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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Il Mes, la riforma, e l’Eurozona

Gli scorsi mesi sono stati caratterizzati da un accesso dibattito in merito al contenuto della riforma del Mes (o Esm), il Meccanismo Europeo di Stabilità. A far scaldare gli umori, sarebbe stato il commento di Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, esposto presso il seminario OMFIF in data 15 novembre. Visco, infatti, ha parlato in effetti di «rischi enormi» per il sistema Italia in caso dell’approvazione della riforma. Secondo le opposizioni e molte testate giornalistiche, il commento di Visco delineerebbe una prospettiva drammatica per l’Italia, che si troverebbe a fare i conti con una manovra del tutto sfavorevole e di aiuto alle banche francesi e tedesche. La questione viene portata all’attenzione del vertice di maggioranza del 22 novembre scorso, richiesto a gran voce da M5S. Il vertice si è concluso con un nulla di fatto, lasciando una spaccatura tra PD e M5S. Domenica primo dicembre, un nuovo vertice, stessa storia. Tutto rinviato alle aule parlamentari. Ciò che il governo ha ottenuto al momento è un rinvio dell’approvazione definitiva in seno al Consiglio per questo gennaio. A distanza di mesi, dunque, le acque non sembrano calmarsi. Ma a cosa serve esattamente il Mes, quali critiche che possono essere mosse a questa istituzione?

Il Mes venne costituito per evitare il ripetersi della crisi del debito pubblico che mise in grave difficoltà alcuni Paesi membri dell’Eurozona, i quali avevano dovuto onerosamente coprire le perdite speculative dei rispettivi istituti di credito dell’Unione. Diversi fattori portarono questi paesi (Grecia, Irlanda, Cipro e Portogallo) a trovarsi con un debito pubblico tale da precludere le operazioni di finanziamento necessarie per risolvere la crisi. Il Mes diede, su richiesta dei suddetti paesi, assistenza finanziaria a condizioni a loro favorevoli per ristabilire un rapporto con il mercato obbligazionario. Il caso della Grecia, conclusosi nell’agosto scorso, costituì il più grande pacchetto di assistenza nella storia arrivando a oltre 200 miliardi di euro.

Il Mes storicamente è intervenuto con due funzioni: di finanziamento a paesi insolventi (nei casi sopra menzionati) e di ricapitalizzazione indiretta del settore bancario (nel caso della Spagna). Ci sono altri casi, per ora mai verificatisi, in cui il Mes può entrare in funzione. Il Mes può infatti intervenire per ricapitalizzare un istituto di credito insolvente o con paventata possibilità di insolvenza. Inoltre, può intervenire per creare liquidità nel mercato in caso di difficoltà o paventata difficoltà dell’emittente sovrano di accedere ai mercati. I fondi del Mes provengono dal capitale azionario conferito dagli stati membri (circa 80 miliardi, con una garanzia di aumento di capitale fino a 700 miliardi in caso di necessità) e dalle obbligazioni che emette sul mercato. Chiarito dunque il suo funzionamento, muoviamoci sugli aspetti più controversi.

In cambio di assistenza finanziaria il Mes esige che i paesi richiedenti implementino un pacchetto di riforme che assicurino l’abilità del paese in questione di ripagare l’assistenza ricevuta. Tale pacchetto, viene stabilito dalla commissione europea in collaborazione con la BCE e, ove possibile, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) con il Mes in qualità di partecipante informale. Tuttavia, le condizioni possono essere assai severe, portando, in alcuni casi, lo Stato richiedente assistenza a tagliare la spesa pubblica e gli investimenti strutturali oltre il livello che assicurerebbe una ripresa ottimale di un percorso di crescita. Nel caso della Grecia, basti citare la lettera aperta firmata da economisti del calibro di Thomas Piketty (Paris School of Economics) e Dani Rodrik (Harvard), che criticarono il target del raggiungimento dell’avanzo di bilancio pari al 3.5% del Pil, argomentando che una contrazione della spesa di quel livello avrebbe avuto effetti disastrosi per l’economia e il popolo greco. Tali critiche sono state espresse anche dal FMI, che aveva suggerito, nel caso della Grecia, un target molto più basso del 1.5% del Pil in avanzo di bilancio.

Ma c’è di più. Un altro aspetto problematico del Mes riguarda il suo posizionamento all’esterno del diritto UE, in una posizione “privilegiata” (anche se non interamente slegata) e di difficile controllo da parte dell’Unione. In tal modo, il Mes non rispetterebbe il principio democratico e di accountability degli organi dell’UE. Essendo istituito con un trattato internazionale, infatti, il Mes è sottratto ai meccanismi di controllo delle istituzioni dell’UE, come la Corte dei conti europea e l’accesso ai documenti. Per quanto, come menzionato, le condizioni di accesso ai fondi del Mes siano stabilite dalla Troika coinvolgendo dunque la commissione Europea, è il Consiglio dei Governatori, l’organo apicale di decisione del Mes, ad avere l’ultima parola nel garantire tale accesso allo Stato richiedente. I membri del Consiglio dei Governatori, peraltro, sono i 17 singoli ministri delle finanze dei Paesi aderenti, che non rispondono per la loro responsabilità al Parlamento europeo. Essi sono responsabili unicamente verso i rispettivi parlamenti nazionali. Sono numerosi i pareri contrari alla posizione di autonomia e distanza dal controllo UE del Mes, anche culminate in un una mozione del Parlamento europeo in richiesta di una integrazione dell’istituto all’interno dell’assetto legislativo europeo. Tali riserve, però, sono state rispedite al mittente dal managing director del Mes Klaus Regling, che le ha dichiarate infondate, essendo il Mes legalmente fuori dal quadro normativo europeo.

Oltre a queste considerazioni strutturali, taluni (in primis Visco) rivolgono le proprie critiche alla controversa bozza di riforma del Mes, che si riferisce all’adozione delle cosiddette Collective Action Clauses (CAC). Le CAC stabiliscono che qualora uno Stato europeo dovesse trovarsi in difficoltà, prima di dichiarare il default, si sieda a un tavolo con i suoi principali creditori per rinegoziare il pagamento del debito. La riforma prevede che questi negoziati si possano fare velocemente e con una maggioranza semplice dei creditori (piuttosto che una maggioranza qualificata come nella riforma del 2013, art. 12.3 del Mes). L’effetto delle CAC sullo spread è al centro del dibattito politico in Italia: Visco infatti suggerisce che adottando le CAC il nostro debito diventerà meno appetibile per gli investitori, causando proprio un aumento dello spread.

Solitamente gli economisti riconoscono due effetti che le CAC hanno sullo spread: uno di riduzione e uno di aumento. La riduzione è ottenuta facilitando la coordinazione dei creditori in caso di default, che aumenta la probabilità di recuperare una parte dei fondi prestati attraverso il negoziato; parallelamente le CAC, facilitando il processo della rinegoziazione, aumentano la probabilità che lo Stato decida di rinegoziare, portando, in questo caso, ad aumentare lo spread. Malgrado Visco, pur notando entrambi questi effetti, sostenga che l’effetto di aumento dello spread sia dominante, la letteratura economica non è affatto univoca su questo tema. Nel caso dell’introduzione delle CAC a maggioranza qualificata nel 2013 ad esempio, la Prof.ssa Carletti (Università Bocconi) ha rilevato un significativo effetto negativo sugli spread (di riduzione) soprattutto in paesi fortemente indebitati come l’Italia, abbassando gli oneri degli stati e aumentando la stabilità del sistema finanziario.

Va ricordato poi che l’adozione delle CAC ha l’obiettivo di scoraggiare l’opportunismo dei cosiddetti fondi avvoltoi, i quali comprano porzioni di debito di uno Stato in default con lo scopo di iniziare un procedimento legale per accaparrarsi il valore nominale dei bond più gli interessi. L’obiettivo delle CAC dovrebbe essere quello di proteggere lo Stato da questo tipo di opportunismo una volta che si trova in default. Detto ciò, ci sono altre critiche, più complesse che si possono fare alle CAC stesse; una di queste concerne l’incertezza legale che si crea introducendo queste clausole rispetto al trattamento di debiti sovrani emessi prima dell’introduzione in situazione di default.

Alla luce di queste considerazioni, è certamente corretto stimolare una discussione non solo sui contenuti della riforma, ma su funzionamento del Mes per sé, e sulla possibilità della sua integrazione alla stregua degli altri istituti dell’Unione. Per quanto una misura di politica economica di emergenza comune sia auspicabile, ci ancora molte questioni aperte per quanto riguarda l’assetto normativo in cui opera il Mes e la necessità di implementare un quadro di ristrutturazione del debito. Tuttavia, maggioranza e opposizioni non hanno ancora trovato una posizione definitiva in questo dibattito. Al di là delle questioni di merito, bisogna ricordare che il placet alla riforma è stato dato da un governo gialloverde ormai morente, poco dopo rimpiazzato con il governo attuale. Non sorprende dunque la poca convinzione con cui il Movimento 5 Stelle difende una riforma approvata sotto il loro mandato con la Lega, ormai rinnegato. Di contro, stupisce la scarsa preparazione della classe politica tutta di fronte agli aspetti più problematici (in verità anche i più pacifici) del Mes. Non si può fare a meno di notare che le questioni sollevate dalla politica abbiano travisato il significato del commento di Visco, le cui preoccupazioni, prese nel contesto del discorso integrale, restano valide e meritevoli di ulteriore approfondimento. Il paese resta in attesa della risposta del Parlamento, dove la maggioranza PD-M5S sembra restare divisa, e della approvazione definitiva del disegno in Consiglio. Ciò che è certo è che i malumori dovranno confrontarsi con la natura tecnica della riforma e la giusta considerazione degli interessi in gioco.

Tommaso Di Prospero e Tancredi Rapone

La Ced, spina nel fianco? Parla Matteo Gerlini

La difesa europea rimane una seria prerogativa comunitaria, recentemente è stata richiamata anche dal Presidente francese Macron. Lo storico Matteo Gerlini spiega ai microfoni della Fondazione De Gasperi il progetto della Comunità Europea di Difesa (CED) nel contesto dell’integrazione europea.

In che contesto nasce la proposta di istituzione della CED?
La proposta si pone nel 1950 in un contesto europeo segnato dalla Guerra Fredda e dai problemi del dopoguerra, in particolare rispetto alla linea difensiva da tracciare contro una temuta invasione sovietica, considerato il precedente della Guerra di Corea. Essa nasce in uno scenario politico e strategico assai dinamico, in cui i piani strategici della NATO vedevano con difficoltà la tenuta di una linea difensiva lungo il Reno, attestandosi su alcune teste di ponte in Francia. Il rischio poteva essere levatore di una pace fra gli Stati Europei: condividendo la difesa creando delle forze armate comuni, si concretizzava quell’ideale europeo che animava De Gasperi.

Senz’altro nell’ottica dei padri fondatori dell’Europa era centrale il tema dell’integrazione, ma quali erano i concreti motivi che ponevano la necessità di una comunità di difesa?
La CED doveva rispondere ad altre due esigenze politico-strategiche logicamente connesse con la difesa dell’Europa occidentale dalla minaccia sovietica. Essa doveva infatti controllare il rischio insito nel riarmo della Repubblica federale tedesca, la cui ricostituzione delle forze armate era imprescindibile per porre la linea difensiva lungo il fiume Elba, dunque per allontanare il primo fronte dal territorio francese e del Benelux; l’ovvio rischio era la ripresa di una spinta egemonica tedesca. L’altra esigenza era il mantenimento di un impegno americano in Europa, cioè il distaccamento di forze permanenti in tempo di pace sul continente. Gli americani accettarono il maggiore impegno in Europa, aumentando in modo consistente la loro presenza militare, formando una forza alleata integrata di cui avrebbero assunto il comando, ma gli europei dovevano accettare la partecipazione alle forze integrate di dieci divisioni della Germania federale. Il primo ministro francese René Pleven propose un piano che prese il suo nome, in cui sostanzialmente si applicava il modello della comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) alla difesa comune europea.

La realizzazione tanto auspicata poi fallì, cosa conseguì al suo fallimento?
Le discussioni furono ovviamente assai più difficili, essendo le forze armate ben più rilevati per la sovranità degli stati rispetto al settore carbosiderurgico, e infine la CED fallì nel 1954 quando l’assemblea nazionale francese respinse l’approvazione della versione finale del trattato. A un mese dalla bocciatura della CED il tema della difesa Comune europea fu ripreso discutendo l’ampliamento del Patto di Bruxelles, stretto nel 1948 da Regno Unito, Francia e Benelux, da cui sarebbe nata l’Unione Europea Occidentale (UEO). La Repubblica Federale Tedesca aderì all’organizzazione, che ne permise il riarmo; ovviamente anche l’Italia entrò nella UEO, che seguì i successivi allargamenti delle comunità europee pur rimanendone distinta. Questo dal punto di vista politico. Da quello strategico la NATO rappresentò il consesso difensivo dell’Europa occidentale, un consesso volutamente transatlantico.

Quindi per ciò che riguarda la difesa la Nato riuscì pienamente a colmare quel vuoto lasciato dalla CED ma sotto il punto di vista dell’integrazione rimanevano spaventose criticità. Quali erano e come si lavoro per risolverle?
L’Europa come progetto è nata per rispondere alle tensioni che attraversavano il continente secondo le faglie degli interessi nazionali confliggenti. L’angolazione economica fu privilegiato perché permetteva una certa gradualità di approccio: il precedente della CECA (la prima forma di mercato comune realizzata in Europa) che aveva visto la condivisione di risorse come il carbone e l’acciaio, il cui controllo aveva innescato in passato sanguinosi conflitti. Nonostante il modello non fosse riuscito a risolvere il problema della difesa, esso venne ripreso per proseguire l’integrazione europea.

E come si diede corpo a questa grande idea, a questo grande processo di integrazione che porta fino ai nostri giorni?
L’approccio che informò la gestione comunitaria del carbone e l’acciaio (risorse del passato e del presente) venne applicato all’energia atomica (la risorsa del futuro), che necessitava per la sua realizzazione di una programmazione e di uno sforzo comune, dacché i singoli stati non potevano sviluppare pienamente tale tecnologia. Si arrivò così alla firma dei Trattati di Roma del 1957 con i quali nacque la Comunità Economica Europea (CEE) e la CEEA (Comunità Europea dell’energia atomica) la quale costituì fondamentale presupposto per la nascita del grande mercato comune. La CEEA per la prima volta vedeva impegnati gli stati nella condivisione di professionisti, di programmi, di investimenti in ricerca; molto più della CEE parve rappresentare il primo passo per una vera integrazione, che da economica poteva aspirare a divenire pienamente politica.

La questione della difesa europea rimane dunque una questione aperta?
Senz’altro la questione della difesa europea rimane una questione aperta, seppur il contesto storico e notevolmente mutato. Oggi non si pone una minaccia russa in termini analoghi a quella che era stata l’Unione Sovietica, e nemmeno lontanamente una minaccia militare tedesca. La Nato continua a garantire la difesa del continente riunificato, ampliando la dottrina ai cinque spazi della difesa: non più solo terra, aria, acqua, ma anche spazio satellitare e cyberspazio). Ciò ci fa riflettere su quanto le esigenze della difesa siano cambiate dai tempi della CED; nondimeno la difesa comune resta un passaggio necessario nel progetto dell’Unione Europea e di una integrazione dei suoi popoli.

Rimangono comunque dubbi sulla sua fattibilità?
La cooperazione militare in ambito europeo ha raggiunto notevoli progressi. Questo è simbolo di come gli stati prediligano lo strumento della cooperazione, il quale non vede sminuita la sovranità, piuttosto che quello di una comune difesa dove l’interesse nazionale cede a quello sovranazionale e dove la condivisione può risultare contrastante. Basti pensare ai limiti dell’intelligence europea, data dalla difficoltà nella condivisione di informazioni da parte di apparati nazionali come i servizi di sicurezza. I grandi progetti ideali devono fare i conti con la realtà, dunque devono trovare trovare risposte e alternative adatte alle situazioni concrete, come si evince dall’esperienza storica.

Michelangelo Di Castro, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

Quel nodo chiamato autonomia. Perché le regioni non sono in cima all’agenda

Tutto da rifare. Sull’autonomia il governo non esce dallo stallo. Lo stesso ministro delle Autonomie in quota Pd Francesco Boccia, in visita a Pontida ai sindaci della valle Padana, si è lasciato andare a uno sfogo: “Ho detto fin dall’inizio di questo percorso sulla ricostruzione della fiducia reciproca tra i diversi livelli Istituzionali sull’attuazione dell’Autonomia differenziata che sarei stato ghandiano e non avrei accettato provocazioni tra fazioni”. Ma, ha promesso ai primi cittadini del Nord il ministro dem, “non ho nessuna intenzione di trascorrere i prossimi mesi avendo lo stesso atteggiamento paziente con i partiti di maggioranza”.

L’autonomia differenziata è uno dei tanti scomodi dossier lasciati in eredità dal governo precedente a palazzo Chigi. La sostanza al centro della querelle è ormai nota. Tutto ruota intorno al Titolo V della Costituzione Italiana e in particolare all’art. 116, introdotto con la riforma costituzionale del 2001, che al comma 3 prevede la possibilità, per le regioni a Statuto ordinario, di introdurre in alcune materie “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. In poche parole, di ridurre il gap che distanzia le loro competenze da quelle previste dalla Costituzione per le regioni a Statuto speciale. Il comma, rimasto finora inattuato, è tornato agli onori delle cronache nell’ottobre del 2017, quando un referendum in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, le tre regioni al centro del “motore industriale” del Paese, si è concluso con la richiesta al governo di maggiori forme di autonomia ex art. 116, 3.

Il 28 febbraio del 2018 le tre regioni hanno sottoscritto ciascuna un accordo preliminare con il governo, allora presieduto da Paolo Gentiloni, individuando metodologia, materie e principi regionali che avrebbero dovuto informare la devoluzione di nuove competenze. L’intesa non è però mai passata per il vaglio del Parlamento. Complici le distanze che hanno caratterizzato le posizioni dei due maggiorenti del governo Conte 1, Lega e Cinque Stelle. Nonostante la materia sia stata inserita nel “contratto di governo”, le due forze di maggioranza non hanno saputo trovare una soluzione di compromesso. Il pressing della Lega per “fare in fretta” si è più volte scontrato con le reticenze dei Cinque Stelle, formalmente a favore ma più volte trovatisi divisi sul da farsi, con gli appelli da diverse correnti del partito (specie, si intende, dai parlamentari del Sud) a non creare “regioni di serie A e serie B” e non scavalcare le competenze del Parlamento in materia.

Sullo sfondo uno scoglio tecnico che ha animato il dibattito fra addetti ai lavori. Ovvero la scelta di calibrare la devoluzione di ulteriori materie alle regioni non più sul criterio della “spesa storica” ma su quello dei fabbisogni standard della singola regione, anche detti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni, riferiti in particolare a tre materie: Istruzione e formazione, Salute e Assistenza sociale). In teoria il nodo è presto sciolto. La legge 42/2009 attuativa dell’art. 119 Cost., più conosciuta sotto il nome di “Federalismo fiscale”, prevedeva infatti già di “sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica” con quello dei fabbisogni standard. Politicamente attuare questa previsione non è bere un bicchier d’acqua.

Fra rilanci e continui rinvii, dunque, l’autonomia differenziata è rimasta congelata fino all’entrata in carica del nuovo governo. Che, tramite Boccia, ha promesso dai primi giorni di riportare al centro dell’agenda la questione e di definire, dopo un’approfondita interlocuzione con le regioni (a quelle originarie man mano se ne sono aggiunte altre, come Piemonte e Toscana), una legge quadro da votare entro dicembre. L’interlocuzione c’è stata, la legge quadro no. O meglio, non ancora. Perché l’intesa politica fra le regioni chiamate in causa è stata trovata, parola di Boccia, “da tutte le regioni”.

Peccato che non sia ancora chiaro come l’intesa si trasformerà in legge. Una prima ipotesi, auspicata dallo stesso ministro, prevedeva di inserire il tema dell’autonomia in un emendamento alla legge di Bilancio. Cassata da quasi tutti i partiti di maggioranza, e soprattutto da Italia Viva e Cinque Stelle, che hanno letto la proposta come un “blitz” inopportuno su una materia delicatissima, la soluzione è rimasta sulla carta. Mentre un altro anno si avvia alla conclusione e il governo è (comprensibilmente) alle prese con altre emergenze, crisi bancarie e industriali in testa, l’impressione è che il regionalismo differenziato sia ormai considerato una delle tante “tele di Penelope” della politica italiana. Tessute di giorno, disfatte di notte, purché non trovino mai la luce una volta per tutte.

F.B.

L’Europa, dono o progetto? Parla Ferraresi

archenet.org

Oggi sempre di più l’Europa sta diventando campo di dibattito e malcontento comune, bisogna sforzarci a far nostre le parole di Alcide De Gasperi pronunciate per il Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea nel ’54: l’Europa «è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere o di pretese da rivendicare» perché «all’origine dell’idea d’Europa vi è la figura e la responsabilità della persona umana». Le radici europee sono una questione a volte dimenticata e proprio per questo la Fondazione De Gasperi per la V edizione della Scuola di Formazione Politica in collaborazione del Wilfried Martens Centre for European Studies tenutasi a Roma ha intervistato Mattia Ferraresi, giornalista Il Foglio, per avere un quadro più dettagliato su una tematica così spinosa.

Da cosa dovrebbe ripartire l’Europa per ricercare le proprie radici e la propria identità?

È fondamentale rifarsi una domanda forse oziosa e per alcuni troppo filosofica. Che cos’è l’Europa? Bisogna vedere qual è la sua natura più profonda e in che modo c’è stata consegnata, ma non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Una distinzione che si può fare è quella di pensare l’Europa come dono, qualcosa che abbiamo ricevuto dalle nostre generazioni attraverso la trasmissione di alcuni ideali di cui i nostri padri erano animati, ma forse questi non ce li ricordiamo più, o meglio, non siamo in grado di riconoscerli proprio per il fatto di aver dimenticato che l’Europa è un dono, un’eredità non meritata. L’errore è di considerare tutto questo come un progetto, un qualcosa fatto dalle nostre mani e che richiede, perciò, il necessario contributo di tutti mantenendo noi stessi al centro. Ritengo che una buona idea per riscoprire l’identità europea sia proprio questa e cioè avere il coraggio e la voglia di concepire l’Europa come un dono.

Se partiamo da questo assunto ci troviamo di fronte ad una realtà storica e fattuale molto diversificata. Dobbiamo problematizzare l’esistenza di tante Europe differenti, in questo senso?

Da sempre esiste un dibattito su tutte le idee politiche umane. L’Unione Europea è stato un tentativo animato da un forte dibattito in cui alcune visioni dell’Europa si sono scontrate e hanno dialogato; in parte si sono fuse ma dall’altra si sono divise. Certamente, l’idea di Europa che era all’origine e nel cuore di alcuni padri fondatori europei dove spiccano De Gasperi insieme a Schumann ed Adenauer – la triade che non si può non citare – avevano una certa idea di Europa e io trovo che questa porti ad una Europa disattesa ed in alcuni casi addirittura tradita e per questo è bene averlo presente nel dibattito sia nel modo libero e sia in quello laico. Sono concetti che si possano mettere al centro come in tutte le famiglie; è fondamentale che si torni a dibattere su questa dialettica ormai dimenticata.

Luca Di Cesare, Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

https://youtu.be/S5i30PR3kw4

La versione di Blangiardo sul regionalismo differenziato

Come da consuetudine in Italia, il dibattito sul regionalismo differenziato ha portato ad una polarizzazione delle opinioni in merito alla proposta delle regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, di un ampliamento delle loro competenze in ambito sanitario e scolastico, con evidenti ricadute sulla ridistribuzione delle risorse fiscali tra Stato centrale e Governo regionale. Spesso, tuttavia, vengono tralasciati in questo dibattito elementi demografici e statistici, che tornerebbero certamente utili per una riflessione più accurata e precisa sul tema. Proprio per questo, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istat e professore di demografia presso l’Università Milano-Bicocca, per avere un quadro più chiaro su una questione così complessa.

Dati alla mano, la richiesta di competenze aggiuntive nel governo regionale, secondo quanto
previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzione, da parte di Emilia-Romagna, Veneto e
Lombardia rappresenterebbe un turning point decisivo della questione settentrionale, ovvero
un rischio concreto di un aumento del divario economico e sociale tra Nord e Sud?
Ci troviamo di fronte ad un Paese, in cui ovviamente persistono differenze. L’Istat continua a monitorare attraverso una serie di indicatori statistici su base regionale, quella che viene tecnicamente definita come misura del benessere equo e sostenibile (BES). Si tratta di 12 parametri ( livello e qualità delle prestazioni erogate in ambito sanitario, scolastico, ecc.), con cui è possibile fotografare in maniera più precisa le differenti realtà regionali e locali italiane. Se ci soffermiamo ad una mera valutazione economica, è innegabile constatare la persistenza di un clivage, che una volta veniva identificato con l’immagine delle “due Italie”. Se si allarga, tuttavia, il campo d’analisi alle esigenze e ai bisogni del tessuto sociale italiano, si può scorgere invece una sorta di omogeneizzazione del quadro socio-demografico del Paese.

Ovvero?
Una volta vi era la tendenza statistica di un Meridione con un tasso di natalità nettamente superiore rispetto a quello dell’Italia settentrionale, mentre negli ultimi anni si è assistito ad un livellamento del trend demografico, in cui, tuttavia, è il Settentrione ad avere un indicatore di natalità leggermente superiore. Questo testimonia l’omogeneizzazione dei costumi e dei comportamenti della popolazione italiana: dal tasso di nuzialità e di divorzio, passando alle nuove e differenti richieste dei cittadini in termini di welfare State. Quest’ultimo aspetto si lega ad un altro tema cruciale delle nostre rilevazioni statistiche, ovvero quello dell’invecchiamento della popolazione italiana, che ormai riguarda in maniera indistinta l’intera comunità nazionale senza alcuna differenziazione tra Nord e Sud, con evidenti ricadute sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico e assistenziale. Ciò che rimane, tuttavia, fortemente polarizzato non è naturalmente la domanda di servizi da parte dei cittadini, ma l’offerta di servizi delle amministrazioni regionali e locali, con un evidente squilibrio a favore dell’Italia settentrionale. In tal senso, non deve stupire la costante crescita della cosiddetta migrazione sanitaria, di fronte ad una generalizzata situazione critica da parte delle regioni meridionali nell’erogazione di prestazioni e servizi sanitari ai propri cittadini. La questione cruciale, a mio avviso, si giocherà sulla ridefinizione di regole e meccanismi istituzionali per il ri-allineamento nazionale dell’offerta dei servizi assistenziali e previdenziali.

Con una crescente omogeneizzazione dei bisogni della popolazione italiana, la partita verrà
giocata essenzialmente sulla redistribuzione delle risorse fiscali?
La ridistribuzione delle risorse fiscali è un elemento fondamentale per intervenire sulle dinamiche sociali ed economiche dell’intero sistema-Paese, a fronte di una “coperta” economica sempre più corta. Qui entrano naturalmente in gioco valutazioni politiche. Tuttavia, se vogliamo che il Paese sia produttivo, dobbiamo cercare di incentivare le realtà più floride ad accrescere maggiore ricchezza, provando a risolvere le criticità di un apparato burocratico-amministrativo, che spesso si trasforma in un ostacolo e in un disincentivo all’impresa. In definitiva, occorre mettere ogni amministrazione – da quella locale fino a quella nazionale- di fronte alle proprie responsabilità.

Gian Marco Sperelli e Valerio Gentili, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

 

https://www.youtube.com/watch?v=f1ZDkGO4GQQ

L’obiettivo della difesa europea si avvicina?

Lo scorso novembre la Pesco, ovvero la Cooperazione Strutturata Permanente, si è arricchita di tredici nuovi progetti, dopo l’approvazione del Consiglio dell’Unione Europea, arrivando quindi ad un totale di 47.

Questi progetti, a cui aderiscono nel complesso 25 Paesi, servono ad approfondire le collaborazioni tra i settori della difesa e della sicurezza dei diversi stati europei. La Francia diventa così il primo paese per numero di partecipazioni ai progetti (30), l’Italia, insieme alla Spagna, è seconda (24). Quando fu istituita, nel dicembre 2017, sembrava potesse essere finalmente la pietra fondante della difesa comune europea. A distanza di due anni la situazione è ancora in divenire e non esente da criticità.

Una su tutte probabilmente è lo sviluppo della cosiddetta EI2 (European Intervention Initiative), fortemente voluta dal presidente francese Macron e a cui ha aderito da poco la stessa Italia. Questa iniziativa, nata nel giugno 2018, è stata sviluppata, secondo molti, proprio con lo scopo di agire lì dove i programmi della Pesco non arrivano. C’è da dire inoltre che l’EI2 non ha alcun legame ufficiale con l’Unione Europea, con i suoi organismi e le sue istituzioni, a differenza della Cooperazione Strutturata e del Fondo per la Difesa (EDF). In molti pensano che l’EI2 serva soprattutto alla Francia per agire in determinati contesti in cui gli interessi di Parigi sono maggiori, senza dover passare per autorizzazioni di Bruxelles e Washington.

Macron insomma cerca di creare un’alternativa alla Pesco, e tra i suoi obiettivi più o meno dichiarati c’è quello di tentare di mantenere il Regno Unito legato al mondo della difesa europea., l’interlocutore sui temi di sicurezza per eccellenza della Francia. Quest’ultimo infatti ha aderito all’EI2, nonostante l’iter della Brexit in corso. Inoltre Macron vuole che la Francia abbia il ruolo principale e indiscusso delle politiche difensive del Vecchio Continente, forte anche del fatto di essere l’unica potenza col nucleare (tolta la Gran Bretagna). Per questo sorprende, ma non troppo, l’attivismo francese nei progetti Pesco.

Non sorprende neanche il fatto che il nuovo commissario europeo incaricato delle questioni della Difesa sia il francese Thierry Breton. Quest’ultimo ha affermato che “la difesa sarà un nodo essenziale nei 5 anni che aspettano questa Commissione e sarà sotto la mia responsabilità, con la creazione, per la prima volta, di un’industria europea di difesa coordinata in parte dalla Commissione europea”.

Se è vero che un esercito comune europeo non potrà esistere fin quando non ci sarà una vera e propria politica estera comune, è anche vero che non sarà possibile se prima l’industria della difesa europea non sarà realmente cooperativa e integrata. Oggi in alcuni casi i rapporti di integrazione riescono ad essere positivi, come per esempio nel caso di Naviris, la neo joint venture tra Fincantieri e Naval Group. In altri, come nel caso dei diversi progetti franco-tedesco e anglo- italiano per il caccia del futuro, le aziende di bandiera leader nel settore non riescono a integrarsi in maniera unica. La vera integrazione industriale è uno dei principali scogli su cui il progetto difensivo europeo si scontra ciclicamente.

Se dall’altra parte dell’Oceano, Washington e la NATO, si sono dichiarati a favore di una difesa comune europea e del suo ruolo complementare con l’Alleanza Atlantica, sono invece rimasti scettici al nascere dell’iniziativa di Macron. Non è un caso che il presidente francese, solamente qualche giorno fa, ha affermato che la NATO è in uno stato di ‘morte cerebrale’. Nel summit di Londra di questi giorni, Macron e Trump (che pure non è mai stato particolarmente tenero con l’Alleanza e con l’impegno di alcuni suoi paesi membri) si sono scontrati in maniera piuttosto accesa su questo punto.

In un momento piuttosto complicato per l’Alleanza Atlantica, in cui le divisioni al suo interno sono piuttosto palesi e le sfide da affrontare sono mutevoli, l’Italia e l’Unione Europea devono continuare a sviluppare il sogno degasperiano di una difesa comune, consapevoli del fatto che le attività prettamente europee e quelle nord-atlantiche possano procedere di pari passo, rafforzandosi le une con le altre. La convinzione è che solamente un impegno generale e concreto di ogni stato membro, senza ricerche di protagonismi particolari, possa portare al raggiungimento dell’obiettivo.

Luca Sebastiani

Guerra dei dazi tra Cina e USA secondo Lombardi

L’Amministrazione americana di Donald Trump verrà ricordata a lungo per il duro “braccio di ferro”, ingaggiato con la Cina di Xi Jinping, per riportare ad una situazione di maggior equilibrio della bilancia commerciale delle due super-potenze. Ma quali sono le reali implicazioni strategiche e geopolitiche nella guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina? Per una breve panoramica sulla questione, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Domenico Lombardi, economista e già Senior Fellow presso Brookings Institution.

Qual è l’influenza della Cina nell’economia occidentale?
Oggi l’economia cinese ha un ruolo fondamentale di propulsore dell’intera economia mondiale. Questo ruolo è stato significativo nelle ultime decadi, dove l’economia cinese è cresciuta con tassi a due cifre, arrivando anche alla soglia del 12%.Anche se negli ultimi anni l’economia cinese è scesa in termini di tassi di crescita, l’economia del Dragone continua, tuttavia, a svolgere un ruolo importante nell’alimentare la crescita mondiale, a maggior ragione dal periodo della grande crisi internazionale 2007-2009, rispetto al quale abbiamo visto ridursi l’apporto dell’economie occidentali nel crescita del Pil mondiale.

Quale posizione ha assunto ad oggi l’Unione Europea: spettatrice silenziosa o protagonista in cerca di nuovi impulsi commerciali?
Fino ad oggi l’Europa ha svolto un ruolo importante, ma silenzioso, nel cercare di conquistarsi un accesso quanto più ampio possibile in questo mercato cinese estremamente dinamico. Quello che noi vediamo con la Via della Seta, ma anche con altre iniziative promosse di recente dal Governo di Pechino, è che in qualche modo la Cina sta cercando di cooptare l’Unione Europea in funzione antiamericana. Questo è il motivo per cui la Via della Seta ha creato una serie di frizioni anche a Washington e in alcune importanti capitali europee. Nel prossimo futuro assisteremo a ulteriori iniziative, che mireranno in qualche modo a far sì che l’Unione Europea prenda una posizione più “univoca” sulla questione.

A suo avviso, lo scontro a cui si assiste assume dunque una natura prettamente economica o rileva una natura ideologica?
Va detto che quando si parla di guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’opinione pubblica tende ad assimilare questa guerra commerciale con un esito, che è quello del riequilibrio del saldo commerciale bilaterale. Lo scontro tra Washington e Pechino ha, in realtà, una natura molto più strategica, ed è in particolare legata alla recente politica industriale che il Governo cinese ha varato  con il “Programma Cina 2025”. Secondo le Autorità cinesi, entro il  2025 la Cina dovrà raggiungere la propria indipendenza tecnologica in settori come la robotica e l’industria aerospaziale. Si tratta quindi di una Cina che diventerà sempre meno manifatturiera, intensificando ancor di più i propri investimenti statali verso l’industria high-tech. In altri termini, si tratta di minare dalle fondamenta la supremazia economia americana che, appunto, si basa essa stessa sull’egemonia nel campo tecnologico e nel settore delle infrastrutture strategiche.

Ludovica Pietrantonio

 

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La caduta del muro di Berlino oggi, trionfo di democrazia e libertà

A trent’anni di distanza abbiamo il compito di ricordare e fare nostro quel desiderio prorompente di pace e sviluppo che portò alla caduta del muro di Berlino, con lo scopo di abbattere i muri innalzati nella società contemporanea.

In questi giorni, nel 1989, tutto il mondo si fermò ad assistere al crollo del muro di Berlino, che divise in due, fin dal 1961, la città tedesca e l’intera Germania. La data ufficiale è quella del 9 novembre, giorno in cui, a seguito di un errore del portavoce socialista Guenther Schabowski in una conferenza stampa internazionale, venne di fatto annunciato che, a partire da quel momento, i tedeschi dell’est avrebbero potuto viaggiare e spostarsi all’estero (e in Occidente) senza bisogno di particolari procedure o motivazioni.

Quella stessa sera centinaia di migliaia di persone della Germania dell’Est, inondarono i checkpoint del muro riuscendo a passare da una parte all’altra, anche perché le guardie non avevano ricevuto ordini e tra di loro prevalse il buon senso di lasciar passare le persone senza aprire il fuoco. La popolazione tedesca, desiderosa di libertà e democrazia, distrusse il muro che per quasi trent’anni l’aveva pesantemente limitata. Fu la fine della Guerra Fredda, dei blocchi contrapposti, dell’Unione Sovietica che piano piano si sfaldò anche grazie alla rivalsa dei popoli dell’Europa dell’est.

Quel giorno di trent’anni fa è giustamente ricordato come uno dei momenti storici per eccellenza di tutto il cosiddetto secolo breve. Nel giro di pochi mesi la divisione tra l’est e l’ovest del mondo veniva meno e l’Europa stessa riabbracciava una parte di essa, il processo di crescita dell’Unione Europea poteva quindi riprendere. Quel muro, oltre a ciò che è già stato detto, era considerato inoltre una delle eredità più gravi che aveva lasciato il secondo conflitto mondiale; abbattendolo le ideologie dominanti in tutto il ‘900 furono demolite, anche se non del tutto cancellate come possiamo notare tristemente oggi.

I vescovi europei della Comece (la Commissione delle Conferenze Episcopali d’Europa) evidenziano come la caduta del Muro sia non solo un evento storico da celebrare ma una grande lezione per tutta l’umanità: la costruzione di barriere fisiche non è mai una soluzione. In tempi in cui i nazionalismi rifioriscono bisogna ricordarsi di come il progetto dell’Ue sia pacifico e volto alla libertà, tramite dialogo e cooperazione.

Anche se innegabilmente non tutte le aspettative furono pienamente soddisfatte, il crollo del muro di Berlino permise all’Europa di diventare più forte e libera, visto che fu uno spartiacque importantissimo per molti paesi dell’est. Per questo non bisogna permettere che nuovi muri vengano costruiti o consolidati in tutto il mondo, specialmente in Europa. Gli esempi lampanti sono i muri che dividono quartieri o aree cittadine in Irlanda del Nord, o i muri che tentano di arginare forzatamente i flussi migratori in Ungheria o al confine tra Stati Uniti e Messico.

Ma le barriere che sorgono oggi non sono solamente fisiche: si parla infatti simbolicamente di veri e propri muri economici, sociali, culturali, i quali non fanno altro che acuire le divisioni tra intere popolazioni. Crescono nuovi focolai di populismi e di estremismi che, incanalati spesso da politiche di odio e di paura, danneggiano e ostacolano l’Ue dall’interno.

Oggi, come il 9 novembre del 1989, bisogna far sì che a trionfare siano la libertà e la democrazia, contrastando la rinascita di barriere simboliche e fisiche, che mirano alla caduta di quel mondo creatosi a seguito del crollo del muro di Berlino.

Luca Sebastiani

Taglio dei parlamentari. Il prezzo di una riforma monca

Rischia di rimanere una riforma a metà il ddl approvato a inizio a ottobre per tagliare il numero dei parlamentari. Sull’iter che deve seguire l’intervento legislativo, bollino di garanzia della maggioranza Pd-Cinque Stelle, pende più di un punto interrogativo. I numeri sono noti, ma è bene comunque ricordarli. I deputati scenderanno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, per un totale di 345 parlamentari in meno. Licenziata dalla Camera con 553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, la riforma costituzionale entrerà in vigore a inizio gennaio, scaduti i tre mesi previsti dalla Costituzione.

L’intervento ha suscitato accese reazioni. Dalle esultanze un po’ scomposte a piazza Montecitorio del Movimento Cinque Stelle, che ne ha sempre fatto una bandiera, alle altrettanto scomposte reazioni di chi ha paventato “un colpo al cuore della democrazia” e alla legittimità del Parlamento. Sull’opportunità politica della riforma è bene tenersi alla larga dalle opposte tifoserie. I sondaggi parlano: non è un mistero che una larga maggioranza dell’elettorato ritenesse da tempo necessario un segnale in questa direzione dal mondo della politica. Anche i numeri parlano, e raccontano un impatto sui costi della politica assai meno incisivo di quello sbandierato dai proponenti. Secondo l’Osservatorio italiano sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, il risparmio netto conseguente alla riforma addirittura non supererebbe lo 0,007% della spesa pubblica italiana.

Numeri a parte, l’incognita più grande dietro il taglio dei parlamentari riguarda l’istituzione che più di tutte viene toccata dalla riforma: il Parlamento. Come è noto, la sola riduzione degli eletti avrebbe un impatto non secondario sull’incisività dei lavori parlamentari nella vita politica del Paese e rischierebbe di alterare una volta per tutte il già precario equilibrio fra potere esecutivo e potere legislativo. Per questo, in cambio di un sì alla riforma, il Pd ha chiesto all’alleato di governo di mettere in campo una serie di interventi legislativi con lo scopo di mitigarne in parte gli effetti. Tra questi, la riduzione del numero dei delegati regionali abilitati a partecipare alle riunioni del Parlamento in seduta comune, la trasformazione da regionale a circoscrizionale della base elettorale del Senato (come alla Camera), l’uniformazione dell’elettorato attivo e passivo fra Camera e Senato (18 e 25 anni). E poi ancora l’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva.

Sul tavolo c’è anche, almeno sulla carta, l’impegno a “limitare in maniera strutturale il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia”. Un proposito nobile, se non fosse accompagnato da una postilla messa nero su bianco dai capigruppo della maggioranza che lascia immaginare un passo indietro. Cioè l’intenzione di intervenire “sulla disciplina del procedimento legislativo allo scopo di dare certezza di tempi alle iniziative del Governo”. Non è chiaro quali debbano essere i nuovi strumenti per dare tempi certi all’azione governativa. Di certo non se ne sente il bisogno impellente, vista l’infinita schiera di ghigliottine e “canguri” che già oggi i regolamenti parlamentari concedono all’esecutivo per interrompere la discussione in aula.

L’impressione è che al di là del risultato politico manchi un preciso disegno istituzionale e una chiara idea sul ruolo che debba spettare al Parlamento una volta alleggerito dei parlamentari “in eccesso”. Rebus sic stantibus, gli effetti de-legittimanti dei poteri dell’istituzione sono evidenti. Sia politici, basti pensare alla pervasività che le segreterie dei partiti potranno vantare su gruppi parlamentari più piccoli e meno inclini alla dissidenza. Sia istituzionali: è il caso della mutata rappresentatività dell’istituzione, che senza correttivi (come una riforma elettorale con annesso ridisegno dei collegi) rischia di penalizzare alcune regioni più di altre (come la Sicilia).

In poche parole, la riforma è incompleta, e così com’è consegna al Paese un Parlamento forse apparentemente più efficiente, ma ancora meno incisivo di quanto già non lo fosse prima del voto di ottobre. Come non bastasse, sul suo completamento pendono due spade di Damocle. La prima è il referendum confermativo che una nutrita pattuglia di parlamentari (compresi, sic!, alcuni Cinque Stelle) intendono chiedere entro gennaio per dare la parola agli elettori. Per farlo serve una minoranza in Parlamento decisa dalla Costituzione pari a un quinto dei membri di una camera, oppure al voto di mezzo milione di elettori o di cinque consigli regionali. I primi due obiettivi non sono fuori portata per i proponenti. Così non è fantascienza la possibilità di un referendum che dilazionerebbe di molto i tempi per l’approvazione della riforma (per i più maliziosi, anche la vita del governo).

La seconda si chiama legge elettorale, ed è la nuova linea Maginot della politica italiana. Non è un mistero con un così drastico taglio dei parlamentari il modello che più garantirebbe la rappresentatività è quello di una legge proporzionale di lista con una soglia di sbarramento piuttosto bassa. È il modello che chiede la maggioranza (non senza divergenze di vedute), che però, stando ai sondaggi, gode di scarsa popolarità nell’elettorato. In alternativa c’è la proposta leghista di un referendum per introdurre un “maggioritario all’inglese”, iniziativa che corre il serio rischio di scontrarsi con la bocciatura della Corte Costituzionale. Così fra mille incognite, il destino della riforma resta in bilico, assieme a quello del Parlamento. Costretta a una brusca cura dimagrante (legittima o meno), l’unica istituzione eletta dai cittadini può uscirne fuori ancora più deperita. Effetto collaterale oppure obiettivo raggiunto?

 

F.B.

La Germania a 30 anni dalla caduta del muro di Berlino secondo Castellani (Luiss)

Qual è lo stato di salute della Repubblica Federale Tedesca a 30 anni dal crollo del muro di Berlino, che portò nel giro di pochi anni alla riunificazione della Germania?

Per una panoramica sulle conseguenze storico-politiche di quell’evento cruciale nella storia europea, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Lorenzo Castellani, storico delle istituzioni politiche e docente presso la Luiss Guido Carli di Roma.

A distanza di 30 anni dalla caduta del muro di Berlino, quanto sono radicate le differenze tra la Germania dell’Ovest e la Germania dell’Est sia dal punto di vista socio-economico ma anche dal punto di vista politico?

La Germania ha sicuramente mantenuto palesi differenze tra la parte orientale e quella occidentale. Quest’ultima è ancora il cuore economico della Germania dove risiedono gran parte delle grandi industrie tedesche. La Germania orientale (ex Germania dell’Est) ha oggi un livello medio dei salari inferiore del 20% rispetto a quelli della Germania occidentale, ed ha una minima parte del grande apparato industriale tedesco all’interno del proprio territorio. Questo determina differenze anche dal punto di vista politico. Nell’area occidentale della Germania c’è ancora un consenso abbastanza solido per i partiti tradizionali, in particolare nei confronti della CDU. Al contrario, nella Germania orientale, stiamo vedendo in molti Länder uno spostamento a destra dell’elettorato verso“alternative für deutschland”. Questo chiaramente determina uno spostamento del baricentro del
sistema politico tedesco ed una maggiore capacità di condizionare l’azione della coalizione di governo da parte dei territori dell’est, a seguito della crescente domanda di cambiamento politico e di radicalizzazione dell’offerta politica.

Considerando il risultato in Turingia (24%) dell’ AFD, se questo differenze dovessero protrarsi o aumentare ulteriormente nel tempo, si potrebbe creare una sorta di parallelismo facendo le dovute proporzioni, con l’annosa questione meridionale italiana?

Fare paragoni con l’Italia è sempre difficile. In Italia il cleavage nord-sud resta irrisolto, come per certi versi, è rimasta senza soluzioni la questione est-ovest in Germania, ma con l’evidente differenza che l’Italia ha avuto anche molto più tempo per risolverla. La questione meridionale italiana, infatti, ha da sempre riguardato maggiormente il livello politico-amministrativo (con evidenti ricadute anche da un punto di vista economico), a differenza della Germania, in cui il problema è eminentemente economico-produttivo. Ovviamente entrambi i Paesi vivono al loro interno fortissime polarizzazioni sociali con la discriminante – non secondaria– che la Germania è uno Stato federale, mentre l’Italia è uno Stato che ha un centralismo debole.

Focalizzandoci sulla CDU, cosa può fare la nuova segreteria targata Karrenbauer per placare l’emorragia di voti a destra? Dovrebbe cercare un’assoluta discontinuità con la precedente segreteria ed in questo caso, cosa potrebbe cambiare a livello europeo?

La discontinuità mi sembra molto difficile perché la figura della Merkel è ancora abbastanza popolare in Germania. In questo primo anno di segreteria della Kramp-Karrenbauer non c’è stata una volontà di discontinuità così netta rispetto al periodo “merkeliano”. La CDU ha di fronte a sé due possibili strade: la prima è quella di allinearsi all’elettorato più conservatore cercando di drenare i consensi confluiti verso “alternative für deutschland”, quindi assumendo una maggiore durezza dal punto di vista della politica fiscale ed una maggiore intransigenza nella gestione dei flussi migratori; la seconda opzione è quella, invece, di puntare sull’espansione fiscale quindi di varare manovre di intervento pubblico e detassazione più massicce, per cercare di riassorbire il malcontento oltre ovviamente a mantenere una linea sull’immigrazione abbastanza ferma – ma non estremizzata come quella del’AFD – poiché molto di quel consenso deriva dalla questione dell’immigrazione. La seconda ipotesi imporrebbe anche un cambiamento delle regole ed un allentamento dei vincoli europei e ,di fatto, porterebbe ad una Germania meno avvitata su di sé e più “europeista”.

È evidente che la CDU dovrà scegliere verosimilmente tra i verdi che sono appunto una forza nascente o l’AFD. Oggi lo scenario “alternative fur deutschland” come alleanza a destra della CDU sembra quasi fantascienza o comunque sembra una ipotesi residuale. In realtà diversi analisti della politica tedesca nel lungo periodo non escludono che questa saldatura possa avvenire. Al contrario con i verdi sarebbe un’alleanza di tipo centrista, da leggere in un’ottica di sviluppo di integrazione europea e di ammorbidimento dei vincoli fiscali europei.

 

Antonio Mancuso e Nicolò Tozzi

 

Il video dell’intervista:

https://www.youtube.com/watch?v=U40Zc0pK25Q