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L’eredità di Alcide De Gasperi
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Democrazia e Libertà

Taglio dei parlamentari. Il prezzo di una riforma monca

Rischia di rimanere una riforma a metà il ddl approvato a inizio a ottobre per tagliare il numero dei parlamentari. Sull’iter che deve seguire l’intervento legislativo, bollino di garanzia della maggioranza Pd-Cinque Stelle, pende più di un punto interrogativo. I numeri sono noti, ma è bene comunque ricordarli. I deputati scenderanno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, per un totale di 345 parlamentari in meno. Licenziata dalla Camera con 553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, la riforma costituzionale entrerà in vigore a inizio gennaio, scaduti i tre mesi previsti dalla Costituzione.

L’intervento ha suscitato accese reazioni. Dalle esultanze un po’ scomposte a piazza Montecitorio del Movimento Cinque Stelle, che ne ha sempre fatto una bandiera, alle altrettanto scomposte reazioni di chi ha paventato “un colpo al cuore della democrazia” e alla legittimità del Parlamento. Sull’opportunità politica della riforma è bene tenersi alla larga dalle opposte tifoserie. I sondaggi parlano: non è un mistero che una larga maggioranza dell’elettorato ritenesse da tempo necessario un segnale in questa direzione dal mondo della politica. Anche i numeri parlano, e raccontano un impatto sui costi della politica assai meno incisivo di quello sbandierato dai proponenti. Secondo l’Osservatorio italiano sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, il risparmio netto conseguente alla riforma addirittura non supererebbe lo 0,007% della spesa pubblica italiana.

Numeri a parte, l’incognita più grande dietro il taglio dei parlamentari riguarda l’istituzione che più di tutte viene toccata dalla riforma: il Parlamento. Come è noto, la sola riduzione degli eletti avrebbe un impatto non secondario sull’incisività dei lavori parlamentari nella vita politica del Paese e rischierebbe di alterare una volta per tutte il già precario equilibrio fra potere esecutivo e potere legislativo. Per questo, in cambio di un sì alla riforma, il Pd ha chiesto all’alleato di governo di mettere in campo una serie di interventi legislativi con lo scopo di mitigarne in parte gli effetti. Tra questi, la riduzione del numero dei delegati regionali abilitati a partecipare alle riunioni del Parlamento in seduta comune, la trasformazione da regionale a circoscrizionale della base elettorale del Senato (come alla Camera), l’uniformazione dell’elettorato attivo e passivo fra Camera e Senato (18 e 25 anni). E poi ancora l’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva.

Sul tavolo c’è anche, almeno sulla carta, l’impegno a “limitare in maniera strutturale il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia”. Un proposito nobile, se non fosse accompagnato da una postilla messa nero su bianco dai capigruppo della maggioranza che lascia immaginare un passo indietro. Cioè l’intenzione di intervenire “sulla disciplina del procedimento legislativo allo scopo di dare certezza di tempi alle iniziative del Governo”. Non è chiaro quali debbano essere i nuovi strumenti per dare tempi certi all’azione governativa. Di certo non se ne sente il bisogno impellente, vista l’infinita schiera di ghigliottine e “canguri” che già oggi i regolamenti parlamentari concedono all’esecutivo per interrompere la discussione in aula.

L’impressione è che al di là del risultato politico manchi un preciso disegno istituzionale e una chiara idea sul ruolo che debba spettare al Parlamento una volta alleggerito dei parlamentari “in eccesso”. Rebus sic stantibus, gli effetti de-legittimanti dei poteri dell’istituzione sono evidenti. Sia politici, basti pensare alla pervasività che le segreterie dei partiti potranno vantare su gruppi parlamentari più piccoli e meno inclini alla dissidenza. Sia istituzionali: è il caso della mutata rappresentatività dell’istituzione, che senza correttivi (come una riforma elettorale con annesso ridisegno dei collegi) rischia di penalizzare alcune regioni più di altre (come la Sicilia).

In poche parole, la riforma è incompleta, e così com’è consegna al Paese un Parlamento forse apparentemente più efficiente, ma ancora meno incisivo di quanto già non lo fosse prima del voto di ottobre. Come non bastasse, sul suo completamento pendono due spade di Damocle. La prima è il referendum confermativo che una nutrita pattuglia di parlamentari (compresi, sic!, alcuni Cinque Stelle) intendono chiedere entro gennaio per dare la parola agli elettori. Per farlo serve una minoranza in Parlamento decisa dalla Costituzione pari a un quinto dei membri di una camera, oppure al voto di mezzo milione di elettori o di cinque consigli regionali. I primi due obiettivi non sono fuori portata per i proponenti. Così non è fantascienza la possibilità di un referendum che dilazionerebbe di molto i tempi per l’approvazione della riforma (per i più maliziosi, anche la vita del governo).

La seconda si chiama legge elettorale, ed è la nuova linea Maginot della politica italiana. Non è un mistero con un così drastico taglio dei parlamentari il modello che più garantirebbe la rappresentatività è quello di una legge proporzionale di lista con una soglia di sbarramento piuttosto bassa. È il modello che chiede la maggioranza (non senza divergenze di vedute), che però, stando ai sondaggi, gode di scarsa popolarità nell’elettorato. In alternativa c’è la proposta leghista di un referendum per introdurre un “maggioritario all’inglese”, iniziativa che corre il serio rischio di scontrarsi con la bocciatura della Corte Costituzionale. Così fra mille incognite, il destino della riforma resta in bilico, assieme a quello del Parlamento. Costretta a una brusca cura dimagrante (legittima o meno), l’unica istituzione eletta dai cittadini può uscirne fuori ancora più deperita. Effetto collaterale oppure obiettivo raggiunto?

 

F.B.

La Germania a 30 anni dalla caduta del muro di Berlino secondo Castellani (Luiss)

Qual è lo stato di salute della Repubblica Federale Tedesca a 30 anni dal crollo del muro di Berlino, che portò nel giro di pochi anni alla riunificazione della Germania?

Per una panoramica sulle conseguenze storico-politiche di quell’evento cruciale nella storia europea, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Lorenzo Castellani, storico delle istituzioni politiche e docente presso la Luiss Guido Carli di Roma.

A distanza di 30 anni dalla caduta del muro di Berlino, quanto sono radicate le differenze tra la Germania dell’Ovest e la Germania dell’Est sia dal punto di vista socio-economico ma anche dal punto di vista politico?

La Germania ha sicuramente mantenuto palesi differenze tra la parte orientale e quella occidentale. Quest’ultima è ancora il cuore economico della Germania dove risiedono gran parte delle grandi industrie tedesche. La Germania orientale (ex Germania dell’Est) ha oggi un livello medio dei salari inferiore del 20% rispetto a quelli della Germania occidentale, ed ha una minima parte del grande apparato industriale tedesco all’interno del proprio territorio. Questo determina differenze anche dal punto di vista politico. Nell’area occidentale della Germania c’è ancora un consenso abbastanza solido per i partiti tradizionali, in particolare nei confronti della CDU. Al contrario, nella Germania orientale, stiamo vedendo in molti Länder uno spostamento a destra dell’elettorato verso“alternative für deutschland”. Questo chiaramente determina uno spostamento del baricentro del
sistema politico tedesco ed una maggiore capacità di condizionare l’azione della coalizione di governo da parte dei territori dell’est, a seguito della crescente domanda di cambiamento politico e di radicalizzazione dell’offerta politica.

Considerando il risultato in Turingia (24%) dell’ AFD, se questo differenze dovessero protrarsi o aumentare ulteriormente nel tempo, si potrebbe creare una sorta di parallelismo facendo le dovute proporzioni, con l’annosa questione meridionale italiana?

Fare paragoni con l’Italia è sempre difficile. In Italia il cleavage nord-sud resta irrisolto, come per certi versi, è rimasta senza soluzioni la questione est-ovest in Germania, ma con l’evidente differenza che l’Italia ha avuto anche molto più tempo per risolverla. La questione meridionale italiana, infatti, ha da sempre riguardato maggiormente il livello politico-amministrativo (con evidenti ricadute anche da un punto di vista economico), a differenza della Germania, in cui il problema è eminentemente economico-produttivo. Ovviamente entrambi i Paesi vivono al loro interno fortissime polarizzazioni sociali con la discriminante – non secondaria– che la Germania è uno Stato federale, mentre l’Italia è uno Stato che ha un centralismo debole.

Focalizzandoci sulla CDU, cosa può fare la nuova segreteria targata Karrenbauer per placare l’emorragia di voti a destra? Dovrebbe cercare un’assoluta discontinuità con la precedente segreteria ed in questo caso, cosa potrebbe cambiare a livello europeo?

La discontinuità mi sembra molto difficile perché la figura della Merkel è ancora abbastanza popolare in Germania. In questo primo anno di segreteria della Kramp-Karrenbauer non c’è stata una volontà di discontinuità così netta rispetto al periodo “merkeliano”. La CDU ha di fronte a sé due possibili strade: la prima è quella di allinearsi all’elettorato più conservatore cercando di drenare i consensi confluiti verso “alternative für deutschland”, quindi assumendo una maggiore durezza dal punto di vista della politica fiscale ed una maggiore intransigenza nella gestione dei flussi migratori; la seconda opzione è quella, invece, di puntare sull’espansione fiscale quindi di varare manovre di intervento pubblico e detassazione più massicce, per cercare di riassorbire il malcontento oltre ovviamente a mantenere una linea sull’immigrazione abbastanza ferma – ma non estremizzata come quella del’AFD – poiché molto di quel consenso deriva dalla questione dell’immigrazione. La seconda ipotesi imporrebbe anche un cambiamento delle regole ed un allentamento dei vincoli europei e ,di fatto, porterebbe ad una Germania meno avvitata su di sé e più “europeista”.

È evidente che la CDU dovrà scegliere verosimilmente tra i verdi che sono appunto una forza nascente o l’AFD. Oggi lo scenario “alternative fur deutschland” come alleanza a destra della CDU sembra quasi fantascienza o comunque sembra una ipotesi residuale. In realtà diversi analisti della politica tedesca nel lungo periodo non escludono che questa saldatura possa avvenire. Al contrario con i verdi sarebbe un’alleanza di tipo centrista, da leggere in un’ottica di sviluppo di integrazione europea e di ammorbidimento dei vincoli fiscali europei.

 

Antonio Mancuso e Nicolò Tozzi

 

Il video dell’intervista:

https://www.youtube.com/watch?v=U40Zc0pK25Q

La riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari secondo Celotto

Ottenuta l’approvazione definitiva dall’aula di Montecitorio, il disegno di legge costituzionale per la riduzione del numero di deputati (da 630 a 400) e senatori (da 315 a 200) pone molti interrogativi sull’evoluzione e sulle prospettive di sviluppo della democrazia parlamentare, quanto meno per come l’abbiamo conosciuta dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. A seguito della riforma, infatti, il numero degli abitanti per deputato aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero di abitanti per ciascun senatore, invece, cresce da 188.424 a 302.420. Questo comporterà la necessità di ridisegnare i collegi con un’altra legge. In merito alla questione, il prof. Alfonso Celotto, docente di diritto costituzionale presso l’Università di Roma, è stato raggiunto per una breve intervista dalla Fondazione De Gasperi.

Professore, secondo lei è in corso, a seguito dell’approvazione della legge sul taglio di deputati e senatori e assieme al progetto in calendario sull’introduzione del referendum propositivo in costituzione, una precisa operazione politica volta allo smantellamento della nostra democrazia parlamentare?

In realtà stiamo assistendo da parecchio tempo al disfacimento della democrazia rappresentativa!

Perché?

La questione di fondo è un’altra. Credo, infatti, che la democrazia rappresentativa abbia perso la sua vera “sostanza” politica, soprattutto a causa della disaffezione dei cittadini e degli elettori nei confronti della politica stessa e per la crescente irrilevanza dei partiti, che erano le cinghie di trasmissione fra il cittadino e il “palazzo”. Tagliare il numero dei parlamentari crea, certamente, dei problemi di rappresentanza. Com’è stato già rilevato, alcune regione rischiano seriamente di rimanere senza rappresentanti al Senato, con la conseguenza di un aumento della distanza che separa i cittadini dagli eletti. Tuttavia, io porrei la vera problematica di fondo attorno al funzionamento della macchina parlamentare, perché – al giorno d’oggi – la crisi del Parlamento discende essenzialmente da fattori tecnici come, ad esempio, la mancata riforma del bicameralismo paritario, assieme a tutta una serie di regole e norme interne alle due Camere, che ne minano la reale capacità di discussione e di deliberazione nell’iter legislativo. Di fatto, la riduzione dei parlamentari è una riforma costituzionale “monca”, che porterà soltanto a nuove problematiche di rappresentatività del Parlamento; mentre il referendum si muove, invece, su un’altra linea, ovvero quella di ricercare un recupero di rappresentatività e partecipazione popolare con nuovi strumenti. Onestamente, per come è configurato dalla proposta di legge costituzionale, non so se sarà vincente questa strategia.

Tornando, invece, alla questione della necessità di ridisegnare i collegi elettorali, ci sarà il rischio concreto di un Senato non più con una elezione su base regionale?

Allo stato attuale delle cose, bisognerebbe scindere il nodo sul ruolo da assegnare al Senato. L’Assemblea Costituente nel ’48 aveva prefigurato “Palazzo Madama” come una sorta di Assemblea delle future Regioni, anche se questo proposito non si è mai completamente realizzato. La questione fondamentale di oggi, in realtà, è rinvigorire il piano della rappresentatività e chiarire in maniera definitiva la funzionalità e il perimetro d’azione delle due Camere. Progettata e attuata in questa maniera, la riforma costituzionale rischia soltanto di limitare la rappresentatività reale, portando ad un irrisorio e impercettibile risparmio nel bilancio dello Stato.

Luca Di Cesare e Gian Marco Sperelli, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

 

https://www.youtube.com/watch?v=zYrcVWjtc2s

 

Articolo di Domenico Lombardi, Advisory Board, Fondazione De Gasperi

Towards a Decentralized Eurozone—A draft agenda for (possible) reforms

Recently the Fondazione De Gasperi attended a workshop organized by the Wilfried Martens Centre in Brussels. The aim was two-fold: on the one hand, to distill some stocktaking from the euro sovereign debt crisis, on the other, to discuss some long-needed reforms. The high-level discussion – under Chatham House rule – benefitted from attendance of academic economists, policy advisors, think-tank scholars and practitioners from within the EU. All in all, it registered some convergence as well as still some distance.

Here are some personal takeways from the general discussion I joined. There was broad agreement that nowadays being pro-European does not necessarily entail supporting further integration. Neither entails passively accepting the wisdom coming from Brussels or Frankfurt.

Indeed, as was noted, some tensions embedded in the Eurozone architecture were evident at the very outset but was deliberately chosen not to tackle them fearing it would be politically divisive. For instance, a monetary union without a banking union is intrinsecally fragile because of the doom loop between government finances and banks’ holdings of (sizeable) stocks of government bonds. Yet, today the banking union is still incomplete with the Single Supervisory Mechanism that came into effect only in 2014, but with no European insurance deposit mechanism. Likewise, there is a broad sense that the current framework to oversee national budgets from Brussels lacks trasparency and predictability, and does not offer confidence that it is evenly implemented.

Against this background, the discussion centered on the key reasons of the recent crisis as a way to prioritize much-needed reforms. Fiscal discipline, as agreed and codified by the members of the Eurozone, was never implemented by each and every country at the same time, as one presenter noted. Yet, that was not the only critical factor at work in spurring the sovereign debt crisis. It was rather its combination with the lack of a banking union as well as a minimimalist interpretation of the European Central Bank’s mandate that resulted into an explosive mix.

Indeed, as one of the paper presented clearly stated, fiscal discipline is not just a matter of keeping public finances under control, but it also relies on a sound and stable banking system. If a banking crisis breaks, the fiscal position may quickly deteriorate, as it happened in Ireland and Spain. This triggered the introduction of the banking union, which has not been completed yet. Even so, in the event a crisis erupts for whatever reason, the central bank acts as a firewall to mitigate its propagation to the rest of the financial system and of the economy by providing lending of last resort to the distressed bank. This firewall can’t be automatically erected (i.e. lending provided by default) as that would encourage moral hazard. In the case of a monetary union, this gets more complicated as it inevitably adds a distributive dimension across the various countries of the union itself. That explains why the European Central Bank didn’t feel equipped to intervene at the outset of the crisis and waited til the summer of 2012 when Mario Draghi and his “whatever it takes” statement on July 26 in London paved the way to the introduction of an unprecedented set of measures that soon begun to stabilize Eurozone markets.

While the euro is still a young currency, one can already attempt at drawing some lessons, at least in terms of what not to do. First, thinking of improving fiscal discipline by simply adding more rules and more constraints is only going to make the overall framework more opaque and uneven in its implementation. Such a framework — as currently set up — even provides ammunitions to those who are in principle against the common currency. Rather, the emphasis should be on the long-term sustainability of public finances so as to avoiding fuelling disagreements on shorter-term measures and targets. For instance, in its simplest formulation and just for the sake of illustrating my point, this could consist of a commonly-agreed reduction in the debt-to-GDP ratio over a longer period, say, five years. Each country, in turn, would decide how much it wants to act on the numerator through public finances stabilization measures versus on the denominator through growth-enhancing measures. A very simple scheme along these lines would go a long way in providing significantly more ownership in the management of fiscal policy and addressing the overintrusion associated with the current setup.

Another issue that was debated was how to tackle the sizeable balances within TARGET2 – the real-time gross payment settlement mechanism run by the Eurozone national central banks and the ECB. A group of creditor countries holds significant credit positions while earning no interest income on those balances. A presenter, in fact, suggested to charge an interest rate on the debtor balances. While from an accounting perspective this may make sense, I believe it does not address the broader problem one should try to address here. That is, a monetary union with structural current account imbalances forces debtor countries to correct the imbalances by taking the entire burden of the adjustment. In so doing, the monetary union is structurally recessionary as equilibrium is achieved through compression of aggregate demand in the deficit countries. A much better equilibrium would be if adjustment were symmetric with both creditor as well as debtor countries. This is exactly what has not happened in the Eurozone since inception. Germany, for instance, has run and – in the IMF’s forecasts – will be running current account surpluses in defeat of any macroeconomic cooperation. Therefore, one of the key challenges for the sustainability of the Eurozone is to credibly incorporate this key macroeconomic dimension into the common policy setup.