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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Le sfide del Green New Deal: il caso ENI strategy come esempio vincente di transizione energetica

Di Emanuele Lorenzetti

“La bolla del carbonio è la più grande bolla economica della storia”.[1] Sono le parole di Jeremy Rifkin, eminente accademico e presidente della Foundation on Economic Trends di Washington, il quale pone serie riflessioni sul momento cruciale che stiamo vivendo in tema di Green Economy e le sfide connesse che la comunità internazionale è chiamata ad affrontare.

La società post-industriale pone serie questioni sul futuro dell’umanità in rapporto con l’ambiente. È il tempo della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, cioè del passaggio da un’economia di mercato fondamentalmente basata su energie non rinnovabili (gas naturale e combustibili fossili) a quelle rinnovabili, come ad esempio l’energia eolica e solare.

È un tema che rappresenta un punto di svolta e come tale è oggi presente in ogni tavolo di politica internazionale sia degli stati che delle organizzazioni internazionali (OI). L’Unione Europea particolare è alla testa di questo processo verde e intelligente come si può notare dall’European Green Deal lanciato l’11 dicembre scorso. Un processo di radicale cambiamento quello Green che è sì di pensiero, ma anche di tipo infrastrutturale.

Ogni grande rivoluzione nella storia, infatti, ha portato una trasformazione del sistema organizzativo dell’industria e della città. Mentre la prima e la seconda rivoluzione industriale hanno insistito su di un’infrastruttura centralizzata, quella dei nostri tempi invece introduce il concetto di decentralizzazione. È un tema caro sempre a Rifkin, il quale parla per l’appunto di “power to the people” che avviene a seguito del processo di democratizzazione del mercato che la terza rivoluzione industriale porterebbe con sé.

Un’area molto importante interessata al cambiamento di paradigma è il campo dell’energia. Da un sistema basato su industrie che trasformano materie prime per realizzare prodotti si richiederebbe il passaggio ad un sistema economico-produttivo intelligente chiamato “internet dell’energia”. La bolla di carbonio risulterebbe infatti dall’emergere degli stranded assests, cioè di “beni immobilizzati” come i combustibili fossili che rimarranno nel sottosuolo a causa di un forte calo della domanda a favore delle rinnovabili. Il calo della domanda sarebbe favorito dall’emergere di un generale convogliamento delle industrie verso le energie rinnovabili, eoliche e solari, a causa dei minori costi di produzione che queste ultime rappresenterebbero.

L’Italia è uno dei Paesi europei più impegnati in questo processo di transazione carbonica. L’ENI, come emerge dalla sua recente strategy di lungo termine presentata il 28 febbraio, annuncia una diminuzione di emissioni dirette e indirette all’80 % entro il 2050. Così facendo l’italiana ENI si presenterebbe in linea con le tempistiche prefissate, anzi le supererebbe, disegnando la sua evoluzione nei prossimi trent’anni con l’obiettivo ultimo di divenire uno dei principali player actors nel sistema energetico internazionale. Con le parole del suo Amministratore Delegato Claudio Descalzi, il piano strategico di lungo termine entro il 2050 consentirebbe all’ENI “di essere un leader nel mercato a cui fornirà prodotti energetici fortemente decarbonizzati contribuendo attivamente al processo di transizione energetica.”[2] È un esempio vincente di come gli stati e le Organizzazioni Internazionali (OI) componenti la comunità internazionale possano e debbano impegnarsi per operare un piano economico di investimento nazionale, internazionale e mondiale che consenta un’uniformità di azione sul cammino comune del Green New Deal.

[1] J. Rifkin, Un Green New Deal globale, Mondadori, 2019

[2] Cfr. il Piano Strategico ENI di lungo termine entro il 2050 dal sito www.eni.com https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2020/02/piano-strategico-di-lungo-termine-al-2050-e-piano-d-azione-2020-2023.html

Il nodo energetico del Mediterraneo orientale

Di Gabriele Mele

A livello storico e geopolitico l’Italia ha sempre avuto un interesse prevalente attorno alle questioni energetiche di rilievo nel “mare nostrum”, come ricordava lo stesso Giulio Andreotti:”  I nostri vicini nel Mediterraneo non li scegliamo”. Nell’ottobre del 2019, le mire turche sullo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio nel mediterraneo orientale hanno riacceso i riflettori della politica internazionale e della stampa su questo quadrante periferico d’Europa.

Nello specifico la nave turca Yavuz, la quale era stata scortata congiuntamente da due navi da guerra ed un sottomarino, aveva iniziato le sue attività di esplorazione nel “pozzo di Guzelyurt-1”, andando ad intaccare una zona di specifica competenza della Repubblica cipriota, che, con il supporto della comunità internazionale, asseriva che riguardasse la sua Zona economica esclusiva (Zee). Coinvolte direttamente nell’affaire, vi erano anche l’italiana Eni e la francese Total, avendo quest’ultime ottenuto una concessione da parte del governo di Cipro, per portare avanti le attività di esplorazione ed estrazione in tale hub.

Il governo di Ankara sosteneva che fosse pieno diritto della Repubblica turca di Cipro del Nord (TRNC) rivendicare come proprie tali risorse[1], alzando il livello della tensione nel Mediterraneo orientale. Inoltre un’ulteriore questione fondamentale in questo “Risiko energetico”, un ruolo centrale è giocato dalla questione del Tap (Trans Adriatic Pipeline). Tale metanodotto, con un investimento indicizzato di 4,5 miliardi, dovrebbe convogliare in Europa il gas estratto in Azerbaigian dai giacimenti sotto il fondo del mar Caspio, favorendo così l’inizio di un processo di “emancipazione” energetica dell’Europa dalla Russia di Putin.

Alla luce di questa rapida panoramica, l’Italia è chiamata ancora una volta a rivolgere la propria attenzione al Mediterraneo, per una naturale propensione geografica e strategica, secondo quanto asserito da Aldo Moro: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”.

 

[1]  (La Repubblica Turca di Cipro del Nord è una repubblica auto-proclamata e non riconosciuta dalla comunità internazionale che si estende nella zona settentrionale dell’isola di Cipro dal 1983, nelle zone occupate e controllate dall’esercito turco dopo l’invasione turca di Cipro del 1974).

Green Economy: il potenziale dell’economia circolare. Parla Daniele Corsini

di Ludovica Pietrantonio

L’adozione della green economy auspica al passaggio a una società equa e prospera, capace di reagire alle sfide legate ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale migliorando la qualità della vita delle generazioni presenti e future. Al fine di valutare le potenzialità di tale sistema economico, non solo per l’economia nazionale, ma anche dell’Unione Europea, si è indagato uno dei suoi principali strumenti applicativi, rappresentato dall’economia circolare, con il Dott. Daniele Corsini, ex Direttore in Bankitalia e co-fondatore della piattaforma editoriale www.Economia&Finanza Verde.it. 

Tra gli strumenti più idonei ad attuare il modello della green economy si rinvengono meccanismi tipici dell’economia circolare che contribuiscono a modernizzare il mercato e a valorizzarne potenziali opportunità di sviluppo a livello europeo e mondiale. Quali, a suo avviso, gli obiettivi perseguibili?

Ai fini di una più completa analisi dell’economia circolare, è necessario considerare come tale concetto sia strettamente connesso a quello di green economy, da intendere come modello economico teso al soddisfacimento di aspetti attinenti al benessere sociale e alla preservazione delle risorse.L’economia circolare porta indubbiamente degli effetti benefici, sia per il governo delle risorse, mediante un loro utilizzo più razionale, sia per i cicli produttivi, avendo come effetto quello di gestire meglio le risorse produzionali attraverso il risparmio delle stesse, l’utilizzo di fonti alternative e di reingegnerizzazione dei processi produttivi, con l’obiettivo non più dello smaltimento del rifiuto, ma della sua gestione, riuso e riutilizzo nel circuito.

Da ciò si intuisce la pervasività di tale approccio poiché va a toccare tutto quello che in potenza l’uomo può produrre, ha prodotto o produrrà con l’idea che fin dalla sua progettazione il bene viene ideato non soltanto per le sue finalità (l’utilizzo da parte del consumatore), ma soprattutto dal punto di vista della sua riutilizzabilità e della sua rimessa in circolazione.

Ne deriva come questo sistema produttivo porti con sé degli aspetti di natura tecnica ed economica importanti avendo la ricerca tecnico-scientifica un ruolo fondamentale: ricerca e innovazione diventano dunque l’essenza per realizzare l’economia circolare poiché tutto è finalizzato all’obiettivo della ricircolazione. Tuttavia è necessario considerare come questo approccio si presenti per la sua innovatività più come uno scenario che come un percorso misurabile in obiettivi operativi.

 Sempre in un’ottica di implementazione dell’economia circolare, per conseguirne gli obiettivi è necessaria la piena mobilitazione dell’industria, la cui trasformazione risulta spesso troppo a rilento. Come accelerarla?

Questa è una domanda difficile poiché effettivamente dobbiamo ascoltare dei ritmi che ancora non sono soddisfacenti in questo sviluppo. Inoltre, è da tenere in considerazione come i concetti sottesi di riciclo e di utilizzo abbiano rovesciato il paradigma dell’economia tradizionale, imperante dal capitalismo della fine del settecento fino ad oggi, dettata dalla massimizzazione del profitto. Quindi in teoria è qualcosa di estremamente esteso poiché tocca il concetto dell’organizzazione della vita economica non più legata al solo parametro quantitativo, bensì bisognosa di trovare dei meccanismi di sua reinvenzione.

Concentrandosi in primo luogo sugli operatori, la velocità dipende da come è formata una struttura economica, tant’è che è necessario fare riferimento alla piccola e media impresa, segmento particolarmente diffuso e numeroso all’interno dell’economia italiana, il quale può diventare fattore di resistenza. Infatti, se per l’impresa medio grande questo approccio può avere una velocità maggiore, essendo maggiori le capacità di produzione e di progettazione, nella piccola e media impresa questa attività dovrà essere incentivata in maniera più massiccia.

Anche in riferimento all’economia digitale, strettamente connessa alla capacità di sfruttare l’informazione sulla produzione, l’Italia non è un Paese all’avanguardia e quindi tutta la spinta di Industria 4.0 di facilitare l’introduzione di sistemi digitalizzate e intelligenza artificiale rappresenta uno sforzo maggiore rispetto ad altri Paesi.

Un ulteriore elemento consente alcune riflessioni dal punto di vista finanziario, in quanto il tema della finanza verde è oggi messo particolarmente in risalto dalle banche centrali europee, le quali leggono un’economia che sfrutta in eccesso le risorse del pianeta come fattore di rischio, andando ad incidere il rapporto di finanziamento.

A livello microeconomico, è opportuno richiamare alcune recenti riflessioni del governatore della Banca d’Italia, il quale si è soffermato proprio sull’incidenza degli indicatori ambientali (emissioni CO2), sociali (percentuale di donne impiegate e ricoprenti ruoli manageriali) e di governance (presenza di donne in cda) nel guidare i singoli investimenti, comportando il favore per titoli sostenibili.

Al riguardo, ricordo come l’Italia sia stato il primo Paese ad introdurre nell’ordinamento giuridico il concetto di “società benefit”, ovvero società che inseriscono nel loro statuto i criteri appena ricordati rinunciando ad una massimizzazione del profitto con l’obiettivo di contribuire ad un’economia più sostenibile.

 Da sfida pressante a opportunità unica: qual è il ruolo dell’Unione Europea in un cambiamento che non può arrestarsi ai confini nazionali e che deve trovare riscontro nelle politiche dei singoli Stati? Di quale risorse dispone per affermarsi come leader mondiale?

L’Europa ha fatto proprio un piano di azione sull’economia circolare che punta sui concetti fondamentali di riprogettazione dei prodotti, riutilizzo e riciclo e in cui sono coinvolti diversi operatori. Al riguardo, si è assistito alla nascita di nuovi soggetti istituzionali come attori, mi riferisco alla BCE a livello europeo e alle banche centrali nazionali, i quali hanno aperto un filone rivolto al tema dell’economia circolare sensibile al degrado climatico e ambientale con politiche precise. È necessario dunque che si crei una sintesi tra i soggetti di mercato e i soggetti istituzionali.

Andando al piano del mercato e della finanza uno strumento è rappresentato dai bond verdi, pari a un valore di circa 500 miliardi a livello mondiale di cui l’Europa possiede più del 50%, rapportandosi in tal modo in maniera decisamente avanzata al riguardo. Esistono, tuttavia, altri tipi di bond legati alla sostenibilità e soprattutto legati al credito, per esempio i “sustainability bonds”, ideati per consentire credito da parte delle banche a soggetti che hanno nella propria struttura elementi di sostenibilità. Sono prodotti destinati ai agli investitori istituzionali, professionali e specializzati, non destinati al grande pubblico, poiché per questi prodotti i profili di rischio non sono ancora valutabili.

In riferimento alle politiche da adottare, l’aspetto della ricerca e dello sviluppo precedentemente sottolineato diventa fondamentale come campo di applicazione di incentivi pubblici di natura o fiscale o di contributo allo sviluppo di questa attività.

Accanto a questo aspetto del tutto rilevante, è necessario considerarne uno ulteriore di natura sociale, ovvero di considerare l’economia circolare come fonte di nuovi posti di lavoro. Essa va infatti vista come sostanzialmente labour intensive, ovvero attività ad alto impiego di lavoro materiale, differentemente dall’economia lineare in cui il progresso tecnologico è sempre stato considerato come qualcosa che spenda forza lavoro, facilmente sostituibile con macchine.

Attorno a questi concetti sono costruiti i documenti di policy oggi presenti a livello globale rappresentati non solo dal piano di azione dell’economia circolare della Commissione Europea e, conseguentemente dalle politiche nazionali, ma anche l’Agenda dell’ONU, la quale fissa gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ed Economia Circolare al 2030.

La nuova strategia di crescita rappresentata dalla green economy mira a trasformare la società dotandola di un’economia moderna, efficace sotto il profilo delle risorse e competitiva. Tuttavia è necessario che la transizione verso tale modello sia non solo innovativa e a impatto zero, ma allo stesso tempo giusta e inclusiva per far sì che i cambiamenti sostanziali derivanti non comportino disuguaglianze e squilibri sociali. In che modo guidare questa innovazione verso un esito positivo?

Nei fondamenti della green economy i motori sottostanti l’adozione di questo modello e, dunque, pilastri dello stesso sono rappresentati anche dalla disparità sociale e dagli squilibri di distribuzione del reddito eccessivamente scompensante, entrambe cause di esclusione sociale.

Attraverso l’adozione del modello green economy si devono quindi ritrovare anche degli obiettivi di inclusione, i quali richiamano parte della logica sottostante le società benefit antecedentemente esaminata. Infatti, al riguardo si sostiene come i portatori di interesse (gli stakeholders) non siano soltanto quelli tradizionali, cioè gli azionisti, i fornitori, i dipendenti, ma anche i soggetti rientranti nel mondo del lavoro.

Da un punto di vista finanziario, la crisi e altri fenomeni di tali dimensioni hanno escluso al momento una fetta di cittadini dai servizi più basici. L’Unione Europea con le sue direttive è intervenuta su questo bisogno di inclusione per parificare questi soggetti da un punto di vista di diritti di base.

Dunque dal punto di vista della green economy il discorso si riflette in maggiori occasioni di lavoro e maggiore attenzione ai territori più degradati. È infatti da mettere in conto anche un probabile cambio di concezione del lavoro in cui prevarranno i lavori a distanza, attualmente già esistenti, ma esempi di nicchia.

In sostanza, la tutela ambientale rappresenta un fattore di inclusività di sfondo, da considerare come occasione preziosa di cambiamento di paradigma non soltanto a livello economico-finanziario, ma anche di natura sociale.

Green economy: uno sguardo sulle prospettive future

Di Francesco De Santis

All’interno dei ragionamenti che la Fondazione De Gasperi sta portando avanti nella rubrica “Opinio Lab” non poteva mancare un approfondimento su un tema “caldo” del dibattito pubblico, quello della green economy. Per avere un approccio lontano da posizioni ideologiche abbiamo ritenuto opportuno chiedere informazioni a degli importanti studiosi che, con le loro parole, ci potranno permettere di muovere in una cornice che orienti i ragionamenti sul tema con diversi punti di vista. Ne abbiamo discusso con il prof. Emilio Colombo, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ci ha espresso le sue idee in questa intervista.

La “green economy” è al centro della scena internazionale. Porre al centro non solamente l’uomo ma il suo rapporto con le altre specie viventi è una sfida che tocca diversi settori. Questa sfida può essere l’occasione giusta per mettere in movimento l’Italia, l’Europa e il mondo in nome di un futuro migliore in cui si riescano a coniugare qualità, bellezza, efficienza e storia delle singole realtà come rilanciato anche da Papà Francesco con l’enciclica Laudato Si?

È indubbio come quella della green economy sia diventata una realtà sempre più consolidata nel panorama odierno. Da questo punto di vista, quindi, l’idea di un futuro migliore è certamente lodevole, tuttavia è fondamentale prendere coscienza del fatto che, per fare in modo che il tutto non rimanga solo su “carta”, si deve favorire e sviluppare un differente approccio che inverta la situazione che si è venuta a creare fino ad ora. Non solamente in relazione al rispetto che l’uomo, centrale in questi ragionamenti, deve avere nei confronti della natura e dell’ambiente, come ha giustamente rimarcato Papa Francesco, ma anche considerando il fatto che è proprio l’uomo che attraverso il proprio lavoro e attraverso il proprio coinvolgimento con la realtà è in grado di trasformare in senso positivo o negativo la realtà che lo circonda. La persona umana che trasforma il creato ma al tempo stesso lo preserva riconoscendone il dono, può essere dunque il vero protagonista della transizione ecologica. La green economy può essere, quindi, un volano per un futuro migliore ma la presa di coscienza non può prescindere dal tema educativo e culturale che, toccando sia le vecchie sia le nuove generazioni, deve essere riaffermato come elemento cardine per permettere lo sviluppo di un nuovo modo di intendere lo “stare al mondo”. Perché non può essere una “semplice” scelta politica ad incanalare il discorso nel segno del rispetto ambientale.

Il climatismo ufficiale, però, sembra essersi infilato in una trappola chiamata “2050”. È davvero quella, la data di vita o di morte, per realizzare le “zero emissioni”, ovvero la decarbonizzazione totale? Utopia, sogno o sfida?

Affidarsi ad una data che segni il punto di svolta definitivo per un tema così complesso non è semplice. Senza dubbio occorre affidarsi agli esperti del settore per dare un’idea concreta di quello che potrebbe accadere. Nonostante i pareri scientifici non siano univoci, la scienza appare concorde nell’affermare che il riscaldamento globale sia una realtà oramai acclarata e che in questo il contributo umano è decisivo. L’inversione di tendenza, quindi, deve essere realmente praticata e deve partire da noi. In questo processo la tecnologia, insieme alla già citata educazione, deve giocare un ruolo di primo piano. Proprio la tecnologia deve essere tenuta in grande considerazione per evitare di rincorrere delle utopie e poter, quindi, orientare il discorso sul grande tema del rispetto ambientale coniugato con quello di uno sviluppo sostenibile. La tecnologia può essere proprio parte della soluzione favorendo lo sviluppo di processi e innovazioni che conducano a un reale risparmio energetico e a una sostenibilità ambientale diffusa. La tecnologia è quindi un potente alleato anziché un nemico da attaccare
La lotta al cambiamento climatico, e più in generale il rispetto ambientale, è diventata una lotta di classe globale tra ricchi e paesi aspiranti ricchi? Può influenzare, se non lo ha già fatto, il dibattito politico ed orientare politiche economiche (vedasi “Plastic Tax” in Italia rimandata al prossimo anno)?

L’assunto di base che deve muovere i nostri ragionamenti è che le politiche “verdi” allo stato attuale sono spesso più costose delle politiche “maggiormente inquinanti”. Le fonti energetiche fossili ad esempio hanno il vantaggio di offrire un rendita elevata a costi relativamente bassi. Dunque le politiche ambientali si trasformano inevitabilmente in una “lotta di classe globale” dato che i paesi ricchi possono permettersi di sostenerne il costo mentre i paesi più poveri no. D’altro canto gli effetti delle politiche ambientali non sono circoscritti al confine nazionale: se un paese inquina le conseguenze ricadono su tutti. Quindi le politiche ambientali richiedono necessariamente un coordinamento su larga scala e una maggiore responsabilità da parte dei paesi avanzati che sono quelli che possono permettersi di sostenere maggiormente i costi della transizione verso l’economia. In tutto questo la posizione degli USA, che sembrano avere sposato la linea “negazionista” del riscaldamento globale, sorprende e appare poco comprensibile. Proprio perché gli USA, data la loro posizione nel panorama economico e politico internazionale, dovrebbero esercitare un ruolo di leadership in questo ambito anziché quello di freno di tutto il processo. Per quanto concerne le politiche è chiaro che sarebbe auspicabile ridurre drasticamente il consumo di plastica ma occorre sempre considerare i due aspetti illustrati precedentemente. Da una parte il tema educativo dall’altro quello economico legato ai costi di implementazione delle politiche. In altri termini possiamo tassare l’utilizzo della plastica ma questa politica sarà realmente efficace nella misura in cui le persone siano consapevoli dell’effetto delle proprie scelte di consumo sull’ambiente e nella misura in cui la tassa sia sostenibile e percepita come realmente in grado di dare un contributo fattivo.

Il rapporto generazionale tra le piazze di “Greta” e i gruppi dirigenti nel panorama mondiale non va perso ma si deve riaffermare l’esigenza di parlare anche di “politiche verosimili”. Il passaggio da economia lineare ad economica riciclabile può avverarsi senza includere l’industria?
Sono due temi molto importanti. Il rapporto inter generazionale è sicuramente molto importate e va sottolineato con grande chiarezza che è stato fatto troppo poco per i giovani. In questo non aiuta una narrazione un pò semplicistica del fenomeno Greta, inquadrata come solamente una “adolescente”.
Allo stesso modo non si può credere di sviluppare una green economy senza in tenere in considerazione l’industria, sarebbe certamente utopistico. Il mondo che evolve impone di parlare di intelligenza artificiale, di nuove tecnologia che fanno parte del mondo industriale. Quindi avrebbe dell’inverosimile pensare di sviluppare un’economia verde senza tenere dentro la componente “industriale”. La gradualità del passaggio a un’economia sostenibile, e quindi al realismo di una riduzione graduale delle emissioni carbonifere, non può essere sottostimata ma, anzi, deve essere la risposta corretta al tema. Ad esempio l’utilizzo dei motori alimentati a diesel, che sono un settore strategico per l’economia europea dato che deteniamo la maggior parte dei brevetti su questa tecnologia, e che attualmente raggiungono lo stesso livello “inquinante” dei motori alimentati a benzina, non può essere totalmente abbandonato in nome di una nuova “alimentazione”, quella elettrica, che sarà sicuramente il futuro ma che, per ora, non garantisce né lo stesso livello di prestazione e soprattutto non è caratterizzata da alcun vantaggio comparato dell’industria europea. Quindi, occorre applicare un approccio in cui riuscire a mettere insieme educazione, innovazione tecnologica e presa di coscienza di un’inversione di tendenza da mettere in atto per rispondere alle esigenze, e anche alle opportunità, che la green economy porta con sé.

RETROCEDERE AVANZANDO: I PRIMI VENT’ANNI DEL NUOVO MILLENNIO TRA EUROPEISMO ED ATLANTISMO

di Francesco De Santis

Il processo d’integrazione europea è un tema che sta acquisendo sempre maggiore attualità per una serie di contingenze in cui lo scontro tra nazionalisti ed europeisti è al centro del dibattito politico nazionale e non. Un processo, quello di integrazione europea, che ha vissuto varie fasi e che muove dall’assunto di dover preservare il futuro dell’Europa dai disastri che le guerre mondiali hanno portato e lasciato nel continente. È chiaro come il pensiero di far nascere un’unione continentale non sia stato frutto di un semplice status mentale ma il crescente seme di un’idea perpetuata anche da Dante, Voltaire e Kant. Quest’ultimo affidava al concetto di unione europea il compito di propugnare una pace perpetua che ponesse il continente lontano dalla minaccia di rinnovati conflitti.
Essendo un processo non lineare e sottoposto a cambiamenti di
contesto e a motivazioni profondamente ramificate, il processo d’integrazione europea è in continuo divenire e nulla è stato, è e sarà scontato. È un processo vivo che ha vissuto una serie di alti e bassi in cui a recitare un ruolo da protagonisti sono stati i valori, condivisi dagli stati europei, per superare le ideologie totalitarie.
Ma, dopo oltre 70 anni di pace, ha ancora senso continuare a credere in un’Europa unita?
L’anno corrente segna l’inizio di un decennio in cui l’Europa deve decidere “cosa vuole fare da grande”.
Non è più in discussione, oggi, il ruolo centrale che l’Unione Europea gioca per la sopravvivenza della governance democratica ma è di stringente necessità ricorrere a nuove forme di cooperazione continentale per giocare un ruolo da reale “global player” all’interno delle grandi sfide globali che appaiono sulla scena internazionale. La questione America/Cina, il medio Oriente e le sue continue problematiche, l’Africa, i Balcani sono tematiche che vanno affrontate con senso di responsabilità dal “vecchio continente”.
La cooperazione politica, conquista Europea, non sembra, però, più essere sufficiente e, in virtù delle nuove sfide che il mondo globalizzato impone, appare importante riuscire a mostrare certezze, a riaffermare la conoscenza e l’educazione europea e, soprattutto, coordinare una politica estera in grado di garantire sicurezze. Kierkegaard parlerebbe di un “retrocedere avanzando”, ovvero essere consapevoli dell’eredità lasciataci dai padri fondatori dell’Unione Europea per poter tramandare il seme che possa germogliare nel corso del tempo che scorre. Partire dal multilateralismo, dalla democrazia rappresentativa, dal welfare universalistico, dal mercato libero e solidale per gettare lo sguardo oltre l’orizzonte.
Ma qual è il punto di partenza per giungere ad un ragionamento più ampio e condiviso?
La situazione nel vecchio continente, ad oggi, è chiara: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna sono i paesi che hanno portato avanti, fino ad oggi, la politica estera in Europa. Le difficoltà sono venute a crearsi nel momento in cui ognuno dei paesi citati ha interpretato in maniera autonoma la politica estera da attuare, soprattutto in relazione al rapporto con la NATO.
Forse per ragioni storiche, forse per interessi non coincidenti ma ognuna di queste quattro potenze ha proiettato la propria azione, in relazione alla solidarietà atlantica, in maniera profondamente incoerente:

  • la Francia si è dimostrata da sempre lontana da essa, in relazione alla sua autonomia nel settore nucleare militare;
  • La Germania, avendo geograficamente un lungo confine con l’Est avverte il peso della Russia e deve, anche per eredità di guerra, dimostrare il proprio distacco dagli obblighi della difesa militare;
  • La Gran Bretagna, storicamente (e dopo la il referendum sulla Brexit nel 2016 anche di fatto) si sente più molto più “atlantica” e molto meno “europea”;
  • L’Italia ha rappresentato l’anello di congiunzione, dalla nascita della Repubblica, tra Europa e fedeltà atlantica: un must della collocazione internazionale promossa dall’azione di Alcide De Gasperi in poi.

Questa confusione non ha permesso all’Unione Europea di essere elemento cardine dell’ordine mondiale secondo un’eterogenesi dei fini che deve essere arrestata. Se il “limes”, sia fisicamente che metaforicamente, diventa inviolabile si mette in discussione la cooperazione e l’identità europea.
Quindi, in un mondo multipolare, l’Occidente (la NATO, il Patto Atlantico) gioca ancora un ruolo strategico importante oppure Europa e USA viaggiano su binari non paralleli?
Il credo è che Europa unita, dal punto di vista della politica estera e militarmente, ed atlantismo siano destinate a convivere ancora per molto tempo e, nonostante i dubbi mostrati da Trump, dai sovranisti europei e anche, lo scorso anno, da Macron, non può essere messo in discussione il fatto che la Nato, soprattutto in Medio Oriente ove continua la politica Russo-Turca- Iraniana, resta fondamentale anche per la difesa europea. Questo perché sono i valori propri dell’Occidente, stato di diritto e libertà in primis, a giocare il ruolo di trade-union.
L’Europa, dunque, si trova al centro di uno scenario in cui un cambio di passo appare auspicabile per porsi al centro delle sfide globali, non solamente della cartina geografica.
L’evoluzione rapida delle partite da giocare in questo decennio può rappresentare una vera e propria opportunità per il processo democratico di difesa e di politica estera che l’Unione Europea deve essere in grado di cogliere.
Il riaffermarsi, quindi, di radici comunitarie che, attraverso un rafforzamento della coesione sociale e culturale e per mezzo di una reale unità politica, possano condurre alla realizzazione di una politica estera e di difesa comune.
Il compito non è facile ma la cupidigia di una politica verosimile e responsabile deve tornare di moda anche culturalmente per offrire occupazione, protezione sociale, istruzione e sicurezza e accantonare la singola ricerca del consenso interno, proiettando lo sguardo verso il mondo senza curarsi troppo del proprio ombelico.
Anche il ruolo italiano, infine, deve essere chiaro e non subalterno. L’avvicinamento alle politiche avversarie dell’Atlantismo, Russia e Cina, indebolirebbero il ruolo strategico italiano e ne deriverebbe una politica estera senza anima.
L’Italia non può giocare un ruolo silente, passivo, inefficace e ininfluente e dovrebbe riaffermare il suo ruolo “ponte” tra Europeismo ed Atlantismo. È il compito storico cui il “belpaese” è destinato.

La NATO nel nuovo sistema internazionale. Parla il Generale Battisti

Di Emanuele Lorenzetti

 

La presenza della NATO, a sette decenni dalla sua nascita, impone una seria riflessione sul ruolo che essa dovrebbe avere nel mutato scenario internazionale. Le nuove sfide alla sicurezza occidentale, in particolare, suscitano grandi interrogativi se la leadership atlantica debba andare verso un rinnovamento nella sua struttura e negli obiettivi strategici. Il Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti, già comandante del Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO, ne parla ai microfoni della Fondazione De Gasperi.

 

Generale Battisti, l’ultimo Summit NATO ha confermato i tre pilastri dell’Alleanza (difesa collettiva, gestione delle crisi e sicurezza cooperativa). È necessario secondo lei una rivisitazione del concetto strategico?

Ritengo ancora concettualmente valido il Concetto Strategico del 2010. Le linee guida espresse dai tre essential core tasks sono pienamente idonee a garantire la difesa e la sicurezza comuni degli Stati membri dell’Alleanza. I tre pilastri forniscono gli strumenti politici, diplomatici e militari per affrontare le sfide presenti e future. Quello che appare necessario, a mio avviso, è una riflessione della dimensione politica dell’Alleanza affinché si possa agire in maniera coordinata ed efficiente per far fronte alle nuove e più complesse sfide dell’attuale scenario internazionale.

In altre parole, essere tutti concordi nelle priorità e modalità per portare a termine quanto previsto dai tre essential core tasks.

Ricordo, per completezza, che Alleanza Atlantica e NATO sono due realtà diverse, sebbene nel linguaggio comune siano spesso considerate sinonimi. L’Alleanza Atlantica è un trattato difensivo (Trattato Nord Atlantico, conosciuto anche come Patto Atlantico) sottoscritto il 4 aprile 1949 dai governi di Stati UnitiCanada e di alcuni Paesi dell’Europa Occidentale ed ha una valenza politica; la NATO, invece, è la struttura militare che deriva da questa Alleanza.

Quindi, il problema non sono gli ambiti e gli strumenti d’intervento, che sono ampiamente contemplati dai tre citati essential core tasks, ma la dimensione politica dell’Alleanza.

Le decisioni, infatti, si basano sul principio del consenso (tutti i 29 Stati membri devono essere d’accordo) quale espressione della solidarietà tra Alleati.

Le recenti tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra i Paesi membri, dalle frizioni tra Stati Uniti e Paesi Europei per quanto riguarda la spesa nel settore della Difesa (2 per cento del PIL) alle divergenze con la Turchia che cerca sempre di più di seguire una propria linea autonoma in politica estera, sino all’affermazione del Presidente francese Macron che ha paragonato lo stato attuale dell’Alleanza Atlantica a una condizione di “morte cerebrale” per mancanza di coordinamento, hanno indotto il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, nella dichiarazione finale del vertice londinese (3-4 dicembre 2019) a disporre “una riflessione sulla strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro”.

In sostanza, la prospettiva strategica rimane sempre la stessa, condivisa da tutti, che richiede, tuttavia, un costante aggiornamento del suo aspetto politico, al fine di adeguare le risposte all’evoluzione del contesto di sicurezza globale.

La chiave della longevità dell’Alleanza risiede nella capacità di essere una organizzazione in grado di adeguarsi e di mantenere la propria rilevanza per affrontare le sfide, presenti e future, alla nostra sicurezza dovute al ritorno della competizione tra grandi potenze, non più regolata dal confronto Est-Ovest, alla nuova corsa agli armamenti nucleari, all’instabilità dei confini meridionali; tutte minacce che nessun Paese può affrontare da solo.

 

Si parla tanto oggi di un rinnovamento della NATO. La minaccia principale non proviene più tanto dall’Est, ma dal cosiddetto ‘fronte sud’ e nuove tipologie di minacce si affacciano all’orizzonte (soft security). Qual è lo stato di salute delle relazioni transatlantiche e dei rapporti con gli stati mediterranei?

A dispetto delle frizioni tra i Paesi membri la solidarietà tra gli Alleati non appare compromessa; lo stesso Presidente Trump in occasione del Vertice di Londra, smentendo alcune sue precedenti vigorose critiche, ha affermato di essere un big fan della NATO.

Rimangono sicuramente divergenze con la Turchia, per la sua ricerca di assumere un ruolo di potenza regionale nell’area del “Mediterraneo Allargato”, e con la Francia, che mira ad acquisire la leadership europea dopo la Brexit, quale unica potenza nucleare e con forti velleità expeditionary.

Tuttavia, come annunciato dallo stesso Stoltenberg nella sua conferenza stampa finale, “tutti gli Alleati si sono trovati d’accordo” sul piano d’azione per la difesa dei Paesi Baltici e della Polonia.

Permangono comunque orientamenti diversi nelle priorità di sicurezza dell’Alleanza.

I Paesi dell’Europa Orientale vedono come prevalente la minaccia da Est; i Paesi dell’Europa del Nord sono più attenti alle problematiche connesse con il controllo delle rotte atlantiche e della regione artica; i Paesi mediterranei sono più sensibili alle minacce provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.

È compito del Segretario Generale e del NAC (North Atlantic Council) cercare di stemperare queste diverse priorità per fare in modo che l’Alleanza risulti comunque compatta e solidale nelle sue posizioni.

Dalla riunione di Londra per la prima volta viene menzionata la Cina, un Paese che sta ricoprendo un ruolo sempre più importante a livello mondiale in ambito economico e di sicurezza. Il Segretario Generale ha sottolineato per quest’ultimo aspetto come “l’ascesa della Cina sia portatrice allo stesso tempo di opportunità e rischi”.

Molto importanti sono anche gli sviluppi nel campo dello spazio che è divenuto ufficialmente la quinta dimensione operativa della NATO, unitamente a terra, mare, aria e cyber.

Non a caso, lo stesso Stoltenberg, al termine del Vertice, ha disposto la costituzione di un panel di esperti per tenere aggiornata la strategia dell’Alleanza, anche alla luce di queste nuove realtà.

La principale minaccia proveniente dal “fronte sud” è rappresentata dall’instabilità generale del “Mediterraneo Allargato” dovuta alla diffusione della radicalizzazione religiosa, all’immigrazione incontrollata, all’insicurezza energetica, al traffico d’armi e, soprattutto, al terrorismo islamico, capace di sfruttare tutte queste tensioni e situazioni di crisi.

Si tratta, quest’ultimo, di un avversario non statale non geograficamente circoscrivibile, che adotta un modus operandi non convenzionale, che non rispetta minimamente le regole del diritto internazionale umanitario e che colpisce indiscriminatamente, ricorrendo a tutte le soluzioni possibili, anche le popolazioni civili.

 

Quali sono le principali policy, di cui oggi ci sarebbe bisogno, che consiglierebbe alla NATO per garantire maggiore leadership nel dialogo con i Paesi Arabi?

La NATO è da tempo impegnata con vari progetti per promuovere la partnership con i Paesi Arabi mediante iniziative, politiche, diplomatiche e di assistenza ed educazione militare funzionali alla stabilità regionale. Cito, ad esempio, The Istanbul Cooperation Initiative (avviata nel 2004 con i Paesi del Golfo)  e The Mediterranean Dialogue (avviato nel 1994 con alcuni Paesi del bacino del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana) e i corsi effettuati dal NATO Defence College.

La NATO, inoltre, opera per sostenere le forze di sicurezza in aree di crisi con la projection of stability, che si concretizza con il crisis management e la cooperative security che sono il core del Concetto Strategico del 2010 unitamente alla collective defence (attualmente sono in atto la missione addestrativa in Iraq e quella di supporto ai Paesi dell’Unione Africana).

Considero pertanto, a mio modesto avviso, pienamente adeguato quanto svolto dalla NATO per mantenere e rinforzare il dialogo con i Paesi Arabi, tenuto anche conto della diffusa instabilità presente nella regione.

Generale di Corpo d’Armata (in Ausiliaria), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia e ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito. Ha comandato la Brigata Taurinense, il Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l’Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell’ottobre 2016.

 

L’Iran post Soleimani, parla Nicola Pedde

Di Michelangelo Di Castro.

La questione iraniana in questi ultimi giorni ha avuto un brusco risveglio a causa dell’eliminazione del generale Qasem Soleimani. La Fondazione De Gasperi ha voluto approfondire le cause e le conseguenze dell’uccisione del militare iraniano intervistando un esperto di Iran e medio-oriente come il professore Nicola Pedde, Direttore dell’Institute of Global Studies, per avere una panoramica sull’affaire Soleimani.

 

Chi era il generale Qasem Soleimani e quali sono state le cause della sua morte?

Soleimani era a capo della Quds Force una componente IRGC (Islamic Revolutionary Guard Corps) deputata alla direzione delle operazioni internazionali. È stato un uomo chiave nella gestione dei principali focolai di crisi regionali dalla guerra in Siria al conflitto in Iraq, dallo Yemen al Libano all’Afghanistan e, soprattutto, è stato un grande negoziatore con le varie potenze regionali e con gli americani. La morte di Soleimani si inserisce in una dinamica critica all’interno dell’amministrazione americana: l’iniziativa dell’operazione sembra essere imputabile al Segretario di Stato Mike Pompeo, di cui sono note le posizioni anti-iraniane, contro la volontà della gran parte degli apparati della difesa, dell’intelligence e delle forze armate. All’interno di tali apparati sta emergendo un sentimento di forte opposizione nei confronti dello stesso Segretario di Stato.

 

Chi è invece il suo successore Ismail Ghani?

Il generale Ghani era suo diretto subordinato ed è la persona nominata al vertice della Quds Force. È un uomo molto diverso da Soleimani il quale non amava entrare nel sistema mediatico e politico iraniano. Al contrario il suo successore è famoso per le sue posizioni antiisraeliane e aggressive nei confronti degli Stati Uniti. È una figura sicuramente più allineata IRGC e, dunque, ci si aspetta un grado di pragmatismo molto inferiore rispetto a al suo predecessore, ma questo non significa che ad oggi cambino di molto le cose.

 

Questo atto di forza degli Stati Uniti cosa ha comportato sul piano interno ed esterno? La conseguenza determinerà un’escalation di conflittualità o un acceleramento dei processi pace?

Sul piano interno l’assassinio di Soleimani ha creato un meccanismo di coesione sociale nel senso che, ai funerali del generale, hanno partecipato un numero di persone che sembra addirittura superiore a quelle che parteciparono ai funerali nell’89 dell’Ayatollah Khomeini. Dimostrazione del fortissimo sentimento di identità nazionale del popolo iraniano che ha permesso di saldare quelle due componenti della società quelle della terza generazione, ovverosia dei più giovani con la seconda generazione, o meglio quella delle componenti militari dell’IRGC e della Quds Force che hanno rappresentato il principale strumento di repressione dell’opinione pubblica e delle istanze di questa giovane generazione antisistema, critica e alla costante ricerca di riforma.  Un grande successo immediatamente vanificato a causa dell’abbattimento dell’areo civile ucraino che ha riportato la popolazione a protestare chiedendo le dimissioni del governo e della guida stessa.

 

Sul piano esterno il risultato è quello di aver portato l’Iran a condurre questa operazione di ritorsione nei confronti degli americani. Ritorsione che si è concretizzata nell’attacco missilistico alle due basi americane in Iraq (a Ayn al-Asad ed Erbil). L’attacco si è concluso senza perdite in termini di vite umane grazie ad un’oculata gestione dell’operazione sul piano della sicurezza da parte dell’Iran che prima di intervenire ha preventivamente informato lo stato l’iracheno che a sua volta ne ha dato tempestivamente avviso al personale militare statunitense. Questo è stato molto apprezzato tanto che gli USA a loro volta hanno accettato di avviare una de-escalation che dovrebbero portare idealmente alla definizione di una nuova piattaforma negoziale.

 

 

Questa nuova situazione geopolitica può avere delle conseguenze sulla missione italiana in libano UNIFIL e quindi comportare un più concreto rischio per le nostre truppe?

Gli Stati Uniti e l’Iran non sembrano in alcun modo intenzionati a una escalation. L’unico rischio più rilevante è che i militari italiani spesso fanno parte di dispositivi nei quali partecipano truppe come quelle statunitensi, dunque la possibilità di divenire obiettivi indiretti. Inoltre la missione UNIFIL rientra in un dispositivo ONU, voluto da entrambi gli schieramenti libanesi ed israeliani, per garantire la sicurezza e il cessate il fuoco. Dunque i pericoli rientrano nella normale gestione dei rischi che fanno capo a tali operazioni pur essendovi degli ulteriori rischi collegati ad un’ipotetica escalation.

 

 

La prima Repubblica non si scorda mai: la legge elettorale proporzionale al tempo della Terza Repubblica

Di Stefano Ferace.

La corte costituzionale si è espressa. Ci sono volute oltre sei ore fitte di discussione e di confronto serrato all’interno della consulta per bocciare il referendum proposto dalla lega. Con questo no, la corte presieduta da Marta Cartabia lascia aperti i giochi per una riforma della legge elettorale basata sul proporzionale. Il cosiddetto Germanicum, prevede un sostanziale ritorno al proporzionale puro con un sbarramento al 5%, data l’introduzione del diritto di tribuna. Un escamotage, tuttavia, per far contenti tutti quei partitini che, consapevoli di non riuscire nell’impresa di raggiungere la soglia di sbarramento, trovano il modo di assicurarsi seggi in Parlamento. Il diritto di tribuna infatti, consentirebbe a schieramenti minori di avere un peso enorme nella composizione degli equilibri di maggioranza.

L’approvazione del Germanicum rappresenterebbe la fine di quell’idea di bipolarismo acclamata da tanti leader politici negli anni. Si ritornerebbe, quindi, ad un modello da prima repubblica in cui ingovernabilità ed immobilismo la farebbero da padrone. La frammentazione parlamentare  non è portatrice di stabilità e per evitare che una maggioranza relativa di voti si trasformi in una maggioranza assoluta di seggi si rischia di far tornare l’Italia a un’instabilità parlamentare che determina l’impossibilità di governare. Il male del proporzionale puro si riassume in una parola, immobilismo. Il parlamento ritornerebbe ad essere un luogo non più di riforme ma di protezione dei propri interessi, per difesa dei quali, ogni gruppo parlamentare sarebbe disposto a tutto. Non ci sarebbe quindi la possibilità di affrontare i temi che attanagliano questo paese, come il mancato sviluppo industriale, perché troppo impegnati ad esser asserragliati nella propria, piccola, corte di potere.

In questo momento l’Italia ha bisogno di una presa di coscienza da parte dei suoi politici. Non ci si può più permettere leggi elettorali diverse ogni cinque anni, serve chiarezza. Le regole del gioco politico andrebbero decise una volta per tutte, in modo da dare la possibilità a tutti gli attori di fare programmi a lungo termine. L’idea di poter cambiare ad ogni turno la legge elettorale dà ai politici la sicurezza di ritagliarsi addosso la legge perfetta che gli assicurerà un futuro mandato, senza doversi preoccupare quindi dei problemi reali del Paese. Questo meccanismo malato non si invertirà certo con un proporzionale puro ma solo con una riforma che, dal post elezioni in poi, non dia alibi al parlamento sui ruoli e sulla possibilità o meno di rispettare i programmi.

Per fare ciò, uno dei sistemi che assicurerebbe la stabilità di cui l’Italia necessita sarebbe una riforma su modello francese. Un maggioritario con doppio turno e la possibilità di formare delle coalizioni in sede di ballottaggio potrebbe consentire a tutte le fazioni politiche di essere protagoniste nella formazione dei rispettivi rassemblements. Una riforma “Francese” appare come il giusto compromesso tra le attuali aspirazioni maggioritarie del centrodestra e quelle degli altri gruppi parlamentari, che spingono per una maggiore rappresentanza.

“Back to the future”: il dibattito sulla legge elettorale proporzionale in Italia nella XVIII legislatura

Di Gian Marco Sperelli

Tra i tanti anniversari della storia d’Italia del 2019 appena concluso, vi è certamente da annoverare il centenario del varo della legge elettorale proporzionale del 1919, con cui peraltro si sancì l’introduzione del suffragio universale per l’elettorato maschile.[1] Ad oltre cent’anni di distanza, il dibattito politico ha virato nuovamente verso un ritorno al sistema proporzionale, a seguito del disegno di legge presentato dal Presidente della Commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, che i cronisti parlamentari hanno già ribattezzato con il nome di sartoriana memoria di “Germanicum”.

Il “Rosatellum” – il vigente sistema elettorale – è destinato ad essere stravolto, in virtù della prevista abolizione della quota di seggi da assegnare secondo il modello maggioritario a turno unico, a favore, invece, di un impianto esclusivamente proporzionale con una soglia di sbarramento fissata al 5%, pur prevedendo il diritto di tribuna per le formazioni politiche non in grado di raggiungere suddetta soglia, ma capaci di ottenere – per la Camera- tre quozienti in almeno due Regioni e al Senato in una Regione, in modo tale da poter partecipare alla ripartizione dei seggi in base ai quozienti conquistati.

Tralasciando i punti di contatto con l’ impianto proporzionale tedesco[2], pur con le significative differenze trattandosi di un sistema misto con la presenza di collegi uninominali, la proposta al vaglio del parlamento, tuttavia, denota la rimonta prepotente di quella che era stata la visione di un grande studioso come Roberto Ruffilli. Senatore eletto come indipendente dalla Dc, durante la segreteria di Ciriaco De Mita negli anni ‘80, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamentare tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo.[3] Alla fine dei lavori la “Commissione Bozzi” votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del Pci e del Psi, che suggeriva come sistema elettorale la rappresentanza proporzionale personalizzata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. A dire il vero, l’Italia degli anni’80 cominciava ad essere attraversata da una crescente spinta verso una cultura politica della competizione, premessa indispensabile di qualsiasi democrazia bipolare, maggioritaria, capace in definitiva di ottenere la tanto agognata alternanza.[4] Ruffilli, andando controcorrente, sosteneva, invece, la necessità di inaugurare in Italia una nuova cultura della coalizione propedeutica alla costruzione di uno schieramento maggioritario, intorno a priorità programmatiche da attuare consentendo -senza riserve- che il primo partito in termine di seggi potesse esprimere il capo della coalizione. Nella concezione di Ruffilli la leadership era essenzialmente di natura programmatica e non esclusivamente di matrice carismatica, per sancirne ancor di più la contendibilità sul medio e lungo periodo.

La menzionata proposta di riforma della legge elettorale da parte della maggioranza di governo (PD, M5S, IV e LeU) rappresenta, dunque, un turning point sostanziale nella ricomposizione del sistema politico italiano secondo la lezione del già citato Ruffilli? A giudicare le evidenti incongruenze e conflittualità dei membri della compagine governativa, la nuova legge elettorale appare purtroppo come il solito escamotage dei partiti di maggioranza per ostacolare e limitare il più possibile una eventuale débâcle alle urne. In questo quadro si colloca perfettamente la simmetria tra una legislazione elettorale bulimica[5] e una offerta politica sempre più insoddisfacente, come peraltro testimoniato dalla mai tramontata tendenza di scissioni e defezioni in seno ai partiti maggiori.

Ancor più inconcludente, se non come semplice forma di schermaglia e disturbo, è apparsa la presentazione del quesito referendario abrogativo da parte di otto Consigli regionali su impulso della Lega, per la cancellazione della quota proporzionale della “legge Rosato”, al fine di trasformare la legislazione elettorale secondo lo schema inglese maggioritario del “first past the post.” Tale iniziativa referendaria è stata, infatti, dichiarata inammissibile per la natura eccessivamente manipolativa del quesito, in particolar modo nella parte che riguarda la delega conferita all’Esecutivo ( legge n. 51/2019) per la definizione dei collegi in attuazione alla riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Nel perenne dibattito, protrattosi dal 1993 fino ai giorni nostri, intorno alla legislazione elettorale, tornano, così, alla mente i celebri versi di T.S. Eliot, che ci restituiscono il senso definitivo dello stato di profonda incertezza della politica italiana:

 

(..)In a minute there is time

For decisions and revisions which a minute will reverse.[6]

 

[1] Per una analisi sommaria sulla correlazione tra l’introduzione della legge elettorale proporzionale e la nascita della moderna democrazia di massa in Italia, si rimanda a P. Craveri, L’arte del non governoL’inarrestabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia 2016, p. 19.

[2] Sul sistema proporzionale personalizzato tedesco, si rimanda a M. Caciagli e P. Scaramozzino, Democrazie e Referendum, Edizioni Comunità, Milano 1994.

[3] R. Ruffilli e P. Capotosti, Il cittadino come arbitro. La DC e le riforme istituzionali, Il Mulino, Bologna 1988.

[4] G. Pasquino, Restituire lo scettro al Principe. Proposte di riforme costituzionali, Roma-Bari, Laterza 1985.

[5] Appare impietoso enumerare il continuo alternarsi di leggi elettorali dal 2005 in poi, per effetto anche delle sentenze di incostituzionalità della Consulta nei confronti del “Porcellum”( legge n. 270 del 21 dicembre 2005) con sentenza n. 1/2014 e dell’ ”Italicum”( legge n. 52 del 6 maggio 2015), fino ad arrivare al “Rosatellum” ( legge n. 165 del 3 novembre 2017).

[6] T.S. Eliot, The love song of J. Prufrock, in Prufrock and other observations, The egoist Ltd, London 1917.

Decarbonization by 2050: Opportunities for a Green Economy under the Italian G20 Presidency

By Celine Bak

Along with the EU, the UK and France, Italy is one of only four G20 members to make a long-term commitment to net zero emissions by 2050.[i] This makes the Italian G20 Presidency, which commences in 2021, a unique platform on which to build the political trust and confidence needed to seize the opportunities presented by a green and decarbonized economy.

 

The G20 is responsible for 85 percent of global economic activity and 78 percent of the heat-trapping emissions currently accumulating in the atmosphere. In the special report on 1.5°C of warming, the International Panel on Climate Change (IPCC) is clear that if we are to minimize climate risks and hold warming to 1.5°C, we must decarbonize the economy by 2050. Doing so will stave off the risk of us crossing natural tipping points, beyond which the Earth’s systems will experience largely irreversible change.[ii]

 

The current emissions gap is large – so large that if decarbonization of human activity were a war effort, we should today fear defeat. Global CO2 emissions are at an all-time high, up 2.7 percent in 2018 after a rise of 1.6 percent in 2017.[iii] Madrid’s COP25 provided no indication of the trust and political confidence needed to address the dangers posed by these less-than-sufficient national commitments (known as nationally determined contributions, or NDCs) to emission reductions by 2030 and carbon neutrality for all developed economies by 2050. This trust and political ambition is fundamental to the task before us. The Paris Agreement is a framework intended to build up confidence within and among its parties to enable coordinated, country-level commitments that together achieve sufficient emissions reductions to keep temperatures from rising above safe levels indicated by the best available science.[1]

 

Now twice-failed COP25 negotiations on carbon markets that would work to coordinate exchanges of emissions reductions show how much work remains to be done to rebuild the trust needed to limit temperature rises to safe levels.

 

The EU showed leadership during COP25 by announcing its Green Deal – the EU’s growth strategy for the coming decade. Europe’s commitment to be the first climate-neutral continent turns on transforming an urgent challenge into a unique opportunity. The Commission indicated that “above all, the European Green Deal sets a path for a transition that is just and socially fair … [one] designed to leave no individual or region behind in the great transformation ahead.”[iv]  The Green Deal would “protect, conserve and enhance the EU’s natural capital, and protect the health and well-being of citizens from environment-related risks and impacts.”[v]

Today, the decarbonization targets set by G20 countries are aligned with 3°C of heating by 2100. The human impact of this level of warming would be profound, with critical water shortages five times greater at 3°C of heating compared to 1.5°C. Other expected impacts include a near doubling of days with heat above 50°C, from 30 to 50 per year, when compared to 1.5°C of heating. Along with land-management practices, Australia’s deadly and economically devastating wild fires are a result of exactly this type of hotter, dryer weather over longer periods. Shorter growing seasons, an increase in the spread of insect-borne diseases, drought, extreme rainfall and food scarcity are just some of the other negative impacts that we can expect at our current trajectory.[vi] Recent medical research is clear: without decarbonization, climate change will be the determining factor in the health of children born today.[vii]

 

In its recent report on the economic impacts of climate change, the Network for Greening the Financial System concluded that estimates for the physical effects of climate change on the macro-economy between now and 2100 indicate a risk of large negative consequences, ranging from 1.5 to 23 percent of global annual gross domestic product (GDP) per capita.[viii] As US Fed Governor Lael Brainard recently stated, “To fulfill our core responsibilities, it will be important for the Federal Reserve to study the implications of climate change for the economy and the financial system and to adapt our work accordingly.”[ix]

 

But if the risks of failing to decarbonize the global economy are great, so are the opportunities that we could expect from making a decarbonized global economy business as usual. This is so particularly at a time when major economies are seeking a pro-investment agenda and the financial stability risks of continued investment in companies and projects which could be made worthless by climate policy or impacts are increasingly clear. According to the Global Commission on the Economy and Climate, the shift to a green economy could create US$26 trillion in benefits and 65 million jobs by 2030.[x]  This opportunity must be kept in sight along with the value of trillions of dollars of assets which could be whipped out through the policy responses required to address to keep the rise in temperatures to safe levels.[xi]

 

Businesses are recognizing this opportunity. On the basis of the Marrakesh Partnership, a platform for voluntary contributions to reducing emissions under the United Nations Framework on Climate Change (UNFCCC), corporations are voluntarily establishing climate-science-consistent business plans.[xii] These companies, which have set Paris-aligned decarbonization targets, are reporting improved brand reputation, increased investor confidence and competitive advantage in the marketplace. The scope and scale of these commitments are noteworthy. Nine hundred companies are part of this platform, of which over 400 are developing plans to decarbonize in line with the Paris Agreement, with 177 committing to decarbonizing their operations by 2050.[xiii] Their total market capitalization is $20 trillion, or about a quarter of global GDP.[xiv] Similar commitments are now being made by financial institutions, including banks and global asset managers.

 

Building the decarbonized economy and the financial system it needs will require bold and ambitious government policies. Under the Italian G20 Presidency, policymakers, the private sector and civil society could work together to build confidence in the potential of the green and decarbonized economy. This could be done by setting a clear pathway for a transition to net-zero GHG emissions by 2050 that ensures social inclusion and takes care of workers in high-carbon industries. The G20 could advance this imperative through a pro-investment agenda for decarbonization. This is critical to support strengthening NDCs and 2030 targets in line with decarbonization by 2050 for countries for advanced economies and by 2060–70 for countries with developing economies.

 

A key to stimulating investment aligned with long-term sustainability is establishing regulatory certainty to build confidence in new investment norms and behaviours by backing these plans and targets with ambitious sectoral goals and policies, such as the following:

  • Scaling up renewable energy deployment to achieve a 100 percent clean power system by 2040, establishing a near moratorium on coal finance and new coal plants, and setting an ambitious coal phase-out date of 2030 for advanced economies and 2040 for all other G20 members.
  • Setting 2030 as the phase-out date for internal combustion engine vehicles while providing investment in decarbonized public transportation, in electric vehicle (EVs) infrastructure and fiscal incentives for EVs.
  • Establishing a forum for the decarbonization of heavy emitting sectors such as steel, aviation, trucking and shipping, as well as mining and oil & gas through public-private collaboration.
  • Transitioning to a land system that supports a decarbonized economy and can feed a growing population with sustainable ecosystems and healthy communities, including through climate-smart agricultural practices and ending deforestation.
  • Addressing the social impacts of decarbonizing the economy and adapting to the climate impacts already faced, leaving no one behind.
  • Building resilience against climate impacts for the communities that support value chains globally by investing in adaptation, including through nature-based solutions and biodiversity.

 

These sectoral plans and targets will deliver the full rewards of growth if they are implemented in the context of a G20 sustainable finance agenda which should include the reforms needed to:

 

  • Support a pro-investment agenda in clean infrastructure which pulls through innovation and improves the health and lives of citizens.
  • Ensure inclusive access to capital particularly for regions whose economies are highly exposed to hydrocarbon-based energy.
  • Modernize financial regulations that drive corporate focus on short-term profit rather than long-term sustainability.
  • Assure the protection of savers from the action of financial institutions that continue to invest in projects whose value may be wiped out by decarbonization policies and climate effects.

 

Italy’s G20 green economy agenda should be focused on building trust and confidence, including through leveraging progress on the EU’s Green Deal as well as the preparations and achievements of the UK and Italy’s collaboration on COP26 in Glasgow in December 2020. This should include integrating the long-term sustainability and the green economy agenda across all ministerial meetings. Because of the urgency of the climate crisis, and the need to accelerate the translation of science into the widest possible spectrum of policy changes, roles are evolving quickly. For example, a large measure of the EU’s quick progress on the Green Deal and before that on the Action Plan on Financial Sustainable Growth, is the result of its strong youth and civil society, which increasingly combine building and translating evidence for policy, engagement and advocacy with policy makers with the traditional role of education of and engagement with citizens. Creating mechanisms to raise the impact of youth and civil society will increase the impact of Italy’s G20 Presidency on the green economy.

 

Building a prosperous, decarbonized economy by 2050 requires a transformation of unprecedented pace and scale – one similar to that needed to win World War II. This transition is achievable, but only when there are new, collectively inspired ways of working. This can happen when public-sector, private-sector and civil-society leadership positively reinforce each other. As a clear leader through its commitment to decarbonization by 2050, Italy, through its G20 presidency, can build up trust among G20 members and provide an example of ambitious government policies for the Green Economy to stimulate the private, public, and political investments needed to achieve the full ambition of the Paris Agreement and bring to society all the benefits of the Green Economy.

 

For information please contact:

Céline Bak celine.bak@analytica-advisors.com

+1 613 866 9157

[1] Article 2 lays out the aim of the Paris Agreement as “strengthen[ing] the global response to the threat of climate change, in the context of sustainable development and efforts to eradicate poverty, including by holding the increase in global average temperature to well below 2°C above pre-industrial levels and pursuing efforts to limit the temperature increase to 1.5°C above pre-industrial levels, recognizing that this would significantly reduce the risks and impacts of climate change.” Science published in 2018 and 2019 through the IPCC indicates that a 1.5°C rise in temperature – not 2°C – should be considered safe. Compared with current annual emissions of 55 Gigatonnes CO2 Equivalent (GtCO2e), in 2030, annual emissions need to be 58 percent lower (a 32 GtCO2e reduction) for the 1.5°C goal and 27 percent lower (a 15 GtCO2e reduction) for the less safe goal of 2°C. See https://www.unenvironment.org/interactive/emissions-gap-report/2019/ for a summary.

[2] Negotiations on Article 6 carbon markets were pushed to 2020 after the 2018 negotiations at Katowice failed. Defeated proposals for global carbon markets centered on safeguards for human rights, including indigenous rights, mechanisms to finance the cost of climate change through a share of the proceeds of carbon trading, mechanisms to ensure no double counting of emissions reductions, assure overall reduction of emissions and limit credits from the previous emissions-trading regime.

[i] https://www.bbc.com/news/science-environment-50547073?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=c9ca9547c3-briefing-dy-20191126&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-c9ca9547c3-44530773

 

[ii] https://www.ipcc.ch/sr15/

 

[iii]  https://www.scientificamerican.com/article/co2-emissions-reached-an-all-time-high-in-2018/

 

[iv] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en

 

[v] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/HTML/?uri=CELEX:52019DC0640&from=EN

 

[vi]  https://www.climate-transparency.org/g20-climate-performance/g20report2019

 

[vii] https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(19)32596-6/fulltext

 

[viii]  https://www.bankofcanada.ca/2019/11/researching-economic-impacts-climate-change#footnote-ref-1

 

[ix]  https://www.theglobeandmail.com/business/economy/interest-rates/article-federal-reserves-lael-brainard-says-climate-change-poses-profound/

[x] https://www.sei.org/projects-and-tools/projects/global-commission-on-the-economy-and-climate/

 

[xi] https://www.cnn.com/2019/12/09/economy/climate-change-company-valuations/index.html

 

[xii] https://unfccc.int/climate-action/marrakech-partnership-at-cop-25

 

[xiii] CDP and the World Resources Institute are responsible for the protocols for these commitments and for vetting each company’s decarbonization plan.

 

[xiv]  https://www.wemeanbusinesscoalition.org/companies/#country=Italy