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L’eredità di Alcide De Gasperi
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Democrazia e Libertà

“Back to the future”: il dibattito sulla legge elettorale proporzionale in Italia nella XVIII legislatura

Di Gian Marco Sperelli

Tra i tanti anniversari della storia d’Italia del 2019 appena concluso, vi è certamente da annoverare il centenario del varo della legge elettorale proporzionale del 1919, con cui peraltro si sancì l’introduzione del suffragio universale per l’elettorato maschile.[1] Ad oltre cent’anni di distanza, il dibattito politico ha virato nuovamente verso un ritorno al sistema proporzionale, a seguito del disegno di legge presentato dal Presidente della Commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, che i cronisti parlamentari hanno già ribattezzato con il nome di sartoriana memoria di “Germanicum”.

Il “Rosatellum” – il vigente sistema elettorale – è destinato ad essere stravolto, in virtù della prevista abolizione della quota di seggi da assegnare secondo il modello maggioritario a turno unico, a favore, invece, di un impianto esclusivamente proporzionale con una soglia di sbarramento fissata al 5%, pur prevedendo il diritto di tribuna per le formazioni politiche non in grado di raggiungere suddetta soglia, ma capaci di ottenere – per la Camera- tre quozienti in almeno due Regioni e al Senato in una Regione, in modo tale da poter partecipare alla ripartizione dei seggi in base ai quozienti conquistati.

Tralasciando i punti di contatto con l’ impianto proporzionale tedesco[2], pur con le significative differenze trattandosi di un sistema misto con la presenza di collegi uninominali, la proposta al vaglio del parlamento, tuttavia, denota la rimonta prepotente di quella che era stata la visione di un grande studioso come Roberto Ruffilli. Senatore eletto come indipendente dalla Dc, durante la segreteria di Ciriaco De Mita negli anni ‘80, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamentare tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo.[3] Alla fine dei lavori la “Commissione Bozzi” votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del Pci e del Psi, che suggeriva come sistema elettorale la rappresentanza proporzionale personalizzata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. A dire il vero, l’Italia degli anni’80 cominciava ad essere attraversata da una crescente spinta verso una cultura politica della competizione, premessa indispensabile di qualsiasi democrazia bipolare, maggioritaria, capace in definitiva di ottenere la tanto agognata alternanza.[4] Ruffilli, andando controcorrente, sosteneva, invece, la necessità di inaugurare in Italia una nuova cultura della coalizione propedeutica alla costruzione di uno schieramento maggioritario, intorno a priorità programmatiche da attuare consentendo -senza riserve- che il primo partito in termine di seggi potesse esprimere il capo della coalizione. Nella concezione di Ruffilli la leadership era essenzialmente di natura programmatica e non esclusivamente di matrice carismatica, per sancirne ancor di più la contendibilità sul medio e lungo periodo.

La menzionata proposta di riforma della legge elettorale da parte della maggioranza di governo (PD, M5S, IV e LeU) rappresenta, dunque, un turning point sostanziale nella ricomposizione del sistema politico italiano secondo la lezione del già citato Ruffilli? A giudicare le evidenti incongruenze e conflittualità dei membri della compagine governativa, la nuova legge elettorale appare purtroppo come il solito escamotage dei partiti di maggioranza per ostacolare e limitare il più possibile una eventuale débâcle alle urne. In questo quadro si colloca perfettamente la simmetria tra una legislazione elettorale bulimica[5] e una offerta politica sempre più insoddisfacente, come peraltro testimoniato dalla mai tramontata tendenza di scissioni e defezioni in seno ai partiti maggiori.

Ancor più inconcludente, se non come semplice forma di schermaglia e disturbo, è apparsa la presentazione del quesito referendario abrogativo da parte di otto Consigli regionali su impulso della Lega, per la cancellazione della quota proporzionale della “legge Rosato”, al fine di trasformare la legislazione elettorale secondo lo schema inglese maggioritario del “first past the post.” Tale iniziativa referendaria è stata, infatti, dichiarata inammissibile per la natura eccessivamente manipolativa del quesito, in particolar modo nella parte che riguarda la delega conferita all’Esecutivo ( legge n. 51/2019) per la definizione dei collegi in attuazione alla riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Nel perenne dibattito, protrattosi dal 1993 fino ai giorni nostri, intorno alla legislazione elettorale, tornano, così, alla mente i celebri versi di T.S. Eliot, che ci restituiscono il senso definitivo dello stato di profonda incertezza della politica italiana:

 

(..)In a minute there is time

For decisions and revisions which a minute will reverse.[6]

 

[1] Per una analisi sommaria sulla correlazione tra l’introduzione della legge elettorale proporzionale e la nascita della moderna democrazia di massa in Italia, si rimanda a P. Craveri, L’arte del non governoL’inarrestabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia 2016, p. 19.

[2] Sul sistema proporzionale personalizzato tedesco, si rimanda a M. Caciagli e P. Scaramozzino, Democrazie e Referendum, Edizioni Comunità, Milano 1994.

[3] R. Ruffilli e P. Capotosti, Il cittadino come arbitro. La DC e le riforme istituzionali, Il Mulino, Bologna 1988.

[4] G. Pasquino, Restituire lo scettro al Principe. Proposte di riforme costituzionali, Roma-Bari, Laterza 1985.

[5] Appare impietoso enumerare il continuo alternarsi di leggi elettorali dal 2005 in poi, per effetto anche delle sentenze di incostituzionalità della Consulta nei confronti del “Porcellum”( legge n. 270 del 21 dicembre 2005) con sentenza n. 1/2014 e dell’ ”Italicum”( legge n. 52 del 6 maggio 2015), fino ad arrivare al “Rosatellum” ( legge n. 165 del 3 novembre 2017).

[6] T.S. Eliot, The love song of J. Prufrock, in Prufrock and other observations, The egoist Ltd, London 1917.

Decarbonization by 2050: Opportunities for a Green Economy under the Italian G20 Presidency

By Celine Bak

Along with the EU, the UK and France, Italy is one of only four G20 members to make a long-term commitment to net zero emissions by 2050.[i] This makes the Italian G20 Presidency, which commences in 2021, a unique platform on which to build the political trust and confidence needed to seize the opportunities presented by a green and decarbonized economy.

 

The G20 is responsible for 85 percent of global economic activity and 78 percent of the heat-trapping emissions currently accumulating in the atmosphere. In the special report on 1.5°C of warming, the International Panel on Climate Change (IPCC) is clear that if we are to minimize climate risks and hold warming to 1.5°C, we must decarbonize the economy by 2050. Doing so will stave off the risk of us crossing natural tipping points, beyond which the Earth’s systems will experience largely irreversible change.[ii]

 

The current emissions gap is large – so large that if decarbonization of human activity were a war effort, we should today fear defeat. Global CO2 emissions are at an all-time high, up 2.7 percent in 2018 after a rise of 1.6 percent in 2017.[iii] Madrid’s COP25 provided no indication of the trust and political confidence needed to address the dangers posed by these less-than-sufficient national commitments (known as nationally determined contributions, or NDCs) to emission reductions by 2030 and carbon neutrality for all developed economies by 2050. This trust and political ambition is fundamental to the task before us. The Paris Agreement is a framework intended to build up confidence within and among its parties to enable coordinated, country-level commitments that together achieve sufficient emissions reductions to keep temperatures from rising above safe levels indicated by the best available science.[1]

 

Now twice-failed COP25 negotiations on carbon markets that would work to coordinate exchanges of emissions reductions show how much work remains to be done to rebuild the trust needed to limit temperature rises to safe levels.

 

The EU showed leadership during COP25 by announcing its Green Deal – the EU’s growth strategy for the coming decade. Europe’s commitment to be the first climate-neutral continent turns on transforming an urgent challenge into a unique opportunity. The Commission indicated that “above all, the European Green Deal sets a path for a transition that is just and socially fair … [one] designed to leave no individual or region behind in the great transformation ahead.”[iv]  The Green Deal would “protect, conserve and enhance the EU’s natural capital, and protect the health and well-being of citizens from environment-related risks and impacts.”[v]

Today, the decarbonization targets set by G20 countries are aligned with 3°C of heating by 2100. The human impact of this level of warming would be profound, with critical water shortages five times greater at 3°C of heating compared to 1.5°C. Other expected impacts include a near doubling of days with heat above 50°C, from 30 to 50 per year, when compared to 1.5°C of heating. Along with land-management practices, Australia’s deadly and economically devastating wild fires are a result of exactly this type of hotter, dryer weather over longer periods. Shorter growing seasons, an increase in the spread of insect-borne diseases, drought, extreme rainfall and food scarcity are just some of the other negative impacts that we can expect at our current trajectory.[vi] Recent medical research is clear: without decarbonization, climate change will be the determining factor in the health of children born today.[vii]

 

In its recent report on the economic impacts of climate change, the Network for Greening the Financial System concluded that estimates for the physical effects of climate change on the macro-economy between now and 2100 indicate a risk of large negative consequences, ranging from 1.5 to 23 percent of global annual gross domestic product (GDP) per capita.[viii] As US Fed Governor Lael Brainard recently stated, “To fulfill our core responsibilities, it will be important for the Federal Reserve to study the implications of climate change for the economy and the financial system and to adapt our work accordingly.”[ix]

 

But if the risks of failing to decarbonize the global economy are great, so are the opportunities that we could expect from making a decarbonized global economy business as usual. This is so particularly at a time when major economies are seeking a pro-investment agenda and the financial stability risks of continued investment in companies and projects which could be made worthless by climate policy or impacts are increasingly clear. According to the Global Commission on the Economy and Climate, the shift to a green economy could create US$26 trillion in benefits and 65 million jobs by 2030.[x]  This opportunity must be kept in sight along with the value of trillions of dollars of assets which could be whipped out through the policy responses required to address to keep the rise in temperatures to safe levels.[xi]

 

Businesses are recognizing this opportunity. On the basis of the Marrakesh Partnership, a platform for voluntary contributions to reducing emissions under the United Nations Framework on Climate Change (UNFCCC), corporations are voluntarily establishing climate-science-consistent business plans.[xii] These companies, which have set Paris-aligned decarbonization targets, are reporting improved brand reputation, increased investor confidence and competitive advantage in the marketplace. The scope and scale of these commitments are noteworthy. Nine hundred companies are part of this platform, of which over 400 are developing plans to decarbonize in line with the Paris Agreement, with 177 committing to decarbonizing their operations by 2050.[xiii] Their total market capitalization is $20 trillion, or about a quarter of global GDP.[xiv] Similar commitments are now being made by financial institutions, including banks and global asset managers.

 

Building the decarbonized economy and the financial system it needs will require bold and ambitious government policies. Under the Italian G20 Presidency, policymakers, the private sector and civil society could work together to build confidence in the potential of the green and decarbonized economy. This could be done by setting a clear pathway for a transition to net-zero GHG emissions by 2050 that ensures social inclusion and takes care of workers in high-carbon industries. The G20 could advance this imperative through a pro-investment agenda for decarbonization. This is critical to support strengthening NDCs and 2030 targets in line with decarbonization by 2050 for countries for advanced economies and by 2060–70 for countries with developing economies.

 

A key to stimulating investment aligned with long-term sustainability is establishing regulatory certainty to build confidence in new investment norms and behaviours by backing these plans and targets with ambitious sectoral goals and policies, such as the following:

  • Scaling up renewable energy deployment to achieve a 100 percent clean power system by 2040, establishing a near moratorium on coal finance and new coal plants, and setting an ambitious coal phase-out date of 2030 for advanced economies and 2040 for all other G20 members.
  • Setting 2030 as the phase-out date for internal combustion engine vehicles while providing investment in decarbonized public transportation, in electric vehicle (EVs) infrastructure and fiscal incentives for EVs.
  • Establishing a forum for the decarbonization of heavy emitting sectors such as steel, aviation, trucking and shipping, as well as mining and oil & gas through public-private collaboration.
  • Transitioning to a land system that supports a decarbonized economy and can feed a growing population with sustainable ecosystems and healthy communities, including through climate-smart agricultural practices and ending deforestation.
  • Addressing the social impacts of decarbonizing the economy and adapting to the climate impacts already faced, leaving no one behind.
  • Building resilience against climate impacts for the communities that support value chains globally by investing in adaptation, including through nature-based solutions and biodiversity.

 

These sectoral plans and targets will deliver the full rewards of growth if they are implemented in the context of a G20 sustainable finance agenda which should include the reforms needed to:

 

  • Support a pro-investment agenda in clean infrastructure which pulls through innovation and improves the health and lives of citizens.
  • Ensure inclusive access to capital particularly for regions whose economies are highly exposed to hydrocarbon-based energy.
  • Modernize financial regulations that drive corporate focus on short-term profit rather than long-term sustainability.
  • Assure the protection of savers from the action of financial institutions that continue to invest in projects whose value may be wiped out by decarbonization policies and climate effects.

 

Italy’s G20 green economy agenda should be focused on building trust and confidence, including through leveraging progress on the EU’s Green Deal as well as the preparations and achievements of the UK and Italy’s collaboration on COP26 in Glasgow in December 2020. This should include integrating the long-term sustainability and the green economy agenda across all ministerial meetings. Because of the urgency of the climate crisis, and the need to accelerate the translation of science into the widest possible spectrum of policy changes, roles are evolving quickly. For example, a large measure of the EU’s quick progress on the Green Deal and before that on the Action Plan on Financial Sustainable Growth, is the result of its strong youth and civil society, which increasingly combine building and translating evidence for policy, engagement and advocacy with policy makers with the traditional role of education of and engagement with citizens. Creating mechanisms to raise the impact of youth and civil society will increase the impact of Italy’s G20 Presidency on the green economy.

 

Building a prosperous, decarbonized economy by 2050 requires a transformation of unprecedented pace and scale – one similar to that needed to win World War II. This transition is achievable, but only when there are new, collectively inspired ways of working. This can happen when public-sector, private-sector and civil-society leadership positively reinforce each other. As a clear leader through its commitment to decarbonization by 2050, Italy, through its G20 presidency, can build up trust among G20 members and provide an example of ambitious government policies for the Green Economy to stimulate the private, public, and political investments needed to achieve the full ambition of the Paris Agreement and bring to society all the benefits of the Green Economy.

 

For information please contact:

Céline Bak celine.bak@analytica-advisors.com

+1 613 866 9157

[1] Article 2 lays out the aim of the Paris Agreement as “strengthen[ing] the global response to the threat of climate change, in the context of sustainable development and efforts to eradicate poverty, including by holding the increase in global average temperature to well below 2°C above pre-industrial levels and pursuing efforts to limit the temperature increase to 1.5°C above pre-industrial levels, recognizing that this would significantly reduce the risks and impacts of climate change.” Science published in 2018 and 2019 through the IPCC indicates that a 1.5°C rise in temperature – not 2°C – should be considered safe. Compared with current annual emissions of 55 Gigatonnes CO2 Equivalent (GtCO2e), in 2030, annual emissions need to be 58 percent lower (a 32 GtCO2e reduction) for the 1.5°C goal and 27 percent lower (a 15 GtCO2e reduction) for the less safe goal of 2°C. See https://www.unenvironment.org/interactive/emissions-gap-report/2019/ for a summary.

[2] Negotiations on Article 6 carbon markets were pushed to 2020 after the 2018 negotiations at Katowice failed. Defeated proposals for global carbon markets centered on safeguards for human rights, including indigenous rights, mechanisms to finance the cost of climate change through a share of the proceeds of carbon trading, mechanisms to ensure no double counting of emissions reductions, assure overall reduction of emissions and limit credits from the previous emissions-trading regime.

[i] https://www.bbc.com/news/science-environment-50547073?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=c9ca9547c3-briefing-dy-20191126&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-c9ca9547c3-44530773

 

[ii] https://www.ipcc.ch/sr15/

 

[iii]  https://www.scientificamerican.com/article/co2-emissions-reached-an-all-time-high-in-2018/

 

[iv] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en

 

[v] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/HTML/?uri=CELEX:52019DC0640&from=EN

 

[vi]  https://www.climate-transparency.org/g20-climate-performance/g20report2019

 

[vii] https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(19)32596-6/fulltext

 

[viii]  https://www.bankofcanada.ca/2019/11/researching-economic-impacts-climate-change#footnote-ref-1

 

[ix]  https://www.theglobeandmail.com/business/economy/interest-rates/article-federal-reserves-lael-brainard-says-climate-change-poses-profound/

[x] https://www.sei.org/projects-and-tools/projects/global-commission-on-the-economy-and-climate/

 

[xi] https://www.cnn.com/2019/12/09/economy/climate-change-company-valuations/index.html

 

[xii] https://unfccc.int/climate-action/marrakech-partnership-at-cop-25

 

[xiii] CDP and the World Resources Institute are responsible for the protocols for these commitments and for vetting each company’s decarbonization plan.

 

[xiv]  https://www.wemeanbusinesscoalition.org/companies/#country=Italy

 

Il Mes, la riforma, e l’Eurozona

Gli scorsi mesi sono stati caratterizzati da un accesso dibattito in merito al contenuto della riforma del Mes (o Esm), il Meccanismo Europeo di Stabilità. A far scaldare gli umori, sarebbe stato il commento di Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, esposto presso il seminario OMFIF in data 15 novembre. Visco, infatti, ha parlato in effetti di «rischi enormi» per il sistema Italia in caso dell’approvazione della riforma. Secondo le opposizioni e molte testate giornalistiche, il commento di Visco delineerebbe una prospettiva drammatica per l’Italia, che si troverebbe a fare i conti con una manovra del tutto sfavorevole e di aiuto alle banche francesi e tedesche. La questione viene portata all’attenzione del vertice di maggioranza del 22 novembre scorso, richiesto a gran voce da M5S. Il vertice si è concluso con un nulla di fatto, lasciando una spaccatura tra PD e M5S. Domenica primo dicembre, un nuovo vertice, stessa storia. Tutto rinviato alle aule parlamentari. Ciò che il governo ha ottenuto al momento è un rinvio dell’approvazione definitiva in seno al Consiglio per questo gennaio. A distanza di mesi, dunque, le acque non sembrano calmarsi. Ma a cosa serve esattamente il Mes, quali critiche che possono essere mosse a questa istituzione?

Il Mes venne costituito per evitare il ripetersi della crisi del debito pubblico che mise in grave difficoltà alcuni Paesi membri dell’Eurozona, i quali avevano dovuto onerosamente coprire le perdite speculative dei rispettivi istituti di credito dell’Unione. Diversi fattori portarono questi paesi (Grecia, Irlanda, Cipro e Portogallo) a trovarsi con un debito pubblico tale da precludere le operazioni di finanziamento necessarie per risolvere la crisi. Il Mes diede, su richiesta dei suddetti paesi, assistenza finanziaria a condizioni a loro favorevoli per ristabilire un rapporto con il mercato obbligazionario. Il caso della Grecia, conclusosi nell’agosto scorso, costituì il più grande pacchetto di assistenza nella storia arrivando a oltre 200 miliardi di euro.

Il Mes storicamente è intervenuto con due funzioni: di finanziamento a paesi insolventi (nei casi sopra menzionati) e di ricapitalizzazione indiretta del settore bancario (nel caso della Spagna). Ci sono altri casi, per ora mai verificatisi, in cui il Mes può entrare in funzione. Il Mes può infatti intervenire per ricapitalizzare un istituto di credito insolvente o con paventata possibilità di insolvenza. Inoltre, può intervenire per creare liquidità nel mercato in caso di difficoltà o paventata difficoltà dell’emittente sovrano di accedere ai mercati. I fondi del Mes provengono dal capitale azionario conferito dagli stati membri (circa 80 miliardi, con una garanzia di aumento di capitale fino a 700 miliardi in caso di necessità) e dalle obbligazioni che emette sul mercato. Chiarito dunque il suo funzionamento, muoviamoci sugli aspetti più controversi.

In cambio di assistenza finanziaria il Mes esige che i paesi richiedenti implementino un pacchetto di riforme che assicurino l’abilità del paese in questione di ripagare l’assistenza ricevuta. Tale pacchetto, viene stabilito dalla commissione europea in collaborazione con la BCE e, ove possibile, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) con il Mes in qualità di partecipante informale. Tuttavia, le condizioni possono essere assai severe, portando, in alcuni casi, lo Stato richiedente assistenza a tagliare la spesa pubblica e gli investimenti strutturali oltre il livello che assicurerebbe una ripresa ottimale di un percorso di crescita. Nel caso della Grecia, basti citare la lettera aperta firmata da economisti del calibro di Thomas Piketty (Paris School of Economics) e Dani Rodrik (Harvard), che criticarono il target del raggiungimento dell’avanzo di bilancio pari al 3.5% del Pil, argomentando che una contrazione della spesa di quel livello avrebbe avuto effetti disastrosi per l’economia e il popolo greco. Tali critiche sono state espresse anche dal FMI, che aveva suggerito, nel caso della Grecia, un target molto più basso del 1.5% del Pil in avanzo di bilancio.

Ma c’è di più. Un altro aspetto problematico del Mes riguarda il suo posizionamento all’esterno del diritto UE, in una posizione “privilegiata” (anche se non interamente slegata) e di difficile controllo da parte dell’Unione. In tal modo, il Mes non rispetterebbe il principio democratico e di accountability degli organi dell’UE. Essendo istituito con un trattato internazionale, infatti, il Mes è sottratto ai meccanismi di controllo delle istituzioni dell’UE, come la Corte dei conti europea e l’accesso ai documenti. Per quanto, come menzionato, le condizioni di accesso ai fondi del Mes siano stabilite dalla Troika coinvolgendo dunque la commissione Europea, è il Consiglio dei Governatori, l’organo apicale di decisione del Mes, ad avere l’ultima parola nel garantire tale accesso allo Stato richiedente. I membri del Consiglio dei Governatori, peraltro, sono i 17 singoli ministri delle finanze dei Paesi aderenti, che non rispondono per la loro responsabilità al Parlamento europeo. Essi sono responsabili unicamente verso i rispettivi parlamenti nazionali. Sono numerosi i pareri contrari alla posizione di autonomia e distanza dal controllo UE del Mes, anche culminate in un una mozione del Parlamento europeo in richiesta di una integrazione dell’istituto all’interno dell’assetto legislativo europeo. Tali riserve, però, sono state rispedite al mittente dal managing director del Mes Klaus Regling, che le ha dichiarate infondate, essendo il Mes legalmente fuori dal quadro normativo europeo.

Oltre a queste considerazioni strutturali, taluni (in primis Visco) rivolgono le proprie critiche alla controversa bozza di riforma del Mes, che si riferisce all’adozione delle cosiddette Collective Action Clauses (CAC). Le CAC stabiliscono che qualora uno Stato europeo dovesse trovarsi in difficoltà, prima di dichiarare il default, si sieda a un tavolo con i suoi principali creditori per rinegoziare il pagamento del debito. La riforma prevede che questi negoziati si possano fare velocemente e con una maggioranza semplice dei creditori (piuttosto che una maggioranza qualificata come nella riforma del 2013, art. 12.3 del Mes). L’effetto delle CAC sullo spread è al centro del dibattito politico in Italia: Visco infatti suggerisce che adottando le CAC il nostro debito diventerà meno appetibile per gli investitori, causando proprio un aumento dello spread.

Solitamente gli economisti riconoscono due effetti che le CAC hanno sullo spread: uno di riduzione e uno di aumento. La riduzione è ottenuta facilitando la coordinazione dei creditori in caso di default, che aumenta la probabilità di recuperare una parte dei fondi prestati attraverso il negoziato; parallelamente le CAC, facilitando il processo della rinegoziazione, aumentano la probabilità che lo Stato decida di rinegoziare, portando, in questo caso, ad aumentare lo spread. Malgrado Visco, pur notando entrambi questi effetti, sostenga che l’effetto di aumento dello spread sia dominante, la letteratura economica non è affatto univoca su questo tema. Nel caso dell’introduzione delle CAC a maggioranza qualificata nel 2013 ad esempio, la Prof.ssa Carletti (Università Bocconi) ha rilevato un significativo effetto negativo sugli spread (di riduzione) soprattutto in paesi fortemente indebitati come l’Italia, abbassando gli oneri degli stati e aumentando la stabilità del sistema finanziario.

Va ricordato poi che l’adozione delle CAC ha l’obiettivo di scoraggiare l’opportunismo dei cosiddetti fondi avvoltoi, i quali comprano porzioni di debito di uno Stato in default con lo scopo di iniziare un procedimento legale per accaparrarsi il valore nominale dei bond più gli interessi. L’obiettivo delle CAC dovrebbe essere quello di proteggere lo Stato da questo tipo di opportunismo una volta che si trova in default. Detto ciò, ci sono altre critiche, più complesse che si possono fare alle CAC stesse; una di queste concerne l’incertezza legale che si crea introducendo queste clausole rispetto al trattamento di debiti sovrani emessi prima dell’introduzione in situazione di default.

Alla luce di queste considerazioni, è certamente corretto stimolare una discussione non solo sui contenuti della riforma, ma su funzionamento del Mes per sé, e sulla possibilità della sua integrazione alla stregua degli altri istituti dell’Unione. Per quanto una misura di politica economica di emergenza comune sia auspicabile, ci ancora molte questioni aperte per quanto riguarda l’assetto normativo in cui opera il Mes e la necessità di implementare un quadro di ristrutturazione del debito. Tuttavia, maggioranza e opposizioni non hanno ancora trovato una posizione definitiva in questo dibattito. Al di là delle questioni di merito, bisogna ricordare che il placet alla riforma è stato dato da un governo gialloverde ormai morente, poco dopo rimpiazzato con il governo attuale. Non sorprende dunque la poca convinzione con cui il Movimento 5 Stelle difende una riforma approvata sotto il loro mandato con la Lega, ormai rinnegato. Di contro, stupisce la scarsa preparazione della classe politica tutta di fronte agli aspetti più problematici (in verità anche i più pacifici) del Mes. Non si può fare a meno di notare che le questioni sollevate dalla politica abbiano travisato il significato del commento di Visco, le cui preoccupazioni, prese nel contesto del discorso integrale, restano valide e meritevoli di ulteriore approfondimento. Il paese resta in attesa della risposta del Parlamento, dove la maggioranza PD-M5S sembra restare divisa, e della approvazione definitiva del disegno in Consiglio. Ciò che è certo è che i malumori dovranno confrontarsi con la natura tecnica della riforma e la giusta considerazione degli interessi in gioco.

Tommaso Di Prospero e Tancredi Rapone

La Ced, spina nel fianco? Parla Matteo Gerlini

La difesa europea rimane una seria prerogativa comunitaria, recentemente è stata richiamata anche dal Presidente francese Macron. Lo storico Matteo Gerlini spiega ai microfoni della Fondazione De Gasperi il progetto della Comunità Europea di Difesa (CED) nel contesto dell’integrazione europea.

In che contesto nasce la proposta di istituzione della CED?
La proposta si pone nel 1950 in un contesto europeo segnato dalla Guerra Fredda e dai problemi del dopoguerra, in particolare rispetto alla linea difensiva da tracciare contro una temuta invasione sovietica, considerato il precedente della Guerra di Corea. Essa nasce in uno scenario politico e strategico assai dinamico, in cui i piani strategici della NATO vedevano con difficoltà la tenuta di una linea difensiva lungo il Reno, attestandosi su alcune teste di ponte in Francia. Il rischio poteva essere levatore di una pace fra gli Stati Europei: condividendo la difesa creando delle forze armate comuni, si concretizzava quell’ideale europeo che animava De Gasperi.

Senz’altro nell’ottica dei padri fondatori dell’Europa era centrale il tema dell’integrazione, ma quali erano i concreti motivi che ponevano la necessità di una comunità di difesa?
La CED doveva rispondere ad altre due esigenze politico-strategiche logicamente connesse con la difesa dell’Europa occidentale dalla minaccia sovietica. Essa doveva infatti controllare il rischio insito nel riarmo della Repubblica federale tedesca, la cui ricostituzione delle forze armate era imprescindibile per porre la linea difensiva lungo il fiume Elba, dunque per allontanare il primo fronte dal territorio francese e del Benelux; l’ovvio rischio era la ripresa di una spinta egemonica tedesca. L’altra esigenza era il mantenimento di un impegno americano in Europa, cioè il distaccamento di forze permanenti in tempo di pace sul continente. Gli americani accettarono il maggiore impegno in Europa, aumentando in modo consistente la loro presenza militare, formando una forza alleata integrata di cui avrebbero assunto il comando, ma gli europei dovevano accettare la partecipazione alle forze integrate di dieci divisioni della Germania federale. Il primo ministro francese René Pleven propose un piano che prese il suo nome, in cui sostanzialmente si applicava il modello della comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) alla difesa comune europea.

La realizzazione tanto auspicata poi fallì, cosa conseguì al suo fallimento?
Le discussioni furono ovviamente assai più difficili, essendo le forze armate ben più rilevati per la sovranità degli stati rispetto al settore carbosiderurgico, e infine la CED fallì nel 1954 quando l’assemblea nazionale francese respinse l’approvazione della versione finale del trattato. A un mese dalla bocciatura della CED il tema della difesa Comune europea fu ripreso discutendo l’ampliamento del Patto di Bruxelles, stretto nel 1948 da Regno Unito, Francia e Benelux, da cui sarebbe nata l’Unione Europea Occidentale (UEO). La Repubblica Federale Tedesca aderì all’organizzazione, che ne permise il riarmo; ovviamente anche l’Italia entrò nella UEO, che seguì i successivi allargamenti delle comunità europee pur rimanendone distinta. Questo dal punto di vista politico. Da quello strategico la NATO rappresentò il consesso difensivo dell’Europa occidentale, un consesso volutamente transatlantico.

Quindi per ciò che riguarda la difesa la Nato riuscì pienamente a colmare quel vuoto lasciato dalla CED ma sotto il punto di vista dell’integrazione rimanevano spaventose criticità. Quali erano e come si lavoro per risolverle?
L’Europa come progetto è nata per rispondere alle tensioni che attraversavano il continente secondo le faglie degli interessi nazionali confliggenti. L’angolazione economica fu privilegiato perché permetteva una certa gradualità di approccio: il precedente della CECA (la prima forma di mercato comune realizzata in Europa) che aveva visto la condivisione di risorse come il carbone e l’acciaio, il cui controllo aveva innescato in passato sanguinosi conflitti. Nonostante il modello non fosse riuscito a risolvere il problema della difesa, esso venne ripreso per proseguire l’integrazione europea.

E come si diede corpo a questa grande idea, a questo grande processo di integrazione che porta fino ai nostri giorni?
L’approccio che informò la gestione comunitaria del carbone e l’acciaio (risorse del passato e del presente) venne applicato all’energia atomica (la risorsa del futuro), che necessitava per la sua realizzazione di una programmazione e di uno sforzo comune, dacché i singoli stati non potevano sviluppare pienamente tale tecnologia. Si arrivò così alla firma dei Trattati di Roma del 1957 con i quali nacque la Comunità Economica Europea (CEE) e la CEEA (Comunità Europea dell’energia atomica) la quale costituì fondamentale presupposto per la nascita del grande mercato comune. La CEEA per la prima volta vedeva impegnati gli stati nella condivisione di professionisti, di programmi, di investimenti in ricerca; molto più della CEE parve rappresentare il primo passo per una vera integrazione, che da economica poteva aspirare a divenire pienamente politica.

La questione della difesa europea rimane dunque una questione aperta?
Senz’altro la questione della difesa europea rimane una questione aperta, seppur il contesto storico e notevolmente mutato. Oggi non si pone una minaccia russa in termini analoghi a quella che era stata l’Unione Sovietica, e nemmeno lontanamente una minaccia militare tedesca. La Nato continua a garantire la difesa del continente riunificato, ampliando la dottrina ai cinque spazi della difesa: non più solo terra, aria, acqua, ma anche spazio satellitare e cyberspazio). Ciò ci fa riflettere su quanto le esigenze della difesa siano cambiate dai tempi della CED; nondimeno la difesa comune resta un passaggio necessario nel progetto dell’Unione Europea e di una integrazione dei suoi popoli.

Rimangono comunque dubbi sulla sua fattibilità?
La cooperazione militare in ambito europeo ha raggiunto notevoli progressi. Questo è simbolo di come gli stati prediligano lo strumento della cooperazione, il quale non vede sminuita la sovranità, piuttosto che quello di una comune difesa dove l’interesse nazionale cede a quello sovranazionale e dove la condivisione può risultare contrastante. Basti pensare ai limiti dell’intelligence europea, data dalla difficoltà nella condivisione di informazioni da parte di apparati nazionali come i servizi di sicurezza. I grandi progetti ideali devono fare i conti con la realtà, dunque devono trovare trovare risposte e alternative adatte alle situazioni concrete, come si evince dall’esperienza storica.

Michelangelo Di Castro, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

Quel nodo chiamato autonomia. Perché le regioni non sono in cima all’agenda

Tutto da rifare. Sull’autonomia il governo non esce dallo stallo. Lo stesso ministro delle Autonomie in quota Pd Francesco Boccia, in visita a Pontida ai sindaci della valle Padana, si è lasciato andare a uno sfogo: “Ho detto fin dall’inizio di questo percorso sulla ricostruzione della fiducia reciproca tra i diversi livelli Istituzionali sull’attuazione dell’Autonomia differenziata che sarei stato ghandiano e non avrei accettato provocazioni tra fazioni”. Ma, ha promesso ai primi cittadini del Nord il ministro dem, “non ho nessuna intenzione di trascorrere i prossimi mesi avendo lo stesso atteggiamento paziente con i partiti di maggioranza”.

L’autonomia differenziata è uno dei tanti scomodi dossier lasciati in eredità dal governo precedente a palazzo Chigi. La sostanza al centro della querelle è ormai nota. Tutto ruota intorno al Titolo V della Costituzione Italiana e in particolare all’art. 116, introdotto con la riforma costituzionale del 2001, che al comma 3 prevede la possibilità, per le regioni a Statuto ordinario, di introdurre in alcune materie “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. In poche parole, di ridurre il gap che distanzia le loro competenze da quelle previste dalla Costituzione per le regioni a Statuto speciale. Il comma, rimasto finora inattuato, è tornato agli onori delle cronache nell’ottobre del 2017, quando un referendum in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, le tre regioni al centro del “motore industriale” del Paese, si è concluso con la richiesta al governo di maggiori forme di autonomia ex art. 116, 3.

Il 28 febbraio del 2018 le tre regioni hanno sottoscritto ciascuna un accordo preliminare con il governo, allora presieduto da Paolo Gentiloni, individuando metodologia, materie e principi regionali che avrebbero dovuto informare la devoluzione di nuove competenze. L’intesa non è però mai passata per il vaglio del Parlamento. Complici le distanze che hanno caratterizzato le posizioni dei due maggiorenti del governo Conte 1, Lega e Cinque Stelle. Nonostante la materia sia stata inserita nel “contratto di governo”, le due forze di maggioranza non hanno saputo trovare una soluzione di compromesso. Il pressing della Lega per “fare in fretta” si è più volte scontrato con le reticenze dei Cinque Stelle, formalmente a favore ma più volte trovatisi divisi sul da farsi, con gli appelli da diverse correnti del partito (specie, si intende, dai parlamentari del Sud) a non creare “regioni di serie A e serie B” e non scavalcare le competenze del Parlamento in materia.

Sullo sfondo uno scoglio tecnico che ha animato il dibattito fra addetti ai lavori. Ovvero la scelta di calibrare la devoluzione di ulteriori materie alle regioni non più sul criterio della “spesa storica” ma su quello dei fabbisogni standard della singola regione, anche detti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni, riferiti in particolare a tre materie: Istruzione e formazione, Salute e Assistenza sociale). In teoria il nodo è presto sciolto. La legge 42/2009 attuativa dell’art. 119 Cost., più conosciuta sotto il nome di “Federalismo fiscale”, prevedeva infatti già di “sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica” con quello dei fabbisogni standard. Politicamente attuare questa previsione non è bere un bicchier d’acqua.

Fra rilanci e continui rinvii, dunque, l’autonomia differenziata è rimasta congelata fino all’entrata in carica del nuovo governo. Che, tramite Boccia, ha promesso dai primi giorni di riportare al centro dell’agenda la questione e di definire, dopo un’approfondita interlocuzione con le regioni (a quelle originarie man mano se ne sono aggiunte altre, come Piemonte e Toscana), una legge quadro da votare entro dicembre. L’interlocuzione c’è stata, la legge quadro no. O meglio, non ancora. Perché l’intesa politica fra le regioni chiamate in causa è stata trovata, parola di Boccia, “da tutte le regioni”.

Peccato che non sia ancora chiaro come l’intesa si trasformerà in legge. Una prima ipotesi, auspicata dallo stesso ministro, prevedeva di inserire il tema dell’autonomia in un emendamento alla legge di Bilancio. Cassata da quasi tutti i partiti di maggioranza, e soprattutto da Italia Viva e Cinque Stelle, che hanno letto la proposta come un “blitz” inopportuno su una materia delicatissima, la soluzione è rimasta sulla carta. Mentre un altro anno si avvia alla conclusione e il governo è (comprensibilmente) alle prese con altre emergenze, crisi bancarie e industriali in testa, l’impressione è che il regionalismo differenziato sia ormai considerato una delle tante “tele di Penelope” della politica italiana. Tessute di giorno, disfatte di notte, purché non trovino mai la luce una volta per tutte.

F.B.

L’Europa, dono o progetto? Parla Ferraresi

archenet.org

Oggi sempre di più l’Europa sta diventando campo di dibattito e malcontento comune, bisogna sforzarci a far nostre le parole di Alcide De Gasperi pronunciate per il Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea nel ’54: l’Europa «è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere o di pretese da rivendicare» perché «all’origine dell’idea d’Europa vi è la figura e la responsabilità della persona umana». Le radici europee sono una questione a volte dimenticata e proprio per questo la Fondazione De Gasperi per la V edizione della Scuola di Formazione Politica in collaborazione del Wilfried Martens Centre for European Studies tenutasi a Roma ha intervistato Mattia Ferraresi, giornalista Il Foglio, per avere un quadro più dettagliato su una tematica così spinosa.

Da cosa dovrebbe ripartire l’Europa per ricercare le proprie radici e la propria identità?

È fondamentale rifarsi una domanda forse oziosa e per alcuni troppo filosofica. Che cos’è l’Europa? Bisogna vedere qual è la sua natura più profonda e in che modo c’è stata consegnata, ma non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Una distinzione che si può fare è quella di pensare l’Europa come dono, qualcosa che abbiamo ricevuto dalle nostre generazioni attraverso la trasmissione di alcuni ideali di cui i nostri padri erano animati, ma forse questi non ce li ricordiamo più, o meglio, non siamo in grado di riconoscerli proprio per il fatto di aver dimenticato che l’Europa è un dono, un’eredità non meritata. L’errore è di considerare tutto questo come un progetto, un qualcosa fatto dalle nostre mani e che richiede, perciò, il necessario contributo di tutti mantenendo noi stessi al centro. Ritengo che una buona idea per riscoprire l’identità europea sia proprio questa e cioè avere il coraggio e la voglia di concepire l’Europa come un dono.

Se partiamo da questo assunto ci troviamo di fronte ad una realtà storica e fattuale molto diversificata. Dobbiamo problematizzare l’esistenza di tante Europe differenti, in questo senso?

Da sempre esiste un dibattito su tutte le idee politiche umane. L’Unione Europea è stato un tentativo animato da un forte dibattito in cui alcune visioni dell’Europa si sono scontrate e hanno dialogato; in parte si sono fuse ma dall’altra si sono divise. Certamente, l’idea di Europa che era all’origine e nel cuore di alcuni padri fondatori europei dove spiccano De Gasperi insieme a Schumann ed Adenauer – la triade che non si può non citare – avevano una certa idea di Europa e io trovo che questa porti ad una Europa disattesa ed in alcuni casi addirittura tradita e per questo è bene averlo presente nel dibattito sia nel modo libero e sia in quello laico. Sono concetti che si possano mettere al centro come in tutte le famiglie; è fondamentale che si torni a dibattere su questa dialettica ormai dimenticata.

Luca Di Cesare, Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

https://youtu.be/S5i30PR3kw4

La versione di Blangiardo sul regionalismo differenziato

Come da consuetudine in Italia, il dibattito sul regionalismo differenziato ha portato ad una polarizzazione delle opinioni in merito alla proposta delle regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, di un ampliamento delle loro competenze in ambito sanitario e scolastico, con evidenti ricadute sulla ridistribuzione delle risorse fiscali tra Stato centrale e Governo regionale. Spesso, tuttavia, vengono tralasciati in questo dibattito elementi demografici e statistici, che tornerebbero certamente utili per una riflessione più accurata e precisa sul tema. Proprio per questo, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istat e professore di demografia presso l’Università Milano-Bicocca, per avere un quadro più chiaro su una questione così complessa.

Dati alla mano, la richiesta di competenze aggiuntive nel governo regionale, secondo quanto
previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzione, da parte di Emilia-Romagna, Veneto e
Lombardia rappresenterebbe un turning point decisivo della questione settentrionale, ovvero
un rischio concreto di un aumento del divario economico e sociale tra Nord e Sud?
Ci troviamo di fronte ad un Paese, in cui ovviamente persistono differenze. L’Istat continua a monitorare attraverso una serie di indicatori statistici su base regionale, quella che viene tecnicamente definita come misura del benessere equo e sostenibile (BES). Si tratta di 12 parametri ( livello e qualità delle prestazioni erogate in ambito sanitario, scolastico, ecc.), con cui è possibile fotografare in maniera più precisa le differenti realtà regionali e locali italiane. Se ci soffermiamo ad una mera valutazione economica, è innegabile constatare la persistenza di un clivage, che una volta veniva identificato con l’immagine delle “due Italie”. Se si allarga, tuttavia, il campo d’analisi alle esigenze e ai bisogni del tessuto sociale italiano, si può scorgere invece una sorta di omogeneizzazione del quadro socio-demografico del Paese.

Ovvero?
Una volta vi era la tendenza statistica di un Meridione con un tasso di natalità nettamente superiore rispetto a quello dell’Italia settentrionale, mentre negli ultimi anni si è assistito ad un livellamento del trend demografico, in cui, tuttavia, è il Settentrione ad avere un indicatore di natalità leggermente superiore. Questo testimonia l’omogeneizzazione dei costumi e dei comportamenti della popolazione italiana: dal tasso di nuzialità e di divorzio, passando alle nuove e differenti richieste dei cittadini in termini di welfare State. Quest’ultimo aspetto si lega ad un altro tema cruciale delle nostre rilevazioni statistiche, ovvero quello dell’invecchiamento della popolazione italiana, che ormai riguarda in maniera indistinta l’intera comunità nazionale senza alcuna differenziazione tra Nord e Sud, con evidenti ricadute sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico e assistenziale. Ciò che rimane, tuttavia, fortemente polarizzato non è naturalmente la domanda di servizi da parte dei cittadini, ma l’offerta di servizi delle amministrazioni regionali e locali, con un evidente squilibrio a favore dell’Italia settentrionale. In tal senso, non deve stupire la costante crescita della cosiddetta migrazione sanitaria, di fronte ad una generalizzata situazione critica da parte delle regioni meridionali nell’erogazione di prestazioni e servizi sanitari ai propri cittadini. La questione cruciale, a mio avviso, si giocherà sulla ridefinizione di regole e meccanismi istituzionali per il ri-allineamento nazionale dell’offerta dei servizi assistenziali e previdenziali.

Con una crescente omogeneizzazione dei bisogni della popolazione italiana, la partita verrà
giocata essenzialmente sulla redistribuzione delle risorse fiscali?
La ridistribuzione delle risorse fiscali è un elemento fondamentale per intervenire sulle dinamiche sociali ed economiche dell’intero sistema-Paese, a fronte di una “coperta” economica sempre più corta. Qui entrano naturalmente in gioco valutazioni politiche. Tuttavia, se vogliamo che il Paese sia produttivo, dobbiamo cercare di incentivare le realtà più floride ad accrescere maggiore ricchezza, provando a risolvere le criticità di un apparato burocratico-amministrativo, che spesso si trasforma in un ostacolo e in un disincentivo all’impresa. In definitiva, occorre mettere ogni amministrazione – da quella locale fino a quella nazionale- di fronte alle proprie responsabilità.

Gian Marco Sperelli e Valerio Gentili, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

 

https://www.youtube.com/watch?v=f1ZDkGO4GQQ

L’obiettivo della difesa europea si avvicina?

Lo scorso novembre la Pesco, ovvero la Cooperazione Strutturata Permanente, si è arricchita di tredici nuovi progetti, dopo l’approvazione del Consiglio dell’Unione Europea, arrivando quindi ad un totale di 47.

Questi progetti, a cui aderiscono nel complesso 25 Paesi, servono ad approfondire le collaborazioni tra i settori della difesa e della sicurezza dei diversi stati europei. La Francia diventa così il primo paese per numero di partecipazioni ai progetti (30), l’Italia, insieme alla Spagna, è seconda (24). Quando fu istituita, nel dicembre 2017, sembrava potesse essere finalmente la pietra fondante della difesa comune europea. A distanza di due anni la situazione è ancora in divenire e non esente da criticità.

Una su tutte probabilmente è lo sviluppo della cosiddetta EI2 (European Intervention Initiative), fortemente voluta dal presidente francese Macron e a cui ha aderito da poco la stessa Italia. Questa iniziativa, nata nel giugno 2018, è stata sviluppata, secondo molti, proprio con lo scopo di agire lì dove i programmi della Pesco non arrivano. C’è da dire inoltre che l’EI2 non ha alcun legame ufficiale con l’Unione Europea, con i suoi organismi e le sue istituzioni, a differenza della Cooperazione Strutturata e del Fondo per la Difesa (EDF). In molti pensano che l’EI2 serva soprattutto alla Francia per agire in determinati contesti in cui gli interessi di Parigi sono maggiori, senza dover passare per autorizzazioni di Bruxelles e Washington.

Macron insomma cerca di creare un’alternativa alla Pesco, e tra i suoi obiettivi più o meno dichiarati c’è quello di tentare di mantenere il Regno Unito legato al mondo della difesa europea., l’interlocutore sui temi di sicurezza per eccellenza della Francia. Quest’ultimo infatti ha aderito all’EI2, nonostante l’iter della Brexit in corso. Inoltre Macron vuole che la Francia abbia il ruolo principale e indiscusso delle politiche difensive del Vecchio Continente, forte anche del fatto di essere l’unica potenza col nucleare (tolta la Gran Bretagna). Per questo sorprende, ma non troppo, l’attivismo francese nei progetti Pesco.

Non sorprende neanche il fatto che il nuovo commissario europeo incaricato delle questioni della Difesa sia il francese Thierry Breton. Quest’ultimo ha affermato che “la difesa sarà un nodo essenziale nei 5 anni che aspettano questa Commissione e sarà sotto la mia responsabilità, con la creazione, per la prima volta, di un’industria europea di difesa coordinata in parte dalla Commissione europea”.

Se è vero che un esercito comune europeo non potrà esistere fin quando non ci sarà una vera e propria politica estera comune, è anche vero che non sarà possibile se prima l’industria della difesa europea non sarà realmente cooperativa e integrata. Oggi in alcuni casi i rapporti di integrazione riescono ad essere positivi, come per esempio nel caso di Naviris, la neo joint venture tra Fincantieri e Naval Group. In altri, come nel caso dei diversi progetti franco-tedesco e anglo- italiano per il caccia del futuro, le aziende di bandiera leader nel settore non riescono a integrarsi in maniera unica. La vera integrazione industriale è uno dei principali scogli su cui il progetto difensivo europeo si scontra ciclicamente.

Se dall’altra parte dell’Oceano, Washington e la NATO, si sono dichiarati a favore di una difesa comune europea e del suo ruolo complementare con l’Alleanza Atlantica, sono invece rimasti scettici al nascere dell’iniziativa di Macron. Non è un caso che il presidente francese, solamente qualche giorno fa, ha affermato che la NATO è in uno stato di ‘morte cerebrale’. Nel summit di Londra di questi giorni, Macron e Trump (che pure non è mai stato particolarmente tenero con l’Alleanza e con l’impegno di alcuni suoi paesi membri) si sono scontrati in maniera piuttosto accesa su questo punto.

In un momento piuttosto complicato per l’Alleanza Atlantica, in cui le divisioni al suo interno sono piuttosto palesi e le sfide da affrontare sono mutevoli, l’Italia e l’Unione Europea devono continuare a sviluppare il sogno degasperiano di una difesa comune, consapevoli del fatto che le attività prettamente europee e quelle nord-atlantiche possano procedere di pari passo, rafforzandosi le une con le altre. La convinzione è che solamente un impegno generale e concreto di ogni stato membro, senza ricerche di protagonismi particolari, possa portare al raggiungimento dell’obiettivo.

Luca Sebastiani

Guerra dei dazi tra Cina e USA secondo Lombardi

L’Amministrazione americana di Donald Trump verrà ricordata a lungo per il duro “braccio di ferro”, ingaggiato con la Cina di Xi Jinping, per riportare ad una situazione di maggior equilibrio della bilancia commerciale delle due super-potenze. Ma quali sono le reali implicazioni strategiche e geopolitiche nella guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina? Per una breve panoramica sulla questione, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Domenico Lombardi, economista e già Senior Fellow presso Brookings Institution.

Qual è l’influenza della Cina nell’economia occidentale?
Oggi l’economia cinese ha un ruolo fondamentale di propulsore dell’intera economia mondiale. Questo ruolo è stato significativo nelle ultime decadi, dove l’economia cinese è cresciuta con tassi a due cifre, arrivando anche alla soglia del 12%.Anche se negli ultimi anni l’economia cinese è scesa in termini di tassi di crescita, l’economia del Dragone continua, tuttavia, a svolgere un ruolo importante nell’alimentare la crescita mondiale, a maggior ragione dal periodo della grande crisi internazionale 2007-2009, rispetto al quale abbiamo visto ridursi l’apporto dell’economie occidentali nel crescita del Pil mondiale.

Quale posizione ha assunto ad oggi l’Unione Europea: spettatrice silenziosa o protagonista in cerca di nuovi impulsi commerciali?
Fino ad oggi l’Europa ha svolto un ruolo importante, ma silenzioso, nel cercare di conquistarsi un accesso quanto più ampio possibile in questo mercato cinese estremamente dinamico. Quello che noi vediamo con la Via della Seta, ma anche con altre iniziative promosse di recente dal Governo di Pechino, è che in qualche modo la Cina sta cercando di cooptare l’Unione Europea in funzione antiamericana. Questo è il motivo per cui la Via della Seta ha creato una serie di frizioni anche a Washington e in alcune importanti capitali europee. Nel prossimo futuro assisteremo a ulteriori iniziative, che mireranno in qualche modo a far sì che l’Unione Europea prenda una posizione più “univoca” sulla questione.

A suo avviso, lo scontro a cui si assiste assume dunque una natura prettamente economica o rileva una natura ideologica?
Va detto che quando si parla di guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’opinione pubblica tende ad assimilare questa guerra commerciale con un esito, che è quello del riequilibrio del saldo commerciale bilaterale. Lo scontro tra Washington e Pechino ha, in realtà, una natura molto più strategica, ed è in particolare legata alla recente politica industriale che il Governo cinese ha varato  con il “Programma Cina 2025”. Secondo le Autorità cinesi, entro il  2025 la Cina dovrà raggiungere la propria indipendenza tecnologica in settori come la robotica e l’industria aerospaziale. Si tratta quindi di una Cina che diventerà sempre meno manifatturiera, intensificando ancor di più i propri investimenti statali verso l’industria high-tech. In altri termini, si tratta di minare dalle fondamenta la supremazia economia americana che, appunto, si basa essa stessa sull’egemonia nel campo tecnologico e nel settore delle infrastrutture strategiche.

Ludovica Pietrantonio

 

https://youtu.be/bpzut9Y87Jo

La caduta del muro di Berlino oggi, trionfo di democrazia e libertà

A trent’anni di distanza abbiamo il compito di ricordare e fare nostro quel desiderio prorompente di pace e sviluppo che portò alla caduta del muro di Berlino, con lo scopo di abbattere i muri innalzati nella società contemporanea.

In questi giorni, nel 1989, tutto il mondo si fermò ad assistere al crollo del muro di Berlino, che divise in due, fin dal 1961, la città tedesca e l’intera Germania. La data ufficiale è quella del 9 novembre, giorno in cui, a seguito di un errore del portavoce socialista Guenther Schabowski in una conferenza stampa internazionale, venne di fatto annunciato che, a partire da quel momento, i tedeschi dell’est avrebbero potuto viaggiare e spostarsi all’estero (e in Occidente) senza bisogno di particolari procedure o motivazioni.

Quella stessa sera centinaia di migliaia di persone della Germania dell’Est, inondarono i checkpoint del muro riuscendo a passare da una parte all’altra, anche perché le guardie non avevano ricevuto ordini e tra di loro prevalse il buon senso di lasciar passare le persone senza aprire il fuoco. La popolazione tedesca, desiderosa di libertà e democrazia, distrusse il muro che per quasi trent’anni l’aveva pesantemente limitata. Fu la fine della Guerra Fredda, dei blocchi contrapposti, dell’Unione Sovietica che piano piano si sfaldò anche grazie alla rivalsa dei popoli dell’Europa dell’est.

Quel giorno di trent’anni fa è giustamente ricordato come uno dei momenti storici per eccellenza di tutto il cosiddetto secolo breve. Nel giro di pochi mesi la divisione tra l’est e l’ovest del mondo veniva meno e l’Europa stessa riabbracciava una parte di essa, il processo di crescita dell’Unione Europea poteva quindi riprendere. Quel muro, oltre a ciò che è già stato detto, era considerato inoltre una delle eredità più gravi che aveva lasciato il secondo conflitto mondiale; abbattendolo le ideologie dominanti in tutto il ‘900 furono demolite, anche se non del tutto cancellate come possiamo notare tristemente oggi.

I vescovi europei della Comece (la Commissione delle Conferenze Episcopali d’Europa) evidenziano come la caduta del Muro sia non solo un evento storico da celebrare ma una grande lezione per tutta l’umanità: la costruzione di barriere fisiche non è mai una soluzione. In tempi in cui i nazionalismi rifioriscono bisogna ricordarsi di come il progetto dell’Ue sia pacifico e volto alla libertà, tramite dialogo e cooperazione.

Anche se innegabilmente non tutte le aspettative furono pienamente soddisfatte, il crollo del muro di Berlino permise all’Europa di diventare più forte e libera, visto che fu uno spartiacque importantissimo per molti paesi dell’est. Per questo non bisogna permettere che nuovi muri vengano costruiti o consolidati in tutto il mondo, specialmente in Europa. Gli esempi lampanti sono i muri che dividono quartieri o aree cittadine in Irlanda del Nord, o i muri che tentano di arginare forzatamente i flussi migratori in Ungheria o al confine tra Stati Uniti e Messico.

Ma le barriere che sorgono oggi non sono solamente fisiche: si parla infatti simbolicamente di veri e propri muri economici, sociali, culturali, i quali non fanno altro che acuire le divisioni tra intere popolazioni. Crescono nuovi focolai di populismi e di estremismi che, incanalati spesso da politiche di odio e di paura, danneggiano e ostacolano l’Ue dall’interno.

Oggi, come il 9 novembre del 1989, bisogna far sì che a trionfare siano la libertà e la democrazia, contrastando la rinascita di barriere simboliche e fisiche, che mirano alla caduta di quel mondo creatosi a seguito del crollo del muro di Berlino.

Luca Sebastiani