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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

I limiti allo Stato d’eccezione nell’ordinamento italiano. Il punto di Mirabelli

di Gian Marco Sperelli.

“Sovrano è colui che decide sullo Stato d’eccezione”. La celebre affermazione di Carl Schmitt restituisce il senso della situazione politica vissuta attualmente dal nostro Paese, a seguito dei Dpcm emanati dal Presidente del Consiglio Conte nei giorni scorsi. Ma quali sono i limiti costituzionali invalicabili per l’azione del Governo in un’emergenza sanitaria di tale portata? Il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Mirabelli ne ha fatto il punto con la Fondazione De Gasperi.

 

Presidente Mirabelli, a sostegno della liceità costituzionale dei Dpcm delle ultime settimane si è fatto riferimento al Decreto-legge del 23 febbraio scorso. A suo parere è sufficiente?

Le due libertà fondamentali, che sono state fortemente limitate e compresse, sono senza ombra di dubbio quelle di circolazione e di riunione, assieme – anche se in misura minore- alla libertà d’iniziativa economica. Nella nostra costituzione vi è la possibilità restrizioni alla libertà di circolazione, previste in linea generale dalla legge, per motivi di sicurezza nazionale e di pubblica sanità. Il secondo punto, ça va sans dire, è il nodo cruciale della questione. Ma qual è il doveroso bilanciamento costituzionale di fronte ad un restringimento così ampio delle libertà personale? In questo caso, il diritto alla salute deve essere interpretato quale prerogativa fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività. Ciò che stupisce, per via dell’alta trasmissibilità del virus, è l’estensione di queste disposizioni su tutto il territorio nazionale non per mezzo di atti legislativi, ma con decreti essenzialmente attuativi. Sono due i criteri giuridici di valutazione in una questione così complessa: la proporzionalità e l’assoluta temporaneità di tali restrizioni. La questione di fondo, ad ogni modo, è se tali Dpcm siano da considerarsi come semplici decreti attuativi, ovvero mero strumento di delegificazione, esenti dunque da qualsiasi forma di controllo parlamentare o presidenziale. Un’ipotesi questa abbastanza discutibile.

 

A proposito del controllo parlamentare sull’azione dell’Esecutivo, come valuta l’ipotesi del proseguimento dei lavori delle Camere tramite video-conferenza e voto telematico?

Sarei estremamente sorpreso se, in presenza di un’emergenza sanitaria nazionale, si dovesse verificare un contingentamento prolungato dell’attività del Parlamento, che è l’organo di esercizio della sovranità nazionale. Se mi passa il termine le nostre Camere non possono avere una funzione “spettrale” o di meri luoghi di ratifica della volontà politica del Governo. In definitiva, è necessario garantire la continuità dei lavori parlamentari, pur adottando tassativamente tutte le misure igienico-sanitarie volte alla tutela della salute di tutti i membri del Parlamento. Fortunatamente la democraticità, a mio parere, del sistema è sostenuta da istituzioni di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la stessa Unione Europea.

 

Vale a dire?

Nella nostra storia repubblicana, a dire il vero, non sono mai stati adottati provvedimenti così radicali neanche durante la stagione del terrorismo alla fine degli anni ’70. Ma se ci trovassimo in un contesto storico analogo, tali restrizioni così forti ai fondamentali dei cittadini sarebbero il “brodo di coltura” perfetto, per un ulteriore ridimensionamento delle libertà civili e politiche.

Green Bond: è tutto verde ciò che luccica?

di Tancredi Rapone e Tommaso Di Prospero

 

L’Europa è verde. O così ci dicono. Dal Green New Deal della von Der Leyen ai Green Bond che occupano sempre più spazio nei mercati obbligazionari europei e internazionali. Ma, mettendo da parte la retorica, cosa sono effettivamente i Green Bond? Chi decide se un bond è “verde”? Quali sono i meriti e le limitazioni di questi strumenti? In questo articolo tenteremo di rispondere a tali domande.

 

I Green Bond sono degli strumenti finanziari aventi l’obiettivo di sostenere progetti che combattono il cambiamento climatico. L’importanza di questi strumenti è stata particolarmente discussa al World Economic Forum tenutosi lo scorso gennaio, che ha sottolineato, più di qualsiasi altro fattore, l’importanza della transizione energetica dai carbon-fossili alle fonti rinnovabili per la stabilità economica globale (1). Per illustrare la connessione tra l’economia e la crisi ambientale in corso, basti pensare al numero crescente di disastri ambientali provocati dal riscaldamento climatico che hanno un peso sempre maggiore in termini di danni economici. Per rimanere in Europa, stando ai dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, 33 paesi dell’area economica europea hanno subito danni di oltre 13 miliardi di euro dal 2010 al 2017 per eventi climatici collegati al riscaldamento del pianeta (2). Italia, Regno Unito, Francia e Germania tra i paesi più colpiti.

 

In questo contesto, la commissione europea stima che gli investimenti in energia e infrastruttura “verdi” dovranno salire di almeno 80 punti base relativi al GDP dell’unione per raggiungere il 2,8%, questo equivale a un ulteriore finanziamento di 180 miliardi di euro l’anno (3). La portata di questo target, secondo la commissione, eccede la capacità degli attori pubblici in gioco, comportando un ruolo fondamentale del settore privato. I “Green Bond”, servono per l’appunto a raccogliere tali finanziamenti del settore privato di questi progetti, permettendo a investitori di finanziarli e a società private di ottenere i finanziamenti necessari per effettuare i loro progetti “verdi”. Attualmente vi sono oltre 500 miliardi di dollari americani in green bonds sui mercati finanziari internazionali (4). A partire dallo scorso gennaio, anche la BCE ha iniziato a fare shopping “Green”, su indicazione della presidente Christine Lagarde.

 

Fondamentalmente, i Green Bond consentono all’investitore di conoscere l’impatto ambientale del proprio investimento, che dunque sarà legato alla realizzazione di progetti sostenibili di vario tipo. Ad esempio, la produzione di un impianto di energia solare per l’illuminazione di una fabbrica. Non vanno poi confusi i Green Bond con i Social Bond, che mirano ad ottenere un risultato positivo “per la società”, dunque indipendentemente dai suoi risultati ambientali (pensiamo al finanziamento per la realizzazione di un comprensorio di case popolari). Ancora diversi sono i Sustainability Bond, che richiedono a un tempo la realizzazione dei fini ambientali e sociali richiesti rispettivamente dai Green e Social Bond.

 

Ma cosa definisce, sul piano oggettivo un bond come “Green”? Chi stabilisce gli standard di trasparenza sul loro effettivo impatto ambientale? De facto, non esiste uno standard di trasparenza a cui gli emittenti debbano sottoporsi per poter apporre il label “Green” ai loro bond. La maggior parte degli emittenti si affida ai Green Bond Principles, stabiliti dalla Associazione Internazionale dei Mercati di Capitali (ICMA), che dovrebbero stabilire delle linee guida per assicurare la trasparenza e l’integrità della natura sostenibile degli investimenti (5). Alcune società di consulenza come Moody’s Investors Service e Cicero Shades of Green si propongono come attori per la certificazione terza e imparziale di sostenibilità del progetto finale. Tuttavia, come anche gli stessi Green Bond Principles tengono a sottolineare, è in ultima analisi il criterio nominalistico a prevalere. Si definiranno Green Bond quelli che gli emittenti etichetteranno come tali. Non stupisce allora che la Cina sia il secondo emittente mondiale di Green Bond, nonostante tali finanziamenti siano stati diretti a foraggiare centrali elettriche a carbone (6). Nel 2017, Repsol Sa, una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo, ha emesso un bond da 500 milioni di euro a scadenza quinquennale. Nonostante tali finanziamenti siano motivati come volti a migliorare l’efficienza energetica degli impianti produttivi, gli specialisti del settore sono dubbiosi sulla loro qualificazione come sostenibili. In questi casi allora non servirà che la strategia della società emittente sia completamente “verde”, ma basterà la sostenibilità del singolo investimento. Tutto ciò contribuisce a sollevare perplessità in merito alla mancanza, in questo campo, di standard legalmente vincolanti in capo agli emittenti in tutto il mondo. L’Unione Europea sta lavorando alla definizione di standard basati sulle pratiche di mercato attuali e che possano essere utilizzati globalmente. Anche in questo caso, però, si parlerà di standard volontari e non vincolanti. Ciò vuol dire che non servirà una certificazione europea per emettere un Green Bond denominato in euro. Ma questo criterio nominalistico, privo di valutazione imparziale e legalmente prestabilita, è funzionalmente adeguato al mercato dei Green Bond?

 

Esistono già nei mercati finanziari dei veicoli di comunicazione tra le società e gli investitori che non sono disciplinati da standard legali, bensì dal rapporto di fiducia tra le parti coinvolte. Nel gergo tecnico si parla di “signaling”, cioè l’utilizzo di pratiche come il frazionamento o il buyback azionario per comunicare un prospetto di crescita al mercato, il quale si prende il compito di punire severamente chi diffonde segnali fasulli, dunque assicurando l’integrità del sistema nel suo insieme (7). Allo stesso modo, verrebbe da pensare che qualora un emittente piazzasse sul mercato un presunto Green Bond che si rivelasse tutt’altro che “verde”, la vigilanza di questi comportamenti e il disciplinamento degli abusi possa essere effettuato con la massima efficienza dal mercato. Dopotutto, se un bond non è autenticamente “Green” gli investitori possono sempre evitare di comprarlo, come possono vendere le azioni di una società che diffonde segnali fasulli. Tuttavia, ci sono importanti motivi per essere scettici di un sistema di autogestione di uno standard di “Green” che non lambiscono la funzione di pratiche di signaling come il frazionamento o il buyback azionario. Il più importante di questi motivi è che nel caso del signaling, la veridicità del segnale può essere valutata in modo del tutto oggettivo e incontroverso senza spendere considerevoli risorse: se, dopo aver dato un segnale di futura crescita al mercato, i ricavi dell’azienda diminuiscono (o sono notevolmente al di sotto di quelli attesi dagli analisti) il segnale verrà considerato da tutti come manipolativo e falso. Nel caso di un Green Bond, giudicare se il palazzo costruito con il finanziamento del bond è effettivamente “verde” richiede un giudizio normativo al contrario di quello puramente descrittivo nel caso del segnale di futura crescita dei ricavi. Considerando che una gran parte dei più ingenti investitori investe a loro volta per conto di terzi (si pensi ai grandi fondi assicurativi o pensionistici), l’esecuzione di questo giudizio e la sua applicazione appaiono tutt’altro che semplici: cosa succede se una parte dei contribuenti ad un grande fondo di investimenti dissente dall’opinione dei loro soci?

In realtà, la considerazione più preoccupante per quanto riguarda questi standard volontari riguarda il concetto economico del costo opportunità, ovvero ciò a cui si deve rinunciare per effettuare una scelta economica. Come già menzionato, nella maggior parte dei casi, malgrado non in tutti, la certificazione “Green” non richiede che l’intera strategia della società sia verde ma solo il progetto per il quale si utilizzano i fondi ricavati dalla vendita del bond. Dunque, i soldi risparmiati grazie al premio più basso sul Green Bond per il progetto sostenibile possono essere utilizzati per un progetto “non-verde”, senza violare il già menzionato principio che i fondi ricavati dal bond vengano spesi interamente per il progetto verde.

 

Sotto altra luce, si può poi dibattere che il problema vada ben oltre il semplice aspetto legale. Il potenziale di questi strumenti finanziari è difficile da sopravvalutare. Con cifre sempre in crescita sul mercato attuale e l’aumento di investimenti in tecnologie e infrastrutture verdi per la transizione energetica, i mercati finanziari saranno un catalizzatore fondamentale nella lotta al cambiamento climatico. A nostro avviso, partendo dalla stessa natura pubblica del bene da proteggere (l’integrità ambientale), è necessario che la funzione dei mercati in questo campo sia attentamente vigilata e disciplinata da appositi enti pubblici aventi responsabilità fiduciaria nei confronti della collettività anziché lasciare questo onere agli emittenti di Green Bond e ai loro investitori. Ciò non toglie che i Green Bond effettivamente creino, già nel quadro attuale un importante contributo alla sostenibilità dell’economia; tuttavia, vediamo ancora molto lavoro da fare prima che possano raggiungere il loro potenziale.

 

 

Per approfondimenti:

 

(1) Vedi Hofmeijer, I., “Global Risks Report”, World Economic Forum 2020; e vedi Herhold, P. & Farnworth, E., “The net-zero challenge: fast forward to decisive climate action”, World Economic Forum 2020.

(2) Vedi https://www.eea.europa.eu/data-and-maps/indicators/direct-losses-from-weather-disasters-3/assessment-2

(3) Vedi https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/banking-and-finance/sustainable-finance_en; Hong, H., Karolyi, G. A., & Scheinkman, J. A. (2020). Climate finance. The Review of Financial Studies, 33(3), 1011-1023.

(4) Vedi https://www.climatebonds.net/market/explaining-green-bonds

(5) Vedi https://www.icmagroup.org/green-social-and-sustainability-bonds/green-bond-principles-gbp/

(6) Vedi https://ieefa.org/china-disqualifies-clean-coal-technology-from-green-bond-funding/

(7) Vedi: van der Sar, N.L. (2018). Stock Pricing and Corporate Events. Erasmus School of Economics,

Department of Finance, Rotterdam.

Le sfide del Green New Deal: il caso ENI strategy come esempio vincente di transizione energetica

Di Emanuele Lorenzetti

“La bolla del carbonio è la più grande bolla economica della storia”.[1] Sono le parole di Jeremy Rifkin, eminente accademico e presidente della Foundation on Economic Trends di Washington, il quale pone serie riflessioni sul momento cruciale che stiamo vivendo in tema di Green Economy e le sfide connesse che la comunità internazionale è chiamata ad affrontare.

La società post-industriale pone serie questioni sul futuro dell’umanità in rapporto con l’ambiente. È il tempo della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, cioè del passaggio da un’economia di mercato fondamentalmente basata su energie non rinnovabili (gas naturale e combustibili fossili) a quelle rinnovabili, come ad esempio l’energia eolica e solare.

È un tema che rappresenta un punto di svolta e come tale è oggi presente in ogni tavolo di politica internazionale sia degli stati che delle organizzazioni internazionali (OI). L’Unione Europea particolare è alla testa di questo processo verde e intelligente come si può notare dall’European Green Deal lanciato l’11 dicembre scorso. Un processo di radicale cambiamento quello Green che è sì di pensiero, ma anche di tipo infrastrutturale.

Ogni grande rivoluzione nella storia, infatti, ha portato una trasformazione del sistema organizzativo dell’industria e della città. Mentre la prima e la seconda rivoluzione industriale hanno insistito su di un’infrastruttura centralizzata, quella dei nostri tempi invece introduce il concetto di decentralizzazione. È un tema caro sempre a Rifkin, il quale parla per l’appunto di “power to the people” che avviene a seguito del processo di democratizzazione del mercato che la terza rivoluzione industriale porterebbe con sé.

Un’area molto importante interessata al cambiamento di paradigma è il campo dell’energia. Da un sistema basato su industrie che trasformano materie prime per realizzare prodotti si richiederebbe il passaggio ad un sistema economico-produttivo intelligente chiamato “internet dell’energia”. La bolla di carbonio risulterebbe infatti dall’emergere degli stranded assests, cioè di “beni immobilizzati” come i combustibili fossili che rimarranno nel sottosuolo a causa di un forte calo della domanda a favore delle rinnovabili. Il calo della domanda sarebbe favorito dall’emergere di un generale convogliamento delle industrie verso le energie rinnovabili, eoliche e solari, a causa dei minori costi di produzione che queste ultime rappresenterebbero.

L’Italia è uno dei Paesi europei più impegnati in questo processo di transazione carbonica. L’ENI, come emerge dalla sua recente strategy di lungo termine presentata il 28 febbraio, annuncia una diminuzione di emissioni dirette e indirette all’80 % entro il 2050. Così facendo l’italiana ENI si presenterebbe in linea con le tempistiche prefissate, anzi le supererebbe, disegnando la sua evoluzione nei prossimi trent’anni con l’obiettivo ultimo di divenire uno dei principali player actors nel sistema energetico internazionale. Con le parole del suo Amministratore Delegato Claudio Descalzi, il piano strategico di lungo termine entro il 2050 consentirebbe all’ENI “di essere un leader nel mercato a cui fornirà prodotti energetici fortemente decarbonizzati contribuendo attivamente al processo di transizione energetica.”[2] È un esempio vincente di come gli stati e le Organizzazioni Internazionali (OI) componenti la comunità internazionale possano e debbano impegnarsi per operare un piano economico di investimento nazionale, internazionale e mondiale che consenta un’uniformità di azione sul cammino comune del Green New Deal.

[1] J. Rifkin, Un Green New Deal globale, Mondadori, 2019

[2] Cfr. il Piano Strategico ENI di lungo termine entro il 2050 dal sito www.eni.com https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2020/02/piano-strategico-di-lungo-termine-al-2050-e-piano-d-azione-2020-2023.html

Il nodo energetico del Mediterraneo orientale

Di Gabriele Mele

A livello storico e geopolitico l’Italia ha sempre avuto un interesse prevalente attorno alle questioni energetiche di rilievo nel “mare nostrum”, come ricordava lo stesso Giulio Andreotti:”  I nostri vicini nel Mediterraneo non li scegliamo”. Nell’ottobre del 2019, le mire turche sullo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio nel mediterraneo orientale hanno riacceso i riflettori della politica internazionale e della stampa su questo quadrante periferico d’Europa.

Nello specifico la nave turca Yavuz, la quale era stata scortata congiuntamente da due navi da guerra ed un sottomarino, aveva iniziato le sue attività di esplorazione nel “pozzo di Guzelyurt-1”, andando ad intaccare una zona di specifica competenza della Repubblica cipriota, che, con il supporto della comunità internazionale, asseriva che riguardasse la sua Zona economica esclusiva (Zee). Coinvolte direttamente nell’affaire, vi erano anche l’italiana Eni e la francese Total, avendo quest’ultime ottenuto una concessione da parte del governo di Cipro, per portare avanti le attività di esplorazione ed estrazione in tale hub.

Il governo di Ankara sosteneva che fosse pieno diritto della Repubblica turca di Cipro del Nord (TRNC) rivendicare come proprie tali risorse[1], alzando il livello della tensione nel Mediterraneo orientale. Inoltre un’ulteriore questione fondamentale in questo “Risiko energetico”, un ruolo centrale è giocato dalla questione del Tap (Trans Adriatic Pipeline). Tale metanodotto, con un investimento indicizzato di 4,5 miliardi, dovrebbe convogliare in Europa il gas estratto in Azerbaigian dai giacimenti sotto il fondo del mar Caspio, favorendo così l’inizio di un processo di “emancipazione” energetica dell’Europa dalla Russia di Putin.

Alla luce di questa rapida panoramica, l’Italia è chiamata ancora una volta a rivolgere la propria attenzione al Mediterraneo, per una naturale propensione geografica e strategica, secondo quanto asserito da Aldo Moro: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”.

 

[1]  (La Repubblica Turca di Cipro del Nord è una repubblica auto-proclamata e non riconosciuta dalla comunità internazionale che si estende nella zona settentrionale dell’isola di Cipro dal 1983, nelle zone occupate e controllate dall’esercito turco dopo l’invasione turca di Cipro del 1974).

Green Economy: il potenziale dell’economia circolare. Parla Daniele Corsini

di Ludovica Pietrantonio

L’adozione della green economy auspica al passaggio a una società equa e prospera, capace di reagire alle sfide legate ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale migliorando la qualità della vita delle generazioni presenti e future. Al fine di valutare le potenzialità di tale sistema economico, non solo per l’economia nazionale, ma anche dell’Unione Europea, si è indagato uno dei suoi principali strumenti applicativi, rappresentato dall’economia circolare, con il Dott. Daniele Corsini, ex Direttore in Bankitalia e co-fondatore della piattaforma editoriale www.Economia&Finanza Verde.it. 

Tra gli strumenti più idonei ad attuare il modello della green economy si rinvengono meccanismi tipici dell’economia circolare che contribuiscono a modernizzare il mercato e a valorizzarne potenziali opportunità di sviluppo a livello europeo e mondiale. Quali, a suo avviso, gli obiettivi perseguibili?

Ai fini di una più completa analisi dell’economia circolare, è necessario considerare come tale concetto sia strettamente connesso a quello di green economy, da intendere come modello economico teso al soddisfacimento di aspetti attinenti al benessere sociale e alla preservazione delle risorse.L’economia circolare porta indubbiamente degli effetti benefici, sia per il governo delle risorse, mediante un loro utilizzo più razionale, sia per i cicli produttivi, avendo come effetto quello di gestire meglio le risorse produzionali attraverso il risparmio delle stesse, l’utilizzo di fonti alternative e di reingegnerizzazione dei processi produttivi, con l’obiettivo non più dello smaltimento del rifiuto, ma della sua gestione, riuso e riutilizzo nel circuito.

Da ciò si intuisce la pervasività di tale approccio poiché va a toccare tutto quello che in potenza l’uomo può produrre, ha prodotto o produrrà con l’idea che fin dalla sua progettazione il bene viene ideato non soltanto per le sue finalità (l’utilizzo da parte del consumatore), ma soprattutto dal punto di vista della sua riutilizzabilità e della sua rimessa in circolazione.

Ne deriva come questo sistema produttivo porti con sé degli aspetti di natura tecnica ed economica importanti avendo la ricerca tecnico-scientifica un ruolo fondamentale: ricerca e innovazione diventano dunque l’essenza per realizzare l’economia circolare poiché tutto è finalizzato all’obiettivo della ricircolazione. Tuttavia è necessario considerare come questo approccio si presenti per la sua innovatività più come uno scenario che come un percorso misurabile in obiettivi operativi.

 Sempre in un’ottica di implementazione dell’economia circolare, per conseguirne gli obiettivi è necessaria la piena mobilitazione dell’industria, la cui trasformazione risulta spesso troppo a rilento. Come accelerarla?

Questa è una domanda difficile poiché effettivamente dobbiamo ascoltare dei ritmi che ancora non sono soddisfacenti in questo sviluppo. Inoltre, è da tenere in considerazione come i concetti sottesi di riciclo e di utilizzo abbiano rovesciato il paradigma dell’economia tradizionale, imperante dal capitalismo della fine del settecento fino ad oggi, dettata dalla massimizzazione del profitto. Quindi in teoria è qualcosa di estremamente esteso poiché tocca il concetto dell’organizzazione della vita economica non più legata al solo parametro quantitativo, bensì bisognosa di trovare dei meccanismi di sua reinvenzione.

Concentrandosi in primo luogo sugli operatori, la velocità dipende da come è formata una struttura economica, tant’è che è necessario fare riferimento alla piccola e media impresa, segmento particolarmente diffuso e numeroso all’interno dell’economia italiana, il quale può diventare fattore di resistenza. Infatti, se per l’impresa medio grande questo approccio può avere una velocità maggiore, essendo maggiori le capacità di produzione e di progettazione, nella piccola e media impresa questa attività dovrà essere incentivata in maniera più massiccia.

Anche in riferimento all’economia digitale, strettamente connessa alla capacità di sfruttare l’informazione sulla produzione, l’Italia non è un Paese all’avanguardia e quindi tutta la spinta di Industria 4.0 di facilitare l’introduzione di sistemi digitalizzate e intelligenza artificiale rappresenta uno sforzo maggiore rispetto ad altri Paesi.

Un ulteriore elemento consente alcune riflessioni dal punto di vista finanziario, in quanto il tema della finanza verde è oggi messo particolarmente in risalto dalle banche centrali europee, le quali leggono un’economia che sfrutta in eccesso le risorse del pianeta come fattore di rischio, andando ad incidere il rapporto di finanziamento.

A livello microeconomico, è opportuno richiamare alcune recenti riflessioni del governatore della Banca d’Italia, il quale si è soffermato proprio sull’incidenza degli indicatori ambientali (emissioni CO2), sociali (percentuale di donne impiegate e ricoprenti ruoli manageriali) e di governance (presenza di donne in cda) nel guidare i singoli investimenti, comportando il favore per titoli sostenibili.

Al riguardo, ricordo come l’Italia sia stato il primo Paese ad introdurre nell’ordinamento giuridico il concetto di “società benefit”, ovvero società che inseriscono nel loro statuto i criteri appena ricordati rinunciando ad una massimizzazione del profitto con l’obiettivo di contribuire ad un’economia più sostenibile.

 Da sfida pressante a opportunità unica: qual è il ruolo dell’Unione Europea in un cambiamento che non può arrestarsi ai confini nazionali e che deve trovare riscontro nelle politiche dei singoli Stati? Di quale risorse dispone per affermarsi come leader mondiale?

L’Europa ha fatto proprio un piano di azione sull’economia circolare che punta sui concetti fondamentali di riprogettazione dei prodotti, riutilizzo e riciclo e in cui sono coinvolti diversi operatori. Al riguardo, si è assistito alla nascita di nuovi soggetti istituzionali come attori, mi riferisco alla BCE a livello europeo e alle banche centrali nazionali, i quali hanno aperto un filone rivolto al tema dell’economia circolare sensibile al degrado climatico e ambientale con politiche precise. È necessario dunque che si crei una sintesi tra i soggetti di mercato e i soggetti istituzionali.

Andando al piano del mercato e della finanza uno strumento è rappresentato dai bond verdi, pari a un valore di circa 500 miliardi a livello mondiale di cui l’Europa possiede più del 50%, rapportandosi in tal modo in maniera decisamente avanzata al riguardo. Esistono, tuttavia, altri tipi di bond legati alla sostenibilità e soprattutto legati al credito, per esempio i “sustainability bonds”, ideati per consentire credito da parte delle banche a soggetti che hanno nella propria struttura elementi di sostenibilità. Sono prodotti destinati ai agli investitori istituzionali, professionali e specializzati, non destinati al grande pubblico, poiché per questi prodotti i profili di rischio non sono ancora valutabili.

In riferimento alle politiche da adottare, l’aspetto della ricerca e dello sviluppo precedentemente sottolineato diventa fondamentale come campo di applicazione di incentivi pubblici di natura o fiscale o di contributo allo sviluppo di questa attività.

Accanto a questo aspetto del tutto rilevante, è necessario considerarne uno ulteriore di natura sociale, ovvero di considerare l’economia circolare come fonte di nuovi posti di lavoro. Essa va infatti vista come sostanzialmente labour intensive, ovvero attività ad alto impiego di lavoro materiale, differentemente dall’economia lineare in cui il progresso tecnologico è sempre stato considerato come qualcosa che spenda forza lavoro, facilmente sostituibile con macchine.

Attorno a questi concetti sono costruiti i documenti di policy oggi presenti a livello globale rappresentati non solo dal piano di azione dell’economia circolare della Commissione Europea e, conseguentemente dalle politiche nazionali, ma anche l’Agenda dell’ONU, la quale fissa gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ed Economia Circolare al 2030.

La nuova strategia di crescita rappresentata dalla green economy mira a trasformare la società dotandola di un’economia moderna, efficace sotto il profilo delle risorse e competitiva. Tuttavia è necessario che la transizione verso tale modello sia non solo innovativa e a impatto zero, ma allo stesso tempo giusta e inclusiva per far sì che i cambiamenti sostanziali derivanti non comportino disuguaglianze e squilibri sociali. In che modo guidare questa innovazione verso un esito positivo?

Nei fondamenti della green economy i motori sottostanti l’adozione di questo modello e, dunque, pilastri dello stesso sono rappresentati anche dalla disparità sociale e dagli squilibri di distribuzione del reddito eccessivamente scompensante, entrambe cause di esclusione sociale.

Attraverso l’adozione del modello green economy si devono quindi ritrovare anche degli obiettivi di inclusione, i quali richiamano parte della logica sottostante le società benefit antecedentemente esaminata. Infatti, al riguardo si sostiene come i portatori di interesse (gli stakeholders) non siano soltanto quelli tradizionali, cioè gli azionisti, i fornitori, i dipendenti, ma anche i soggetti rientranti nel mondo del lavoro.

Da un punto di vista finanziario, la crisi e altri fenomeni di tali dimensioni hanno escluso al momento una fetta di cittadini dai servizi più basici. L’Unione Europea con le sue direttive è intervenuta su questo bisogno di inclusione per parificare questi soggetti da un punto di vista di diritti di base.

Dunque dal punto di vista della green economy il discorso si riflette in maggiori occasioni di lavoro e maggiore attenzione ai territori più degradati. È infatti da mettere in conto anche un probabile cambio di concezione del lavoro in cui prevarranno i lavori a distanza, attualmente già esistenti, ma esempi di nicchia.

In sostanza, la tutela ambientale rappresenta un fattore di inclusività di sfondo, da considerare come occasione preziosa di cambiamento di paradigma non soltanto a livello economico-finanziario, ma anche di natura sociale.

Green economy: uno sguardo sulle prospettive future

Di Francesco De Santis

All’interno dei ragionamenti che la Fondazione De Gasperi sta portando avanti nella rubrica “Opinio Lab” non poteva mancare un approfondimento su un tema “caldo” del dibattito pubblico, quello della green economy. Per avere un approccio lontano da posizioni ideologiche abbiamo ritenuto opportuno chiedere informazioni a degli importanti studiosi che, con le loro parole, ci potranno permettere di muovere in una cornice che orienti i ragionamenti sul tema con diversi punti di vista. Ne abbiamo discusso con il prof. Emilio Colombo, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ci ha espresso le sue idee in questa intervista.

La “green economy” è al centro della scena internazionale. Porre al centro non solamente l’uomo ma il suo rapporto con le altre specie viventi è una sfida che tocca diversi settori. Questa sfida può essere l’occasione giusta per mettere in movimento l’Italia, l’Europa e il mondo in nome di un futuro migliore in cui si riescano a coniugare qualità, bellezza, efficienza e storia delle singole realtà come rilanciato anche da Papà Francesco con l’enciclica Laudato Si?

È indubbio come quella della green economy sia diventata una realtà sempre più consolidata nel panorama odierno. Da questo punto di vista, quindi, l’idea di un futuro migliore è certamente lodevole, tuttavia è fondamentale prendere coscienza del fatto che, per fare in modo che il tutto non rimanga solo su “carta”, si deve favorire e sviluppare un differente approccio che inverta la situazione che si è venuta a creare fino ad ora. Non solamente in relazione al rispetto che l’uomo, centrale in questi ragionamenti, deve avere nei confronti della natura e dell’ambiente, come ha giustamente rimarcato Papa Francesco, ma anche considerando il fatto che è proprio l’uomo che attraverso il proprio lavoro e attraverso il proprio coinvolgimento con la realtà è in grado di trasformare in senso positivo o negativo la realtà che lo circonda. La persona umana che trasforma il creato ma al tempo stesso lo preserva riconoscendone il dono, può essere dunque il vero protagonista della transizione ecologica. La green economy può essere, quindi, un volano per un futuro migliore ma la presa di coscienza non può prescindere dal tema educativo e culturale che, toccando sia le vecchie sia le nuove generazioni, deve essere riaffermato come elemento cardine per permettere lo sviluppo di un nuovo modo di intendere lo “stare al mondo”. Perché non può essere una “semplice” scelta politica ad incanalare il discorso nel segno del rispetto ambientale.

Il climatismo ufficiale, però, sembra essersi infilato in una trappola chiamata “2050”. È davvero quella, la data di vita o di morte, per realizzare le “zero emissioni”, ovvero la decarbonizzazione totale? Utopia, sogno o sfida?

Affidarsi ad una data che segni il punto di svolta definitivo per un tema così complesso non è semplice. Senza dubbio occorre affidarsi agli esperti del settore per dare un’idea concreta di quello che potrebbe accadere. Nonostante i pareri scientifici non siano univoci, la scienza appare concorde nell’affermare che il riscaldamento globale sia una realtà oramai acclarata e che in questo il contributo umano è decisivo. L’inversione di tendenza, quindi, deve essere realmente praticata e deve partire da noi. In questo processo la tecnologia, insieme alla già citata educazione, deve giocare un ruolo di primo piano. Proprio la tecnologia deve essere tenuta in grande considerazione per evitare di rincorrere delle utopie e poter, quindi, orientare il discorso sul grande tema del rispetto ambientale coniugato con quello di uno sviluppo sostenibile. La tecnologia può essere proprio parte della soluzione favorendo lo sviluppo di processi e innovazioni che conducano a un reale risparmio energetico e a una sostenibilità ambientale diffusa. La tecnologia è quindi un potente alleato anziché un nemico da attaccare
La lotta al cambiamento climatico, e più in generale il rispetto ambientale, è diventata una lotta di classe globale tra ricchi e paesi aspiranti ricchi? Può influenzare, se non lo ha già fatto, il dibattito politico ed orientare politiche economiche (vedasi “Plastic Tax” in Italia rimandata al prossimo anno)?

L’assunto di base che deve muovere i nostri ragionamenti è che le politiche “verdi” allo stato attuale sono spesso più costose delle politiche “maggiormente inquinanti”. Le fonti energetiche fossili ad esempio hanno il vantaggio di offrire un rendita elevata a costi relativamente bassi. Dunque le politiche ambientali si trasformano inevitabilmente in una “lotta di classe globale” dato che i paesi ricchi possono permettersi di sostenerne il costo mentre i paesi più poveri no. D’altro canto gli effetti delle politiche ambientali non sono circoscritti al confine nazionale: se un paese inquina le conseguenze ricadono su tutti. Quindi le politiche ambientali richiedono necessariamente un coordinamento su larga scala e una maggiore responsabilità da parte dei paesi avanzati che sono quelli che possono permettersi di sostenere maggiormente i costi della transizione verso l’economia. In tutto questo la posizione degli USA, che sembrano avere sposato la linea “negazionista” del riscaldamento globale, sorprende e appare poco comprensibile. Proprio perché gli USA, data la loro posizione nel panorama economico e politico internazionale, dovrebbero esercitare un ruolo di leadership in questo ambito anziché quello di freno di tutto il processo. Per quanto concerne le politiche è chiaro che sarebbe auspicabile ridurre drasticamente il consumo di plastica ma occorre sempre considerare i due aspetti illustrati precedentemente. Da una parte il tema educativo dall’altro quello economico legato ai costi di implementazione delle politiche. In altri termini possiamo tassare l’utilizzo della plastica ma questa politica sarà realmente efficace nella misura in cui le persone siano consapevoli dell’effetto delle proprie scelte di consumo sull’ambiente e nella misura in cui la tassa sia sostenibile e percepita come realmente in grado di dare un contributo fattivo.

Il rapporto generazionale tra le piazze di “Greta” e i gruppi dirigenti nel panorama mondiale non va perso ma si deve riaffermare l’esigenza di parlare anche di “politiche verosimili”. Il passaggio da economia lineare ad economica riciclabile può avverarsi senza includere l’industria?
Sono due temi molto importanti. Il rapporto inter generazionale è sicuramente molto importate e va sottolineato con grande chiarezza che è stato fatto troppo poco per i giovani. In questo non aiuta una narrazione un pò semplicistica del fenomeno Greta, inquadrata come solamente una “adolescente”.
Allo stesso modo non si può credere di sviluppare una green economy senza in tenere in considerazione l’industria, sarebbe certamente utopistico. Il mondo che evolve impone di parlare di intelligenza artificiale, di nuove tecnologia che fanno parte del mondo industriale. Quindi avrebbe dell’inverosimile pensare di sviluppare un’economia verde senza tenere dentro la componente “industriale”. La gradualità del passaggio a un’economia sostenibile, e quindi al realismo di una riduzione graduale delle emissioni carbonifere, non può essere sottostimata ma, anzi, deve essere la risposta corretta al tema. Ad esempio l’utilizzo dei motori alimentati a diesel, che sono un settore strategico per l’economia europea dato che deteniamo la maggior parte dei brevetti su questa tecnologia, e che attualmente raggiungono lo stesso livello “inquinante” dei motori alimentati a benzina, non può essere totalmente abbandonato in nome di una nuova “alimentazione”, quella elettrica, che sarà sicuramente il futuro ma che, per ora, non garantisce né lo stesso livello di prestazione e soprattutto non è caratterizzata da alcun vantaggio comparato dell’industria europea. Quindi, occorre applicare un approccio in cui riuscire a mettere insieme educazione, innovazione tecnologica e presa di coscienza di un’inversione di tendenza da mettere in atto per rispondere alle esigenze, e anche alle opportunità, che la green economy porta con sé.

RETROCEDERE AVANZANDO: I PRIMI VENT’ANNI DEL NUOVO MILLENNIO TRA EUROPEISMO ED ATLANTISMO

di Francesco De Santis

Il processo d’integrazione europea è un tema che sta acquisendo sempre maggiore attualità per una serie di contingenze in cui lo scontro tra nazionalisti ed europeisti è al centro del dibattito politico nazionale e non. Un processo, quello di integrazione europea, che ha vissuto varie fasi e che muove dall’assunto di dover preservare il futuro dell’Europa dai disastri che le guerre mondiali hanno portato e lasciato nel continente. È chiaro come il pensiero di far nascere un’unione continentale non sia stato frutto di un semplice status mentale ma il crescente seme di un’idea perpetuata anche da Dante, Voltaire e Kant. Quest’ultimo affidava al concetto di unione europea il compito di propugnare una pace perpetua che ponesse il continente lontano dalla minaccia di rinnovati conflitti.
Essendo un processo non lineare e sottoposto a cambiamenti di
contesto e a motivazioni profondamente ramificate, il processo d’integrazione europea è in continuo divenire e nulla è stato, è e sarà scontato. È un processo vivo che ha vissuto una serie di alti e bassi in cui a recitare un ruolo da protagonisti sono stati i valori, condivisi dagli stati europei, per superare le ideologie totalitarie.
Ma, dopo oltre 70 anni di pace, ha ancora senso continuare a credere in un’Europa unita?
L’anno corrente segna l’inizio di un decennio in cui l’Europa deve decidere “cosa vuole fare da grande”.
Non è più in discussione, oggi, il ruolo centrale che l’Unione Europea gioca per la sopravvivenza della governance democratica ma è di stringente necessità ricorrere a nuove forme di cooperazione continentale per giocare un ruolo da reale “global player” all’interno delle grandi sfide globali che appaiono sulla scena internazionale. La questione America/Cina, il medio Oriente e le sue continue problematiche, l’Africa, i Balcani sono tematiche che vanno affrontate con senso di responsabilità dal “vecchio continente”.
La cooperazione politica, conquista Europea, non sembra, però, più essere sufficiente e, in virtù delle nuove sfide che il mondo globalizzato impone, appare importante riuscire a mostrare certezze, a riaffermare la conoscenza e l’educazione europea e, soprattutto, coordinare una politica estera in grado di garantire sicurezze. Kierkegaard parlerebbe di un “retrocedere avanzando”, ovvero essere consapevoli dell’eredità lasciataci dai padri fondatori dell’Unione Europea per poter tramandare il seme che possa germogliare nel corso del tempo che scorre. Partire dal multilateralismo, dalla democrazia rappresentativa, dal welfare universalistico, dal mercato libero e solidale per gettare lo sguardo oltre l’orizzonte.
Ma qual è il punto di partenza per giungere ad un ragionamento più ampio e condiviso?
La situazione nel vecchio continente, ad oggi, è chiara: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna sono i paesi che hanno portato avanti, fino ad oggi, la politica estera in Europa. Le difficoltà sono venute a crearsi nel momento in cui ognuno dei paesi citati ha interpretato in maniera autonoma la politica estera da attuare, soprattutto in relazione al rapporto con la NATO.
Forse per ragioni storiche, forse per interessi non coincidenti ma ognuna di queste quattro potenze ha proiettato la propria azione, in relazione alla solidarietà atlantica, in maniera profondamente incoerente:

  • la Francia si è dimostrata da sempre lontana da essa, in relazione alla sua autonomia nel settore nucleare militare;
  • La Germania, avendo geograficamente un lungo confine con l’Est avverte il peso della Russia e deve, anche per eredità di guerra, dimostrare il proprio distacco dagli obblighi della difesa militare;
  • La Gran Bretagna, storicamente (e dopo la il referendum sulla Brexit nel 2016 anche di fatto) si sente più molto più “atlantica” e molto meno “europea”;
  • L’Italia ha rappresentato l’anello di congiunzione, dalla nascita della Repubblica, tra Europa e fedeltà atlantica: un must della collocazione internazionale promossa dall’azione di Alcide De Gasperi in poi.

Questa confusione non ha permesso all’Unione Europea di essere elemento cardine dell’ordine mondiale secondo un’eterogenesi dei fini che deve essere arrestata. Se il “limes”, sia fisicamente che metaforicamente, diventa inviolabile si mette in discussione la cooperazione e l’identità europea.
Quindi, in un mondo multipolare, l’Occidente (la NATO, il Patto Atlantico) gioca ancora un ruolo strategico importante oppure Europa e USA viaggiano su binari non paralleli?
Il credo è che Europa unita, dal punto di vista della politica estera e militarmente, ed atlantismo siano destinate a convivere ancora per molto tempo e, nonostante i dubbi mostrati da Trump, dai sovranisti europei e anche, lo scorso anno, da Macron, non può essere messo in discussione il fatto che la Nato, soprattutto in Medio Oriente ove continua la politica Russo-Turca- Iraniana, resta fondamentale anche per la difesa europea. Questo perché sono i valori propri dell’Occidente, stato di diritto e libertà in primis, a giocare il ruolo di trade-union.
L’Europa, dunque, si trova al centro di uno scenario in cui un cambio di passo appare auspicabile per porsi al centro delle sfide globali, non solamente della cartina geografica.
L’evoluzione rapida delle partite da giocare in questo decennio può rappresentare una vera e propria opportunità per il processo democratico di difesa e di politica estera che l’Unione Europea deve essere in grado di cogliere.
Il riaffermarsi, quindi, di radici comunitarie che, attraverso un rafforzamento della coesione sociale e culturale e per mezzo di una reale unità politica, possano condurre alla realizzazione di una politica estera e di difesa comune.
Il compito non è facile ma la cupidigia di una politica verosimile e responsabile deve tornare di moda anche culturalmente per offrire occupazione, protezione sociale, istruzione e sicurezza e accantonare la singola ricerca del consenso interno, proiettando lo sguardo verso il mondo senza curarsi troppo del proprio ombelico.
Anche il ruolo italiano, infine, deve essere chiaro e non subalterno. L’avvicinamento alle politiche avversarie dell’Atlantismo, Russia e Cina, indebolirebbero il ruolo strategico italiano e ne deriverebbe una politica estera senza anima.
L’Italia non può giocare un ruolo silente, passivo, inefficace e ininfluente e dovrebbe riaffermare il suo ruolo “ponte” tra Europeismo ed Atlantismo. È il compito storico cui il “belpaese” è destinato.

La NATO nel nuovo sistema internazionale. Parla il Generale Battisti

Di Emanuele Lorenzetti

 

La presenza della NATO, a sette decenni dalla sua nascita, impone una seria riflessione sul ruolo che essa dovrebbe avere nel mutato scenario internazionale. Le nuove sfide alla sicurezza occidentale, in particolare, suscitano grandi interrogativi se la leadership atlantica debba andare verso un rinnovamento nella sua struttura e negli obiettivi strategici. Il Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti, già comandante del Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO, ne parla ai microfoni della Fondazione De Gasperi.

 

Generale Battisti, l’ultimo Summit NATO ha confermato i tre pilastri dell’Alleanza (difesa collettiva, gestione delle crisi e sicurezza cooperativa). È necessario secondo lei una rivisitazione del concetto strategico?

Ritengo ancora concettualmente valido il Concetto Strategico del 2010. Le linee guida espresse dai tre essential core tasks sono pienamente idonee a garantire la difesa e la sicurezza comuni degli Stati membri dell’Alleanza. I tre pilastri forniscono gli strumenti politici, diplomatici e militari per affrontare le sfide presenti e future. Quello che appare necessario, a mio avviso, è una riflessione della dimensione politica dell’Alleanza affinché si possa agire in maniera coordinata ed efficiente per far fronte alle nuove e più complesse sfide dell’attuale scenario internazionale.

In altre parole, essere tutti concordi nelle priorità e modalità per portare a termine quanto previsto dai tre essential core tasks.

Ricordo, per completezza, che Alleanza Atlantica e NATO sono due realtà diverse, sebbene nel linguaggio comune siano spesso considerate sinonimi. L’Alleanza Atlantica è un trattato difensivo (Trattato Nord Atlantico, conosciuto anche come Patto Atlantico) sottoscritto il 4 aprile 1949 dai governi di Stati UnitiCanada e di alcuni Paesi dell’Europa Occidentale ed ha una valenza politica; la NATO, invece, è la struttura militare che deriva da questa Alleanza.

Quindi, il problema non sono gli ambiti e gli strumenti d’intervento, che sono ampiamente contemplati dai tre citati essential core tasks, ma la dimensione politica dell’Alleanza.

Le decisioni, infatti, si basano sul principio del consenso (tutti i 29 Stati membri devono essere d’accordo) quale espressione della solidarietà tra Alleati.

Le recenti tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra i Paesi membri, dalle frizioni tra Stati Uniti e Paesi Europei per quanto riguarda la spesa nel settore della Difesa (2 per cento del PIL) alle divergenze con la Turchia che cerca sempre di più di seguire una propria linea autonoma in politica estera, sino all’affermazione del Presidente francese Macron che ha paragonato lo stato attuale dell’Alleanza Atlantica a una condizione di “morte cerebrale” per mancanza di coordinamento, hanno indotto il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, nella dichiarazione finale del vertice londinese (3-4 dicembre 2019) a disporre “una riflessione sulla strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro”.

In sostanza, la prospettiva strategica rimane sempre la stessa, condivisa da tutti, che richiede, tuttavia, un costante aggiornamento del suo aspetto politico, al fine di adeguare le risposte all’evoluzione del contesto di sicurezza globale.

La chiave della longevità dell’Alleanza risiede nella capacità di essere una organizzazione in grado di adeguarsi e di mantenere la propria rilevanza per affrontare le sfide, presenti e future, alla nostra sicurezza dovute al ritorno della competizione tra grandi potenze, non più regolata dal confronto Est-Ovest, alla nuova corsa agli armamenti nucleari, all’instabilità dei confini meridionali; tutte minacce che nessun Paese può affrontare da solo.

 

Si parla tanto oggi di un rinnovamento della NATO. La minaccia principale non proviene più tanto dall’Est, ma dal cosiddetto ‘fronte sud’ e nuove tipologie di minacce si affacciano all’orizzonte (soft security). Qual è lo stato di salute delle relazioni transatlantiche e dei rapporti con gli stati mediterranei?

A dispetto delle frizioni tra i Paesi membri la solidarietà tra gli Alleati non appare compromessa; lo stesso Presidente Trump in occasione del Vertice di Londra, smentendo alcune sue precedenti vigorose critiche, ha affermato di essere un big fan della NATO.

Rimangono sicuramente divergenze con la Turchia, per la sua ricerca di assumere un ruolo di potenza regionale nell’area del “Mediterraneo Allargato”, e con la Francia, che mira ad acquisire la leadership europea dopo la Brexit, quale unica potenza nucleare e con forti velleità expeditionary.

Tuttavia, come annunciato dallo stesso Stoltenberg nella sua conferenza stampa finale, “tutti gli Alleati si sono trovati d’accordo” sul piano d’azione per la difesa dei Paesi Baltici e della Polonia.

Permangono comunque orientamenti diversi nelle priorità di sicurezza dell’Alleanza.

I Paesi dell’Europa Orientale vedono come prevalente la minaccia da Est; i Paesi dell’Europa del Nord sono più attenti alle problematiche connesse con il controllo delle rotte atlantiche e della regione artica; i Paesi mediterranei sono più sensibili alle minacce provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.

È compito del Segretario Generale e del NAC (North Atlantic Council) cercare di stemperare queste diverse priorità per fare in modo che l’Alleanza risulti comunque compatta e solidale nelle sue posizioni.

Dalla riunione di Londra per la prima volta viene menzionata la Cina, un Paese che sta ricoprendo un ruolo sempre più importante a livello mondiale in ambito economico e di sicurezza. Il Segretario Generale ha sottolineato per quest’ultimo aspetto come “l’ascesa della Cina sia portatrice allo stesso tempo di opportunità e rischi”.

Molto importanti sono anche gli sviluppi nel campo dello spazio che è divenuto ufficialmente la quinta dimensione operativa della NATO, unitamente a terra, mare, aria e cyber.

Non a caso, lo stesso Stoltenberg, al termine del Vertice, ha disposto la costituzione di un panel di esperti per tenere aggiornata la strategia dell’Alleanza, anche alla luce di queste nuove realtà.

La principale minaccia proveniente dal “fronte sud” è rappresentata dall’instabilità generale del “Mediterraneo Allargato” dovuta alla diffusione della radicalizzazione religiosa, all’immigrazione incontrollata, all’insicurezza energetica, al traffico d’armi e, soprattutto, al terrorismo islamico, capace di sfruttare tutte queste tensioni e situazioni di crisi.

Si tratta, quest’ultimo, di un avversario non statale non geograficamente circoscrivibile, che adotta un modus operandi non convenzionale, che non rispetta minimamente le regole del diritto internazionale umanitario e che colpisce indiscriminatamente, ricorrendo a tutte le soluzioni possibili, anche le popolazioni civili.

 

Quali sono le principali policy, di cui oggi ci sarebbe bisogno, che consiglierebbe alla NATO per garantire maggiore leadership nel dialogo con i Paesi Arabi?

La NATO è da tempo impegnata con vari progetti per promuovere la partnership con i Paesi Arabi mediante iniziative, politiche, diplomatiche e di assistenza ed educazione militare funzionali alla stabilità regionale. Cito, ad esempio, The Istanbul Cooperation Initiative (avviata nel 2004 con i Paesi del Golfo)  e The Mediterranean Dialogue (avviato nel 1994 con alcuni Paesi del bacino del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana) e i corsi effettuati dal NATO Defence College.

La NATO, inoltre, opera per sostenere le forze di sicurezza in aree di crisi con la projection of stability, che si concretizza con il crisis management e la cooperative security che sono il core del Concetto Strategico del 2010 unitamente alla collective defence (attualmente sono in atto la missione addestrativa in Iraq e quella di supporto ai Paesi dell’Unione Africana).

Considero pertanto, a mio modesto avviso, pienamente adeguato quanto svolto dalla NATO per mantenere e rinforzare il dialogo con i Paesi Arabi, tenuto anche conto della diffusa instabilità presente nella regione.

Generale di Corpo d’Armata (in Ausiliaria), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia e ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito. Ha comandato la Brigata Taurinense, il Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l’Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell’ottobre 2016.

 

L’Iran post Soleimani, parla Nicola Pedde

Di Michelangelo Di Castro.

La questione iraniana in questi ultimi giorni ha avuto un brusco risveglio a causa dell’eliminazione del generale Qasem Soleimani. La Fondazione De Gasperi ha voluto approfondire le cause e le conseguenze dell’uccisione del militare iraniano intervistando un esperto di Iran e medio-oriente come il professore Nicola Pedde, Direttore dell’Institute of Global Studies, per avere una panoramica sull’affaire Soleimani.

 

Chi era il generale Qasem Soleimani e quali sono state le cause della sua morte?

Soleimani era a capo della Quds Force una componente IRGC (Islamic Revolutionary Guard Corps) deputata alla direzione delle operazioni internazionali. È stato un uomo chiave nella gestione dei principali focolai di crisi regionali dalla guerra in Siria al conflitto in Iraq, dallo Yemen al Libano all’Afghanistan e, soprattutto, è stato un grande negoziatore con le varie potenze regionali e con gli americani. La morte di Soleimani si inserisce in una dinamica critica all’interno dell’amministrazione americana: l’iniziativa dell’operazione sembra essere imputabile al Segretario di Stato Mike Pompeo, di cui sono note le posizioni anti-iraniane, contro la volontà della gran parte degli apparati della difesa, dell’intelligence e delle forze armate. All’interno di tali apparati sta emergendo un sentimento di forte opposizione nei confronti dello stesso Segretario di Stato.

 

Chi è invece il suo successore Ismail Ghani?

Il generale Ghani era suo diretto subordinato ed è la persona nominata al vertice della Quds Force. È un uomo molto diverso da Soleimani il quale non amava entrare nel sistema mediatico e politico iraniano. Al contrario il suo successore è famoso per le sue posizioni antiisraeliane e aggressive nei confronti degli Stati Uniti. È una figura sicuramente più allineata IRGC e, dunque, ci si aspetta un grado di pragmatismo molto inferiore rispetto a al suo predecessore, ma questo non significa che ad oggi cambino di molto le cose.

 

Questo atto di forza degli Stati Uniti cosa ha comportato sul piano interno ed esterno? La conseguenza determinerà un’escalation di conflittualità o un acceleramento dei processi pace?

Sul piano interno l’assassinio di Soleimani ha creato un meccanismo di coesione sociale nel senso che, ai funerali del generale, hanno partecipato un numero di persone che sembra addirittura superiore a quelle che parteciparono ai funerali nell’89 dell’Ayatollah Khomeini. Dimostrazione del fortissimo sentimento di identità nazionale del popolo iraniano che ha permesso di saldare quelle due componenti della società quelle della terza generazione, ovverosia dei più giovani con la seconda generazione, o meglio quella delle componenti militari dell’IRGC e della Quds Force che hanno rappresentato il principale strumento di repressione dell’opinione pubblica e delle istanze di questa giovane generazione antisistema, critica e alla costante ricerca di riforma.  Un grande successo immediatamente vanificato a causa dell’abbattimento dell’areo civile ucraino che ha riportato la popolazione a protestare chiedendo le dimissioni del governo e della guida stessa.

 

Sul piano esterno il risultato è quello di aver portato l’Iran a condurre questa operazione di ritorsione nei confronti degli americani. Ritorsione che si è concretizzata nell’attacco missilistico alle due basi americane in Iraq (a Ayn al-Asad ed Erbil). L’attacco si è concluso senza perdite in termini di vite umane grazie ad un’oculata gestione dell’operazione sul piano della sicurezza da parte dell’Iran che prima di intervenire ha preventivamente informato lo stato l’iracheno che a sua volta ne ha dato tempestivamente avviso al personale militare statunitense. Questo è stato molto apprezzato tanto che gli USA a loro volta hanno accettato di avviare una de-escalation che dovrebbero portare idealmente alla definizione di una nuova piattaforma negoziale.

 

 

Questa nuova situazione geopolitica può avere delle conseguenze sulla missione italiana in libano UNIFIL e quindi comportare un più concreto rischio per le nostre truppe?

Gli Stati Uniti e l’Iran non sembrano in alcun modo intenzionati a una escalation. L’unico rischio più rilevante è che i militari italiani spesso fanno parte di dispositivi nei quali partecipano truppe come quelle statunitensi, dunque la possibilità di divenire obiettivi indiretti. Inoltre la missione UNIFIL rientra in un dispositivo ONU, voluto da entrambi gli schieramenti libanesi ed israeliani, per garantire la sicurezza e il cessate il fuoco. Dunque i pericoli rientrano nella normale gestione dei rischi che fanno capo a tali operazioni pur essendovi degli ulteriori rischi collegati ad un’ipotetica escalation.

 

 

La prima Repubblica non si scorda mai: la legge elettorale proporzionale al tempo della Terza Repubblica

Di Stefano Ferace.

La corte costituzionale si è espressa. Ci sono volute oltre sei ore fitte di discussione e di confronto serrato all’interno della consulta per bocciare il referendum proposto dalla lega. Con questo no, la corte presieduta da Marta Cartabia lascia aperti i giochi per una riforma della legge elettorale basata sul proporzionale. Il cosiddetto Germanicum, prevede un sostanziale ritorno al proporzionale puro con un sbarramento al 5%, data l’introduzione del diritto di tribuna. Un escamotage, tuttavia, per far contenti tutti quei partitini che, consapevoli di non riuscire nell’impresa di raggiungere la soglia di sbarramento, trovano il modo di assicurarsi seggi in Parlamento. Il diritto di tribuna infatti, consentirebbe a schieramenti minori di avere un peso enorme nella composizione degli equilibri di maggioranza.

L’approvazione del Germanicum rappresenterebbe la fine di quell’idea di bipolarismo acclamata da tanti leader politici negli anni. Si ritornerebbe, quindi, ad un modello da prima repubblica in cui ingovernabilità ed immobilismo la farebbero da padrone. La frammentazione parlamentare  non è portatrice di stabilità e per evitare che una maggioranza relativa di voti si trasformi in una maggioranza assoluta di seggi si rischia di far tornare l’Italia a un’instabilità parlamentare che determina l’impossibilità di governare. Il male del proporzionale puro si riassume in una parola, immobilismo. Il parlamento ritornerebbe ad essere un luogo non più di riforme ma di protezione dei propri interessi, per difesa dei quali, ogni gruppo parlamentare sarebbe disposto a tutto. Non ci sarebbe quindi la possibilità di affrontare i temi che attanagliano questo paese, come il mancato sviluppo industriale, perché troppo impegnati ad esser asserragliati nella propria, piccola, corte di potere.

In questo momento l’Italia ha bisogno di una presa di coscienza da parte dei suoi politici. Non ci si può più permettere leggi elettorali diverse ogni cinque anni, serve chiarezza. Le regole del gioco politico andrebbero decise una volta per tutte, in modo da dare la possibilità a tutti gli attori di fare programmi a lungo termine. L’idea di poter cambiare ad ogni turno la legge elettorale dà ai politici la sicurezza di ritagliarsi addosso la legge perfetta che gli assicurerà un futuro mandato, senza doversi preoccupare quindi dei problemi reali del Paese. Questo meccanismo malato non si invertirà certo con un proporzionale puro ma solo con una riforma che, dal post elezioni in poi, non dia alibi al parlamento sui ruoli e sulla possibilità o meno di rispettare i programmi.

Per fare ciò, uno dei sistemi che assicurerebbe la stabilità di cui l’Italia necessita sarebbe una riforma su modello francese. Un maggioritario con doppio turno e la possibilità di formare delle coalizioni in sede di ballottaggio potrebbe consentire a tutte le fazioni politiche di essere protagoniste nella formazione dei rispettivi rassemblements. Una riforma “Francese” appare come il giusto compromesso tra le attuali aspirazioni maggioritarie del centrodestra e quelle degli altri gruppi parlamentari, che spingono per una maggiore rappresentanza.