non alle ricostruzioni più o meno attendibili bisogna prendere atto che il pagamento di un riscatto è escluso dal nostro ordinamento e considerato che i governi che si sono da sempre succeduti hanno sempre smentito il pagamento non abbiamo strumenti per confutare.

L’AISE che tipo di supporto dovrebbe fornire?

L’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero.  Di fatto l’AISE fa il proprio lavoro operando a tutela degli interessi strategici e salvaguardando il capitale umano patrimonio collettivo dell’intera nazione. Il legislatore ha da sempre inteso far riferimento alla politica informativa e di sicurezza come lo strumento idoneo alla tutela dell’interesse e della difesa dello stato democratico e delle istituzioni poste a suo fondamento dalla Costituzione. E’ lo strumento di cui lo Stato si serve per raccogliere, custodire e diffondere ai vertici decisionali le informazioni rilevanti per la tutela della sicurezza delle Istituzioni, dei cittadini e delle imprese. E’ in tale cornice che l’intelligence opera mettendo a disposizione il proprio network di relazioni, potendo contare su una rete di agenti capillare e professionale, con una profondità operativa unica, tra le forze di sicurezza dello stato, potendo contare anche delle cosiddette garanzie funzionali, ossia delle guarentigie che l’ordinamento ha inteso assicurare agli appartenenti ai servizi di informazione per il caso in cui, nel corso di apposite operazioni, vengano poste in essere condotte punite dalla legge come reato.

Cosa significa oggi per le industrie, come l’italiana Eni, e per le associazioni di volontariato investire nel security management e, se c’è, verso quale modello di gestione?

Secondo gli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione italiana la sicurezza, libertà e dignità umana prevalgono sull’iniziativa economica privata (dovere di protezione o duty of care). Tale principio è dettagliato dall’articolo 2087 del codice civile, che impone all’imprenditore di adottare le misure “che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica” del lavoratore e dall’art. 28 del D.lgs. 81/2008 secondo cui il datore di lavoro, nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), deve considerare tutti i rischi “compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”. Dunque, il datore di lavoro è tenuto a garantire al proprio personale tutte le misure di sicurezza, sia con riferimento a quegli eventi di tipo accidentale quali gli infortuni e le malattie professionali, sia rispetto ad eventi esterni all’attività lavorativa quali ad esempio un’aggressione, un attentato ovvero un rapimento (i cosiddetti rischi di security). Tali adempimenti sono a carico del datore di lavoro, quest’ultimo inteso come il responsabile dell’organizzazione dell’attività dell’ente in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa, anche all’interno di ONLUS o di altri enti privi di scopo di lucro.

Cassa depositi e prestiti (CDP): volano per la sostenibilità italiana

di Andrea Belfiore

In occasione del suo 175° anniversario, il Gruppo Cassa depositi e prestiti S.p.A. (CDP), controllato all’83% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha recentemente pubblicato il suo primo Bilancio di Sostenibilità 2019 che, come disposto dal D.Lgs. 254/2016, rendiconta le attività e le performance del Gruppo in materia di utilizzo di risorse energetiche, impatto ambientale, gestione del personale, rispetto dei diritti umani e lotta contro la corruzione.

Come testimonia il Piano Industriale 2019 – 2021, il Gruppo presieduto da Giovanni Gorno Tempini e guidato dall’AD Fabrizio Palermo ha deciso di porre la sostenibilità al centro della sua strategia e degli investimenti per i prossimi anni. Il Piano, presentato lo scorso anno, prevede lo stanziamento di oltre 110 miliardi di euro per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile del Paese, in grado di sbloccare ulteriori 90 miliardi da investitori privati e altre istituzioni in quattro aree: Imprese, Infrastrutture e PA, Cooperazione Internazionale e Grandi Partecipazioni.

Il Bilancio di Sostenibilità evidenzia gli sforzi compiuti nel 2019 dal Gruppo che, grazie alla mobilitazione di più 34 miliardi di euro, ha supportato 20.000 imprese; aumentato gli occupati di 600.000 unità e ridotto del 4% l’intensità pro-capite della produzione di emissioni di gas a effetto serra.

Il Gruppo gestisce più di 2.190 dipendenti, di cui il 96% a tempo indeterminato e il 47% composto da donne, garantendo innovativi servizi di welfare e benefit (assistenza previdenziale, copertura assicurativa, contributi annuali per i dipendenti con figli a carico con gravi disabilità) che le hanno permesso di ottenere, per il 2° anno consecutivo, la certificazione di “Top Employers Italia”.

CDP è stata la prima istituzione finanziaria italiana ad essere accreditata al Green Climate Fund (GCF), lo strumento finanziario promosso dalle Nazioni Unite per interventi di contrasto al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo. Ciò le ha permesso di investire nel 2019 oltre 2,8 miliardi di euro in progetti dedicati al contrasto dei cambiamenti climatici attraverso la gestione di fondi pubblici o come partner in fondi d’investimento con altri attori internazionali. In Italia è stata poi partner della Pubblica Amministrazione per la realizzazione di opere di efficientamento energetico immobiliare e interventi di social housing che hanno portato ad un risparmio del suolo del 50% e ad oltre 350.000 m3 riqualificati secondo i più alti standard di efficienza energetica. In particolare, ha poi stanziato oltre 700 milioni a sostegno di famiglie, imprese e altri enti colpiti da calamità naturali finalizzati alla realizzazione di interventi per la prevenzione dei rischi di natura idrogeologica e messa in sicurezza delle comunità locali.

Oltre all’export in cui ha servito oltre 11.000 imprese, il Gruppo ha effettuato importanti operazioni come la creazione del Fondo Nazionale per l’Innovazione, che hanno contribuito a finanziare investimenti in ricerca e innovazione per oltre 580 milioni di euro.

Il Gruppo è anche particolarmente attivo nel settore della finanza sostenibile dove, a partire dal 2017, ha emesso circa 2,5 miliardi di euro in relativi strumenti, in linea con i propri Green, Social e Sustainability Bond Framework. Dopo i Social Bond di 500 milioni, emessi nel 2017 e nel 2019 per la creazione di nuovi posti di lavoro a supporto delle PMI, e all’Hydro Sustainability Bond di 500 milioni, emesso nel 2018 per interventi di efficientamento e sviluppo della rete idrica nazionale, lo scorso febbraio ha emesso il suo primo Social Housing Bond di 750 milioni per finanziare interventi di edilizia residenziale per le fasce più deboli della popolazione.

Il Bilancio termina con il Manifesto di sostenibilità di CDP, sottoscritto da tutti gli Amministratori delegati delle società del Gruppo durante la Convention di fine anno dello scorso 19 dicembre, che impegna il Gruppo in azioni concrete entro il 2030 a favore del contrasto al cambiamento climatico, dell’innovazione e crescita delle imprese e dell’inclusività e benessere delle persone.

CDP non solo ha quindi dimostrato di puntare fortemente sulla sostenibilità come punto cardine per la sua strategia e le attività operative, ma di voler diventare nei prossimi anni il volano dello sviluppo sostenibile del nostro Paese.

L’Europa, l’ora della svolta?

di Stefano Ferace

 

Il covid-19, virus sbarcato per la prima volta in Europa ormai più di un mese fa, sta colpendo in modo mostruoso i paesi del Mediterraneo, in particolar modo Italia e Spagna. La drammatica situazione sanitaria ci porta ad una situazione equivalente a livello economico che rischia di far collassare, oltre che il sistema sanitario nazionale, l’intero tessuto sociale.

 

Tutti i governi nazionali stanno cercando di adottare le misure necessarie per reggere l’urto da “lockdown”; manovre che, ovviamente, non saranno abbastanza. È chiaro a tutti che le nostre economie nazionali non sono in grado di sopportare da sole uno stop completo di tutte le attività in un lasso di tempo che va, via via allungandosi sempre più.

 

Il virus, oltre a mettere alla prova i vari sistemi sanitari ed economici nazionali, è certamente uno “stress test” cruciale per la Comunità Europea e per la sua tenuta, facendo risuonare in modo ancora più forte le parole degasperiane: “solo uniti saremo forti”.

 

Viviamo un momento storico in cui l’Europa è chiamata ad un salto di qualità, non bastano più dichiarazioni di unità a reti unificate come fatto dalla presidente Von der Leyen. Non è più sufficiente il “siamo tutti italiani”, la strada degli annunci solidali l’abbiamo già provata con il “siamo tutti charlie hebdo” e non è andata bene. Esattamente come nel caso terrorismo, l’Europa, se vuole avere ragione d’esistere, ha un disperato bisogno di mettere insieme all’unità formale una profonda convergenza sul piano sostanziale.  A questo proposito, anche la Francia sembra aver capito che l’unica soluzione possibile sia l’agire comune, anche accentando differenze e dibattiti interni, piuttosto che un’unità di facciata che conduce all’immobilismo.

 

Il QE da 750 miliardi, annunciato dal Presidente della BCE, ha dato una prima risposta ai malumori dei paesi del mediterraneo abbassando gli spread nazionali. Ma la politica monetaria può solo comprare tempo alla politica di bilancio ed è, quindi, necessaria una risposta politica al virus. Durante l’ultimo consiglio europeo, alla chiamata dei presidenti Conte e Sanchez, i paesi del nord non hanno risposto, allungando l’agonia dei mercati e del popolo europeo di due settimane, momento in cui si riunirà per la seconda volta il consiglio europeo per dare risposta alla crisi. Appare sempre più chiaro che l’unica via per continuare a credere nel sogno dei padri fondatori di una Europa unita sia l’affrontare finalmente insieme questa enorme crisi.

 

 

L’ENI e la geopolitica energetica con il Covid-19 tra Medio Oriente e Green Deal. Parla il Senior Vice President Piredda

di Emanuele Lorenzetti

 

L’energia è il tema che sta al centro delle sfide poste alla sicurezza internazionale ed è decisivo per l’innovazione e la crescita europea post COVID-19: dai rapporti in Medio Oriente, con focus libico, alla transizione energetica in Europa rappresentata dall’European Green Deal – lanciato l’11 dicembre scorso dalla Commissione UE. La Fondazione De Gasperi ha voluto affrontare il tema con Eni, azienda leader nel settore energetico, attraverso l’analisi di Marco Piredda, Senior Vice President Eni per gli Affari Internazionali.

 

Dottor Piredda, qual è la situazione del Mediterraneo orientale?

Dal punto di vista energetico, quest’area sta vivendo una centralità senza precedenti. Le importanti scoperte degli ultimi anni hanno catalizzato l’interesse delle compagnie internazionali, con importanti investimenti e una nuova cooperazione energetica transfrontaliera. Pur contando per appena l’1% della produzione mondiale e il 2% delle riserve provate, l’East-Med è diventato l’”hot spot” del gas, con quasi un terzo di tutte le scoperte effettuate dall’industria negli ultimi 10 anni, nonostante le sfide tecniche e geofisiche dell’esplorazione in acque ultra-profonde. Eni è protagonista in questa nuova provincia del gas, con progetti a Cipro, in Libano e, soprattutto in Egitto, dove abbiamo riaperto i giochi con la più grande scoperta a gas mai fatta nel Mediterraneo.

Ma questi grandi sviluppi energetici si inseriscono in un contesto economico e internazionale molto difficile, ulteriormente aggravato dalla crisi causata dal COVID-19. Sarebbe impossibile, in poche righe, richiamare le dinamiche storiche ed i conflitti che segnano ancora questa parte del Mare Nostrum. Tra questi possiamo ricordare, anzitutto, le dispute ancora irrisolte sui confini marittimi (Cipro-Turchia, Libano-Siria e Libano-Israele) che continuano a ostacolare una proficua cooperazione regionale. Inoltre, la questione cipriota, le azioni muscolari di Ankara e la competizione tra le potenze regionali nel Mediterraneo, frenano le prospettive di quella crescita economica che la disponibilità di nuove risorse energetiche potrebbe invece favorire. A ciò si aggiunge un contesto istituzionale e regolatorio eterogeneo e ancora non consolidato.

Ciononostante, il potenziale energetico dell’area – sia per le fonti convenzionali che per quelle rinnovabili – rappresenta un’opportunità per lo sviluppo e la cooperazione regionale, anche con gli stati della sponda nord. La nostra convinzione è che l’energia possa costituire un terreno di dialogo ed un veicolo di stabilità e crescita sostenibile per i popoli dell’intera regione. Senza un sufficiente grado di cooperazione e volontà di condividere rischi e investimenti infrastrutturali, i volumi di risorse che potrebbero essere scoperti resteranno nel sottosuolo, a maggior ragione nell’attuale contesto di mercato che obbliga al taglio dei costi e a privilegiare i progetti più agibili.

Le potenzialità energetiche del bacino del Levante si esplicano, d’altra parte, soprattutto su scala regionale, con una porzione di gran lunga prevalente di idrocarburi che potrà essere consumata nei paesi dell’area: se teniamo in considerazione, da un lato, gli obiettivi europei di neutralità carbonica e, dall’altro, il fabbisogno di gas nel medio periodo di paesi come l’Egitto e la Turchia, è evidente che vinceranno le soluzioni più flessibili, come il GNL, e più vicine ai mercati di sbocco.

L’energia è indispensabile per l’industrializzazione, per la creazione di posti di lavoro, per elevare le condizioni di vita e per avvicinare il nord e il sud del Mediterraneo. La sfida di oggi rimane creare occasioni e spazi di collaborazione, superando contrapposizioni sterili; a tal proposito, l’auspicio è che si consolidi il dialogo strutturato – anche tra rivali storici – che è stato avviato con l’East Med Gas Forum e che vede, tra i membri fondatori, l’Italia e, tra i partner industriali, Eni.

Qui si confermano attuali e preziosi gli insegnamenti e l’esempio di un grande statista come De Gasperi: la visione di lungo periodo per il bene delle generazioni future, il valore della collaborazione anche tra ex nemici, la cultura del pluralismo unita a una forte convinzione religiosa. Penso che la leadership, la lungimiranza e la determinazione di uomini e istituzioni delle due sponde del Mediterraneo sia un ingrediente imprescindibile per lavorare ai grandi obiettivi di sviluppo pacifico e sostenibile, anche attraverso una politica energetica condivisa.

 

Come vengono valutati – alla luce degli interessi Eni – l’intervento in Libia degli attori esterni e la possibile tripartizione del territorio libico?

Non è un mistero che le interferenze esterne siano oggi il principale nodo della crisi. I flussi di armi e mercenari sono divenuti nuova norma, dunque accettati dai più; inoltre, la molteplice presenza straniera induce a deresponsabilizzare gli attori e le fazioni interne, che dopo aver invocato o favorito questi interventi non paiono più in grado di gestirli o contenerli.

Sul piano energetico la situazione – che appariva sorprendentemente sostenibile fino ad alcuni mesi orsono – sta velocemente degenerando, seppure con importanti differenze tra olio e gas e tra onshore e offshore. Eni è riuscita, grazie a un rapporto privilegiato con i libici, radicato in decenni di collaborazione, a restare e continuare a produrre in questo decennio di guerra civile e divisioni. Nel primo trimestre, le produzioni di petrolio operate da noi o da altri sono rimaste quasi tutte ferme a causa del blocco degli oleodotti e dei terminali di esportazione, con la sola eccezione di pochi campi offshore. Ciò significa, come noto, che sono crollati i flussi finanziari verso la Banca Centrale e che gli investimenti sono fermi. La situazione è parzialmente differente per il gas: la produzione finora è rimasta pressoché stabile, sia in ragione della posizione geografica degli impianti, sia per il ruolo fondamentale che le forniture di gas rivestono per la generazione elettrica e, quindi, i servizi essenziali come illuminazione, climatizzazione, sanità ecc. La gran parte dei volumi di gas che produciamo (circa due terzi) è destinata prioritariamente al consumo interno, con una minore porzione che viene ancora esportata verso l’Italia con il Greenstream.

Questa situazione di squilibrio – con un paese diviso e senza una prospettiva tangibile di pacificazione – non giova a nessuna delle parti, se non forse a qualche attore esterno. Molti libici sono stanchi del peggioramento nelle condizioni di vita quotidiana; ma restano, purtroppo, alcuni grandi e tanti piccoli rais che ancora non rinunciano a una logica binaria, nonostante questa non abbia portato che risultati di corto respiro. Eppure l’aspirazione ideale all’unità ancora resiste tra i libici: tentare di sciogliere i nodi con soluzioni estreme come una tripartizione – del tutto teorica nella sua praticabilità – rischia di essere solo un inutile aggravio e un moltiplicatore dirompente dei problemi già esistenti.

Se esiste ancora una via d’uscita, questa passa per la persuasione degli attori interni, incluse le figure di vertice, che nel gioco a somma zero degli ultimi anni i primi a perdere sono gli stessi libici; poi per un diverso coinvolgimento degli attori internazionali più autorevoli. Il primo riferimento, ovvio, è agli Stati Uniti, che tuttavia non fanno mistero del minore interesse al Mediterraneo centro-occidentale; eppure, condivido la lettura di chi vede il disengagement statunitense come foriero di conseguenze negative per la stessa superpotenza, che in tal modo vede ridursi le capacità di gestire dinamiche regionali e rischi di rilevanza strategica. Alcuni segnali positivi in primavera ci sono stati, resta da vedere quali seguiti porteranno.

L’altro attore essenziale è l’Europa, che nell’azione verso il Mediterraneo incontra certo uno dei propri limiti politici strutturali. Mentre si affronta il dramma sanitario ed economico di questi mesi, converrebbe a noi europei non rinunciare a elaborare e proporre un modello, dare una cifra dell’assetto ritenuto più adatto, accompagnarne l’attuazione: in questa prospettiva, una diversa e più ambiziosa politica di vicinato – ma anche sanzioni applicate puntualmente contro le transazioni di greggio e le forniture di armi non consentite dall’ONU – possono fare la differenza.

In questo quadro, l’energia resta il fulcro dell’economia libica: quanto più si riuscirà ad avvicinare le diverse fazioni intorno al comune interesse a preservare la produzione, tanto più si potranno allontanare gli interessi esterni nocivi e sarà immaginabile una progressiva pacificazione.

 

Come Eni vuole intraprendere il grande cambiamento alla luce del Green Deal Europeo?

La transizione energetica, che già rappresentava una sfida enorme prima del COVID, oggi potrebbe apparire un’impresa impossibile. Come potremo salvare interi sistemi economici, erosi profondamente dalle ferite di una crisi senza precedenti e, al contempo, modificare i nostri modelli di produzione e di consumo in modo così radicale da contrastare efficacemente il cambiamento climatico? La vostra domanda chiama in causa i due grandi attori che dovranno individuare e costruire le soluzioni per vincere questa difficilissima partita: il mondo delle istituzioni e dei decisori pubblici e il mondo produttivo e delle imprese.

I governi di tutto il mondo sono impegnati ad intervenire con misure straordinarie di stimolo all’economia per rispondere alla recessione. Gli investimenti pubblici, e quelli comunque favoriti dalle misure di stimolo, oltre a permettere la ripresa economica contribuiranno a dare forma ai modelli di produzione e di consumo degli anni a venire. La Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) sta esortando i governi a utilizzare queste leve anche come un’opportunità per consolidare la transizione energetica. Non sarà facile combinare gli sforzi per la ripresa e le modifiche al sistema energetico; ma non abbiamo altra scelta.

Le imprese sono chiamate a ripensare i propri modelli di business e a ridurre l’impatto carbonico con il ricorso a tecnologie e processi innovativi, nonostante la minore disponibilità di risorse. Per quanto riguarda Eni, già nel Piano Strategico 2019-2022 avevamo definito gli obiettivi per contribuire al conseguimento dei Sustainable Development Goals (SDGs) delle Nazioni Unite. Quest’anno abbiamo fatto un ulteriore, fondamentale, passo in avanti con il Piano d’Azione 2020-2023 e il Piano strategico al 2050. Abbiamo confermato e qualificato – con obiettivi di breve, medio e lungo termine – il nostro impegno per coniugare sviluppo e forte riduzione dell’impronta carbonica. Ci siamo impegnati a eliminare, entro il 2050, l’80% delle emissioni dei gas serra dei nostri prodotti (mentre la soglia indicata dall’IEA è del 70%, nello scenario compatibile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi). Mentre saremo impegnati a valorizzare il gas come risorsa di transizione, focalizzeremo la nostra attenzione anche sulle rinnovabili: in questo campo il nostro obiettivo è una progressiva espansione globale, per una capacità installata che al 2050 supererà i 55GW. Ciò che è forse più importante, siamo impegnati a realizzare un cambio di paradigma in tutte le fasi di produzione: le raffinerie europee saranno convertite in impianti “bio”, per la produzione di idrogeno e per il riciclo di materiali di scarto; e abbiamo in cantiere diversi progetti di economia circolare e per la cattura di CO₂. Il nostro plateau di produzione di petrolio è previsto nel 2025, con una componente gas nel portafoglio che crescerà sempre di più (60% al 2030 e circa 85% al 2050).

Eni sta cambiando pelle e intende svolgere un ruolo da protagonista nella transizione, in Europa e nel resto del mondo. In questa difficile fase, con i mercati energetici ai minimi per il “doppio shock” da eccesso di offerta e crollo della domanda, è lecito chiedersi se la forza innovativa dell’industria reggerà l’onda d’urto della crisi e, soprattutto, se i prezzi bassi degli idrocarburi rallenteranno la diffusione delle fonti rinnovabili, ritardando la transizione. È probabile che vedremo molte correzioni di rotta, riorganizzazioni e trasformazione dei modelli di business. Eni potrà contare sulla propria capacità finanziaria e tecnologica, oltre che sulla sua proiezione internazionale e sulla forza delle persone che ci hanno permesso di superare altri frangenti difficili.

Secondo molti, ciò che finora è mancato e che rischia di compromettere la lotta al cambiamento climatico è il governo di questo processo, che ha mille implicazioni politiche, finanziarie, tecnologiche e sociali: la transizione richiede una guida da parte dei governi e delle organizzazioni internazionali ma, soprattutto, delle grandi potenze economiche globali. Il “Green Deal” europeo prevede un percorso per una transizione sostenibile e socialmente equa; noi condividiamo questi obiettivi di fondo e saremo in prima linea per assicurare il loro raggiungimento. Ma le emissioni europee sono una piccola porzione (meno del 10%) di quelle globali: anche se confermassimo la nostra leadership nella sostenibilità ambientale, purtroppo ciò non basterebbe. Siamo, quindi, di fronte a una doppia, formidabile, prova. Da un lato, completare la grande trasformazione del sistema energetico e produttivo europeo per fare dell’eccellenza ambientale un punto di forza e un volano di sviluppo, evitando – anche con il ricorso a misure tariffarie – la concorrenza asimmetrica di altri sistemi economici. Dall’altro, promuovere con tutta la forza ideale e diplomatica di cui saremo capaci l’adozione di decisioni vincolanti a livello internazionale, tali da fornire indicazioni attendibili e di lungo periodo agli attori economici, ma anche la realizzazione di parternariati regionali e settoriali con le aree meno sviluppate, in particolare l’Africa.

L’Italia a tre velocità al tempo della lockdown economy. Per un rilancio del Sistema Paese digitale, verde e industriale 4.0

di Emanuele Lorenzetti

Il Coronavirus rappresenta una delle più gravi crisi mai registrate nella storia repubblicana italiana. Per un’analisi sociale e politica, bisogna partire dalla constatazione che ogni grande crisi introduce aspetti sia negativi sia positivi nella società di uno stato. La capacità di discernimento è fondamentale per saperne cogliere entrambi. Il primo e principale aspetto negativo, che certamente va registrato, è la morte di centinaia di migliaia di persone e la sofferenza fisica e interiore di altrettante persone che continuano a lottare contro il virus in ospedale, a casa e nel lavoro. Il secondo attiene alla sfera pubblica internazionale riguardo alla cecità politica concretizzatasi nell’indifferenza di taluni stati verso l’Italia, i quali hanno preferito erigere confini nazionali a scapito di uno dei caposaldi del pensiero europeo: il principio della solidarietà. Il momento di dura prova che siamo chiamati a vivere però va governato e superato. Prima delle grandi decisioni ciascun governante, oggi, è chiamato a fare una riflessione sul tempo. Possiamo farlo riprendendo le memorabili parole di un grande statista democristiano come Aldo Moro: “Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà.” Con la differenza che quelle erano parole rivolte alla sfida del terrorismo interno contro la quale l’Italia si è confrontata negli anni ’70 e ’80. La domanda che se ne desume però è chiara e attuale: comprendiamo davvero il tempo che stiamo vivendo? Ci sentiamo pronti a vivere questo tempo per indirizzarlo secondo una visione personalistica, cioè che sappia coniugare la dimensione della persona e l’innovazione tecnologica?

Oggi la principale sfida contro il Sistema Italia è rappresentata da COVID-19, un virus pericoloso che mostra lati oscuri, in quanto si presenta come virus sanitario, trasformandosi in virus economico e, potenzialmente, in virus europeo in cui l’Italia rischia di rimanere intrappolata dentro la narrazione dominante nel dibattito pubblico ed istituzionale europeo sulla dicotomia tra i Paesi del Nord e del Sud dell’Unione. La crisi del COVID-19 ha messo in luce le criticità presenti in diversi stati europei, compresa l’Italia. A cominciare dalla sua sanità pubblica la cui architettura ospedaliera ha mostrato notevoli carenze nell’affrontare una crisi epidemiologica che, secondo il parere di taluni scienziati e medici, si sarebbe potuta affrontare diversamente. Ad ogni modo, ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto particolare perché mentre per gli aspetti negativi dobbiamo sperare in governanti che abbiano il coraggio di avviare riforme strutturali, c’è un’altra parte del Belpaese che invece risponde bene all’emergenza.

Si potrebbe parlare di un’Italia a tre velocità: la prima è quella delle grandi industrie che dimostrano di governare COVID-19 facendone anzi un’occasione per velocizzare l’adeguamento dei parametri al Piano Nazionale Industria 4.0, all’innovazione tecnologica e gestionale e al processo di transizione energetica. È il caso di Snam, impegnata nel continuare a garantire la sicurezza energetica nazionale dalla sala di controllo a San Donato Milanese, che ospita il più grande centro di dispacciamento della rete del gas in Europa. In una recente intervista rilasciata ad Avvenire il suo Ad Marco Alverà, oltre ad assicurare il piano 2019-2023 da 6,5 miliardi di euro, spiega infatti che “avere energia a basso costo in questo momento potrebbe accelerare la transizione energetica: ad esempio, con un costo del gas più basso, potrebbe essere più conveniente introdurre a livello europeo una quota del 5% di idrogeno nelle reti.”[1] Ma la Snam non è l’unica realtà positiva del tessuto produttivo italiano emersa in questo momento difficile. A fianco c’è anche ENEL, l’industria che rappresenta il 38% dell’energia elettrica venduta nel Belpaese. Qualche giorno fa anche l’Amministratore delegato di ENEL, Francesco Starace, ha posto l’accento sugli aspetti positivi che COVID-19 sta introducendo in questo caso nello sviluppo delle fonti rinnovabili, dichiarando come “per molti governi ed economie il rilancio passerà proprio dal rinnovo in chiave ecologica dell’infrastruttura dell’energia. In Europa abbiamo il Green Deal che è una grande opportunità.”[2] La seconda velocità è rappresentata dallo Stato con le sue pubbliche amministrazioni (P.A.) che si trova in una posizione mediana. È l’immagine di una macchina statale ancora divisa tra settori avanzati e settori rimasti indietro alla digitalizzazione. In questo caso l’intervento del legislatore dovrà focalizzarsi sui temi dell’innovazione infrastrutturale e tecnologica delle modalità di lavoro e dello snellimento burocratico. La terza velocità, infine, è quella delle piccole e medie imprese (PMI), dell’artigianato, del professionista – di tutte le categorie che appartengono al mondo “partita I.V.A.” – che costituiscono il 96% della struttura produttiva e che rischiano però di venire travolte dall’ondata del virus.

La chiusura di molte micro, piccole e medie imprese – il rapporto CENSIS sulla lockdown economy parla, a riguardo, di una possibile chiusura intorno al 20%, cioè pari a circa un milione di PMI – dipenderà sicuramente dalla mancanza di liquidità che è diretta conseguenza del COVID-19, ma anche dal fatto che, se consideriamo i risultati ad oggi del Piano Nazionale Industria 4.0, solo il 14% delle imprese hanno raggiunto una reale capacità innovativa.[3] Il dato appena riportato ci è utile pure per una riflessione europea, cioè per capire non solo perché paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna riescano a far fronte alla lockdown economy, ma anche per comprendere il divario che da anni separa l’Italia dal resto dei paesi OCSE in materia di sviluppo economico. Se non comprendiamo, infatti, che è sulle scelte tecnologiche e organizzative delle imprese che si gioca la competitività internazionale nei mercati, allora l’economia italiana sarà destinata al tracollo. Il tessuto produttivo italiano, quindi, risulta ancora fortemente frammentato e molto indietro rispetto alle tempistiche prefissate, sebbene il Piano negli anni abbia consentito un incremento degli investimenti in Italia. Il Coronavirus, costringendo molte realtà a ripensare la propria attività, non potrebbe rappresentare forse il motore per un rilancio industriale del Paese? Torna dunque la riflessione sul tempo. Questo è il tempo del coraggio delle scelte, il tempo per fermarsi a riflettere dove siamo e dove vogliamo andare, il tempo per decidere quale tipo di città e di relazioni sociali – alla luce dello sviluppo economico, industriale e tecnologico raggiunto – vogliamo costruire ed abitare, oggi e domani, nello spazio nazionale ed europeo. La krísis tradotta è ‘scelta’, ‘decisione’: ribaltando un ragionamento comune, crisi non significa stato degenerativo e irreversibile delle cose, bensì misurarsi con i tempi difficili in cui l’uomo è chiamato a governare il fenomeno per fare il salto di qualità.

L’Italia, oggi, è chiamata a compiere il salto di qualità per cominciare a camminare ad un’unica velocità. Deve ripartire da un intervento riformistico che operi un rilancio del Sistema Paese più digitale, più verde e intelligente, attraverso un piano nazionale di investimenti sia pubblici sia privati, di reindustrializzazione e di un intervento nella sanità concepita come bene comune. Riservando sempre la massima attenzione alla sicurezza delle reti, vera sfida del XXI secolo. Comprendere l’importanza primaria dello sviluppo economico per l’Italia è ricordare anche quanto, con tono profetico, Servan-Schreiber affermò sul concetto moderno di sicurezza nazionale: “Dans le monde moderne la défense nationale, la sécurité, ce sera en verité le développment économique et scientifique”.[4] Se c’è una lezione che ci consegna questo tempo, dunque una è evidente: il COVID-19 ha rivelato come non possa esistere la stabilità e la sicurezza di uno stato senza un forte sistema economico integrato con una sanità pubblica strutturalmente consolidata e uniforme su tutta la rete nazionale. Un nuovo piano industriale Green, che abbia una visione antropocentrica, potrebbe consentire questa integrazione per ridare slancio all’Italia.

[1] Intervista. «Sicurezza energetica garantita». Snam procura ventilatori e mascherine: https://www.avvenire.it/economia/pagine/snam-covid-19;

[2] Covid-19. Starace: «Gestiamo l’emergenza, pronti ad accelerare sulle rinnovabili»: https://www.avvenire.it/economia/pagine/starace-cos-gestiamo-lemergenza-pronti-ad-accelerare-sulle-rinnovabili

[3] Industria 4.0, in Italia solo il 14% di aziende “real innovator”: https://www.corrierecomunicazioni.it/industria-4-0/industria-4-0-in-italia-solo-il-14-di-aziende-real-innovator/

[4] J.J. Servan-Schreiber, Le défi américain, Denoël, 1967

Il covid-19 sarà il colpo mortale inflitto alla globalizzazione?

di Nicolò Tozzi

 
Con la dichiarazione ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella quale il covid-19 viene definito una pandemia, la globalizzazione è stata posta in “quarantena”. Con il rientro dell’emergenza sanitaria, il futuro del fenomeno sarà un inevitabile ridimensionamento?
La decrescita e il ridimensionamento della globalizzazione, definita dall’Economist “slowbalisation”; era in realtà già iniziata a causa dei dazi e delle guerre commerciali tra Cina e Stati Uniti per la supremazia tecnologica ma con la diffusione del virus, che ha come focolaio iniziale la Cina che della globalizzazione è il vero motore, la situazione sta degenerando rapidamente mostrando la falla del modello economico occidentale basato sulle interconnessioni. Il progresso tecnologico, la digitalizzazione del mondo, la facilità nello spostamento di uomini e merci, tutto ciò che ha contribuito a ridurre le distanze rendendo il nostro mondo un villaggio globale ha al contempo portato rischi che adesso son ben visibili. La possibilità di spostarsi con facilità dai paesi asiatici ha aumentato i rischi della diffusione del covid-19, rendendo evidente l’equivalenza tra facilità, frequenza e numero di spostamenti, e il rischio di aumentare contagi. Come la storia ci insegna, anche in passato le epidemie sono riuscite a diffondersi in continenti lontani, basti pensare alla peste nera del 1348 il cui focolaio d’origine era presumibilmente situato nella regione del lago Bajkal in Asia centrale, ma con la differenza che il contagio avveniva con tempistiche diverse e frequenze minori. Normale se pensiamo, ad esempio, a quanto tempo in termini di mesi occorse a Colombo per attraversare l’Oceano Atlantico, mentre adesso si va da Roma a New York in circa nove ore. Ma oltre al danno ben visibile, il trasporto fisico del virus, si registrano danni indiretti che mostrano i limiti della globalizzazione che per anni è stata considerata simbolo della modernità e ritenuta processo irreversibile. L’economia liberista è fortemente messa in ginocchio dalla paura che sta paralizzando la circolazione di merci, persone e capitali con una prospettiva di recessione ancora più dura di quella del 2008 perché si fonda su una paura che non si limita alla comunità, pur estesissima, dei mercati finanziari. Ora la paura è davvero globalizzata perché corre attraverso la rete, i social e i media che ne aumentano la risonanza, provocando la paralisi delle forme dell’economia contemporanea.

 

La globalizzazione, quando l’emergenza rientrerà, sembra trovarsi di fronte ad un bivio: da una parte, una vera e propria deglobalizzazione dove, decrescita, protezionismo e il ritorno alle comunità chiuse sembrano essere effetti inevitabili. Dall’altra parte , come scritto nell’articolo “Far from making nations more insular, the coronavirus outbreak will transform globalisation”, invece di una deglobalizzazione infelice si ipotizza una società aperta in grado di garantire tutti gli strumenti capaci di combattere e ribaltare l’effetto economico del covid-19. Certo è che a prescindere dalla strada che prenderà la globalizzazione, la diffusione del virus, ci mette davanti all’idea, citando corsi e i ricorsi storici di Giovanni Battista Vico, che non sempre al futuro corrisponda il progresso e che la linearità portatrice di miglioramento forse non sia la giusta chiave di lettura del futuro che abbiamo davanti.

Prove tecniche di “unità nazionale”? Il Copasir al tempo del Covid-19

di Gian Marco Sperelli

Per tutelare e proteggere la sovranità politico-economica italiana ed europea, occorre un generale ripensamento del ruolo e delle competenze dello Stato di fronte all’attuale emergenza sanitaria. Per comprenderne sommariamente la portata storica, la Fondazione De Gasperi propone una breve analisi sul Copasir: un attore istituzionale sempre più al centro del dibattito politico in queste settimane così critiche per il Paese.

 

“Il concetto di strategico è una colossale sciocchezza. Se io guadagno facendo magliette e perdo costruendo astronavi, per me strategiche sono le magliette, non le astronavi. Eccezione è, forse la produzione destinata alla difesa.” Così Carlo Scognamiglio, allora Presidente della Commissione del Ministero del Tesoro per le privatizzazioni nel 1993, liquidò in poche battute il nesso tra la strategicità delle filiere produttive e la difesa dell’interesse nazionale. A distanza di oltre 25 anni quella analisi risulta a dir poco superficiale, soprattutto di fronte all’esplosione di una crisi economico-sanitaria senza precedenti come quella odierna. In un momento così drammatico, da più parti si sono levate voci a favore di un Esecutivo di unità nazionale o – quanto meno- di una cabina di regia condivisa tra forze di maggioranza e di opposizione, per affrontare al meglio una delle sfide più difficili della nostra parabola repubblicana e dell’intera storia dell’Unione Europea.

Allo stato attuale delle cose, l’unica istituzione, sia per la natura della sua composizione ( 5 deputati e 5 senatori in proporzione al numero dei gruppi parlamentari con una Presidenza spettante per legge ad un esponente dell’opposizione) che per le competenze di controllo su un ampio spettro di ambiti sulla sicurezza nazionale del nostro Paese, in grado di rappresentare un esempio operativo di una unità nazionale politica è probabilmente il Copasir ( Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica). A rafforzare tale ipotesi, vi è, inoltre, l’obbligo in seno al Copasir di assumere le decisioni se non tramite la modalità del consensus, rendendo di fatto necessario il raggiungimento di un’intesa bipartisan tra i componenti dell’organo di controllo.

L’attenzione del Comitato di Palazzo San Macuto, dopo le note vicende in merito alla sicurezza della nostra futura rete 5G in mano alla cinese Huawei, si è rivolta ad un allargamento del perimetro della normativa sul golden power, includendo tra le filiere industriali strategiche aziende nei settori farmaceutico ,bio-medico, fino ad arrivare a quello dell’energia e dei trasporti, senza dimenticare il comparto bancario-assicurativo, messo a dura prova qualche settimana fa dal crollo di Piazza Affari con ripercussioni sui livelli di capitalizzazione di importanti gruppi. Partendo dalla legislazione quadro dell’Ue ( Regolamento sullo screening degli investimenti esteri diretti nell’Unione Europea), l’Esecutivo, attraverso l’ultimo decreto-legge licenziato dal Consiglio dei Ministri, ha valutato – su richiesta dello stesso Copasir- positivamente la possibilità di estendere i poteri speciali di veto del Governo, in merito ad investimenti non soltanto extra-europei, ma anche intra-europei volti ad intaccare o indebolire la governance di aziende strategiche del nostro Paese. Il rischio è che dietro ad alcuni investitori europei oppure all’interno dell’Efta (Associazione europea del libero commercio) si nascondano mire predatorie di società o fondi sovrani extra-europei nei confronti di aziende italiane ed europee in grave difficoltà a seguito dell’emergenza da Covid-19.

Un altro nodo da sciogliere è, certamente, la ridefinizione del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti nei mesi successivi all’emergenza sanitaria. All’interno del Copasir, infatti, è stata rilanciata più volte l’eventualità di trasformare la Cdp in una sorta di fondo sovrano, in grado di sostenere e ricapitalizzare, anche con l’appoggio di investitori privati, aziende e filiere strategiche del nostro sistema produttivo ed industriale, sulla falsariga di quanto avviene in Germania con la Banca dello sviluppo tedesca (KWF). Tale ipotesi appare non di facile realizzazione, per via della presenza delle fondazioni bancarie nella governance della Cdp. Sempre in questa direzione, un’altra soluzione possibile potrebbe giungere da una eventuale potenziamento di un ente come Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), essendo una società per azioni partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, tale ragionamento non dovrebbe condurci all’ennesima resurrezione acritica dell’Iri, perché a distanza di anni hanno ancora un grande significato in questo dibattito le parole dell’ex liquidatore dell’Efim (Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere) Predieri: “Non hanno senso i gruppi in cui si fa di tutto, dalle ostriche in scatola ai carri armati”. Un vecchio monito ancora utile ai giorni nostri per andare, forse, oltre l’emergenza sanitaria contingente. Magari anche oltre la cronica crisi della politica italiana ed europea.

Il virus e la crisi della civiltà industriale: perché i Medici devono salvarci dai moderni Savonarola

 

di Luca Bellardini (Associazione Guido Carli)

 

La civiltà industriale era in pericolo – non solo in Europa – già da prima che si diffondesse il Covid-19. Le recenti misure di limitazione alle attività produttive sono soltanto l’ultimo degli esempi. È decisamente inopportuno che chi scrive, del tutto ignorante in campo medico, ne discuta l’adeguatezza sul piano sanitario. Eppure, alcune considerazioni di ordine economico possono – forse devono – essere tracciate. Soprattutto,  le misure di oggi andrebbero analizzate guardando a una storia nobile che abbiamo cominciato a calpestare: l’epopea, appunto, della rivoluzione industriale.

 

Partiamo da quello cui stiamo assistendo in questi giorni, perfettamente rappresentato nella stessa pagina di giornale (Corriere della sera di sabato 4 aprile) da Angelo Panebianco e Pierluigi Battista. Da un lato bisogna fare i conti con l’oggettiva debolezza in materia economica della classe politica italiana nel suo complesso, peraltro dominata da sentimenti ostili al libero mercato e in alcuni casi favorevoli alla c.d. «decrescita»: spesso alberganti in coloro che non hanno mai messo piede in una fabbrica, né hanno idea di come funzioni una filiera e si produca ricchezza. Questa forma mentis induce una visione “distribuzionista” dell’economia: come se l’output fosse disponibile in una quantità prefissata e il compito della politica fosse di decidere come assegnarne le porzioni; o come se – peggio – le autorità fossero legittimate a decidere le dimensioni della torta e l’identità dei pasticcieri. Inoltre, sta prendendo sempre più piede un’idea “millenaristica” dell’emergenza legata al virus: quasi che l’Occidente dovesse espiare la colpa di essere ricco e avanzato, innamorato dei viaggi e delle feste, desideroso di non fermarsi mai. Ad ogni catastrofe che distorca l’ordinato corso delle nostre vite libere – sia essa un terremoto o un attacco terroristico – spuntano fuori questi «apocalittici», come li avrebbe definiti Umberto Eco. La storia ci insegna che costoro possono anche avere successo, se si innestano su di un substrato sociale caratterizzato da un notevole livello di sviluppo: così accadde a fra’ Girolamo Savonarola, il predicatore pauperista che a Firenze interruppe la signoria medicea godendo – almeno inizialmente – di amplissimo consenso. Ma la storia ci insegna pure che nel lungo periodo prevalgono gli «integrati»: coloro che appoggiano il cambiamento e decidono di governarlo, anziché opporvisi per distruggerlo. La vita precedente deve tornare, come a Firenze tornarono i Medici.

 

La rivoluzione industriale, invece, ha impresso nella società europea una visione “creazionista” del progresso materiale e anche della conoscenza. Quanto già c’era poteva essere ampliato o modificato; quanto ancora non c’era poteva essere creato: questa la convinzione figlia dei fermenti scientifici del XVII secolo e delle dottrine illuministe. Oggi gli «apocalittici» fanno molta confusione tra individualismo ed egoismo: li sovrappongono, ignorando che solo il secondo è un vizio e che – anzi – la virtù del primo si è storicamente affermata in un’epoca in cui le relazioni sociali tra i singoli sono molto cresciute. Lo osserva con grande acume Thomas S. Ashton, lo storico inglese che per primo mise in discussione le critiche moraleggianti di cui era investita la grande trasformazione economica (1760-1830, nella sua periodizzazione): in quegli anni presero piede i club in Inghilterra e i caffè nel resto d’Europa, cioè i luoghi nei quali la borghesia produttiva si confrontava apertamente, facendo nascere tante idee imprenditoriali e – soprattutto – una nuova classe intellettuale slegata dall’aristocrazia (quest’ultima, invece, si crogiolava spesso nell’ozio deridendo il lavoro manuale).

 

Oggi, come sappiamo, bar e ristoranti sono chiusi. E prima, invece? Erano affollati, ma in pochi attribuivano loro la funzione che ebbero in quell’epoca. Sembra inevitabile che, dopo questa crisi, il virtuale si diffonda sempre più: per le riunioni di lavoro, per gli incontri sentimentali (c’è un problema demografico!), anche per i semplici scambi di idee. La prospettiva di una connettività diffusa ma fondata “orizzontalmente” sulla quantità – anziché sulla profondità “verticale”, come nella prima fase della rivoluzione informatica – dovrebbe quantomeno instillarci dei dubbi sui rischi che pur si celano dietro le «magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione.

 

Poi c’è il tema delle fabbriche come luoghi di produzione. Quanti stabilimenti hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, anche prima della recessione del 2008-2009? Francamente troppi perché questo discenda solo dal fisiologico spostamento dell’economia dal secondario al terziario, o magari dall’inquinamento alla sostenibilità ambientale (qualcosa di auspicabile, è ovvio). Anzi, in molti Paesi europei ha fatto scalpore solo la decisione di limitare i business più antistorici e forieri di esternalità negative, come l’estrazione del carbone: si pensi agli scioperi selvaggi fronteggiati per quasi un anno dal governo di Margaret Thatcher. Silenzio assoluto, invece, sulla disinvoltura con la quale molti governi hanno assoggettato interi settori a una regolazione asfissiante: a cominciare da quello creditizio e dei servizi d’investimento, che – va da sé – ha un ruolo imprescindibile nel finanziamento delle attività capital-intensive. Non si tratta soltanto delle norme ambientali: risolvere il trade-off tra lavoro e salute è quasi impossibile, come ci ricorda la vicenda dell’Ilva di Taranto. Questo, purtroppo, è il lato oscuro dell’aver compreso che il pianeta ci è solo dato in prestito. Ma se guardiamo allo scambio anziché alla produzione, notiamo che il protezionismo è tornato un’opzione praticabile; e oggi, nonostante il revival dei dazi, si manifesta soprattutto nelle barriere qualitative che impediscono ancora a troppi prodotti di avere standard compatibili tra i vari ordinamenti, anche all’interno del Mercato unico europeo (il principio Cassis de Dijon e il marchio CE dovrebbero ovviare a questo, ma la realtà è spesso diversa).

 

Al contrario, quella che vediamo emergere è la c.d. sharing economy. Già il nome esprime l’allentamento di quei diritti di proprietà che avevano reso possibile il miracolo produttivo del tardo Settecento: si pensi alle enclosures fondiarie inglesi, che – ponendo fine a un sistema quasi sempre dotato di un assetto collettivistico – consentirono l’accumulazione del capitale e, dunque, la destinazione di ingenti risorse agli investimenti industriali. Peraltro, all’interno della contemporanea «quarta rivoluzione industriale», la sharing economy sancisce la preminenza del digitale sull’automazione: la diffusione dei robot che immaginavano i nostri nonni è ben lungi dall’essersi realizzata, come se una mentalità neo-luddista avesse preventivamente sconsigliato di spingersi troppo in là. La celebre profezia degli anni Sessanta sui telefoni («nel Duemila faranno tutto loro») si è invece realizzata.

 

Eppure, oggi non osserviamo significativi incrementi di produttività; anzi, addirittura vediamo gli individui più distanti e l’etica del capitalismo indebolita: rispetto all’epoca descritta da Ashton, tutti rischiano meno. I capitani d’industria si sentono protetti da una concezione della crisi d’impresa che è sempre più favorevole alla conservazione del compendio aziendale, allentando così quello spirito di conquista dell’ignoto che tanto piaceva sia agli empiristi scozzesi (tra i primi a sistematizzare il liberalismo economico) sia, più tardi, a Schumpeter con la sua «distruzione creatrice». I consumatori, dal canto loro, si sentono particolarmente tutelati da un assetto giuridico che è ormai invariabilmente dalla loro parte: vale per i beni materiali come per i servizi, a partire da quelli finanziari. E una minore “propensione al rischio”, prima di abbattere il livello degli investimenti, infiacchisce l’attività intellettuale: quella derivante dalla messa a frutto del “capitale umano”. Per lungo tempo la ricerca tecnica e scientifica si è potuta esprimere senza vincoli (basti pensare al regime amministrativo speciale di cui hanno sempre goduto le università), garantendo un’adeguata remunerazione a chi la promuovesse; oggi, invece, deve fare i conti con mille pastoie burocratiche. E se lo shock negativo ai trasporti cagionato dal virus sarà persistente, lo scenario non potrà che peggiorare.

 

In tutto questo, che cosa può fare l’Europa? Innanzitutto, un passo indietro sull’implicito favor accordato negli ultimi anni al digitale rispetto all’economia che potremmo definire “sonante” (il termine richiama l’ambito monetario: non è un caso). La soluzione non è mai fiscale: sono intrinsecamente distorsivi – per esempio – tanto la web tax quanto il limite agli sconti sui libri, pensato per arginare lo strapotere della grande distribuzione online rispetto alle librerie fisiche e magari indipendenti. Piuttosto, bisognerebbe aggiornare un single rulebook commerciale che è stato concepito nell’era analogica; e questo vale anche per la regolazione del c.d. FinTech. I colossi del Web riescono a operare su base transfrontaliera con grande efficienza e ottima redditività: più che limitare loro, andrebbero tagliati quei «lacci e lacciuoli» che imbrigliano tante piccole e medie imprese.

 

Prendiamo il tema della concorrenza: il rigidissimo ordinamento antitrust americano nacque espressamente per l’economia reale, quando – alla fine dell’Ottocento, in piena «seconda rivoluzione industriale» – era diventato insostenibile lo strapotere di alcuni conglomerati manifatturieri, in particolare nei settori petrolifero e siderurgico. Per lungo tempo l’Europa ha preferito un approccio più morbido, in grado appunto di favorire il decollo industriale: da alcuni anni, invece, la Commissione si è mostrata particolarmente attiva nella difesa della concorrenza, e non solo contro le grandi società in cerca di acquisizioni. Anzi, ha addirittura agito con notevole discrezionalità, mostrando di anteporre gli interessi particolari degli Stati a una visione chiara e unitaria del governo dell’economia. Si guardi alla maniera decisamente “elastica” in cui viene interpretata la disciplina degli aiuti di Stato: il consorzio Airbus ha potuto ricevere finanziamenti diretti dai governi francese e tedesco, mentre all’italiana Tercas è stata proibita un’operazione sostanzialmente di mercato (prima che, negli ultimi mesi, tornasse in auge l’intervento pubblico per ricapitalizzare le banche).

 

Inoltre, lo sviluppo industriale europeo trova un limite anche nelle regole di finanza pubblica, là dove non viene fatta alcuna distinzione fra la spesa pubblica corrente e quella per investimenti. Col risultato che i governi sono sì meno prodighi di un tempo (bene!), ma impiegano peggio i loro denari. Adottare una regola contabile che valorizzi le finalità della spesa – c.d. golden rule – è decisamente la strada, soprattutto in un contesto nel quale sembra finalmente possibile l’emissione di un titolo di debito europeo – c.d. solidarity bond o coronabond – per fronteggiare la recessione da Covid-19 con investimenti mirati, dalle infrastrutture alla sanità. Ne ha parlato qui, proprio su questo sito, Federico Carli.

 

Salvare la rivoluzione industriale significa salvare la globalizzazione. Evitare che la prima venga calpestata significa fare in modo che la seconda continui a garantire il progresso, proprio come negli anni 1760-1830 e anche in seguito, durante la Belle Époque tristemente spezzata dalla Grande Guerra. D’altronde, non è azzardato accostare il ventennio compreso tra il crollo del Muro di Berlino e quello di Lehman Brothers (1989-2008) alla signoria di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. Non è neppure sbagliato stabilire un parallelo ideale fra il declino economico degli ultimi anni e il rapido passaggio di Piero il Fatuo al vertice di Firenze. A questo punto, però, la tirannia del Savonarola corrisponderebbe al periodo attuale: caratterizzato dai movimenti spesso definiti “populisti”, di cui abbiamo osservato il climax nel 2016 con le vittorie dei sostenitori della Brexit e di Donald Trump. Gli «apocalittici» – che identificano nella pandemia una punizione divina, puntando sulla decrescita anziché sugli investimenti e la produttività – si inserirebbero perfettamente in questo paradigma.

 

La Comunità europea nacque dal carbone e dall’acciaio; oggi dovrebbe muoversi nella direzione di una green economy che produca sviluppo; ma di fatto è immobile. Ridare slancio al «sogno europeo» – fondato sulle opportunità per i cittadini e le imprese – è ormai un imperativo categorico cui né le istituzioni di Bruxelles né gli Stati membri dovrebbero sottrarsi, nemmeno se in mezzo c’è il «nemico invisibile». Lo dobbiamo anche a chi – dopo una vita di sacrifici, magari dopo aver visto il «miracolo economico» del dopoguerra – in questi giorni se ne è andato tra le macerie di un’Europa che ha smarrito la sua vocazione industriale, dunque la sua anima.