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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Prove tecniche di “unità nazionale”? Il Copasir al tempo del Covid-19

di Gian Marco Sperelli

Per tutelare e proteggere la sovranità politico-economica italiana ed europea, occorre un generale ripensamento del ruolo e delle competenze dello Stato di fronte all’attuale emergenza sanitaria. Per comprenderne sommariamente la portata storica, la Fondazione De Gasperi propone una breve analisi sul Copasir: un attore istituzionale sempre più al centro del dibattito politico in queste settimane così critiche per il Paese.

 

“Il concetto di strategico è una colossale sciocchezza. Se io guadagno facendo magliette e perdo costruendo astronavi, per me strategiche sono le magliette, non le astronavi. Eccezione è, forse la produzione destinata alla difesa.” Così Carlo Scognamiglio, allora Presidente della Commissione del Ministero del Tesoro per le privatizzazioni nel 1993, liquidò in poche battute il nesso tra la strategicità delle filiere produttive e la difesa dell’interesse nazionale. A distanza di oltre 25 anni quella analisi risulta a dir poco superficiale, soprattutto di fronte all’esplosione di una crisi economico-sanitaria senza precedenti come quella odierna. In un momento così drammatico, da più parti si sono levate voci a favore di un Esecutivo di unità nazionale o – quanto meno- di una cabina di regia condivisa tra forze di maggioranza e di opposizione, per affrontare al meglio una delle sfide più difficili della nostra parabola repubblicana e dell’intera storia dell’Unione Europea.

Allo stato attuale delle cose, l’unica istituzione, sia per la natura della sua composizione ( 5 deputati e 5 senatori in proporzione al numero dei gruppi parlamentari con una Presidenza spettante per legge ad un esponente dell’opposizione) che per le competenze di controllo su un ampio spettro di ambiti sulla sicurezza nazionale del nostro Paese, in grado di rappresentare un esempio operativo di una unità nazionale politica è probabilmente il Copasir ( Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica). A rafforzare tale ipotesi, vi è, inoltre, l’obbligo in seno al Copasir di assumere le decisioni se non tramite la modalità del consensus, rendendo di fatto necessario il raggiungimento di un’intesa bipartisan tra i componenti dell’organo di controllo.

L’attenzione del Comitato di Palazzo San Macuto, dopo le note vicende in merito alla sicurezza della nostra futura rete 5G in mano alla cinese Huawei, si è rivolta ad un allargamento del perimetro della normativa sul golden power, includendo tra le filiere industriali strategiche aziende nei settori farmaceutico ,bio-medico, fino ad arrivare a quello dell’energia e dei trasporti, senza dimenticare il comparto bancario-assicurativo, messo a dura prova qualche settimana fa dal crollo di Piazza Affari con ripercussioni sui livelli di capitalizzazione di importanti gruppi. Partendo dalla legislazione quadro dell’Ue ( Regolamento sullo screening degli investimenti esteri diretti nell’Unione Europea), l’Esecutivo, attraverso l’ultimo decreto-legge licenziato dal Consiglio dei Ministri, ha valutato – su richiesta dello stesso Copasir- positivamente la possibilità di estendere i poteri speciali di veto del Governo, in merito ad investimenti non soltanto extra-europei, ma anche intra-europei volti ad intaccare o indebolire la governance di aziende strategiche del nostro Paese. Il rischio è che dietro ad alcuni investitori europei oppure all’interno dell’Efta (Associazione europea del libero commercio) si nascondano mire predatorie di società o fondi sovrani extra-europei nei confronti di aziende italiane ed europee in grave difficoltà a seguito dell’emergenza da Covid-19.

Un altro nodo da sciogliere è, certamente, la ridefinizione del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti nei mesi successivi all’emergenza sanitaria. All’interno del Copasir, infatti, è stata rilanciata più volte l’eventualità di trasformare la Cdp in una sorta di fondo sovrano, in grado di sostenere e ricapitalizzare, anche con l’appoggio di investitori privati, aziende e filiere strategiche del nostro sistema produttivo ed industriale, sulla falsariga di quanto avviene in Germania con la Banca dello sviluppo tedesca (KWF). Tale ipotesi appare non di facile realizzazione, per via della presenza delle fondazioni bancarie nella governance della Cdp. Sempre in questa direzione, un’altra soluzione possibile potrebbe giungere da una eventuale potenziamento di un ente come Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), essendo una società per azioni partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, tale ragionamento non dovrebbe condurci all’ennesima resurrezione acritica dell’Iri, perché a distanza di anni hanno ancora un grande significato in questo dibattito le parole dell’ex liquidatore dell’Efim (Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere) Predieri: “Non hanno senso i gruppi in cui si fa di tutto, dalle ostriche in scatola ai carri armati”. Un vecchio monito ancora utile ai giorni nostri per andare, forse, oltre l’emergenza sanitaria contingente. Magari anche oltre la cronica crisi della politica italiana ed europea.

Il virus e la crisi della civiltà industriale: perché i Medici devono salvarci dai moderni Savonarola

 

di Luca Bellardini (Associazione Guido Carli)

 

La civiltà industriale era in pericolo – non solo in Europa – già da prima che si diffondesse il Covid-19. Le recenti misure di limitazione alle attività produttive sono soltanto l’ultimo degli esempi. È decisamente inopportuno che chi scrive, del tutto ignorante in campo medico, ne discuta l’adeguatezza sul piano sanitario. Eppure, alcune considerazioni di ordine economico possono – forse devono – essere tracciate. Soprattutto,  le misure di oggi andrebbero analizzate guardando a una storia nobile che abbiamo cominciato a calpestare: l’epopea, appunto, della rivoluzione industriale.

 

Partiamo da quello cui stiamo assistendo in questi giorni, perfettamente rappresentato nella stessa pagina di giornale (Corriere della sera di sabato 4 aprile) da Angelo Panebianco e Pierluigi Battista. Da un lato bisogna fare i conti con l’oggettiva debolezza in materia economica della classe politica italiana nel suo complesso, peraltro dominata da sentimenti ostili al libero mercato e in alcuni casi favorevoli alla c.d. «decrescita»: spesso alberganti in coloro che non hanno mai messo piede in una fabbrica, né hanno idea di come funzioni una filiera e si produca ricchezza. Questa forma mentis induce una visione “distribuzionista” dell’economia: come se l’output fosse disponibile in una quantità prefissata e il compito della politica fosse di decidere come assegnarne le porzioni; o come se – peggio – le autorità fossero legittimate a decidere le dimensioni della torta e l’identità dei pasticcieri. Inoltre, sta prendendo sempre più piede un’idea “millenaristica” dell’emergenza legata al virus: quasi che l’Occidente dovesse espiare la colpa di essere ricco e avanzato, innamorato dei viaggi e delle feste, desideroso di non fermarsi mai. Ad ogni catastrofe che distorca l’ordinato corso delle nostre vite libere – sia essa un terremoto o un attacco terroristico – spuntano fuori questi «apocalittici», come li avrebbe definiti Umberto Eco. La storia ci insegna che costoro possono anche avere successo, se si innestano su di un substrato sociale caratterizzato da un notevole livello di sviluppo: così accadde a fra’ Girolamo Savonarola, il predicatore pauperista che a Firenze interruppe la signoria medicea godendo – almeno inizialmente – di amplissimo consenso. Ma la storia ci insegna pure che nel lungo periodo prevalgono gli «integrati»: coloro che appoggiano il cambiamento e decidono di governarlo, anziché opporvisi per distruggerlo. La vita precedente deve tornare, come a Firenze tornarono i Medici.

 

La rivoluzione industriale, invece, ha impresso nella società europea una visione “creazionista” del progresso materiale e anche della conoscenza. Quanto già c’era poteva essere ampliato o modificato; quanto ancora non c’era poteva essere creato: questa la convinzione figlia dei fermenti scientifici del XVII secolo e delle dottrine illuministe. Oggi gli «apocalittici» fanno molta confusione tra individualismo ed egoismo: li sovrappongono, ignorando che solo il secondo è un vizio e che – anzi – la virtù del primo si è storicamente affermata in un’epoca in cui le relazioni sociali tra i singoli sono molto cresciute. Lo osserva con grande acume Thomas S. Ashton, lo storico inglese che per primo mise in discussione le critiche moraleggianti di cui era investita la grande trasformazione economica (1760-1830, nella sua periodizzazione): in quegli anni presero piede i club in Inghilterra e i caffè nel resto d’Europa, cioè i luoghi nei quali la borghesia produttiva si confrontava apertamente, facendo nascere tante idee imprenditoriali e – soprattutto – una nuova classe intellettuale slegata dall’aristocrazia (quest’ultima, invece, si crogiolava spesso nell’ozio deridendo il lavoro manuale).

 

Oggi, come sappiamo, bar e ristoranti sono chiusi. E prima, invece? Erano affollati, ma in pochi attribuivano loro la funzione che ebbero in quell’epoca. Sembra inevitabile che, dopo questa crisi, il virtuale si diffonda sempre più: per le riunioni di lavoro, per gli incontri sentimentali (c’è un problema demografico!), anche per i semplici scambi di idee. La prospettiva di una connettività diffusa ma fondata “orizzontalmente” sulla quantità – anziché sulla profondità “verticale”, come nella prima fase della rivoluzione informatica – dovrebbe quantomeno instillarci dei dubbi sui rischi che pur si celano dietro le «magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione.

 

Poi c’è il tema delle fabbriche come luoghi di produzione. Quanti stabilimenti hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, anche prima della recessione del 2008-2009? Francamente troppi perché questo discenda solo dal fisiologico spostamento dell’economia dal secondario al terziario, o magari dall’inquinamento alla sostenibilità ambientale (qualcosa di auspicabile, è ovvio). Anzi, in molti Paesi europei ha fatto scalpore solo la decisione di limitare i business più antistorici e forieri di esternalità negative, come l’estrazione del carbone: si pensi agli scioperi selvaggi fronteggiati per quasi un anno dal governo di Margaret Thatcher. Silenzio assoluto, invece, sulla disinvoltura con la quale molti governi hanno assoggettato interi settori a una regolazione asfissiante: a cominciare da quello creditizio e dei servizi d’investimento, che – va da sé – ha un ruolo imprescindibile nel finanziamento delle attività capital-intensive. Non si tratta soltanto delle norme ambientali: risolvere il trade-off tra lavoro e salute è quasi impossibile, come ci ricorda la vicenda dell’Ilva di Taranto. Questo, purtroppo, è il lato oscuro dell’aver compreso che il pianeta ci è solo dato in prestito. Ma se guardiamo allo scambio anziché alla produzione, notiamo che il protezionismo è tornato un’opzione praticabile; e oggi, nonostante il revival dei dazi, si manifesta soprattutto nelle barriere qualitative che impediscono ancora a troppi prodotti di avere standard compatibili tra i vari ordinamenti, anche all’interno del Mercato unico europeo (il principio Cassis de Dijon e il marchio CE dovrebbero ovviare a questo, ma la realtà è spesso diversa).

 

Al contrario, quella che vediamo emergere è la c.d. sharing economy. Già il nome esprime l’allentamento di quei diritti di proprietà che avevano reso possibile il miracolo produttivo del tardo Settecento: si pensi alle enclosures fondiarie inglesi, che – ponendo fine a un sistema quasi sempre dotato di un assetto collettivistico – consentirono l’accumulazione del capitale e, dunque, la destinazione di ingenti risorse agli investimenti industriali. Peraltro, all’interno della contemporanea «quarta rivoluzione industriale», la sharing economy sancisce la preminenza del digitale sull’automazione: la diffusione dei robot che immaginavano i nostri nonni è ben lungi dall’essersi realizzata, come se una mentalità neo-luddista avesse preventivamente sconsigliato di spingersi troppo in là. La celebre profezia degli anni Sessanta sui telefoni («nel Duemila faranno tutto loro») si è invece realizzata.

 

Eppure, oggi non osserviamo significativi incrementi di produttività; anzi, addirittura vediamo gli individui più distanti e l’etica del capitalismo indebolita: rispetto all’epoca descritta da Ashton, tutti rischiano meno. I capitani d’industria si sentono protetti da una concezione della crisi d’impresa che è sempre più favorevole alla conservazione del compendio aziendale, allentando così quello spirito di conquista dell’ignoto che tanto piaceva sia agli empiristi scozzesi (tra i primi a sistematizzare il liberalismo economico) sia, più tardi, a Schumpeter con la sua «distruzione creatrice». I consumatori, dal canto loro, si sentono particolarmente tutelati da un assetto giuridico che è ormai invariabilmente dalla loro parte: vale per i beni materiali come per i servizi, a partire da quelli finanziari. E una minore “propensione al rischio”, prima di abbattere il livello degli investimenti, infiacchisce l’attività intellettuale: quella derivante dalla messa a frutto del “capitale umano”. Per lungo tempo la ricerca tecnica e scientifica si è potuta esprimere senza vincoli (basti pensare al regime amministrativo speciale di cui hanno sempre goduto le università), garantendo un’adeguata remunerazione a chi la promuovesse; oggi, invece, deve fare i conti con mille pastoie burocratiche. E se lo shock negativo ai trasporti cagionato dal virus sarà persistente, lo scenario non potrà che peggiorare.

 

In tutto questo, che cosa può fare l’Europa? Innanzitutto, un passo indietro sull’implicito favor accordato negli ultimi anni al digitale rispetto all’economia che potremmo definire “sonante” (il termine richiama l’ambito monetario: non è un caso). La soluzione non è mai fiscale: sono intrinsecamente distorsivi – per esempio – tanto la web tax quanto il limite agli sconti sui libri, pensato per arginare lo strapotere della grande distribuzione online rispetto alle librerie fisiche e magari indipendenti. Piuttosto, bisognerebbe aggiornare un single rulebook commerciale che è stato concepito nell’era analogica; e questo vale anche per la regolazione del c.d. FinTech. I colossi del Web riescono a operare su base transfrontaliera con grande efficienza e ottima redditività: più che limitare loro, andrebbero tagliati quei «lacci e lacciuoli» che imbrigliano tante piccole e medie imprese.

 

Prendiamo il tema della concorrenza: il rigidissimo ordinamento antitrust americano nacque espressamente per l’economia reale, quando – alla fine dell’Ottocento, in piena «seconda rivoluzione industriale» – era diventato insostenibile lo strapotere di alcuni conglomerati manifatturieri, in particolare nei settori petrolifero e siderurgico. Per lungo tempo l’Europa ha preferito un approccio più morbido, in grado appunto di favorire il decollo industriale: da alcuni anni, invece, la Commissione si è mostrata particolarmente attiva nella difesa della concorrenza, e non solo contro le grandi società in cerca di acquisizioni. Anzi, ha addirittura agito con notevole discrezionalità, mostrando di anteporre gli interessi particolari degli Stati a una visione chiara e unitaria del governo dell’economia. Si guardi alla maniera decisamente “elastica” in cui viene interpretata la disciplina degli aiuti di Stato: il consorzio Airbus ha potuto ricevere finanziamenti diretti dai governi francese e tedesco, mentre all’italiana Tercas è stata proibita un’operazione sostanzialmente di mercato (prima che, negli ultimi mesi, tornasse in auge l’intervento pubblico per ricapitalizzare le banche).

 

Inoltre, lo sviluppo industriale europeo trova un limite anche nelle regole di finanza pubblica, là dove non viene fatta alcuna distinzione fra la spesa pubblica corrente e quella per investimenti. Col risultato che i governi sono sì meno prodighi di un tempo (bene!), ma impiegano peggio i loro denari. Adottare una regola contabile che valorizzi le finalità della spesa – c.d. golden rule – è decisamente la strada, soprattutto in un contesto nel quale sembra finalmente possibile l’emissione di un titolo di debito europeo – c.d. solidarity bond o coronabond – per fronteggiare la recessione da Covid-19 con investimenti mirati, dalle infrastrutture alla sanità. Ne ha parlato qui, proprio su questo sito, Federico Carli.

 

Salvare la rivoluzione industriale significa salvare la globalizzazione. Evitare che la prima venga calpestata significa fare in modo che la seconda continui a garantire il progresso, proprio come negli anni 1760-1830 e anche in seguito, durante la Belle Époque tristemente spezzata dalla Grande Guerra. D’altronde, non è azzardato accostare il ventennio compreso tra il crollo del Muro di Berlino e quello di Lehman Brothers (1989-2008) alla signoria di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. Non è neppure sbagliato stabilire un parallelo ideale fra il declino economico degli ultimi anni e il rapido passaggio di Piero il Fatuo al vertice di Firenze. A questo punto, però, la tirannia del Savonarola corrisponderebbe al periodo attuale: caratterizzato dai movimenti spesso definiti “populisti”, di cui abbiamo osservato il climax nel 2016 con le vittorie dei sostenitori della Brexit e di Donald Trump. Gli «apocalittici» – che identificano nella pandemia una punizione divina, puntando sulla decrescita anziché sugli investimenti e la produttività – si inserirebbero perfettamente in questo paradigma.

 

La Comunità europea nacque dal carbone e dall’acciaio; oggi dovrebbe muoversi nella direzione di una green economy che produca sviluppo; ma di fatto è immobile. Ridare slancio al «sogno europeo» – fondato sulle opportunità per i cittadini e le imprese – è ormai un imperativo categorico cui né le istituzioni di Bruxelles né gli Stati membri dovrebbero sottrarsi, nemmeno se in mezzo c’è il «nemico invisibile». Lo dobbiamo anche a chi – dopo una vita di sacrifici, magari dopo aver visto il «miracolo economico» del dopoguerra – in questi giorni se ne è andato tra le macerie di un’Europa che ha smarrito la sua vocazione industriale, dunque la sua anima.

L’EUROPA E LA SICUREZZA INTERNAZIONALE NEL DOPOVIRUS

di Claudio Ricci

Il Covid-19 ha paralizzato quasi totalmente l’attività mondiale. L’emergenza del coronavirus ha colpito ciecamente, valicando confini ed oceani. Il ventunesimo secolo, valorizzato dall’assenza di distanze e da velocità pressoché fulminee, ha dovuto frenare la sua corsa forsennata. Oltre ai profondi mutamenti legati alla globalizzazione che, inevitabilmente, si verificheranno, può essere d’aiuto analizzare il ruolo interpretato dai diretti interessati all’interno delle dinamiche di questa tragedia. Pertanto, è necessario tentare di prevedere come si muoveranno le grandi potenze dopo questo forzato pit stop. Ci dovremo imbattere in una situazione di squilibrio a livello internazionale? Come ne uscirà l’Europa? Per rispondere a queste domande si possono ricavare delle riflessioni in merito alla collocazione dei Paesi nel dopovirus e nella salvaguardia della sicurezza internazionale.

In primo luogo, la Cina è riuscita a passare in brevissimo tempo da “untore” da respingere a “salvatore” da accogliere. Essa è oramai dipinta non più come la terra natia del Covid-19, ma come il Paese che, dopo aver sofferto la prima ondata del virus, è riuscito a riemergere ed ora intende “regalare” la propria esperienza ai teatri più colpiti. La Cina, approfittando del silenzio di Washington e della titubanza di Bruxelles, ha iniziato ad inviare, nel vecchio continente, carichi di aiuti seguiti dai medici volontari. Ciononostante, il termine “virus di Wuhan” ha quasi definitivamente sostituito “Covid-19”, soprattutto nel mondo anglofono. Malgrado la tardiva reazione di Trump (“We love Italy”), è stata la Cina a monopolizzare il discorso pubblico-mediatico in Italia. I cinesi, favoriti dalle posizioni del Movimento 5 Stelle, mirano ad un rafforzamento della Nuova via della seta nel breve- medio periodo. Tuttavia, essendo l’Italia uno dei Paesi fondatori del blocco euroatlantico, risulta chiaro come l’interesse cinese verso il belpaese possa andare ben oltre il tema della semplice “solidarietà”.

Il velato scontro tra Stati Uniti e Cina è facilmente prevedibile. Il terreno di scontro non è univoco: dal commercio, alla tecnologia, passando per la propaganda “amichevole” del coronavirus. Dal canto loro, gli americani hanno voluto limitare il protagonismo cinese attraverso una fioca volontà di cooperare per fermare il virus. Dopo un colloquio telefonico, il Presidente americano Trump e quello cinese Xi Jinping hanno manifestato uno sbocco verso la collaborazione da ambo le parti. Sul virus, le misure adottate dagli americani potrebbero rassomigliare a quelle adottate in Europa, ma l’amministrazione federale ritiene che questo periodo di quarantena (non esteso a tutti gli Stati) non dovrà dilungarsi oltre la metà di aprile. È altresì vero che dal Paese leader del blocco occidentale ci si sarebbe aspettato qualcosa di più, perlomeno legata ai tempi di reazione, soprattutto laddove si sta profilando un mutamento dello scacchiere internazionale. È ancora troppo presto tuttavia, per sancire la sconfitta degli Stati Uniti. Potrebbe profilarsi dunque, una Seconda Guerra Fredda (ammesso che già non vi sia) con protagonisti Stati Uniti e Cina, e con la Russia di Putin a far da deuteragonista. Nel malaugurato caso che tale scenario si verifichi, che posto occuperà l’Europa?

Per quanto concerne l’Unione Europea appunto, il confuso silenzio da un lato e l’acceso dibattito Eurobond contro Mes dall’altro, hanno fatto da eco ad una prova d’esame che per ora risulta insufficiente. “Una comunità che lascia cadere i suoi membri nel momento di maggior bisogno non merita questo nome”: così ha scritto la versione online del “Die Zeit” dopo la riunione del Consiglio Europeo del 26 marzo. Se l’Europa doveva mostrarsi unita e decisa sin dall’inizio, questo era il momento adatto. La pandemia del coronavirus avrebbe dovuto dare forma a quel concetto di solidarietà auspicato dai padri fondatori, ma invece ha ricoperto il ruolo di leitmotiv per l’effetto domino legato alla chiusura dell’area Schengen. È pressoché certo che l’europeismo dovrà affrontare una forte ondata di euroscetticismo nel dopocrisi. A tal proposito, auspichiamo che l’Unione Europea non diventi la grande sconfitta.

L’Italia, l’Europa e la NATO dovranno essere in grado di sapersi barcamenare tra gli appuntiti sassi del dopovirus, al fine di tentare una rapida ricostruzione economica, politica e sociale. Sforzandoci di tralasciare la sofferenza che sta diffondendo, la lotta al coronavirus deve essere La sfida per incoraggiare un restauro italiano ed occidentale.

Per concludere: non può sussistere un’unione che non sia al contempo politica, economica e soprattutto solidale.

Essere una partita Iva al tempo del coronavirus

di Francesco De Santis

La necessità di superare afonia, afasia ed amnesia

Il virus che ha colpito il mondo, e in particolar modo l’Italia, impone una seria riflessione, dal punto di vista economico, che analizzi la situazione del belpaese alla luce degli ultimi accadimenti.

In particolare, analizzare alcuni punti salienti del Decreto “Cura Italia”, DL n.18 del 17 Marzo 2020, si rende importante, attraverso la focalizzazione su “minuti” particolari, per ristabilire un ordine che, altrimenti, potrebbe apparire solamente di facciata.

Crepe all’apparenza superficiali, ma in realtà profonde, devono essere il tassello fondante sulle quali poter (ri)costruire una visione prospettica che si installa in questa fase emergenziale e si dovrà protrarre ad emergenza terminata.

Mai come oggi risuonano con un’eco impossibile da non tenere a mente le parole di Alcide De Gasperi:

“Noi dobbiamo salvaguardare la libertà della persona umana anche nella sua sfera economica, perché questo è l’involucro della sua libertà spirituale.”

Una libertà economica che ben collima con Partite Iva, lavoratori autonomi, disoccupati (senza tralasciare il problema dell’economia sommersa) che non hanno affatto un ruolo marginale in questa situazione e, anzi, sono proprio loro quei “minuti particolari” da tenere in debita considerazione.

Difatti, evitare lo scoppio di una vera e propria bomba sociale, derivante dalle misure economiche adottate e da adottare, è la stella polare che deve guidare il sentiero di ragionamenti economici soggetti, causa propagazione più o meno rapida del virus, a variare da un momento ad un altro.

In questa ottica si è mosso il governo Italiano che, con un intervento di circa 25 miliardi, ha predisposto un incentivo economico, dovuto alla riduzione o alla sospensione della propria attività, pari a 600 euro per artigiani, lavoratori autonomi e professionisti, con partita Iva attiva al 23 Febbraio e non titolari di pensione. Un bonus che si ritiene possa intercettare una platea beneficiaria pari a quasi 5 milioni.

Inizialmente previsto “una tantum”, dopo dei confronti con le forze produttive del paese, con una Nota ufficiale da Palazzo Chigi il bonus, che è bene chiarire non concorre alla formazione del reddito, è pronto per essere esteso e riconfermato anche per il mese di Aprile. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha assicurato, infatti, che nel caso in cui ci fosse un perdurare di questa situazione le misure adottate nel mese di Marzo potranno subire innovazioni nei prossimi mesi.

Da notare come, i potenziali beneficiari di questa misura debbano essere iscritti alla “gestione separata INPS”, anche se, per quanto concerne avvocati, geometri, ingegneri ed altri lavoratori si concede la possibilità di appartenere ad altro ente previdenziale, come previsto dall’art. 44 del Decreto con l’istituzione di un fondo denominato “Fondo per il reddito di ultima istanza”.

Il bonus, che può essere richiesto anche da lavoratori stagionali del settore turistico e termale (tranne da chi ha pensione o lavora come dipendente), da lavoratori a tempo determinato che operano nel settore agricolo che nel 2019 hanno prestato servizio per almeno 50 giorni e da chi è iscritto al fondo pensionistico dei lavoratori dello spettacolo e ha versato almeno 30 contributi giornalieri, sarà erogato in via telematica, con procedura ad hoc e PIN semplificato, utilizzando i canali INPS, come da messaggio dell’Ente Previdenziale datato 20 Marzo. Sarà lo stesso INPS a gestire la spesa. I versamenti dovrebbero arrivare prima della fine di Aprile.

 

Emerge chiara, dunque, l’intenzione di porre l’accento su un settore, quello del lavoro autonomo, che imporrà un modus operandi costante che consenta di non lasciare indietro, nel mezzo di questa emergenza e non solo, una parte produttiva del paese indubbiamente meno tutelata di altre. Ed emerge con ancora più chiarezza come, verso questo mondo produttivo, i sintomi del tempo vissuto prima dello scoppio della pandemia, l’afonia, l’afasia e l’amnesia, impongono, ora, il loro superamento (in cui ognuno deve fare la sua parte) per lasciare spazio al “tempo che viviamo” ed adattarsi alle necessità presenti.

Affitti da pagare, mutui e spese di ogni genere devono essere sostenute, sempre ed a maggior ragione in questo momento storico, anche da quei lavoratori che, per dirla con un termine sicuramente attuale, non possono usufruire né dello “smart working” né, tantomeno, di un’entrata sicura a fine mese.

Un’analisi scevra da posizioni ideologiche permette di constatare come sia lecito attendersi uno tsunami economico che ricalchi la tempesta del 2009. L’eccezione, ad oggi, è che l’Unione Europea ha fatto saltare alcuni parametri da rispettare e, per dirla in maniera brutale, l’Italia, a maggior ragione nel caso in cui venissero adottati i “Coronabond”, dovrà essere in grado “di fare i compiti a casa da sola”. Accompagnare il rigore dei conti al rilancio deciso degli investimenti appare essere l’unica via, coinvolgendo nella gestione della crisi tutte le forze politiche dell’arco parlamentare, per garantire a tutti gli attori coinvolti il mantenimento di uno standard di vita adeguato, soprattutto per non lasciare indietro le Partite Iva, oggi protagoniste di un’affannosa rincorsa alla sopravvivenza, e non abbandonare al proprio destino chi è in cerca di lavoro, oggi spettatore pagante di un film horror degno dei “giochi” di Jigsaw nell’Enigmista .

Appare lapalissiano, quindi, come gli interventi economici debbano muoversi di pari passo con la “decrescita” derivante dall’emergenza e, quindi, si debba rispondere in maniera decisa e, soprattutto, puntuale, ora e dopo. L’angosciante abbandono più assoluto “verso l’ordinario” sarebbe un autogol imperdonabile per le classi dirigenti.

Solamente nel solco di una gestione lungimirante di una pandemia come questa si potrà tornare a sventolare la bandiera della crescita economica ed evitare che si accentuino le disuguaglianze del paese. Contrariamente, ponendo una melliflua resistenza al “grido di aiuto” proveniente da diverse classi economico-sociali, si rischia solamente di sventolare la bandiera del pressappochismo.

Virus, capitalismo e l’economia della fiducia

di Mattia Albanese

 

La pandemia che stiamo vivendo potrebbe lasciare una traccia indelebile nelle economie dei paesi industrializzati. La crisi potrebbe portare alla fine del capitalismo come lo conosciamo oggi, ma potrebbe anche garantirne la salvezza.

 

L’arrivo del coronavirus in Europa porta con sé poche certezze, ma sicuramente tra queste c’è quella che le conseguenze del suo passaggio dureranno a lungo. È vero per la sanità come per l’economia: per evitare però che il cambiamento ci travolga senza essere preparati è necessario studiare, sin da subito, come la crisi investe le strutture e le regole che regolano il nostro stare insieme e come questi cambiamenti sono percepiti. Anche quando, finalmente, le misure di distanziamento sociale potranno essere allentate e le nostre vite torneranno ad una forma di normalità, una traccia rimarrà nelle istituzioni e nel modo in cui i cittadini si rapportano ad esse: è per questo che è necessario considerare l’epidemia che stiamo vivendo come un vero e proprio spartiacque della storia contemporanea.

Sarebbe facile lanciarsi in previsioni più o meno prive di fondamento riguardo all’entità e la scala dei cambiamenti futuri, ma forse è ben più importante capire quali fondamentali della nostra società rischiano di indebolirsi a causa della crisi esistente. Guardare, in maniera comparativa, al modo in cui varie nazioni stanno fronteggiando l’emergenza può aiutarci a riflettere, in assenza di dati, sui fenomeni che stiamo vivendo e sull’unicità dei vari sistemi istituzionali che tentano di fronteggiare l’espansione dell’infezione. La limitazione delle libertà fondamentali a cui stiamo assistendo costituisce un’eccezionale occasione per capire se e come le economie di mercato possono giustificare la temporanea ma, per alcuni, ingiustificabile negazione dei loro principi fondanti: la divisione dei poteri, le libertà individuali, la partecipazione democratica e, in misura ugualmente importante, il libero scambio.

Sono due i pilastri su cui si fonda l’ordine economico e sociale a cui siamo abituati e che ora è scosso dalla pandemia globale: il mercato, l’istituzione per eccellenza in termine di allocazione delle risorse, e l’autorità, intesa come potere politico ma anche come organizzazione gerarchica e burocratica della società in diverse funzioni. Così come, all’interno del libero mercato, gli scambi sono armonizzati grazie al meccanismo dei prezzi, le nostre istituzioni politiche si reggono sul principio di autorità. La democrazia nasce e resiste grazie all’equilibrio di queste due forze contrastanti: il mercato è infatti una forza distruttiva, che attraverso la garanzia di libero accesso mette in moto la distruzione creativa di cui scrive Joseph Schumpeter, grande teorico del capitalismo e della sua evoluzione. In questo modo il capitalismo moderno ha contrastato e limitato l’autorità, abbattendo tutte le forme di potere consolidato e facendo sì che la concorrenza, intesa in termini economici, si trasformasse in partecipazione, da intendersi, invece, in chiave democratica. La burocrazia, che certamente è nemica di questa radicale trasformazione in quanto si basa sulla concentrazione, categorizzazione e preservazione dell’autorità, è al tempo stesso una struttura necessaria al corretto funzionamento e regolamento del mercato.

Ma cosa c’entra Schumpeter con il coronavirus? Non molto, anzi nulla. Ed è qui il problema: i meccanismi attraverso cui la nostra società si è regolata fino ad ora potrebbero non essere sufficienti a gestire la incredibile emergenza di una pandemia globale.  L’epidemia che stiamo vivendo in queste settimane è un problema complesso: se la ricerca di una soluzione deve avvenire attraverso la combinazione di metodologie e discipline diverse, la gestione e la condivisione di una enorme quantità di informazioni ci impone di pensare non semplicemente in termini di rischio, ma di incertezza. Affrontare l’ambiguità radicale di uno scenario di questo tipo è estremamente difficile attraverso gli strumenti del mercato: la decentralizzazione delle decisioni non genera efficienza, ma entropia e, soprattutto, la capacità decisionale degli individui è inibita a causa dell’assenza di informazioni. La tentazione sarebbe quella di trovare la soluzione spostando il baricentro del nostro sistema politico verso meccanismi autoritari di decisione. Accentrare le decisioni nelle mani di pochi può aiutare a garantire maggiore efficacia nella coordinazione e nella gestione delle risorse, ma impone costi enormi in termini democratici e sociali. Costi che, nel lungo termine, potrebbero diventare maggiori dei benefici. La gestione della conoscenza e dell’informazione in un sistema autoritario potrebbe risentire dell’assenza di pluralità e, anche in questo caso, concorrenza nell’informazione.

Uno dei maggiori esperti nell’ambito dell’organizzazione sociale e aziendale, Paul Adler, ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio di un terzo meccanismo di coordinamento istituzionale: la fiducia. È proprio questo lo strumento di cui abbiamo più bisogno per affrontare la crisi e le sue conseguenze. Parlare di fiducia non è soltanto un artificio retorico: significa invece realizzare che le nostre istituzioni, in momenti difficili, devono rispondere al bisogno di autorità, ma anche a quello di comunità.

Esistono vari tipi di fiducia: quella iterativa, che nasce dalla consuetudine che abbiamo con le persone che ci circondano e che garantisce la normalità della vita quotidiana. Nelle istituzioni complesse del mondo moderno, come i mercati, questa forma “primordiale” di fiducia (tipica infatti delle società primitive) si unisce alla fiducia generata dalla convenienza e dall’utilità: il mercato stesso ha bisogno di fiducia e sicurezza per garantire le sue funzioni. Chi si impegnerebbe negli scambi senza avere, ad esempio, fiducia che le autorità garantiranno il suo diritto alla proprietà privata?
C’è poi una terza forma di fiducia, quella normativa o valoriale. Si fonda nella convinzione che i membri della società condividano un sistema di norme, non perché ne abbiano bisogno, ma perché sostenuti da un criterio di giustizia collettiva. È di questo tipo di fiducia che abbiamo bisogno ora. È questa fiducia che regge la complessa impalcatura che tenta di arginare il virus e che trapela dietro il trend topic #iorestoacasa.

E’ questa l’opportunità che, in maniera paradossale, ci viene donata dal virus: le sfide del futuro richiedono il passaggio da una razionalità utilitaristica ad una riflessiva, che valuti le conseguenze sociali delle azioni dei singoli. Proprio la fiducia potrebbe essere la chiave necessaria per la soluzione di molti problemi dell’economia in cui viviamo. La crescente disuguaglianza che caratterizza le economie dei paesi industrializzati ha suscitato l’attenzione di molti analisti e ricercatori: Martin Wolf, una delle firme più importanti del Financial Times, definisce questo sistema rigged capitalism, cioè capitalismo truccato. Un sistema in cui la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi sta garantendo profitti anormali e ingiustificati. Questa lettura, evidente ad esempio negli scritti dell’economista francese Thomas Piketty, rintraccia il sintomo evidente della crisi nell’increment o crescente delle rendite capitali rispetto al ritorno del lavoro. Lo aveva intuito anche Schumpeter, che nella seconda parte del saggio “Il capitalismo può sopravvivere?”, parla della burocratizzazione del capitalismo, ossia nella sua cristallizzazione in forme autoritarie.

Combattere l’idea che al rentier capitalism non ci sia alternativa e fare in modo che il mercato torni a produrre ricchezza per i molti e non per i pochi è possibile, ma richiede la transizione da una concezione utilitaristica o relazionale della fiducia ad una lettura normativa. La forza della distruzione creativa può nutrirsi di questa fiducia e tornare ad aggredire le concentrazioni di potere (anche di mercato) che più che mai oggi sono nocive. Basta pensare alla rilevanza attuale della knowledge economy per il mondo in cui viviamo, per capire, come ci indica Paul Adler, che il rischio che questa conoscenza si concentri nelle mani di pochi (e quindi generi ricchezza per pochi) è enorme. Nell’era dell’informazione sarà cruciale fondare la condivisione delle informazioni alla base della nascente sharing economy nella fiducia condivisa verso un sistema di valori che ne garantisca il suo corretto utilizzo.

Mai come oggi abbiamo l’opportunità di comprendere che siamo una comunità fondata in un ideale di giustizia redistributiva e nella promessa della prosperità che nasce dal cambiamento e dell’innovazione. Questa fiducia, che alcuni chiamano riflessiva, non è frutto di pura speculazione. È già ora una componente fondamentale delle nostre interazioni sociali: come potremmo spiegarci, altrimenti, le azioni dei tanti che in questi giorni lavorano e si sacrificano per combattere l’epidemia negli ospedali, nelle strade e nelle loro case?

Sunniti e Sciiti: un conflitto religioso che divide il mondo arabo da XIV secoli

di Nicolò Tozzi

 

Sunniti e Sciiti, quanto sappiamo di loro e del loro conflitto? Negli ultimi anni ci sono giunte notizie drammatiche provenienti dal Medio Oriente, teatro di conflitti e contrasti, con la realtà dello Stato Islamico che ha catalizzato principalmente l’attenzione. Alla radice ci sono secolari divisioni tra sunniti e sciiti che, nonostante non siano mai entrati in aperto conflitto militare tra loro, si muovono all’interno del delicato scacchiere mediorientale. Alla luce dei recenti eventi in Iran (uccisione del generale Soleimani) e in Siria (intervento militare turco nel nord del paese), che hanno destabilizzato nuovamente la situazione, appare utile alla comprensione degli eventi analizzare quali sono le differenze tra i sunniti, ovvero i seguaci della Sunna (consuetudine), i quali costituiscono la corrente ortodossa e maggioritaria della comunità islamica (circa l’80% dei credenti) e gli sciiti (il cui nome deriva dall’espressione abbreviata “fazione di Alì”) che sono la minoranza (circa il 15% dei credenti).

 

Oggi la guerra interna al mondo islamico ha visto una drammatica escalation, come in Siria dove la minoranza sciita “alawita” (discendenti di Alì), guidata dal presidente Assad, sta combattendo da circa nove anni contro la maggioranza sunnita, la cui ultima roccaforte sul territorio rimane Idlib dove, non a caso, come gli sciiti libanesi di Hezbollah si sono recati in aiuto del presidente siriano, allo stesso modo i sunniti di Jabhat al Nusra si sono uniti alle fazioni ribelli. Anche l’Iran dell’Ayatollah Khamenei, dove lo sciismo è al potere, sostiene il presidente Assad. l’Iran dopo la morte del generale Soleimani, avvenuta in seguito ad un raid degli Stati Uniti, ha visto crearsi una forte coesione sociale poiché, ai funerali del generale hanno partecipato un numero di persone che sembra addirittura superiore a quelle che parteciparono nel 1989 ai funerali dell’Ayatollah Khomeini. Dimostrazione quindi di un forte senso di identità nazionale del popolo iraniano. Se parliamo di Iran non possiamo certo dimenticare uno dei suoi acerrimi avversari cioè l’Arabia Saudita paese leader dell’Islam sunnita, nella sua versione giuridico-teologica del wahhabismo[1]. I due attori da 5 anni ormai sono coinvolti, chi direttamente vedasi l’Arabia Saudita a capo di una lega di paesi sunniti e chi indirettamente come l’Iran che sostiene i ribelli sciiti, nella guerra civile in Yemen che, secondo un report dell’Armed Conflict Location and Events Dataset, ha mietuto circa 100.000 vittime di cui 12.000 sono civili. Oltre alla disputa yemenita vi è anche quella irachena dove dopo essere stato debellato lo stato islamico, il paese è conteso tra Iran e Stati Uniti (alleato dell’Arabia Saudita). Con la morte di Soleimani dovuta ad un raid statunitense effettuato proprio sul territorio iracheno, l’equilibrio precario tra i due paesi è venuto meno tanto che il 5 gennaio passato il parlamento di Baghdad ha votato una risoluzione che chiedeva l’allontanamento dei 5.200 soldati americani presenti nel paese.

 

Infine, non possiamo non parlare della Turchia del “sultano” Recep Tayyip Erdogan il quale

nutre una duplice ambizione per la sua “Grande Turchia”: far diventare il paese il vero key player

regionale in un Medio Oriente sempre più allargato dall’Afghanistan al Suda, e quello di costruire l’immagine delle Turchia come attore globale, potente e influente. Esempio ne è la sua operazione militare nel nord della Siria, che però ha suscitato più di una preoccupazione nel regime di Teheran che teme un’eccessiva influenza turca nella zona, con effetti diretti sul potere dei Pasdaran in Siria e sul possibile uso da parte di Ankara dei suoi alleati sunniti, per aumentare il suo potere regionale. Se la storia ci insegna che le guerre, anche quelle di religione, sono innescate da motivazioni politico-economiche (vedasi le Crociate), dopo XIV secoli di tensioni, il rischio che si profila per il mondo islamico è una ipotetica Guerra dei Trent’anni? Solo l’evoluzione delle dinamiche geopolitiche potrà sciogliere questo dubbio.

 

[1] indirizzo religioso musulmano di tipo dogmatico e radicale fondata alla metà del XVIII secolo

da Muhammad ibn’Abd al-Wahhab

 

Per un nuovo risorgimento delle istituzioni italiane

di Matteo Briotti

Ogni comunità, in ogni epoca, ha conosciuto, sulla propria identità, ponderose crisi e drastiche situazioni di squilibrio sociale che ne hanno determinato, spesso in modo nettamente significativo e prorompente, non solo una modifica importante ed evidente, ma altresì, una acquisizione profonda della conoscenza di quei valori che accomunano ogni individuo, ogni singolo e libero cittadino che è inserito in un contesto giuridico e psicologico più grande, quale quello di una società basata su concezioni moderne. È, però, quanto mai evidente che, nella storia dell’Italia repubblicana, ci si trovi dinanzi ad una importante, quanto nuova, situazione emergenziale, nella quale trova spazio una difficile comprensione del fenomeno anche da parte delle autorità competenti e protagoniste nell’ardua gestione della stessa. Una situazione che ha mostrato grandi ricadute sul fronte socio-economico del nostro Paese, alimentando sentimenti di incertezza, paura e impotenza soprattutto all’interno del tessuto sociale della nostra collettività. Sin dai primi giorni del mese di marzo, le autorità di Governo hanno necessariamente elaborato una serie di provvedimenti stringenti e rigorosi, volti a contrastare il dilagare dei contagi da COVID-19. Si tratta di provvedimenti composti da una serie di prescrizioni fortemente perentorie che, tra le varie argomentazioni, dispongono l’assoluto divieto di spostamento delle persone fisiche se non per comprovate esigenze di carattere medico o lavorativo. Appare chiaro come queste misure modifichino inevitabilmente le abitudini di tutto il corpo sociale, limitando una delle più importanti e “sacre” garanzie costituzionali: la libertà individuale. Viene chiesto, in questo tempo, un radicale cambiamento della quotidianità collettiva e un interfaccio certo con la paura. La paura di ciò che ci è ignoto, la paura di una sconfortante indeterminatezza, la paura del mettere alla prova i nostri valori e la nostra identità nazionale, ovvero ciò che ci accomuna. A tal riguardo, trovo importante ricordare le parole del giudice antimafia Giovanni Falcone, assassinato nel 1992, che affermava:

“L’importante non è stabilire se una persona ha paura o meno; l’importante è saper convivere con la propria paura e non farsi dominare dalla stessa, altrimenti sarebbe incoscienza.”

In un momento così incerto e preoccupante, l’inevitabile tensione provocata dalla paura può, però, essere funzionale, poiché può trasformarsi in attivazione alla collaborazione e alla responsabilità nel rispettare al meglio le indicazioni igienico-sanitarie e preventive. Ma la paura, in questo momento, deve necessariamente farci rendere conto che siamo spettatori della nostra storia, del nostro tempo; spettatori di un tempo senza dubbio difficile, certo, è inutile nasconderlo, ma al quale è necessario rivolgerci con coraggio e determinazione.

Un tempo nel quale ci sentiamo prigionieri di un carceriere invisibile e meschino; un tempo dove i nostri cuori si uniscono agli sforzi dei tanti medici, infermieri e tutori dell’ordine che si sono ritrovati ad essere, ora più che mai, “soldati di trincea” in questa difficile ed incomprensibile guerra; un tempo nel quale l’appartenenza europea rappresenta il fondamento per la ricostruzione soprattutto del nostro sistema economico gravemente danneggiato, perché è evidente che per fronteggiare al meglio una crisi senza precedenti, occorre mettere in campo tutte quelle misure finanziarie, di concerto con le istituzioni europee, che salvaguardino le economie di tutti noi; un tempo dove il grido di “coesione e solidarietà” si erge a faro per il nostro avvenire, udito oggi da tutti coloro che non si fermano, che non si arrendono e che sostengono la catena produttiva italiana. Solamente così, solo uniti, coesi e solidali comprenderemo che, come la storia ci insegna, l’unione ci consentirà di progredire e di debellare tutti quei vincoli che oggi angosciano il nostro animo. Non si tratta di uno slogan, ma di una concreta certezza. Si tratta di una chiamata ad un comune sentimento responsabile, in un’ottica più ampia, soprattutto europea, in quanto, tutti gli Stati membri devono sentirsi, ora più che mai, uniti e pronti a farsi carico anche delle determinazioni risolutive.

In tempi non lontani dal nostro presente, dove lo spirito democratico nazionale veniva sottoposto a frustranti tensioni, lo statista Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana e tessitore di un nuovo modello di coesione sociale nazionale ed internazionale, pronunciò le seguenti, incoraggianti, parole, sulle quali dovremmo far soffermare tutti una sensibile riflessione:

“[…] Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremo di farlo. Ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso; si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà […]”.

Quanto di più attuale? La forza sta nella consapevolezza della responsabilità del singolo nel proprio tempo; la responsabilità di rimanere uniti, anche a distanza. L’Italia sta reagendo bene, questo va riconosciuto; sia per quel che riguarda la gestione dell’emergenza, che vede come protagonisti sia gli attori della compagine governativa, costantemente protesi al dialogo costruttivo con le diverse parti che compongono il sistema Paese e con le istituzioni europee, sia per coloro che gestiscono l’emergenza dal punto di vista logistico e territoriale, come il sistema di Protezione Civile ed il sistema sanitario, ai quali va il mio personale ringraziamento, e, infine, sia per tutti quei cittadini che non si lasciano sopraffare dallo sconforto, ma reagiscono e cantano l’Inno nazionale.

L’Italia ne uscirà, ce la farà e si rialzerà. Noi tutti ce la faremo, ricordando, prima di tutto a noi stessi, che siamo un grande Paese e che risulta nodale mantenere alto l’amore per la nostra comunità, la nostra identità e la nostra libertà.

L’urgenza dei Solidarity-Bond contro la crisi da COVID-19 e come argine alle derive antieuropeiste. E sul Mes? Basta la BEI. Parla Federico Carli

di Emanuele Lorenzetti

Eurobond, Coronabond, scudo del Mes contro la crisi da COVID-19. Sono i temi ricorrenti che fanno da sfondo all’indirizzo di politica economica verso cui l’UE dovrebbe andare per risolvere la fase di emergenza sanitaria e sociale provocata dal Coronavirus. La Fondazione De Gasperi ha sentito il parere di Federico Carli, economista e presidente dell’Associazione di cultura economica e politica Guido Carli.

 

Dottor Carli, in questi giorni è tornato in auge il tema degli ‘EuroUnionBond’ come risposta al Coronavirus. Dal Commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, sono in molti ad unirsi lungo questo filone di pensiero. Lei è uno di questi e in proposito ha coniato il termine “solidarity bond”. Ci spieghi in cosa consiste e qual è l’importanza di implementare una simile scelta di politica economica?

Credo che sia giunto il tempo di utilizzare il linguaggio della verità, e non per distruggere bensì per costruire un percorso europeo che torni a diffondere la speranza di un futuro di progresso per i popoli del Continente. Ebbene, l’emergenza sanitaria, gravissima di per sé, ha messo in luce problemi già esistenti e già evidenti a chi avesse voluto vederli ben prima che il coronavirus ci colpisse: la debolezza dell’economia italiana, la fragilità dei suoi assetti istituzionali, lo scollamento della società, che era già vicina a un punto di rottura quando l’epidemia era un evento inimmaginabile. Soprattutto, ha messo in luce l’incompiutezza e l’inadeguatezza attuali dell’UE. In occasione di un convegno organizzato dall’Associazione Guido Carli alla fine dell’estate 2019, il Presidente della Consob ha ricordato, per esempio, che già “lo scorso 7 settembre il Presidente della Repubblica Mattarella aveva ribadito i punti sollevati nella sua illuminante prolusione all’Università di Lund del novembre 2018, quando affermò che «fosse dirimente un chiarimento introspettivo sulla direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere» di comune accordo, secondo il principio di sussidiarietà. L’idea di un’Europa unita riprenderà vigore il giorno in cui sarà possibile discutere seriamente dei contenuti da dare alla richiesta di riesame o di completamento, senza che i partecipanti al dibattito incappino nella consueta distinzione tra europeisti e antieuropeisti”. In questa cornice deve essere inquadrata la proposta dei “solidarity-bond”, che ho formulato il 7 marzo in un’intervista concessa a Avvenire, che è stata poi ripresa da vari economisti italiani e infine fatta propria dal nostro governo che l’ha formalmente avanzata (con un altro nome, meno bello in verità…) in sede europea. Nella mia visione, il punto è duplice: 1) far affluire risorse all’economia reale, segnatamente agli investimenti di cui c’è evidente bisogno dopo la spinta contenitiva degli ultimi anni; 2) rivitalizzare su nuove basi il disegno europeo. I “solidarity-bond” costituiscono uno strumento tecnico che ha un obiettivo politico: rilanciare un’Europa carente e ingessata, che, di fronte alla crisi del coronavirus, ha manifestato tutti i suoi limiti e rischia la disgregazione. Essi sono pensati per consentire il finanziamento di indispensabili piani d’investimento senza gravare sul debito dei singoli Stati e per dare un impulso affinché le istituzioni di Bruxelles e i governi dei Paesi membri tornino a ispirare le proprie azioni secondo i principi della solidarietà, della cooperazione e della sussidiarietà. Sotto il profilo strettamente economico, queste obbligazioni di scopo, volte a finanziare investimenti per l’adeguamento delle strutture sanitarie europee, insieme con l’introduzione della “golden rule”, altro obiettivo di cui il governo italiano deve farsi portabandiera, mirano a distinguere tra spese correnti e spese in conto capitale affinché solo le prime siano assoggettate ai vincoli di bilancio stabiliti dall’UE. La realizzazione di piani pluriennali d’investimenti per l’adeguamento delle nostre strutture sanitarie su tutto il territorio nazionale, per favorire la transizione ecologica, per la messa in sicurezza del territorio, per la modernizzazione delle reti infrastrutturali (materiali e immateriali), per la scuola, non solo rappresenta un’indispensabile forma di sostegno per l’economia reale (imprenditori, lavoratori, famiglie) colpita duramente dalla crisi scaturita dall’epidemia Covid-19, ma costituisce altresì una strategia politica per attenuare gli inaccettabili squilibri e disuguaglianze tra gruppi di cittadini e tra territori, per tutelare e per dare piena dignità alla vita stessa delle persone. In altri termini, per rivitalizzare l’Europa riportandola nel solco pensato e tracciato dai padri fondatori, tra i quali spicca in tutta la sua grandezza la figura di Alcide De Gasperi.

Il presidente del Consiglio Conte, in un’intervista rilasciata al Financial Times, ha chiesto lo scudo del MES contro la crisi da Coronavirus. Cosa ne pensa e quali sono i dubbi sull’applicabilità del Fondo salva-stati?

Il punto è politico, non tecnico. Pensare di far evolvere la costruzione europea attraverso l’istituzione progressiva di meccanismi tecnici, prevalentemente orientati a regolamentare i mercati bancari e finanziari e i bilanci pubblici degli Stati, è un errore mortale. Continuare a discutere nelle sedi ufficiali e quindi, inevitabilmente, sulla stampa di MES, Fondo salva-stati, Basilea4, Patto di Stabilità, 3%, MiFID3, etc… porterà alla liquefazione dell’Unione Europea. Penso che questo non sia il momento più opportuno per spingere avanti negoziazioni tecniche su meccanismi che suscitano la preoccupazione di larghi strati dell’opinione pubblica di diversi paesi; i solidarity-bond possono essere tranquillamente emessi dalla BEI, non c’è bisogno di forzare la mano sul MES in questo momento. Lo stesso nome “Fondo salva-stati” evoca una battaglia di retroguardia e non un piano di largo respiro volto a promuovere il progresso delle Nazioni d’Europa, ritengo che il linguaggio sia più importante di quanto normalmente si pensi perché la forma è sostanza. Il linguaggio non è semplicemente un mezzo per esprimere il proprio pensiero, ma ne è anche il nutrimento di cui il pensiero si alimenta per prendere corpo e da cui quindi trae origine. Non limitiamoci a ergere muri per la conservazione di posizioni difensive, a cominciare dalla scelta stessa delle parole. Iniziamo, noi tutti, a modificare il linguaggio e a utilizzare frasi che mostrino l’esistenza di una visione nuova, in grado di scaldare i cuori intorno a progetti alti. Apriamo piuttosto un tavolo ufficiale di discussione volto a dirimere quale sia la “direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere” affinché ne scaturiscano sviluppo, coesione e stabilità. È giunta l’ora di sostituire agli sterili temi tecnici posti sul tavolo dai funzionari amministrativi di Bruxelles, i temi di vitale importanza attorno ai quali è nata l’Unione Europea: temi propriamente politici, che richiedono l’ardimento, la visione e la risolutezza di una classe politica all’altezza del proprio ruolo. Solo in questo modo sarà possibile dare un rinnovato slancio alla costruzione europea.

L’UE sta subendo una forte crisi di fiducia e sempre più rilevanti sono le derive antieuropeiste. I “solidarity-bond” perché potrebbero essere il trampolino di lancio per una ripresa del processo d’integrazione europea?

Risollevare l’economia, rivitalizzare l’Europa, favorire l’emersione di una nuova classe politica: questi sono gli obiettivi che dobbiamo porci. I “solidarity-bond” possono essere il trampolino di lancio per una ripresa del processo d’integrazione non solo e non tanto perché costituiscono uno strumento per assicurare il bene supremo della salute, ridurre gli squilibri tra classi di cittadini e tra regioni d’Europa, sostenere l’economia reale e l’occupazione in un momento così difficile, colmare la carenza di capitale sociale che in alcune aree del Continente è drammatica, incluso qui in Italia, bensì perché, sotto il profilo del metodo, essi si prestano a capovolgere l’impostazione tutta tecnica su cui si sono fondati il dibattito e l’azione europei negli ultimi trent’anni. I “solidarity-bond”, rappresentano un grimaldello per riportare la politica al centro della scena e, con essa, i temi che davvero rilevano ai fini di una vita piena e degna delle persone. Occorre lavorare affinché emergano una nuova impostazione, non tecnica bensì politica, e una nuova visione per l’Europa. E con esse, emergeranno uomini nuovi all’altezza della sfida che abbiamo davanti. Per uscire dalla crisi dell’Europa, occorre far nascere una nuova classe dirigente, competente e portatrice di un pensiero nuovo, che sappia evitare gli errori compiuti da coloro i quali hanno governato il Paese e l’Europa negli ultimi trent’anni. Questa è l’unica speranza, perché non possiamo immaginare che a risolvere il problema siano coloro i quali lo hanno creato.

L’Università al tempo del Coronavirus. Parla il Rettore Raffaele Calabrò

di Luca Di Cesare

Dal 4 marzo il Dpcm ha decretato la chiusura delle università e delle scuole su tutto il territorio nazionale per far fronte alla pandemia dovuta al Covid-19, ciò non si è verificato neanche durante la Seconda guerra mondiale. Per questo, la Fondazione De Gasperi – da sempre vicina alle nuove generazioni – ritorna a prestare attenzione agli studenti universitari. Il Professore Raffaele Calabrò, Rettore del Campus Bio-Medico di Roma e Senior Fellow presso la Fondazione De Gasperi, risponde ad alcune domande ai nostri microfoni.

 

Professore, quali sono le iniziative prese dall’Università Campus Bio-Medico di Roma a seguito della grande emergenza sanitaria dovuta al nuovo Coronavirus?

Per fronteggiare tempestivamente l’emergenza Covid-19 garantendo il più possibile i servizi e l’attività didattica è stata istituita una task force in ambito Universitario, avendo come obiettivo la centralità dello studente e dei dipendenti. Nel rispetto dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri abbiamo sospeso le attività didattiche in presenza, i tirocini pre e post lauream degli studenti, le attività convegnistiche e congressuali e tutti gli eventi, e abbiamo contestualmente avviato le lezioni in diretta streaming e registrate da parte dei nostri docenti.

Anche i test di ammissione previsti, come quello per il corso di Medicine and Surgery in lingua inglese per il quale erano iscritti circa 500 candidati, sono stati rinviati, fatti salvi i test di ammissione per gli studenti esteri per i quali era già prevista una selezione a distanza. Gli studenti potranno seguire linee guida ad hoc per ridurre al minimo i disagi, mentre ai dipendenti dell’università sono state fornite tutte le indicazioni per proseguire serenamente il lavoro, attuando dove possibile lo smart working, utilizzando dispositivi di protezione individuale sul posto di lavoro o potendo utilizzare i giorni di ferie.

A tutti i dipendenti, specializzandi, studenti e volontari con sintomatologia di febbre, tosse o dispnea è stato messo a disposizione un ambulatorio open, tre giorni alla settimana, presso il quale sarà possibile effettuare una visita specialistica internistica e, a seconda dei casi e per disposizione del medico, eventuali approfondimenti diagnostici.

Essendo la nostra Università una realtà vocata alla formazione, alla ricerca e all’assistenza, il nostro Policlinico universitario sta continuando a erogare prestazioni sanitarie, processando i tamponi dell’Asl Roma 6 dei Castelli Romani, secondo l’organizzazione della Regione Lazio per il Covid-19, e assicurando – come struttura “non- Covid” assistenza a tutte quelle esigenze sanitarie non differibili, in piena sicurezza, accogliendo anche pazienti da altre strutture, in un gioco di squadra del Servizio Sanitario per garantire il diritto alla salute a chi ne ha bisogno e non può aspettare la fine dell’emergenza: dalle terapie oncologiche, per le quali è stato realizzato un percorso ad hoc che non incrocia altri flussi di pazienti, agli interventi di traumatologia, a quelli cardiochirurgici, solo per fare qualche esempio.

Sul piano della ricerca stiamo cercando di dare – anche in lavoro sinergico con i più autorevoli centri internazionali – il nostro contributo: siamo stati i primi a individuare la mutazione nel passaggio di specie dal pipistrello all’uomo e stiamo continuando a indagare le caratteristiche del virus, la modalità di diffusione e le possibili modalità di diagnosi precoce per sostenere lo straordinario lavoro che operatori sanitari e medici stanno facendo in tutti i Paesi investiti dal Covid-19. Abbiamo per esempio adottato – primi in Europa dopo l’esperienza di Wuhan in Cina – un sistema di intelligenza artificiale che consente in circa 20 secondi, partendo da una immagine di tc polmonare, di identificare se ci troviamo potenzialmente di fronte a un paziente contagiato dal nuovo virus o se si tratti di altra patologia. Questo lavoro su grandi quantità di dati ci aiuta a somministrare le cure efficaci in maniera tempestiva ed efficace ai pazienti non Covid e a isolare immediatamente quei soggetti che sono stati contagiati ma che ancora non lo sanno, contribuendo a interrompere i potenziali contatti infettivi.

In che maniera l’Università si sta attrezzando per far fronte alle esigenze degli studenti e dei docenti (didattica, tasse)?

Credo che questa emergenza, per quanto stia creando in tutti noi preoccupazioni e gravi danni al sistema Paese, debba essere vissuta, per quanto possibile, cogliendo quelle opportunità che possano fare dell’università un luogo di cultura sempre più accogliente e aperto, seppure da remoto. Solo per fare tre esempi stiamo mettendo a regime una didattica innovativa, con strumenti e risorse tecnologiche che potranno essere messe a disposizione dei nostri studenti anche a emergenza conclusa; puntiamo a creare una comunità più forte e più coesa all’interno del mondo accademico, così pieno di risorse preziose; infine vogliamo rafforzare il senso di comunità già presente tra studenti che passano ogni giorno molte ore negli spazi della nostra università, siamo e ci sentiamo una famiglia, e ancor di più nelle difficoltà, le famiglie devono stare unite. Ai nostri ragazzi, stiamo proponendo contenuti didattici e contenuti per aiutarli a crescere come persona.

L’Università Campus Bio-Medico di Roma organizzerà venerdì 20 marzo una prima sessione di laurea di Medicina e Chirurgia interamente a distanza, senza studenti in presenza, e saranno programmate le successive sessioni.

Una task force è al lavoro per offrire un efficace servizio di didattica a distanza collaborando con i docenti dell’ateneo con l’obiettivo di potenziare l’erogazione on line delle lezioni, mentre da questa settimana riprenderanno anche gli esami che saranno ovviamente eseguiti a distanza; in questo senso i docenti stanno lavorando per la conversione degli esami da scritti a orali, laddove possibile. Ognuno sta facendo la propria parte. Anche, per esempio, sulla donazione di sangue, abbiamo chiesto ai nostri studenti di fare la propria parte da cittadini consapevoli e con uno spiccato senso di comunità.

Le direttive emanate dal Governo, a suo avviso sono sufficienti o devono essere incrementate in qualche modo?

Seguiamo con grande attenzione l’evolversi della situazione e ci atteniamo strettamente alle regole del governo. Come ci dicono gli epidemiologi che stanno studiando l’evoluzione del contagio, dobbiamo proseguire nella direzione attuale, continuando a lavorare tutti insieme con senso di responsabilità per fronteggiare e poi debellare il virus, con un’azione unitaria che è giusto duri fino a che non saremo completamente fuori dall’emergenza, non solo a livello regionale o italiano ma europeo. Le grandi sfide del nostro tempo non riconoscono i confini e le frontiere imposte dall’uomo, e questa è la prima grande emergenza globale, alla quale dobbiamo rispondere con un approccio globale. È l’unica strada. Siamo consapevoli delle sfide che questa emergenza sta portando all’attenzione del Governo e dei presidenti di Regione e speriamo che, anche in questo caso, saremo in grado come Paese di cogliere le opportunità di miglioramento delle istituzioni e del sistema.

Concretamente, per rispondere alle esigenze delle famiglie e degli studenti di fronte all’emergenza Covid-19, l’Ateneo ha deciso di prorogare la scadenza del pagamento della rata prevista per il 13 marzo alla data del 29 maggio. Per chi è in procinto di laurearsi sanitario nazionale che questa emergenza ci sta indicando chiaramente. Penso al salto evolutivo che questa esperienza impone alla macchina amministrativa sul piano dell’erogazione dei servizi in digitale.

Questa situazione ci conferma, ahimè nel peggiore dei modi, tutti i limiti di un servizio sanitario articolato su 21 sistemi differenti e in larga parte praticamente indipendenti e la necessità invece di una cabina di regia per le strategie e lo sviluppo delle azioni che possono essere declinate sui singoli territori mediante autonomia operativa delle Regioni. Quel che stiamo vivendo oggi ci impone di effettuare una accurata rivalutazione e rimodulazione della distribuzione delle risorse sul territorio italiano perché il prezzo delle disuguaglianze che si sono sviluppate le paghiamo comunque tutti come Paese. La lezione che spero si possa apprendere da questa vicenda è che i fondi per la sanità non possono essere intesi come spesa ma vanno riconosciuti per quel che sono: un investimento. Senza questa consapevolezza si producono fragilità per il sistema in termini di persone, tecnologie, conoscenze. E anche se ci volessimo limitare a considerazioni di tipo ragionieristico, è del tutto evidente, oggi più che mai, che le conseguenze economiche e sociali sono e saranno infinitamente più gravose del mancato investimento.

Come valuta, infine, l’equiparazione della semplice laurea a titolo abilitante per l’esercizio immediato della professione?

La laurea in medicina che è diventata abilitante e permette ai neo-medici di entrare subito in servizio negli ospedali è un’ottima notizia. Il ministro Manfredi ha sottolineato come questo provvedimento accorci di diversi mesi la filiera professionale di queste figure di cui il sistema sanitario ha sempre più bisogno. Condividiamo la scelta del Governo sulla possibilità di utilizzare medici in formazione o che sarebbero dovuti andare in pensione, ma riteniamo che gli studenti non siano ancora preparati adeguatamente per affrontare questo momento così delicato. Non dimentichiamoci mai che la forza del Servizio sanitario nazionale italiano, nota e apprezzata in tutto il mondo, è data proprio dalla professionalità e dalla esperienza dei nostri professionisti, un’esperienza che non si può improvvisare nemmeno con la migliore formazione universitaria. È chiaro però che in questa emergenza ognuno farà la propria parte.

 

Il Coronavirus e gli effetti sull’economia in Italia. Parla l’economista Bracco

di Emanuele Lorenzetti

Il Coronavirus non rappresenta solo una crisi epidemiologica, ma anche una forte crisi sociale ed economica. Capire, allora, quali sono gli effetti sull’economia del nostro Paese e con quali misure rispondere è una priorità. Sul tema la Fondazione De Gasperi ha sentito il parere dell’economista Emanuele Bracco, professore all’Università di Verona con un passato alla Lancaster University, un PhD in Economics presso la University of Warwick e un MSc in Economics presso la London School of Economics.

 

Professore, il Coronavirus sta generando conseguenze sull’economia in Italia: quali settori investe e come rispondere?

I primi settori ad essere colpiti globalmente sono stati i cosidetti settori di “luxury” (lusso) e “leisure” (trasporti, ristoranti, alberghi). Ora che la situazione è molto più drammatica e non solo confinata alla Cina, sono davvero pochi i settori che non sono direttamente colpiti da questo blocco, sia per mancanza di domanda che per la difficoltà di organizzare la produzione durante una quarantena. Sicuramente ospitalità, commercio, turismo sono i primi a soffrirne, ma anche i settori manifatturieri più legati alle importazioni cinesi soffriranno. Le catene globali del valore hanno assunto un ruolo sempre più centrale nella manifattura e sempre più settori necessitano di componenti di produzione cinese. In questo senso i settori più colpiti saranno ancora una volta il tessile e l’elettronica, ma anche l’automotive. Se poi questa epidemia continuerà per altri mesi, molte piccole e medie imprese di tutti i settori soffriranno crisi di liquidità e alcune necessariamente andranno in fallimento. In tutto questo ovviamente il settore bancario sarà sotto forte stress, e ci si aspetta che la Banca Centrale Europea faccia il suo lavoro per evitare conseguenze disastrose per l’economia, come il fallimento di banche importanti.

 

Quali sono le misure più efficaci per evitare il fallimento di aziende e servizi pubblici, il potenziale licenziamento dei dipendenti e la perdita di lavoro per i professionisti?

Innanzitutto nei prossimi mesi ci sarà bisogno di un importante investimento in sanità, sia in termini di macchinari che di personale. Secondariamente, nel decreto di ieri il governo ha iniziato a stanziare fondi per far fronte a questa situazione. Sicuramente sussidiare partite IVA e piccoli imprenditori il cui reddito è stato azzerato dal lockdown è necessario, così come è necessario ampliare il ricorso alla cassa integrazione, e mantenere le altre misure di sostegno al reddito per i meno abbienti come il reddito di cittadinanza (che può, ovviamente, essere migliorato). Rispetto invece alle scadenze fiscali sembra che il governo sia stato invece molto molto timido, semplicemente posticipando alcuni pagamenti fiscali di pochi giorni. Gli obblighi fiscali delle aziende colpite dovrebbero invece essere rimodulati in modo molto più incisivo e – mi si consenta – tempestivo: posticipare di quattro giorni senza avere neanche il testo del decreto nel giorno della scadenza non aiuta certo le imprese a far fronte a questa emergenza.

 

Il Governo ha scelto di stanziare 25 miliardi di euro per imprese e famiglie. Non appena terminata la fase di quarantena, quali misure consiglierebbe per stimolare l’economia?

 

Questa pandemia è una specie di tempesta perfetta, che mina sia il lato della domanda che quello dell’offerta. Il governo dovrà agire su vari fronti. Dal lato dell’offerta sicuramente sostenere la liquidità delle aziende colpite dalla crisi ad esempio attraverso prestiti agevolati. Dato che questa epidemia sicuramente non sparirà il 2 Aprile, si dovrà anche pensare a incentivare direttamente la messa in sicurezza delle aziende, incentivando piani aziendali di smart working o distanziamento sociale; questi per altro potrebbero anche contribuire all’ammodernamento tecnologico (e quindi alla produttività) di molte piccole imprese che sono mediamente meno attrezzate da questo punto di vista. Questo tipo di ammodernamento sarebbe anche di grandissima utilità nella pubblica amministrazione che – con l’eccezione forse di alcune scuole e quasi tutte le Università – si trova in grande difficoltà nell’affrontare la gestione della “produzione” tramite modalità di lavoro remoto a causa delle rigidità amministrative del nostro sistema. Penso ad esempio all’impossibilità di fare udienze di tribunale tramite teleconferenza, o alla possibilità che queste settimane di sospensione delle udienze giudiziarie possano essere utilizzate per colmare parte delle cause pregresse accumulate.

Questo andrà unito ad un’importante azione di sostegno alla liquidità delle banche da parte della banca centrale. Ci saranno sicuramente molti fallimenti che andranno ad indebolire la situazione patrimoniale delle banche, e non ci possiamo aspettare dal settore bancario una generosità nel concedere prestiti alle aziende, anche in presenza di politiche monetarie particolarmente creative ed espansive.

Dal lato della domanda invece diventano fondamentali sia il sostegno al reddito di coloro sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, sia investimenti pubblici diretti di stimolo a consumi e investimenti: sicuramente in sanità, ma anche i tanto decantati investimenti infrastrutturali non potranno che contribuire all’uscita dalla crisi. In questo senso istituzioni come la Banca Europea degli Investimenti o la Cassa Depositi e Prestiti potranno assumere un ruolo importante. Un altro importante canale di sostegno dei consumi potrebbe venire dall’attuazione di misura al sostegno della famiglia, con un riconoscimento non solo simbolico (e non solo per il sempre più esiguo numero di lavoratori dipendenti) dei carichi familiari, ad esempio attraverso l’assegno unico per i figli, o misure universali analoghe.

Tutto questo ovviamente necessita che la Commissione Europea sia efficace nel garantire ai paesi con minore spazio fiscale come il nostro la capacità di far fronte a queste spese necessarie per la sopravvivenza di molti italiani, e per la sopravvivenza anche del tessuto produttivo italiano. Spero infine, forse contro ogni ragionevole speranza, che la crisi ci darà anche la possibilità di ragionare delle tante scelte di politica economica profondamente sbagliate di questi ultimi anni, che ci hanno portato ad avere livelli di debito altissimi e spazi autonomi di manovra davvero esigui a fronte – ad esempio – di una riduzione in termini reali della spesa sanitaria. Penso ad esempio a tutte alle politiche fiscali che stanno disincentivando il lavoro (quota 100, alcuni aspetti del reddito di cittadinanza) o sostengono con la fiscalità generale aziende di dubbio interesse strategico (Alitalia, molte municipalizzate inefficienti, eccetera) o alle politiche salariali della pubblica amministrazione ancora scollegate da dinamiche premiali e meritocratiche.