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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

L’eredità di due padri dell’Europa

Questo articolo è l’ultimo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

Le profonde differenze che separavano Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli non impedirono la particolare sintonia che si creò tra i due personaggi nella collaborazione alla costruzione del loro sogno comune. L’Europa unita. Infatti Spinelli, fondatore del Movimento Federalista Europeo, trovò in De Gasperi, europeista convinto, un interlocutore attento e disponibile all’ascolto, e contribuì così a rendere sempre di più il suo europeismo di tipo federalista.

Si può dunque dire che De Gasperi nutrì il suo federalismo anche delle elaborazioni di Spinelli. De Gasperi, fra l’altro, aveva una rara capacità di aprirsi agli apporti culturali provenienti da ambienti diversi, traendone tutto ciò che di positivo poteva venirne alla sua azione politica. Egli seppe recepire dalla cultura federalista quegli spunti istituzionali che senza difficoltà andavano a integrarsi nel suo iter formativo, facendone risultare un approccio ai temi europei assolutamente originale.

Si trattò quindi di un fecondo confronto di idee e di un reciproco arricchimento ed è forse in questa chiave e in questo sforzo di armonizzazione che va ricercata l’eredità più importante lasciata da De Gasperi e Spinelli. Infatti, sebbene non sia andato in porto il progetto che più avevano a cuore – la CED e il tentativo di una Federazione europea – resta infatti a futura memoria l’unità di intenti con cui i due padri dell’Europa, con fedi così distanti, lavorarono alacremente. Si può quindi affermare che fra i due padri fondatori, con storie e convinzioni così dissimili, vi sia stata un’unione di intenti e persino un’affinità maggiore di quanta ciascuno di loro ne trovò fra i propri compagni politici.

Questo vale certamente per De Gasperi, il cui federalismo non fu compreso e accettato da tutti, né all’interno della Democrazia Cristiana, né all’interno dei suoi governi, fra i suoi stessi Ministri. Ma vale anche per Spinelli, le cui tesi federaliste radicali furono difficili da digerire persino tra i membri del Movimento Federalista, oltre che fra le altre correnti europeiste. Condivisero pertanto, oltre ad un nucleo importante di idee, anche quello che spesso è il destino di molti precursori e visionari: l’essere difficilmente compresi dai loro contemporanei.

L’idea di Europa in De Gasperi e Spinelli

Questo articolo è il secondo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

La grande differenza di pensiero, nonché le diverse convinzioni in antitesi, non impedirono ad Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli di condividere il comune sogno europeista. Si potrebbe osservare come, nonostante la notevole distanza che separa i due personaggi, si sia creata una sintonia, in particolare, attorno a tre questioni concernenti il progetto di uno stato europeo.

La prima attiene al “tipo” di europeismo. Entrambi imboccarono infatti con convinzione la soluzione propriamente federalista, nella consapevolezza che fosse distinta dalla strada funzionalista e da quella confederale, restia ad accettare effettive limitazioni di sovranità nazionale in favore di istituzioni sopranazionali.

Il punto non fu di carattere teorico. Si trattava di considerare la costruzione europea come un effettivo processo di devoluzione di competenze statali alle istituzioni federali. Non bastavano istituzioni europee in cui ogni Paese trovasse la sua rappresentanza attraverso i propri governanti, ma di istituzioni europee tendenzialmente indipendenti dagli Stati. Il principio federalista richiedeva infatti la creazione di un’autorità politica svincolata dagli interessi dei singoli Stati, che andasse oltre la mera cooperazione e fosse autenticamente sopranazionale.

La seconda attiene alla democrazia. De Gasperi e Spinelli si trovarono infatti all’unisono non solo sul federalismo in senso autenticamente inteso, ma anche su di un aspetto non marginale, attinente alla rappresentatività delle istituzioni europee, ossia alla loro reale democraticità. Per entrambi, infatti, l’Europa avrebbe dovuto unire e rendere interdipendenti non solo i governi, ma anche i popoli. Gli stessi cittadini europei avrebbero dovuto consapevolmente partecipare a questa integrazione, attraverso il voto e attraverso istituzioni giuridiche federali che rendessero possibile la rappresentanza popolare, come il Parlamento europeo. I due padri fondatori avevano chiaro come l’unione europea dovesse essere un’opera realizzata dagli stessi popoli europei e non dalle varie agenzie specializzate, dalle diplomazie o da efficienti burocrazie sopranazionali.

La terza questione concerne la prospettiva sociale. Il federalismo di De Gasperi e Spinelli significava anche giustizia ed equità nelle relazioni fra i soggetti del nuovo ordinamento europeo. La fine del dogma della sovranità statale doveva infatti significare un cambiamento nelle relazioni economiche e nei rapporti di lavoro, e quindi un miglioramento delle condizioni di povertà e di disoccupazione del dopoguerra. L’Europa federale significava per loro una società più umana, tollerante, giusta e politicamente libera. L’aspetto della giustizia sociale fu dunque un ulteriore elemento di unione, sebbene fossero molto differenti i fondamenti dottrinali ed etici su cui si basava.De Gasperi si ispirava infatti alla dottrina sociale cristiana e ai suoi principi di dignità della persona, di solidarietà, sussidiarietà e bene comune. D’altra parte era altresì certo che la condizione di base per una convivenza pacifica passasse attraverso l’armonizzazione delle diverse correnti di pensiero. E che pertanto tutte – sia il liberalismo, sia il socialismo, sia il cristianesimo – fossero indispensabili per cementificare l’unione del continente. In uno dei suoi ultimi discorsi tenne a ribadire come l’essenza dell’internazionalismo fosse la sintesi storica di fattori ideologici diversi, ognuno dei quali arreca elementi giuridici, sociali e spirituali atti a promuovere l’unità e la pacifica collaborazione delle genti.

Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli: due fedi opposte e un ideale comune

Questo articolo è il primo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, nonostante la differenza di ruoli e di funzioni, di responsabilità politiche e, anche, di visione sociale, di credo e, non ultimo, di età, hanno apportato un contributo di primaria importanza per la costruzione dell’integrazione europea, anche collaborando insieme in alcune occasioni.

Il loro pensiero europeista però non può essere compreso appieno senza considerare il vissuto storico in cui operarono e si formarono queste figure e durante il quale si delineò la persuasione di questo ideale. De Gasperi, di origine trentina, visse il contesto multietnico e multinazionale dell’impero austroungarico, anche svolgendo incarichi politici, battendosi per la minoranza italiana che rappresentava e questo fu poi fondamentale per la sua concezione di un’Europa dei popoli. Allo scoppio della Grande Guerra si trovò quindi in una prospettiva particolarmente difficile, come uomo di frontiera fra l’Impero austroungarico e l’Italia e durante e dopo il conflitto si impegnò per salvaguardare la sicurezza e i diritti dei trentini.  Subì poi pesantemente le conseguenze del ventennio fascista, che per lui significò il carcere, la persecuzione, il nascondimento, lo scioglimento del partito in cui militava.

Altiero Spinelli visse invece il fascismo e la seconda guerra mondiale da giovanissimo militante comunista, come tale ricercato, imprigionato e confinato. Proprio gli studi condotti negli anni del carcere lo condussero però ad allontanarsi dal marxismo e dalle relative interpretazioni della realtà economica e sociale, per elaborare una prospettiva politica progressista autonoma e del tutto nuova, di cui la prima manifestazione fu il Manifesto di Ventotene, scritto durante la prigionia insieme ad Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941. Lo scenario successivo alla seconda guerra mondiale fu caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali, che coinvolsero non solo il nostro Paese, ma le principali Nazioni europee: tutto era da ricostruire in un quadro internazionale contrassegnato dalle nuove tensioni e incertezze dell’inizio della guerra fredda e della divisione del mondo per aree di influenza.

In questo contesto Alcide De Gasperi fu in grado di condurre il Paese, sconfitto dalla guerra, nell’area occidentale, e di ottenere che all’Italia fosse riconosciuta la dignità propria di una delle principali Nazioni dell’Europa continentale e, anche, il supporto economico, in particolar modo degli Stati Uniti. La questione dell’unità europea, in questo quadro, fu ritenuta da De Gasperi la condizione necessaria per una pace duratura, oltre che per l’autonomia politica italiana. La costruzione della federazione europea divenne così il perno dell’attività politica dello statista trentino e, in questo, i suoi obiettivi politici si trovarono a coincidere con quelli di Altiero Spinelli, per quanto il percorso personale e la formazione politica di quest’ultimo divergessero notevolmente da quelli di Alcide De Gasperi.

Spinelli infatti, inizialmente nelle file del Partito Comunista, se ne discostò, come si è detto, sempre di più, fino a divenire apertamente anticomunista. Ritenne infatti di dover attuare tutt’altra rivoluzione: quella volta a creare un nuovo Stato federale ad opera di forze popolari e democratiche, unica strada politica per eclissare definitivamente la sovranità nazionale, causa principale di guerre, conflitti e divisioni. Il Movimento Federalista Europeo, fondato per intuizione dello stesso Spinelli, divenne un punto di riferimento importante per De Gasperi. Quest’ultimo trovò così nei federalisti e, in particolare, nei memorandum di Spinelli, linee d’azione e programmi concreti, strategie istituzionali e propriamente costituzionali per giungere a creare organi comuni europei effettivamente indipendenti dai governi nazionali.

“La Banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”. Per una storia economica del Paese

Di Emanuele Lorenzetti

 

Dal 1947 l’annuale Relazione proposta dal Governatore all’assemblea dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia si è arricchita delle “Considerazioni finali”. Queste pagine conclusive riassumono gli elementi fattuali e analitici contenuti nel corpo della Relazione. Soprattutto danno al Governatore l’opportunità di esprimere in forma sintetica e con un diverso, personale linguaggio la propria visione degli accadimenti, dei problemi, delle soluzioni. […] Lungo settant’anni le Considerazioni degli otto Governatori della Banca d’Italia che dal 1947 al 2017 si sono succeduti offrono uno spaccato – storico appunto – della vicenda, non solo economica, italiana e mondiale”.

È con queste parole che Pierluigi Ciocca e Federico Carli, co-autori de “La banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”, introducono la loro pubblicazione a motivazione dell’opera omnia sull’Istituto di Via Nazionale. Si tratta di un’opera suddivisa in sei tomi che raccoglie tutte le Considerazioni finali pronunciate dai governatori della Banca d’Italia, dalle prime di Einaudi alle ultime di Visco, passando per Menichella, Carli, Baffi, Ciampi, Fazio e Draghi.

La Banca d’Italia ha sempre rivestito un ruolo di primo piano nel Sistema Paese, garantendo stabilità non solo economica, ma politica ed istituzionale. A detta di Federico Carli, nipote dell’ex Governatore Guido Carli, questa opera “vuole essere innanzitutto un omaggio e uno strumento per preservare il prestigio di una istituzione fondamentale della Repubblica”. Numerosi sono i fatti storici documentati con estrema chiarezza, profondità intellettuale ed informazioni statistico-econometriche che, legati tra loro, sottendono un filo rosso che ricostruisce la storia economica del Paese. A partire da Donato Menichella “banchiere e capitano d’industria”, così viene definito dagli autori Federico Carli e Pierluigi Ciocca, che resse da Direttore Generale la Banca d’Italia nel periodo giugno 1947/maggio 1948 con Luigi Einaudi governatore, negli anni della ricostruzione democratica ed economica del Paese. Erano anni difficili quelli del dopoguerra, durante i quali l’obiettivo primario era preservare la stabilità monetaria. Obiettivo, rammentano gli autori, che Menichella riuscì a raggiungere in quanto “il livello dei prezzi ingrosso, seppure fra oscillazioni, nel 1959 era lo stesso del 1947.”

Ma Menichella è ricordato anche per essere stato tra i protagonisti della cosiddetta stabilizzazione monetaria del 1947 insieme allo statista Alcide De Gasperi, il quale durante il suo quarto gabinetto ebbe il grande merito di ripristinare quella fiducia necessaria all’azione di governo, consentendo l’implementazione della strategia antinflazionistica nota come “Linea Einaudi”. Insomma un pezzo di storia italiana, un esempio vincente di collaborazione istituzionale tra politica, alta dirigenza pubblica e Banca d’Italia, in cui le migliori menti vollero unirsi per delineare strategie comuni di lungo periodo, nell’unico intento di consentire il progresso e lo sviluppo economico del Paese. Insomma, come si ebbe modo di definire altrove,è stato il “primo esempio di collaborazione tra politici e tecnici nell’Italia repubblicana”.

Ebbene una collaborazione istituzionale, quella tra l’Istituto di emissione centrale e le altre istituzioni pubbliche e private, che abbraccia tutte le fasi dell’arco costituzionale italiano.Se allora, nel dopoguerra, il tema prioritario era la garanzia della stabilità monetaria, negli anni a seguire in via Nazionale si dovette seguire molte altre questioni economiche. Se con Menichella gli sforzi convergevano su come far ripartire l’economia dopo le devastazioni della guerra, negli anni Sessanta l’economia italiana viveva una fase di splendore. L’alta dirigenza economica italiana si doveva porre la domanda: quale politica economica necessaria a seguire il formidabile sviluppo di quegli anni? Sono gli anni del governatorato Guido Carli in via Nazionale che “lasciò un’impronta marcata su tutti gli ambiti in cui una banca centrale è chiamata a operare: sull’economia internazionale, non solo europea, nella quale l’economia italiana si andava integrando sempre più saldamente, attraverso l’ascoltato contributo analitico, la costante opera di proposta, l’incisiva cooperazione sullo scacchiere finanziario mondiale; sull’attività di indagine statistica e sul governo dell’economia nazionale; sullo studio, la supervisione e l’orientamento del sistema creditizio e finanziario; sulla gestione e modernizzazione dell’Istituto”. Carli, economista lungimirante, fu però tra i primi a intravedere i segni di contraddizione della struttura socioeconomica italiana di quegli anni, quando ancora non erano visibili. Esperto di questioni monetarie internazionali, Carli contribuì inoltre all’internazionalizzazione della Banca d’Italia. Seguì con attenzione gli sviluppi con il crollo dell’ordine monetario internazionale istituito a Bretton Woods, in cui egli “manifestò perplessità sulla possibilità di ricostituire un sistema monetario mondiale basato sul principio della universalità, individuò la soluzione nell’istituzione di grandi aree valutarie che offrissero strumenti di regolamento dei pagamenti internazionali atti a facilitare il processo di aggiustamento tra vasti aggregati: Stati Uniti, Comunità economica europea, Giappone, paesi produttori di petrolio, paesi emergenti. Le fluttuazioni dei tassi di cambio tra grandi aree avrebbero dovuto rispecchiare l’andamento delle bilance dei pagamenti e non subire brusche oscillazioni provocate da flussi di capitali a breve termine”. Guido Carli è considerato da tutti Il Governatore, a lui infatti furono riconosciute doti manageriali sofisticate. Come scrivono Federico Carli e Pierluigi Ciocca, “Einaudi ripristinò l’indipendenza della Banca d’Italia, Menichella la consolidò, Carli la accrebbe”.

Ma quel prestigio e quegli alti splendori dell’Istituto di via Nazionale sotto la guida di Carli trovarono negli anni a venire una serie di eventi negativi come la vicenda Fazio dove “la Banca d’Italia non fu in condizione di ottenere il consenso del Presidente del Consiglio Berlusconi, del Ministro dell’Economia Tremonti e del Capo dello Stato Ciampi per una successione interna al vertice dell’Istituto.” Pertanto, la scelta ricadde su di un uomo esterno come Mario Draghi, il quale dovette avere come obiettivo primario il dover “ristabilire un clima di normalità”. È lo stesso Draghi a dire nel 2006: “A me (…) stava, sta, la responsabilità di accompagnarla nel ritorno al prestigio di cui ha sempre goduto; di guidarne il cambiamento in un contesto nazionale e internazionale profondamente diverso da quello che ha caratterizzato la sua storia”. Oltre a ciò, il Governatore Draghi ebbe come obiettivo primario il dover tornare alla crescita dell’economia nazionale: egli disse “La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso” (2011).

Tutti questi aneddoti, storie di vite ma soprattutto storie di persone che, attraverso la loro alta preparazione intellettuale, anteposero e tutt’ora antepongono l’interesse generale su quello particolare, ci aiutano a comprendere che la Banca d’Italia è tra le migliori istituzioni che il Sistema Paese abbia mai potuto avere. Il forte monito va alla politica, che sappia vedere in Via Nazionale un baluardo imprescindibile per il progresso e lo sviluppo dell’Italia. Ed anche quando tutto sembra andare bene ascolti i moniti che il Governatore sintetizza nelle sue “Considerazioni finali”.

 

 

Popolari e leghisti. La politica vista dal presidente del Copasir Raffaele Volpi

di Luca Di Cesare, Responsabile Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

Cosa è rimasto dell’eredità politica di De Gasperi? Popolari e populisti sono la stessa cosa? Cosa significa essere cattolici in politica? Abbiamo girato queste domande a chi la politica la conosce, e la fa, da tanto tempo. Raffaele Volpi, pavese, leghista della prima ora, oggi presidente del Copasir, il comitato di raccordo fra Parlamento, governo e agenzie di intelligence, non fa mistero di rivendicare le sue radici popolari e spiega perché, oggi, quella lezione politica appartiene a tutti quelli che ne sappiano fare tesoro.

 

Presidente, sappiamo che la sua storia politica non è stata estranea alla cultura della Dc, tra i cui fondatori ricordiamo Alcide De Gasperi, di cui la Fondazione porta appunto il nome. Chi oggi è erede di quella tradizione politica?

L’esperienza della Democrazia Cristiana è irripetibile per un elemento storico. Probabilmente serve una riflessione sui valori.Penso che ci sia un aspetto fondante: con Luigi Sturzo abbiamo sbagliato un punto alla base, cioè quello di tradurre le teorie economiche in quelle politiche, passando dal socialismo reale al liberismo. La politica non può essere subordinata all’economia ma deve essere in grado di governare i cambiamenti economici, altrimenti si rischiano i fallimenti che abbiamo vissuto.

 

Cosa direbbe ad un giovane che le chiedesse se si può essere oggi allo stesso tempo democristiani e leghisti?

Non si può essere democristiani perché non esiste più la Dc, ma si può essere popolari in qualsiasi partito. Io sono per il confronto.Oggi credo che ci siano delle anomalie nel sistema politico. La politica dovrebbe partire dall’interpretazione dei valori. Nel nostro Paese, per fortuna, apparteniamo tutti ad una radice valoriale comune, legata all’Occidente e all’atlantismo. È chiaro però che ci sono diverse declinazioni. Ritengo che parlare da un lato di un popolarismo non necessariamente centrista e dall’altro di un riformismo creerebbe un confronto più sano in questo momento.

 

Sentiamo molto spesso dire che esiste una domanda politica al centro, si parla di “moderati”. Chi sono, oggi, i moderati?

Penso che sia una declinazione meno interpretabile in assoluto. Il moderatismo è l’elemento personale per il quale ci si mette a servizio della politica o, meglio,un approccio più che una posizione politica. Questo significa che si può essere “moderati” in qualsiasi schieramento politico e ciò dovrebbe essere il richiamo per i giovani che vogliono impegnarsi nella politica.

 

Oggi in Europa il Partito Popolare europeo ha molte anime al suo interno che a volte sembrano parcellizzate, come spiega questa situazione?

È necessario un ripensamento da parte del Partito Popolare Europeo perché per molti anni in Europa ha governato con i socialisti europei. A mio avviso, rimane centrale la bontà del confronto politico. A livello sistemico, abbiamo una politica europea di compromesso; forse bisogna nuovamente considerare quali sono gli spazi comuni, ma tenendo a mente le differenze,anche perché nel Ppe ci sono delle diversità enormi; forse ha perso la sua anima più profonda di partito europeo.Oggi potrebbe essere considerato una coalizione e non più un partito.

 

Ci sono tanti cristiani in politica che rivendicano la loro appartenenza al cattolicesimo, De Gasperi ha sempre tenuto ben distinto i concetti di cattolici in politica e politici cattolici. Oggi cosa significa essere cattolici in politica?

Bisogna essere cattolici in un Stato laico. Il legislatore deve affermare i suoi valori sapendo che la legge ha un carattere generale perché è riferita a tutti gli italiani. Parlando delle riforme costituzionali, come dice quel vecchio detto, quando si fanno certe cose bisogna che i banchi del Governo siano vuoti.

 

De Gasperi è stato cristiano, europeo e democratico. Settant’anni fa ha operato una scelta di campo con l’entrata nella Nato, schierandosi con gli Stati Uniti d’America. Eppure ancora oggi, con un nuovo Oriente che si fa largo, la Cina, assistiamo all’eterna tentazione italiana di fare da ponte pontiere fra Est e Ovest. È giusto ribadire quella scelta di campo degasperiana?

La scelta di campo è necessaria, importante e non prorogabile. Cito spesso, anche se non riguarda la storia democristiana, il professor Andrea Carandini, che a mio parere è il più grande divulgatore di storia romana e di archeologia. In una importante presentazione, Carandini dichiarava che nella parte geografica occidentale, come in Grecia e a Roma, nascevano corrispettivamente l’Agorà e il Foro, mentre in Oriente sbocciavano le grandi dinastie. In fondo, è un richiamo storico a due visioni completamente diverse della vita sociale, ovvero, di quali sono le regole della vita sociale. Da tali valori si può determinare l’area di appartenenza, non per essere nemici di qualcuno, ma per essere sicuri che le amicizie abbiano delle fondamenta serie.

Giocatore o scacchiera? L’Unione Europea al tempo della Covid-19

Se sembra complicato prevedere gli effetti di lungo termine di questa crisi sugli equilibri internazionali, possiamo già affermare che questa pandemia sta agendo da catalizzatore accelerando due processi già in atto da diversi anni: la crisi del multilateralismo e il ritorno della politica di potenza.

Le reazioni all’emergenza Covid-19 confermano come sia impossibile immaginare oggi un rilevante problema di politica mondiale risolto (pacificamente o meno) da un solo attore statale. Nel contesto geopolitico attuale è l’interazione tra almeno quattro grandi attori a determinare il corso degli avvenimenti: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e, se lo desiderasse, l’UE. In questa nuova realtà multipolare, già altri attori regionali stanno emergendo, ma le quattro elencate sono sicuramente le grandi potenze che influenzeranno la prima metà del XXI secolo: la prima rappresenta il potere stabilito, la seconda quello emergente, la terza quello calante, la quarta un potere in corso di trasformazione.

Per comprendere i destini di un multilateralismo attualmente in crisi è importante capire come queste quattro grandi potenze si posizioneranno. Se condivideranno il potere scegliendo di cooperare, il multilateralismo potrà riprendersi e tornare a prosperare, anche se dovrà essere adattato ai nuovi equilibri di potere. Se invece competeranno per imporsi come forza dominante, il multilateralismo potrebbe entrare definitivamente in crisi o divenire forse ancora più importante, come mezzo per stabilizzare le relazioni e prevenire i conflitti tra le grandi potenze. In ogni caso, l’Unione Europea ha l’opportunità di giocare un ruolo determinante, ma solo se saprà superare le sue divisioni interne.

GIOCATORE O SCACCHIERA?

La crisi coronavirus e le recenti escalation militari in Siria e Libia sono gli ultimi avvertimenti affinché Paesi membri e UE comprendano che, in un mondo sempre più geopoliticamente complesso, una strategia per rimanere rilevanti nello scacchiere mondiale non è solo necessaria ma essenziale per preservare gli interessi e i valori europei.

La Russia è riuscita ad affermarsi come attore rilevante in Medio Oriente e continua ad aumentare la sua influenza globale intensificando il suo impegno in altre regioni come Africa e vicinato europeo. Appare ormai chiaro come Mosca sia disposta a utilizzare senza alcuno scrupolo le sue forniture energetiche, le sue cyber capabilities e le sue raffinate strategie di disinformazione a proprio vantaggio.

La posizione della Cina sta diventando sempre più assertiva, sia sul piano interno e regionale che a livello globale.  Pechino usa il suo potere economico in maniera strategica per aumentare la sua forza a livello geopolitico e il suo capitalismo di Stato per influenzare il mercato internazionale. L’approccio di Pechino nei confronti di Hong Kong, Taiwan e le contestate manovre nel Mar Cinese Meridionale sono una chiara testimonianza di questa nuova postura strategica.

La Turchia è nel frattempo diventata sempre più audace nel perseguire i suoi fini geostrategici andando spesso a ledere gli interessi degli attori europei. Ankara sfrutta abilmente i flussi migratori ed è impegnata con nuova decisione in conflitti regionali: più apertamente in Siria, più velatamente in Libia.

Infine, l’Arabia Saudita fa leva in maniera sempre più speculativa sulle sue risorse energetiche per aumentare o difendere la propria influenza a livello globale. Infine, gli Stati Uniti sotto Trump sembrano disposti a sfruttare la dipendenza europea dalla NATO e dal dollaro per raggiungere obiettivi politici a breve termine.

In generale, la tendenza che si può osservare sulla scena globale è che gli attori internazionali e regionali sembrano essere diventati riluttanti a separare il funzionamento dell’economia globale dalla concorrenza geopolitica e dalle dinamiche di potenza. Questa rappresenta una cattiva notizia per l’Unione Europea, che avrebbe il potere di mercato, le spese per la difesa e il peso geopolitico per risolvere le sue vulnerabilità e ritrovare un ruolo di leadership. Tuttavia, senza un repentino cambio di rotta, l’Unione rischia di diventare, piuttosto che un attore chiave, la scacchiera su cui altri attori competono per influenzare l’ordine globale.

UN’UNIONE IN CORSO DI TRASFORMAZIONE

All’indomani di questa crisi, i Paesi membri dell’Unione avranno il difficile compito di trovare un nuovo assetto interno e un nuovo approccio allo scenario globale. Il raggiungimento di questo obiettivo passa attraverso la necessità di dare all’UE una politica di sicurezza e di difesa comune funzionante, l’autorità strategica di cui ha bisogno e una rinnovata visione della diplomazia internazionale. Andando in questa direzione, negli ultimi anni, l’Unione si è dotata di strumenti nuovi per perseguire i suoi scopi. Se gli stati membri sapranno condurre a buon fine iniziative inedite come il lancio della cooperazione strutturata permanente (PESCO), la creazione del Fondo Europeo per la Difesa o l’istituzione della DG Difesa all’interno della Commissione Europea, l’UE potrà integrare il suo potere politico ed economico con una certa capacità di azione strategica autonoma.

La quasi totale assenza di coordinazione a livello transatlantico nel rispondere al coronavirus suggerisce poi come un rinnovamento della strategia dell’UE dovrebbe passare dal il riconoscimento che l’alleanza con gli Stati Uniti da sola non è più sufficiente. Gli Stati Uniti sostengono fortemente l’Europa, attraverso la NATO e il suo impegno militare ai confini orientali. Washington tuttavia persegue politiche che sono direttamente in contrasto con quelle dell’UE. Un esempio palese è rappresentato dal sostegno americano all’Arabia Saudita contro l’Iran, un contesto dove l’UE, piuttosto che schierarsi, è incline a riconoscere che entrambi gli attori debbano essere responsabilizzati al fine di creare un nuovo equilibrio regionale. Anche il protezionismo economico americano e il conseguente indebolimento delle relative strutture multilaterali, come nel caso del blocco del meccanismo di risoluzione delle controversie dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vanno contro gli interessi dell’UE.

Inaugurare nuove strategie di cooperazione con altri attori globali e regionali potrebbe essere dunque il giusto modo non solo per far tornare l’UE ad essere un polo di gravità determinante, ma anche per rinnovare il sistema del multilateralismo. Un’Europa unita avrebbe la forza di trasformare, piuttosto che semplicemente preservare il sistema esistente, prevenendo l’emergere di raggruppamenti alternativi (a quello europeo/occidentale) che danneggerebbero sia gli interessi dei singoli Paesi membri, che la comunità internazionale tutta.

Tuttavia, il principale presupposto al successo del rilancio del ruolo dell’Unione è la sua coesione interna. I Governi degli Stati membri, che finora hanno costantemente preferito anteporre gli interessi nazionali a quelli comuni e servire i loro scopi politici interni, dovranno intensificare i loro sforzi. In questo senso, la prima risposta dell’UE a questa pandemia non fa ben sperare. Ma ritrovare unità di intenti è probabilmente l’unico modo per provare a (ri)costruire un’Unione Europea in grado di prosperare e rinnovare la sua leadership in un mondo dove il multilateralismo annaspa e la politica di potenza sembra aver trovato nuova forza. L’alternativa è desolante ed è quella di un inarrestabile declino della stella europea.

 

Mattia Caniglia

Il nuovo Leviatano

Tra le cause del degrado della vita pubblica Luigi Sturzo annoverava “statalismo, partitocrazia e sperpero del denaro pubblico”, che definiva “le tre male bestie”.

Il sacerdote siciliano riteneva lo statalismo la degenerazione del legittimo potere dello Stato, sia per la sua attitudine a occupare spazi di libertà dei cittadini, delle imprese e degli organismi pubblici territoriali, sia per la sua tendenza a trasmodare in occasione di malaffare o, comunque, di mala gestio delle risorse pubbliche.

Si tratta di ragioni ontologiche che, come tali, conservano nel tempo la loro validità.

Per quanto i rischi segnalati possano essere contenuti con un intelligente sistema di check and balance, la debordante presenza dello Stato nella vita del Paese contiene, in sé, un’ineliminabile spinta all’alterazione degli ambiti naturali delle libertà economiche e personali, oltre chè un pericolo di malversazioni.

Ancorchè le culture politiche dominanti siano state nel novecento (quasi tutte) governate da una concezione di favore per l’espansione della sfera pubblica, il mercato ha progressivamente guadagnato spazi di azione (prima sottratti alla concorrenza) e lo Stato si è così attestato su (più appropriate) posizioni (quasi solo) di regolazione e di vigilanza, in coerenza con il monito di De Gasperi: “la costituzione economica di uomini liberi non si crea però con cieco automatismo delle forze in libera gara…ma si forma sotto vigile controllo dello Stato”.

Quando, tuttavia, la misura dei rapporti tra Stato e mercato sembrava aver trovato un assetto piuttosto bilanciato, è arrivato il cigno nero della pandemia e quell’equilibrio è tornato in tensione.

Si assiste, negli ultimi giorni, alla ricerca frenetica di soluzioni “pubblicistiche” (poi cristallizzate nel decreto legge appena approvato) alla crisi indotta dall’emergenza sanitaria.

Come seguendo un riflesso pavloviano, la politica chiede aiuto allo Stato, nella difficoltà di trovare rimedi alternativi.

Si comporta come un bambino che, istintivamente, in un momento di difficoltà e di disperazione torna dal padre e invoca il suo soccorso (come il figliuol prodigo). Ma lo Stato è sempre un buon padre? Dipende.

E’ più buono un padre che accompagna il figlio alla maturità, lo incoraggia e gli insegna l’assunzione di doveri e responsabilità o quello che gli toglie ogni pensiero, gli risolve ogni problema, ma gli impedisce di crescere, creare, costruire la sua vita?

La risposta è nella domanda.

Si dirà, tuttavia, che, in una situazione di estrema difficoltà, la pedagogia deve cedere il passo all’urgenza del soccorso (primum vivere, deinde philosophari).

Vero, ma fino a che punto? E con quali effetti conseguenti?

Non è agevole, in questi giorni così difficili, analizzare la consistenza della trasformazione del ruolo dello Stato che si va configurando.

Si ricorre, infatti, all’àncora salvifica dello Stato e, contestualmente, la si respinge, in uno strano conflitto logico.

Si invoca l’intervento dello Stato nel capitale delle aziende, nel sostegno ai redditi, nei finanziamenti alle imprese, ma si tende a rifiutare o a smantellare i controlli pubblici sull’esercizio delle attività economiche e a declinare la verifica giurisdizionale sul corretto esercizio delle funzioni che le amministrano; per altro verso, si vuole introdurre il tracciamento pubblico dei movimenti dei cittadini, ma si eludono le istanze di controllo sulla genesi e sul funzionamento di tale meccanismo.

Se ne ricava l’impressione di un nuovo statalismo schizofrenico e confuso e, forse, proprio per questo, ancora più pericoloso: più Stato e più deregulation.

I rapporti tra Stato e cittadini, tra Stato e mercato, sembrano affidati a frontiere mobili e contraddittorie: lo Stato à la carte.

In questo momento di inedita revisione del ruolo dello Stato (non solo in economia), torna allora utile la lezione di Einaudi: “la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica”.

Lo Stato del laissez faire, se ben amministrato, permette ai cittadini e alle imprese di esprimere le loro energie migliori, produce la vitalità virtuosa delle società libere e favorisce, con un’assistenza pubblica mirata e intelligente, lo sviluppo di idee e la diffusione del benessere.

Al contrario, lo Stato assistenziale produce dipendenza e parassitismo e induce all’inerzia. Soffoca e scoraggia le iniziative private. Quando, poi, pretende di gestire le imprese, oltre la misura fisiologica della partecipazione a quelle che erogano servizi alla collettività, rischia di produrre effetti perversi come i traffici delle cariche o l’amministrazione opaca delle aziende.

Se una concezione paternalistica dello Stato genera inefficienza, interventi pubblici finalizzati al sostegno, e non alla sostituzione, del mercato, servono a spingere, secondo una dinamica virtuosa, la rinascita, ma non a drogarla.

In questa prospettiva, appaiono senz’altro utili interventi pubblici di supporto e di garanzia alle imprese, così come di semplificazione amministrativa, nella misura in cui valgono ad accompagnare le imprese verso la ripresa, che deve, tuttavia, restare poi affidata alla loro forza autonoma.

Attengono, invece, a una logora logica statalista misure di ricapitalizzazione e di gestione pubblica delle aziende, che finiscono per riproporre inevitabilmente i difetti già sperimentati di una partecipazione impropria dello Stato alle attività d’impresa.

Se, poi, l’intervento dello Stato genera nuovo indebitamento, il futuro del Paese resta ipotecato a obbligazioni insostenibili, con ineluttabile e prevedibile sottrazione futura di ricchezza e di libertà.

La crisi che stiamo vivendo ammette senz’altro una temporanea trasformazione del ruolo dello Stato e un suo intervento extra ordinem, purchè, tuttavia, resti eccezionale e non getti le fondamenta di uno stabile assetto neostatalista.

Evitiamo che lo Stato si trasformi nel Leviatano insaziabile evocato da Buchanan.

 

Carlo Deodato

Presidente di sezione del Consiglio di Stato

Membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi

(articolo uscito sul Il Foglio il 24/5)

Usa, Cina, Europa e Italia. Quali equilibri geopolitici?

Vi ricordiamo il webtalk di domani, dove affronteremo un tema di politica internazionale molto complesso: i rapporti d’equilibrio nell’assetto geopolitico tra Usa, Cina, Europa e, ovviamente, Italia.

Un sistema ad intreccio già complicato prima della pandemia, ma che oggi, alla luce di vari sviluppi direttamente ricollegabili al Covid-19, vede certamente complicarsi le dinamiche relazionali tra questi attori, tanto sul profilo politico quanto su quello economico.

Di questo parleremo allora il 26 maggio con Angelino Alfano, Presidente della Fondazione; Giampiero Massolo, Presidente dell’ISPI; e infine Paolo Alli, già Presidente dell’Assemblea Parlamentare della Nato.

Vi aspettiamo domani dalle 17.30 alle 18.30.

Link per partecipare: https://us02web.zoom.us/…/register/WN_DzSC-Z6cSsC3ZVQ2fGTDnA

I sequestri di persona. Verso quale modello di security risk management in aree di crisi? Parla Saccone

di Emanuele Lorenzetti

Il tema della sicurezza privata nelle aziende e per le ONG che operano in aree di crisi è sempre più rilevante nel dibattito pubblico e di settore. Come prevenire i sequestri di persona ad opera di gruppi criminali o terroristici? Alla luce del recente caso Silvia Romano, la Fondazione De Gasperi ha voluto compiere una riflessione più generale sull’importanza del security risk management nelle aree di crisi insieme ad Umberto Saccone, presidente di IFI Advisory, già direttore Controspionaggio del SISMI (ex Servizio segreto militare italiano pre-riforma L. 124/2007, ora AISE) e capo della security ENI.

Dott. Saccone, negli ultimi periodi assistiamo ad un crescente fenomeno di rapimento dei volontari e di personale aziendale occidentali che operano nei teatri di crisi. Perché?

Dal 2001 ad oggi sono stati sequestrati nel mondo 65 italiani, 19 di questi erano operatori umanitari. Negli ultimi anni il 52,5% dei rapimenti, è avvenuto ai danni di cooperanti delle Ong (34,5%) e dei giornalisti (18%). Si tratta di lavori, quelli delle ONG, che per loro stessa natura portano gli operatori in zone di conflitto o di sconvolgimenti umanitari; il contatto diretto con la popolazione, la volontà di penetrare tutte le realtà del Paese e la mancanza di adeguati sistemi di sicurezza ne fanno obiettivi altamente remunerativi sia sotto il profilo economico sia sotto quello dell’organizzazione del rapimento. E’ questa la ragione per la quale il 7 Settembre 2004 in Iraq, a Baghdad, un gruppo armato ha fatto irruzione negli uffici della ONG “Un ponte per…” sequestrando Simona Pari e Simona Torretta. Il 14 agosto 2011, nella regione del Darfur, in Sudan, è stata la volta del cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011, nel campo profughi saharawi di Hassi Raduni, in Algeria, è stata rapita Rossella Urru impegnata con la ONG CISP (Comitato Internazionale per lo sviluppo dei popoli). Il 9 gennaio 2012 Giovanni Lo Porto, trentottenne palermitano, è stato sequestrato in Pakistan dove lavorava come capo progetto per l’Ong tedesca “Welt Hunger Hilfe” (Aiuto alla fame nel mondo) e, il 13 marzo 2013, in Siria, è stato rapito il cooperante italo-svizzero Federico Motka che si trovava nel Paese per conto della ONG tedesca “Welthungerhilfe”. Greta Ramelli, ventenne di Gavirate (Varese) e Vanessa Marzullo, ventunenne di Brembate (Bergamo) sono state invece rapite rapite il 31 luglio 2014 ad Aleppo, nel nord della Siria dove operavano per conto della ONG “Progetto Horryaty”. Per ultimo, ma non ultimo, il rapimento di Silvia Romano che operava in Kenia per la ONG Africa Milele.

La normativa internazionale, UE e nazionale vieta allo Stato la possibilità di recuperare gli ostaggi mediante pagamento del riscatto al gruppo criminale o terroristico. Tale pratica, tuttavia, è ancora perseguita da alcuni governi europei, compresa l’Italia. Qual è il motivo, quali le conseguenze negative e come i governi dovrebbero muoversi?

Il diritto internazionale esclude ogni forma di finanziamento del terrorismo. La norma trova il proprio fondamento nella Convenzione di New York del 1979 e in particolare nelle risoluzioni n. 2161 e 2170 del 2014 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che vietano agli Stati membri di finanziare organizzazioni terroristiche, qualsiasi sia la causa della corresponsione, incluso il pagamento del riscatto. A prescindere dalle norme internazionali l’ordinamento italiano punisce il favoreggiamento reale. L’art. 379 c.p. prevede che chiunque aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato (in questo caso pagando un riscatto), è punito con la reclusione fino a cinque anni. Maria Callimachi, giornalista del New York Times ha in più occasioni affermato che i governi europei hanno pagato 125 milioni di dollari in riscatti ai rapitori negli ultimi sei anni’’. Ma restando ai fatti e non alle ricostruzioni più o meno attendibili bisogna prendere atto che il pagamento di un riscatto è escluso dal nostro ordinamento e considerato che i governi che si sono da sempre succeduti hanno sempre smentito il pagamento non abbiamo strumenti per confutare.

L’AISE che tipo di supporto dovrebbe fornire?

L’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero.  Di fatto l’AISE fa il proprio lavoro operando a tutela degli interessi strategici e salvaguardando il capitale umano patrimonio collettivo dell’intera nazione. Il legislatore ha da sempre inteso far riferimento alla politica informativa e di sicurezza come lo strumento idoneo alla tutela dell’interesse e della difesa dello stato democratico e delle istituzioni poste a suo fondamento dalla Costituzione. E’ lo strumento di cui lo Stato si serve per raccogliere, custodire e diffondere ai vertici decisionali le informazioni rilevanti per la tutela della sicurezza delle Istituzioni, dei cittadini e delle imprese. E’ in tale cornice che l’intelligence opera mettendo a disposizione il proprio network di relazioni, potendo contare su una rete di agenti capillare e professionale, con una profondità operativa unica, tra le forze di sicurezza dello stato, potendo contare anche delle cosiddette garanzie funzionali, ossia delle guarentigie che l’ordinamento ha inteso assicurare agli appartenenti ai servizi di informazione per il caso in cui, nel corso di apposite operazioni, vengano poste in essere condotte punite dalla legge come reato.

Cosa significa oggi per le industrie, come l’italiana Eni, e per le associazioni di volontariato investire nel security management e, se c’è, verso quale modello di gestione?

Secondo gli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione italiana la sicurezza, libertà e dignità umana prevalgono sull’iniziativa economica privata (dovere di protezione o duty of care). Tale principio è dettagliato dall’articolo 2087 del codice civile, che impone all’imprenditore di adottare le misure “che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica” del lavoratore e dall’art. 28 del D.lgs. 81/2008 secondo cui il datore di lavoro, nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), deve considerare tutti i rischi “compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”. Dunque, il datore di lavoro è tenuto a garantire al proprio personale tutte le misure di sicurezza, sia con riferimento a quegli eventi di tipo accidentale quali gli infortuni e le malattie professionali, sia rispetto ad eventi esterni all’attività lavorativa quali ad esempio un’aggressione, un attentato ovvero un rapimento (i cosiddetti rischi di security). Tali adempimenti sono a carico del datore di lavoro, quest’ultimo inteso come il responsabile dell’organizzazione dell’attività dell’ente in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa, anche all’interno di ONLUS o di altri enti privi di scopo di lucro.