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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

TANGENTOPOLI, 25 ANNI DOPO

“Sarà la politica stessa che tornerà e porrà un fine agli strafalcioni che hanno falsato la storia e le verità, e che ricondurrà le soluzioni tecniche o pseudo-politiche sul loro binario senza uscita e le cose politiche invece sul loro. Esse stanno del resto ben al di sopra, perché hanno dato e danno alla società la misura delle loro possibilità, delle loro capacità, delle loro debolezze e delle loro grandezze” ( Bettino Craxi)

25 anni dopo Tangentopoli, quale bilancio si può stilare? Dall’implosione del sistema politico italiano all’inizio degli anni ’90 dopo la tempesta giudiziaria di ‘’Mani pulite’’, molte cose sono cambiate nel nostro panorama politico, ma altrettante sono rimaste intatte. Anzi, nel corso di questi venticinque anni alcuni tratti peculiari negativi del popolo italiano sono cresciuti in maniera esponenziale: sfiducia completa nelle istituzioni dello Stato e un odio crescente e viscerale per le formazioni partitiche – di ciò che ne rimane – senza distinzioni di schieramenti o bandiere. L’ondata di antipolitica nel nostro paese non solo sembra non avere fine, ma addirittura nella sua folle rincorsa verso il nulla ci mostra nuove sfumature, e in alcuni casi, ci ripropone forme mai del tutto scomparse di risentimento della società italiana nei confronti della propria classe politica.

Marx, nel commentare il colpo di Stato del 1851 in Francia di Luigi Napoleone Bonaparte, affermava che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in forma di tragedia, la seconda in guisa di farsa. Il consenso “grillino” si colloca in una direzione già battuta nel corso della nostra storia come partito anti-casta, ma con una differenza sostanziale – e per certi versi geniale – rispetto ai movimenti antipolitici che lo hanno preceduto (qualunquismo e in parte anche il berlusconismo): offrire ai propri militanti e simpatizzanti la possibilità, almeno in apparenza, di riprendere il controllo sull’attuale situazione politica e soprattutto di riprendere in mano le proprie vite. Lo strumento grillino per la ri-politicizzazione in senso identitario della comunità politica è la piattaforma web: la suggestione rousseauiana della democrazia diretta torna assoluta protagonista, contrapponendosi ad una democrazia rappresentativa irrimediabilmente corrotta e incapace di rispondere alle sfide politiche del nostro tempo. E poco importa se, in realtà, la tanto decantata utopia rousseauiana del Movimento 5 Stelle cela dietro di sé una struttura organizzativa oligarchica e autoritaria. L’unico dogma da rispettare e venerare nell’universo “pentastellato” è l’abbattimento della classe politica. E non ha alcuna importanza che l’intellighenzia grillina non abbia una reale proposta politica da realizzare dopo la distruzione dell’attuale classe dirigente. L’unico obiettivo è ricostruire una comunità politica a misura d’uomo che sia onesta e incorruttibile, secondo lo schema – ribadito più volte dallo stesso Grillo – della cosiddetta “decrescita felice” (espressione presa in prestito impropriamente dal grande scrittore Goffredo Parise).

Italian Fininvest president Silvio Berlu

Vi è un abisso tra l’antipolitica dei giorni nostri del Movimento 5 Stelle e quella berlusconiana di metà anni ’90. La proposta politica berlusconiana, per dirla con Giovanni Orsina, è stata una felice e riuscita emulsione di elementi dell’antipolitica qualunquista con ideali di matrice liberale, incarnati alla perfezione nel suo leader carismatico. Se per oltre 50 anni il nostro paese fu attraversato da profonde divisioni ideologiche come l’anticomunismo e l’antifascismo, il berlusconismo rappresentò una via d’uscita a quella mistificazione ideologica, già denunciata in parte dal qualunquismo all’inizio della storia repubblicana d’Italia. Questa via d’uscita fu parziale, perché il berlusconismo riuscì a cavalcare pur sempre in maniera straordinaria la retorica anticomunista, puntando sulla diffidenza mai sopita di buona parte degli elettori moderati nei confronti dell’ex Partito Comunista. In questo senso il berlusconismo rimase un fenomeno politico per certi versi ancora novecentesco. Ma ebbe pur sempre l’intuizione e il merito di sdoganare definitivamente il vecchio MSI, poi evolutosi in  Alleanza Nazionale, in un alleato stabile nella coalizione di governo.

Questa trasformazione epocale del nostro sistema politico, con un’implicita riconfigurazione anche del sistema valoriale repubblicano, da quale evento scatenante fu resa possibile? Tangentopoli spazzò con i suoi processi di piazza, nel giro di pochi anni, gran parte della classe dirigente della Prima Repubblica, lasciando un enorme vuoto politico, pronto ad essere sfruttato da nuove formazioni partitiche. Certamente questa svolta venne favorita ed influenzata dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla fine del bipolarismo globale. Gli italiani si sentirono nel biennio finalmente liberi di poter punire la vecchia compagine governativa nelle elezioni politiche tra il 1992 e il 1994, e soprattutto con i referendum abrogativi del 1991 e del 1993 che trasformarono il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, pur sempre con aggiustamenti in chiave proporzionale. In realtà l’odio e l’insofferenza che esplose per i politici nel biennio 1992-1993, sproporzionato per veemenza in confronto ai demeriti concreti di quella classe politica, affondavano le proprie radici storico-politiche già negli albori della neonata repubblica. Furono gli elettori della compagine governativa – in particolar modo quelli della DC – a prendersi la tanto agognata rivincita decretando la fine di un pezzo fondamentale della storia politica italiana.

Per gli elettori, infatti, non c’era stata altra via se non sopportare la “conventio ad excludendum” in ottica anticomunista, che ruotava attorno alla “Balena Bianca”. A farsi interpreti dell’euforia giustizialista e giacobina di quei giorni furono senz’altro i magistrati di Mani Pulite. La smania di cambiamento e di risoluzione immediata dei problemi dello Stato fu il lascito maggiormente negativo di quell’ondata irrazionale e per certi versi, inspiegabile di antipolitica. Ne facciamo ancora oggi i conti. In fondo la rivoluzione liberale berlusconiana fu travolta da questa spasmodica ricerca di risultati immediati da parte di una massa di elettori, sempre più insofferenti e insoddisfatti da tutto ciò che riguarda la politica. La speranza nella società civile – ingrediente essenziale della proposta ipo-politica berlusconiana – si infranse contro i limiti oggettivi e strutturali del nostro Paese. L’Italia non è mai stato in fondo un paese liberale. Oltre a questo vi furono errori macroscopici dello stesso Berlusconi, nella selezione della classe dirigente del proprio partito.

Dell’entusiasmo e dell’euforia di quel berlusconismo post-Tangentopoli non vi è più traccia nella nostra società politica. Ormai nel nostro panorama politico regna sovrano il catastrofismo riguardo a qualsiasi scenario futuro. Forse si rincorre a folle velocità un possibile cataclisma politico, capace di redimere l’intera società italiana da quel peccato originale di 25 anni fa. A quel punto, forse, la politica potrebbe tornare al posto di comando che le spetta e da cui ha abdicato un quarto di secolo fa. Proprio perché, per dirla con Gasset, l’uomo massa in fondo può imparare solo sulla propria pelle.

Gian Marco Sperelli

LA SUSSIDIARIETA’ COME CRITERIO DI ORGANIZZAZIONE DI UNA SOCIETA’ LIBERA E ORIENTATA AL BENE COMUNE

[Articolo pubblicato sul n.90/2016 della rivista “L’Arco di Giano”]

di Carlo Deodato

La riflessione su un parametro di organizzazione della Res Publica che valorizzasse, allo stesso tempo, le esigenze di efficacia dell’esercizio dei poteri pubblici e quelle di rispetto dell’autonomia delle società intermedie ha condotto alla individuazione del principio di sussidiarietà come quello più capace di coniugare il valore di un’efficiente disciplina dell’autorità dello Stato con quello della libertà e della dignità della persona, nelle sue esplicazioni associative.

Il canone della sussidiarietà è stato, in particolare, identificato come quello più idoneo a garantire la ricerca e la realizzazione del bene comune e può essere definito, in via generale, come quel paradigma che impone di favorire i corpi intermedi e le istituzioni pubbliche più vicine alla persona. 

Il suo fondamento logico ed etimologico può essere rintracciato nel lemma subsidium (Hoffner), originariamente utilizzato nel lessico militare per indicare le truppe di riserva incaricate di soccorrere le coorti impegnate sul fronte di guerra, che esprime semanticamente l’idea del sostegno che le società maggiori devono garantire a quelle minori e che, implica, a sua volta, il concetto di solidarietà (di cui costituisce una delle più vistose declinazioni).

In altre parole, si tratta dell’aiuto che la comunità deve garantire a tutte le membra del suo corpo sociale (Von Nell-Breuning).

Ovviamente la nozione di sussidiarietà, che comprende, in sé, il concetto dell’aiuto che le istituzioni più grandi devono assicurare a quelle intermedie, è stata, poi, intesa come riferita anche all’idea complementare dell’autonomia delle seconde dalle prime.

In quest’ultima accezione, quindi, la sussidiarietà esige che lo Stato rispetti e garantisca l’autonomia sia degli enti pubblici inferiori, sia delle formazioni private che operano per l’interesse generale.

Si tratta di un principio che attiene all’ordine naturale delle relazioni non solo tra il potere dello Stato e l’autonomia delle collettività minori, ma anche di quelle tra l’autorità pubblica e la libertà dei cittadini.

Il principio di sussidiarietà rileva, in altri termini, sia nella distribuzione delle funzioni tra le istituzioni pubbliche sia nella regolazione dei rapporti tra queste ultime e i soggetti privati.

E, in quest’ottica, opera in una duplice direzione: verticale e orizzontale.

La sussidiarietà verticale si esplica nell’ambito dell’allocazione di competenze amministrative tra diversi livelli di governo territoriali ed esprime la modalità d’intervento – appunto, sussidiario – degli enti territoriali superiori rispetto a quelli minori, che resta legittimato solo nei casi in cui l’esercizio delle funzioni da parte dell’organismo inferiore risulti inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi connessi alla funzione.

Nel suo significato ultimo, il principio di sussidiarietà verticale postula, quindi, che il potere proceda dal basso verso l’alto, perché proprio in basso trova il suo titolo originario e la sua formula ottimale di esercizio.

Tradotto nei termini di un riparto di attribuzioni, il principio di sussidiarietà implica che la competenza generale dev’essere naturalmente intestata al livello inferiore, mentre solo una funzione precisata e delimitata va imputata al livello superiore.

Il principio di sussidiarietà orizzontale prevede, invece, che le Istituzioni devono favorire e sostenere le iniziativa spontanee dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, che non possono intendersi riservate in via esclusiva alle amministrazioni pubbliche.

In altri termini, dovranno essere valorizzate le forme di organizzazione spontanea della società civile (secondo dinamiche di natura associativa) per la gestione dei servizi da offrire alla comunità (senza frapporre ostacoli o impedimenti alla loro naturale operatività).

Entrambe le riferite declinazioni del principio di sussidiarietà rivelano un evidente sfavore per il monismo assolutizzante connesso alla concentrazione del potere presso la sola autorità statale.

La potestà pubblica, in altri termini, non può essere concepita come implicante l’attribuzione al solo Stato delle funzioni preordinate alla realizzazione del bene comune, secondo una logica monopolistica, di genesi illuministica, dell’interpretazione di quest’ultimo, ma dev’essere ordinata e regolata in modo da favorire la sua articolazione territoriale e da garantire il suo esercizio diffuso e pluralista.

In questa prospettiva il rispetto del principio di sussidiarietà opera sia come criterio (positivo), sia come limite (negativo) della disciplina (e dell’esercizio) del potere pubblico.

Come paradigma di organizzazione dell’autorità, la sussidiarietà impone che lo Stato sostenga le comunità più piccole, in quanto più prossime ai cittadini, e ne garantisca al contempo l’autonomia; come confine alla sua esplicazione impedisce, invece, che l’autorità amministrativa e di governo comprimano gli spazi di libertà riconosciuti alle iniziative private, che si esprimono nei corpi intermedi, finalizzate alla realizzazione dell’interesse generale.

La sussidiarietà rifiuta ogni forma di centralismo e rigetta qualsivoglia ipotesi organizzativa che si fondi sul riconoscimento allo Stato dell’esegesi esclusiva del bene comune e della piena realizzazione dei cittadini. 

La sussidiarietà è incompatibile con lo statalismo e con una concezione burocratica, invasiva e assistenziale dei rapporti tra lo Stato e i cittadini.       

Il carattere naturale della regola della sussidiarietà e delle sue implicazioni organizzative è confermato, peraltro, dalla risalenza temporale e dalla universalità della sua affermazione.

Già Aristotele aveva intuito la portata del principio di sussidiarietà quando aveva precisato che l’autorità della polis doveva intendersi circoscritta al solo esercizio delle funzioni essenziali per il benessere dei cittadini, mentre dovevano riconoscersi spazi di autonomia alle comunità minori (come i villaggi).

Ma anche San Tommaso, declinando la nozione dell’uomo come imago Dei, e, quindi, come soggetto creato naturalmente libero e responsabile, nei rapporti con lo Stato, aveva chiarito che spetta a quest’ultimo sostenere la persona ed aiutarla a realizzare il suo destino di pienezza.

La Dottrina Sociale della Chiesa ha, poi, chiarito presupposti, fondamento e caratteri del principio di sussidiarietà.

Prima Leone XIII, con l’enciclica Rerum novarum del 1891, e, poi, Pio XI, con l’enciclica Quadrigesimo anno del 1931, hanno, in particolare, enunciato il principio per cui lo Stato deve astenersi dall’intervenire nel disbrigo di questioni che possono essere più efficacemente risolte dagli individui o dalle comunità minori, deve limitarsi, quindi, a gestire i soli affari che necessitano di un intervento pubblico centrale e, soprattutto, deve “aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle o assorbirle” (lettera enciclica Quadrigesimo anno).   

Ma tutti i Pontefici hanno, poi, ribadito l’esigenza che l’autorità statale non superi il limite invalicabile connesso alla necessità di rispettare l’autonomia dei cittadini, singoli o associati, e si limiti a intervenire per regolare solo ciò che non può essere autonomamente gestito da essi, dovendo, al contrario, favorire le iniziative assunte spontaneamente dalle forze sociali e finalizzate a soddisfare i bisogni della comunità (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2005).  

Un’attenzione particolare è stata, in particolare, dedicata dalla Dottrina Sociale della Chiesa ai temi della famiglia e dell’educazione, con la precisazione che, per entrambi gli ambiti, l’autorità pubblica deve svolgere un ruolo di sostegno e di aiuto, ma non di sostituzione.

La famiglia, in particolare, partecipa di una natura originaria di autonomia, che impedisce allo Stato ogni intervento che ne limiti o conculchi gli spazi di libertà (Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio).  

Ma anche l’insegnamento e la formazione non possono essere monopolizzati dallo Stato ed esigono il rispetto di un ambito di autonomia da indebite e sproporzionate ingerenze pubbliche.

Il criterio della sussidiarietà è stato recepito come parametro fondamentale pure dal legislatore costituente (anche se non dall’origine della Carta, ma solo con la riforma del Titolo V del 2001), in entrambe le accezioni sopra ricordate (verticale e orizzontale).

Unitamente all’articolazione dell’organizzazione amministrativa della Repubblica secondo un sistema di multilevel governance, è stata, infatti, prevista la sussidiarietà (art.118, primo comma) come uno dei criteri dell’allocazione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, con l’espressa previsione che le competenze devono essere assegnate prioritariamente ai Comuni e, solo in via sussidiaria, alle Province, alle Regioni o allo Stato.

Si tratta della più limpida espressione della sussidiarietà verticale, nella misura in cui enuncia la regola generale dell’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni, e, quindi, al livello di governo più prossimo ai cittadini, e prevede l’assegnazione agli enti territorialmente maggiori solo dei compiti che esigono un esercizio progressivamente unitario.

La valorizzazione del vincolo di vicinanza ai cittadini nell’organizzazione dello Stato rinviene, quindi, nella Costituzione italiana un riconoscimento chiarissimo e del tutto coerente con il fondamento logico e filosofico del principio di sussidiarietà.

Così come anche la sussidiarietà orizzontale è stata costituzionalizzata nel 2001, mediante la previsione (all’art.118, quarto comma) del dovere (l’uso del verbo “favorire” all’indicativo presente segnala l’obbligatorietà del comportamento) delle amministrazioni pubbliche, di tutti i livelli di governo, di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Nonostante il carattere di norma programmatica, sprovvista, come tale di sanzione, la disposizione costituzionale significa in maniera univoca la necessità che la Repubblica, in tutte le sue articolazioni territoriali, favorisca le forme spontanee di organizzazione privata finalizzate all’espletamento di servizi di interesse della collettività, con il duplice corollario che il potere amministrativo e quello esecutivo devono agevolare le forme associative di cooperazione all’azione amministrativa e non possono frapporre ostacoli o difficoltà di ordine burocratico o normativo al loro autonomo sviluppo.

Si tratta, anche in questo caso, di un’enunciazione del tutto coerente con l’elaborazione del principio di sussidiarietà orizzontale da parte della Dottrina Sociale della Chiesa, a conferma dell’assoluta consonanza della riflessione ecclesiastica con la normativa fondamentale dello Stato nella definizione del più ordinato assetto dei rapporti tra l’autorità pubblica, i cittadini e la società civile.          

Non solo, ma anche l’Unione europea conosce il principio di sussidiarietà come una regola fondamentale nell’individuazione del livello di competenza più appropriato.

L’art. 5 del TFUE sancisce, infatti, espressamente, che la competenza dell’Unione è limitata alle sole questioni che non possono essere più utilmente ed efficacemente trattate dai singoli Stati membri, a ulteriore conferma che si tratta di un canone di distribuzione delle competenze che attiene a un ordine organizzativo naturale (che favorisce le istituzioni più vicine ai cittadini e che consente l’esercizio delle funzioni da parte di Istituzioni più lontane da essi solo quando sia necessario per il corretto esercizio della competenza).

Ma la valenza universale del canone della sussidiarietà è rivelata anche dal suo più autentico fondamento logico e, per certi versi, ontologico, che non può che essere rintracciato nel principio personalistico (o personalista).

Si tratta di un principio che, anch’esso, informa e fonda l’architettura sia della Dottrina Sociale della Chiesa, sia della Costituzione.

Esso si fonda sul presupposto del primato della persona, rispetto allo Stato, ed implica il corollario secondo cui quest’ultimo è al servizio della prima, e non la prima al servizio del secondo.

Il principio personalistico, che obbedisce a una concezione naturale dei rapporti tra l’individuo e la collettività e che postula la superiore dignità della persona rispetto all’autorità dello Stato, si è affermato in una logica di reazione alle contrarie visioni totalitarie della predetta relazione.

Dapprima in ambito filosofico (Hobbes, Rousseau, Hegel, seppur con accenti diversi) e, poi, in ambito politico (i diversi totalitarismi del ventesimo secolo) è sembrata affermarsi (e, anzi, si è, spesso, concretamente e drammaticamente affermata) una visione secondo cui lo Stato prevale sull’uomo e le istanze di libertà di quest’ultimo restano subordinate agli interessi dell’autorità statale (che assorbe ed esaurisce, in sé, i diritti dei cittadini e dei corpi intermedi).      

A questa concezione monistica e totalizzante dello Stato si sono contrapposte sia la Dottrina Sociale della Chiesa, sia le costituzioni democratiche e liberali occidentali (ma, prima, anche pensatori come Althusius).

Quanto alla prima, è sufficiente ricordare che per la Chiesa, l’uomo, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, è titolare di diritti di libertà naturali e incomprimibili.

Il più immediato corollario di tale concezione è costituito dall’affermazione che la persona, così come la famiglia (che ne costituisce la prima e più naturale espressione sociale), preesiste allo Stato e che quest’ultimo deve tutelare e promuovere i diritti dell’uomo, e non limitarli o conculcarli.

In altre parole lo Stato esiste per proteggere e favorire il libero sviluppo della persona umana nella comunità, e non certo per annientarne la naturale aspirazione a una piena realizzazione della sua dignità.

Ma anche la Costituzione repubblicana si fonda sul principio personalistico, là dove riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali (art.2), e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma).

La reazione alle tragiche esperienze totalitarie del ventesimo secolo in cui la dignità e la libertà dell’uomo sono state disprezzate, annientate e sacrificate sull’altare pagano dello Stato assoluto (anche di matrice collettivista) è stata costituzionalizzata con l’affermazione rivoluzionaria del principio del primato della persona sullo Stato (e non viceversa).

E’ lo Stato che serve allo sviluppo dell’uomo e alla sua piena realizzazione; e non è la persona ad essere destinata ad annullarsi nelle imperative istanze dell’autorità statale, con la conseguenza che anche quando gli interessi dei cittadini devono essere limitati in ragione della superiore esigenza di tutelare gli interessi generali, il sacrificio si iscrive, comunque, in una logica di preordinazione dell’organizzazione pubblica alla promozione della persona e non si giustifica in sè (Mortati).

Aldo Moro ammoniva, al riguardo, con una sintesi linguistica mirabile, che “uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana”.

Un ulteriore corollario del principio personalistico va, inoltre, ravvisato nel divieto, per l’autorità statale, di intervenire nella intangibile sfera della personalità del cittadino, nelle sue espressioni fisiche e morali, che restano salvaguardate dalla Costituzione in “lunghezza, larghezza, profondità” (Mounier).     

Il principio di sussidiarietà e quello, presupposto, personalistico non restano, tuttavia, fini a se stessi, ma risultano preordinati ad assicurare la più efficace e ordinata realizzazione del bene comune.

Il bene comune, detto da San Tommaso principalissimum (per la sua valenza suprema, rispetto a ogni altro valore), per quanto diversamente declinato nelle diverse concezioni dello Stato, non si esaurisce, in ogni caso, nella somma degli interessi particolari (enciclica Centesimus annus), e costituisce quel complesso di condizioni, economiche e sociali, che consentono ai cittadini, singoli o associati, e alle famiglie di conseguire la loro piena e più soddisfacente realizzazione (enciclica Gaudium et spes).

Perché sia conseguito il bene comune non è, tuttavia, sufficiente che lo Stato, in ossequio al principio di sussidiarietà, favorisca la libera iniziativa privata verso attività di interesse generale e garantisca l’autonomia dei corpi intermedi, ma è necessario che questi ultimi esercitino la libertà in maniera responsabile e orientata alla realizzazione dei valori (anche etici) che fondano e giustificano la convivenza.

La società civile, le famiglie, le associazioni, il volontariato devono, in altri termini, avvertire una corresponsabilità nel perseguimento del bene comune e usare l’autonomia e la libertà che (giustamente) esigono dallo Stato per cooperare in maniera attiva, consapevole ed efficace alla promozione della persona e allo sviluppo della comunità.

Solo la sinergia tra il potere pubblico e la responsabile collaborazione della società civile e delle organizzazioni private può garantire, in definitiva, il raggiungimento del bene comune, in una sintesi equilibrata dei diritti di libertà della persona, dell’autonomia dei corpi intermedi e delle esigenze della collettività.

INTERVISTA SU ALCIDE DE GASPERI A LILIANA CAVANI

A pochi giorni dalla celebrazione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, pubblichiamo un’intervista di gennaio alla regista Liliana Cavani, David di Donatello alla carriera, che ci racconta il suo sceneggiato RAI su uno dei padri fondatori dell’Unione Europea: Alcide De Gasperi.


D: Dottoressa Cavani, lei ha girato uno sceneggiato RAI su De Gasperi intitolato “De Gasperi: l’uomo della speranza”: da dove nasce l’esigenza di approfondire la storia del fondatore della DC?

R: Nel 1965 avevo girato un documentario che si chiama La donna nella resistenza: moltissime delle donne toscane, lombarde, emiliane e venete che ho intervistato erano cattoliche. Quando ho girato quel documentario mi sono resa conto che c’è stato un ruolo dei cattolici nella resistenza, forse numericamente inferiore, ma certamente notevole, che è stato poco raccontato.

La resistenza fu anche resistenza cattolica, molto più di quanto non sia stata resa nota. Nel mio paese ad esempio, a Carpi, c’è stato un movimento partigiano cattolico molto importante. Lì viveva il padre di una mia amica di scuola, Odoardo Focherini, che lavorava in un giornale cattolico a Bologna. Ha salvato più di cento ebrei, è morto ad Auschwitz ed è stato dichiarato un giusto dallo Yad Vashem. Nelle successive amministrazioni comuniste a Carpi non ci fu nessun impegno particolare per onorare un uomo così.

Per questo ho voluto raccontare De Gasperi: lui portò avanti il movimento fondato da don Sturzo e fu l’esempio più chiaro di come i cattolici fossero profondamente impegnati nella società. De Gasperi è stato veramente uno dei capi di governo più grandi d’Europa, con una vita fatta di alti e bassi determinati dalla sua visione del mondo, una visione giusta e bella. Credo che abbia sempre ricevuto molto poco in compenso.

D: Per questo ha deciso di produrre il suo film per la RAI. Come è andata?

R: Quando io ho ricostruito la storia di De Gasperi, la RAI non lo voleva neanche trasmettere, non si decidevano a farlo. Io allora conoscevo il Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, che ci diede senza problemi il permesso di farlo vedere in un’aula del parlamento. Solamente quando decidemmo di proiettarlo alla Camera dei Deputati la RAI si decise a trasmetterlo.

D: Ci sono state difficoltà durante le riprese, magari nella ricostruzione di alcuni episodi storici?

R: No, niente di tutto questo. Maria Romana De Gasperi è stata disponibilissima, in pratica le abbiamo smontato casa a Sella Valsugana (ride). È stata un’esperienza molto utile per tutto il cast. Ricordo ancora la scena finale girata in quella casa, quando De Gasperi muore disteso sul letto circondato dalle figlie. Era finzione ovviamente, eppure girando il film ci eravamo affezionati al personaggio di De Gasperi: eravamo tutti commossi e la troupe piangeva.

D: Un uomo di un altro tempo..

R: Di un altro tempo secondo me non si può dire. Aveva una visione politica di un altro tempo, ma nel senso di un tempo che ancora doveva venire. Non tutti i suoi compagni di partito la avevano compresa. Molti di questi uomini della Democrazia Cristiana erano entrati nel partito senza averne compreso l’anima.

D: Lei ha detto che De Gasperi è un politico immeritatamente dimenticato. C’è una frase che disse il repubblicano Pacciardi sulla morte di De Gasperi e che è emblematica a riguardo: “Gli uomini come De Gasperi l’Italia non li ama. L’Italia ama Garibaldi ma non Mazzini, ama D’Annunzio ma non Croce”. Secondo lei è vero che l’Italia non ha amato De Gasperi?

R: No, assolutamente. L’Italia ha amato moltissimo De Gasperi. È vero però che la sua figura non è stata raccontata a sufficienza dai media. Io l’ho conosciuto attraverso alcuni testi e le testimonianze e mi sono posta il problema: come è possibile? Io credo che neanche la DC, il suo stesso partito, abbia difeso e valorizzato abbastanza la sua immagine.

D: Lei crede che in quegli anni si è lasciata in mano alla sinistra la sfida della cultura?

R: Sì, o quanto meno la sfida della comunicazione culturale. Non era però la sinistra che immaginiamo oggi, anche io ero di sinistra, ma non ero di certo iscritta al Partito Comunista.

Quando io ho iniziato da giovane a lavorare e a fare il mio mestiere non capivano se fossi cattolica o comunista. All’epoca c’era questa abitudine di dover etichettare le persone. Io vengo da una famiglia atea, ma anche le persone che non vanno in Chiesa possono avere una morale o un’etica, fondata non tanto sul Vangelo quanto su un’educazione civica, ma pur sempre valida. Io il primo film su San Francesco l’ho fatto nel 1965: colpì perché avevo descritto anche il lato della visione sociale di Francesco, e non solo quello del lupo e degli uccellini. Allora mi definirono “cattolica di sinistra”: bisognava dare a tutti i costi un’etichetta. Se non ero comunista, qualcosa dovevo essere per forza. Adesso le cose sono cambiate, per fortuna caduto il muro di Berlino sono cadute anche certe vecchie categorie.

D: Alcuni storici hanno ipotizzato che De Gasperi stesso in qualche modo sperasse in un’alternanza tra la Democrazia Cristiana e la parte sana della sinistra italiana, sull’esempio di altri partiti socialdemocratici europei.

R: È un peccato che non sia successo. Io credo che in quegli anni la Chiesa stessa abbia perso una grande occasione, quella di aprire un dialogo con quella parte della sinistra che non era eterodiretta dall’Unione Sovietica. Per De Gasperi le difficoltà di vincere la sfida culturale erano evidenti: mentre Togliatti alle sue spalle aveva un grosso partito che lo sosteneva, lui doveva fare i conti con un partito diviso in correnti, spesso debole nella propaganda e nella stampa, e con una parte della Chiesa Cattolica che non lo sosteneva.

D: A proposito, nel suo film lei ha dedicato diversi minuti all’episodio dell’Operazione Sturzo: alle amministrative di Roma del 1952 una parte della Chiesa fa pressioni su De Gasperi affinché si allei con le destre nella lotta ai comunisti. In particolare lei ha rappresentato il momento in cui padre Riccardo Lombardi, famosissimo sacerdote e predicatore dell’epoca, si reca a Castel Gandolfo per chiedere alla moglie di De Gasperi, Francesca Romani, di convincere il marito a fare un’alleanza con le destre..

R: Di padre Lombardi mi ricordo, quando ero bambina c’era questo sacerdote che andava in giro a dire alla gente chi doveva votare. Io credo che con questa ingerenza in politica della Chiesa e delle destre nel dopoguerra l’Italia abbia perso delle occasioni importanti per l’ammodernamento civile, ideologico e culturale. Quel che è sicuro è che quelle destre non rappresentavano la parte migliore del paese. De Gasperi mi sembra abbia avuto in vita due tipi di nemici. I primi erano i suoi avversari espliciti, e dunque soprattutto i comunisti che dipendevano dall’Unione Sovietica. I secondi provenivano invece da quella parte di Chiesa conservatrice e di destra. Io credo che chiunque conosca la figura De Gasperi e guardi le sue carte, che sia per una ricerca, un documentario o per fare un film, non possa che dire grazie a quest’uomo per quello che ha fatto, per come ha resistito a certe pressioni.

D: Cosa l’ha colpita di più di De Gasperi?

R: La cosa più bella di De Gasperi, che credo abbiamo sottolineato nel film, è che lui non era solo un intellettuale, era anche un marito, un padre di famiglia. Quando abbiamo cercato di mettere in risalto questo suo aspetto, sua figlia, Maria Romana De Gasperi, è stata molto collaborativa, ci ha aiutato a ricostruire il lato umano del personaggio. Lei ha scritto un libro molto bello e secondo me molto importante sul quale mi sono basata per il film: De Gasperi uomo solo.

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Alcide De Gasperi (Fabrizio Gifuni) con la moglie Francesca Romani (Sonia Bergamasco) nello sceneggiato RAI “De Gasperi: l’uomo della speranza

 

D: Noi ragazzi della Fondazione De Gasperi abbiamo conosciuto la signora Maria Romana. Quel che ci ha colpito è la sua scelta di una vita di testimonianza, della sua voglia di attualizzare e rendere viva la figura del padre. I ragazzi e i giovani oggi non sono attratti tanto dalla storia di un uomo che è scomparso più di sessant’anni fa, o almeno non solo da quello. Ciò che invece può attrarli è un’idea di politica, di servizio per il Paese, di giustizia sociale che ha ancora molto da dire oggi. Questa idea di giustizia si può provare a recuperare in politica, anche se non è facile..

R: È vero, non è facile purtroppo. Io credo che oggi la gente, soprattutto ora che abbiamo questo Papa, si sia rassegnata a pensare che tutto ciò che riguarda il sociale lo debba raccontare il Papa e che di questo i politici non se ne occupino. In De Gasperi invece c’era chiarissima una visione della società, di come sarebbe dovuta essere, di una ricchezza più equa. De Gasperi considerava i bisogni sociali come un’inevitabile necessità, era veramente un politico a tutto tondo. Oggi invece spesso si pensa che di tutto ciò che riguarda il sociale se ne debbano occupare solamente il Papa, i sacerdoti, le associazioni di volontariato che servono da mangiare alle mense. Mi sembra che in America questa sensibilità ci sia di più, il Presidente stesso si occupa più delle questioni sociali, penso all’Obama Care per quanto riguarda la sanità. De Gasperi sapeva che politica significa amministrazione del Bene: e Bene Comune significa prima di tutto istruzione, sanità, infrastrutture. In questo credo che lui fosse davvero moderno, mentre oggi spesso si delegano ad altri queste funzioni politiche. Ci sono dei deputati e dei senatori che stanno in Parlamento da cinque o sei mandati, che non si sono mai occupati di questi problemi e nemmeno li conoscono.

D: In conclusione, da questo film ha ricevuto più soddisfazioni o delusioni?

R: Quel che so è che chi l’ha visto è rimasto contento. Sicuramente ne è valsa la pena, perché forse siamo riusciti a fare un po’ di luce su un pezzo di storia del mondo cattolico che è stato molto se non del tutto trascurato. Secondo me era doveroso raccontare la storia di De Gasperi, non fosse altro per rivendicare il padre di quella mia amica che è morto ad Auschwitz, per il ricordo di questa mia amica e dei fratelli che io ho conosciuto, e di tutti quei cattolici che hanno dato un grande contributo alla rinascita del nostro paese e che non hanno visto riconosciuti i propri meriti.

THE STRENGTH OF A UNION OF CONCENTRIC CIRCLES

Letter to the editor from Minister Alfano* – Corriere della Sera

I am surprised at the great stir caused by the statements recently released by German Chancellor Angela Merkel on a two-speed Europe. In Europe, different speeds, concentric circles and a differentiation according to the context, are already a reality. The issue therefore is not “if” but how and when to come to terms with this reality.

Of the twenty-eight EU Member Countries only nineteen have adopted the euro. Free movement within the Schengen area concerns only twenty-six European countries, of which twenty-two EU members and four non-EU States. As for common defence and security, twenty-eight States are members of NATO (of which 26 are European) while fifty-six Countries are members of the OSCE and forty-seven of the Council of Europe. Anybody who, in these past few years, has focused only on the Union has perhaps been looking at only part of the scene.

This is the full picture that we must start with in order to maintain and relaunch the European Project. In a world in which our citizens show a growing demand of security, we have set ourselves a priority objective: strengthen Europe’s security and defence systems. We are working on this in Brussels with the ambition of achieving, as quickly as possible, tangible results in terms of a greater efficiency and effectiveness of our armed forces, with a positive fallout also on our European industries.  

Sixty years of European integration have not levelled out our diversities but have converted them into an asset capable of overcoming the divisions of the past. We want to continue building a Europe based on democracy, the rule of law, and the protection of fundamental human rights, especially of the freedom of religion in a Europe that, as Benedetto Croce said, cannot but declare itself Christian.

Il ministro Alfano rilascia una dichiarazione al termine della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite | Foto Ansa

Our primary objective is to provide effective answers to the most pressing concerns of European citizens: economic growth, security and migration flows. This is the drive underlying our emphasis on jobs for young people, pan-European investments, innovation, digital technologies, energy and networks.

But also the institutional setup contributes to making governments more operationally efficient and effective. This is why, in the year marking the 60th anniversary of the Treaties of Rome, we are working to propose to our partners a new vision of Europe with “concentric circles”, capable of bringing forward a common project with the States that are willing to do so. This is the only way in which we can overcome the current standstill and quicken decision-making, meet the needs of citizens and count more on the international scene.

If we cannot move forward all together, the road to take is that of a “differentiated integration” based on a flexibility principle. Only thus will it be possible for every Member State to establish its own level of integration within a common framework while respecting the will of its citizens. Only thus will it be possible to reconcile the will of those who want to continue along the path of integration with that of those who prefer not to hand over any more of their national sovereignty.

This is the new architecture of institutional governance that we have in mind. We will do our share in spearheading a serious and rigorous attempt to maintain and relaunch the European ideal. It is a crucial and exciting challenge that, in order to be fully met, needs an adequately long timeframe and political horizon.

* Angelino Alfano – Minister of Foreign Affairs, President of De Gasperi Foundation

LA PROPOSTA POLITICA DI DEL NOCE

Quale futuro per i cattolici? Questa è la domanda che emerge da più fronti, quando si parla di una risposta liberal-cattolica alla crisi politica nazionale, che possa offrire un’alternativa seria e vincente alla tanto vituperata retorica populista. Quali possono essere i punti di riferimento per organizzare una proposta organica, unitaria, lungimirante e, soprattutto, chiaramente ispirata alla propria tradizione, alla propria dottrina – inclusa la dottrina sociale della Chiesa – alla propria fede? In definitiva, una proposta che possa essere cattolica.

A distanza di oltre 25 anni dalla sua morte, il pensiero e la figura di Augusto Del Noce (1910-1989) rappresentano un punto di partenza imprescindibile per i liberal-cattolici del nostro paese: “Tutta la filosofia politica di Del Noce può essere vista come il tentativo di offrire una sponda culturale a De Gasperi. Anzi, si potrebbe dire che la filosofia politica di Del Noce è la filosofia di De Gasperi”.

Augusto Del Noce al Meeting di Rimini del 1989

Così Rocco Buttiglione ha sintetizzato la parabola filosofica e politica di Del Noce. Se l’opera degasperiana è stata una sorta di “supplenza politica” – ricorrendo a un’espressione di Pietro Scoppola – negli anni della ricostruzione italiana, a Del Noce invece è spettato il difficile compito di portare avanti, in termini naturalmente di riflessione politico-filosofica, il nucleo teorico centrale del degasperismo, a dire il vero con alterne fortune. Del Noce è stato tacciato da alcuni di essere un reazionario, in realtà egli ha perseguito l’idea di una legittimazione critica del moderno in grado di riconciliare la posizione cattolica con la libertà, fuori da nostalgie medievaliste e reazionarie. Ricostruendo l’eterogenesi dei fini del liberalismo con il cattolicesimo politico, Del Noce preannuncia già nel lontano 1978 il “suicidio” della rivoluzione comunista, quando non solo nell’ex Unione Sovietica ma anche in Italia il comunismo sembrava godere di ottima salute. La scelta delnociana di propendere a favore della democrazia e del liberalismo non fu dettata da ragioni utilitaristiche, ma dalla convinzione che solo attraverso l’incontro tra il vero liberalismo e la cultura cristiana del nostro paese sarebbe scaturita una speranza per la rinascita delle forze liberali.

All’indomani della nascita della Repubblica, Togliatti elaborò la cosiddetta strategia del “partito nuovo”, volta a trasformare il Pci in una grande organizzazione di massa, saldamente radicata nella società italiana. Su questa scelta poté fondarsi l’accettazione di fatto della prassi democratica, a sua volta premessa per il ruolo nazionale del Partito comunista italiano. Gramsci divenne il faro culturale del comunismo italiano, e allo stesso tempo colui che ne decretò inconsapevolmente la fine. L’operazione di Togliatti, tenuta a battesimo dal gramscismo, a partire degli anni ’50 ci ha consegnato un comunismo a-teologizzato, in cui veniva sostituito al concetto di lotta di classe quello di lotta per la modernità.

Il messianismo politico di Marx, ovvero la creazione di una società senza classi, si sarebbe concluso con l’instaurazione di un nuovo Eden, ma sul nostro pianeta.  Tuttavia se portato alle estreme conseguenze, il marxismo – ovvero la filosofia del primato del divenire – si risolve in un processo di dissoluzione nichilista. In ultima istanza nella storia della sinistra italiana la linea politica fu impostata sulla contrapposizione tra termini come reazione-progresso, modernità-tradizione, che non fece altro che accelerare il processo di impoverimento del comunismo facendolo approdare allo status di “vaga sinistra democratica”. Fu il trionfo della teologia della secolarizzazione, che di fatto sancì la totale subordinazione del momento dialettico della dottrina marxista al materialismo storico.

Tale passaggio cruciale segnò la crisi irreversibile del marxismo che, una volta caduto il Muro di Berlino nel 1989, si risolse in una forma assoluta di nichilismo e di relativismo culturale. Del Noce questo lo aveva già compreso sin dagli anni ’60 attraverso il dialogo con il filosofo catto-comunista Franco Rodano. Quest’ultimo in quel periodo già  prospettava un’alleanza tra cattolicesimo e marxismo per superare o almeno contrastare la società del benessere. Del Noce reagì con forza a questa provocazione intellettuale, formulando una straordinaria interpretazione dei caratteri della società opulenta: irreligione come secolarizzazione o desacralizzazione, libertinismo di massa, relativismo integrale.

Nell’interpretazione transpolitica della storia contemporanea di Del Noce, la fine del “Secolo Breve” rappresenta un passaggio determinante della storia occidentale del ‘900 come epoca della secolarizzazione, ma non ne segna di certo l’ultimo capitolo. Il peso di questa sfida politico-culturale doveva essere affrontata dai liberal-cattolici, e Del Noce ne era ben consapevole. Tuttavia la miopia della Dc si palesò nel voler addomesticare il marxismo opponendogli semplicisticamente la “cultura” della società del benessere. Ma il marxismo non si può piegare, tutt’al più si possono evidenziarne le contraddizioni interne al suo sistema, per dimostrare come la filosofia della prassi sia destinata al suo fallimento e come quest’ultima sia inconciliabile con il liberal-cattolicesimo. Per Del Noce risultava ineludibile l’antitesi tra la visione antropologica cristiana e la prospettiva marxista. Sulla scorta della lezione dell’intellettuale marxista Galvano Della Volpe, Del Noce giunge ad una critica analitica e profonda del revisionismo marxista, poiché quest’ultimo considerava la dottrina di Marx come una mera metodologia di analisi sociale, quando in realtà essa rappresentava una vera e propria rivoluzione antropologica. Infatti “l’uomo totale marxiano” non ha nulla a che fare con la tradizione personalistica cristiana, poiché in Marx l’uomo è compreso solo come ente sociale.

Tale analisi mostrava la contraddizione intrinseca del liberal-socialismo e della cultura “azionista” (erede del movimento “Giustizia e Libertà” e del Partito d’Azione di chiara ispirazione mazziniana durante gli anni della guerra civile in Italia), nel  presupporre quindi un’etica fondata sul rispetto della persona – una sorta di giusnaturalismo nascosto – per la creazione di un  “Minotauro” ideologico: il socialismo liberale post-fascista. A conclusione di tale ragionamento, Del Noce ribadiva l’inconciliabilità del cristianesimo sia con il revisionismo socialista che con il cattocomunismo.

Quella delnociana è una concezione personalistica della democrazia, che si afferma con la nascita della Democrazia Cristiana. Del Noce si riconosce in questo partito, perché ciò che differenzia – almeno negli anni del degasperismo – la Dc dalle altre forze politiche è la sua concezione dell’uomo definito non solo in rapporto con la storia e la società, ma soprattutto nel suo legame con Dio. Si tratta di una libertà della persona che si fonda su una relazione con Dio, insieme con la sua trascendenza alla storia, ed è per questo che Del Noce arriva a parlare di funzione liberale del cristianesimo stesso: “Penso che anche il partito liberale non possa affermare i suoi ideali se non ravvisando il suo nucleo cristiano”. (Del Noce, “Problemi della democrazia”).

Con la fine dell’esperienza politica degasperiana vi fu certamente uno spostamento culturale e filosofico della Dc verso il già citato “azionismo”, una sorta di compromesso per abbattere la minaccia social-comunista. Fu certamente una vittoria di Pirro, che salvò per più di due decenni la nostra “Repubblica dei partiti”, ma che provocò allo stesso un grande equivoco e fraintendimento culturale all’interno della Dc. Si perse di vista il nucleo fondante del partito dei liberal-cattolici, almeno per come era stato costruito da De Gasperi, e poi pensato da Del Noce.

In estrema sintesi, la cifra del “liberalismo cattolico” di Augusto Del Noce si trova nell’essenziale storicità della Rivelazione cristiana: il cristianesimo è un evento storico, non un’ideologia o un sistema di pensiero, né tanto meno un affare di coscienza. Tale storicità del cristianesimo deve avere una traduzione politica nel suo dispiegarsi nel mondo, nella società umana, e tale deve essere il memento dei cattolici nel fare politica.

Gian Marco Sperelli

L’ITALIA PUO’ ESSERE COLPITA. E COSA DOVREMMO FARE SE LO FOSSE?

Il 2017 si è aperto con una importante svolta nella creazione di quella che in gergo può essere definita “consapevolezza situazionale”. Il terrorismo minaccia anche l’Italia e non si esclude che fatti come quelli accaduti, per ora, fuori dal territorio nazionale possano verificarsi anche entro i confini del nostro Paese. Il Capo della Polizia, prefetto Gabrielli, lo ha chiarito in maniera inequivocabile dicendo che anche “l’Italia avrà il suo prezzo da pagare”. 

Creare consapevolezza tra coloro che possono correre un rischio è uno strumento di gestione necessario affinché si possa ridurre la vulnerabilità e quindi l’impatto che lo stesso rischio può avere. Lo strumento migliore al servizio della creazione di consapevolezza è la comunicazione, che però non è per nulla efficace se rimane ancorata alla rassicurazione e non coinvolge il suo pubblico.

Due sono le considerazioni fondamentali che, in una comunicazione rivolta alla popolazione per sensibilizzarla in relazione al rischio di attentati terroristici, non possono mancare, senza le quali non si può pensare che “il prezzo che dovremo pagare” possa essere il più contenuto possibile. 

Innanzitutto, ormai la popolazione si è ben resa conto che la vita al tempo del terrorismo non può essere vissuta “normalmente”. Normale sarebbe poter salire su un aereo con una bottiglia di acqua portata da casa, come normale sarebbe entrare in Piazza Duomo a Milano senza fare la “gimcana” tra i newjersey dipinti dai writers. Di certo, se per normalità si intende “continuare a fare quello che si faceva” nulla è cambiato, tanto è vero che la gente continua a volare e a passare per piazza Duomo; segno che la minaccia del terrore non deve e non ha cambiato la nostra vita. 

Ma la vita al tempo del terrorismo è frutto di un necessario compresso tra libertà e necessità di sicurezza che non può essere mai negato, pena il dover rinegoziare ogni ulteriore aggiustamento dettato da eventuali prossime necessità. La cittadinanza ha, per la maggior parte, volente o nolente, accettato questo compromesso. È ora quindi di rendere merito alla capacità dei nostri concittadini di capire queste necessità e accettare le misure che vengono di conseguenza disposte interrompendo la retorica del “normale” alla quale diventa sempre più difficile credere.

Da un punto di vista più operativo, per ridurre al minimo i danni che il terrorismo potrebbe fare, c’è un altro aspetto nei confronti del quale la comunicazione ha una responsabilità rilevante: la prevenzione.

Prevenire attraverso la comunicazione significa due cose: innanzitutto, riconoscere che i primi responsabili della riduzione del rischio sono proprio le persone che potrebbero subirne i danni; inoltre, è necessario fornire strumenti cognitivi che aiutino coloro che si trovassero in una situazione di emergenza a decidere cosa fare per salvarsi la vita.  

Il mondo parla ormai di sicurezza partecipata e non si può considerare “prevenzione” unicamente il lavoro di intelligence e forze di polizia. È necessario coinvolgere la popolazione in un percorso informativo/formativo che possa orientare i loro comportamenti nel caso si trovassero nel mezzo di un evento.

L’Italia è forse uno degli ultimi Paesi a non aver ancora implementato una comunicazione istituzionale e pubblica sui comportamenti da tenere in caso di attacco terroristico. Ora che abbiamo fatto “30” ammettendo chiaramente e senza alcuna ombra di dubbio che anche il nostro Paese non è esente dalla minaccia, facciamo “31” e diamo gli strumenti alla popolazione per salvarsi la vita in caso di attacco.

Alessandro Burato

L’ERA DI BERGOGLIO: LA CHIESA ALLA SUA PROVA DI MODERNITA’

«Da dove ha origine il fatto che la mia volontà tenda al male e non al bene? Si tratta forse di una giusta punizione?»
(Sant’Agostino d’Ippona, Le Confessioni)

L’interrogativo, posto da Sant’Agostino nella stesura del suo testo cardine, riecheggia attuale e con ugual enfasi ai giorni nostri, nella visione globale degli scenari macro politici mondiali. Molti i fronti bellici ancora in corso ed oramai nota la mission del pontificato di Papa Bergoglio, sulla cui pacifica e manifesta azione  in molti hanno criticamente scritto. Analizzandone dunque l’operato, tra le dichiarazioni rilasciate e gli incontri istituzionali sostenuti, divengono di fatto tangibili due chiavi di lettura:

  • il diritto umanitario, la cui funzione è quella di tutelare le popolazioni civili inermi in situazioni di grave emergenza, e il cui rispetto secondo il Papa deve essere al primo posto; 
  • il multipolarismo,  ossia un sistema di politica internazionale con cui affrontare le aree di crisi con un’azione multilaterale, cercando costantemente la mediazione con il supporto della comunità internazionale e l’insieme degli enti presenti e attivi nel comparto.  

Per quanto riguarda le politiche attuate dai precedenti pontefici, il modus operandi spesso metteva in risalto differenti obiettivi, quali ad esempio la priorità in politica estera di abbattere la cortina di ferro e i regimi comunisti di Giovanni Paolo II, o la “ri-cristianizzazione” dell’Occidente perseguita con fervore da Benedetto XVI; Papa Francesco, invece, «avverte come emergenza ineludibile, porre fine alla “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che produce migliaia di morti, rifugiati e distruzione». Certamente, però, la Santa Sede di Bergoglio è assai meno atlantica di quella di Wojtyla e di Ratzinger. Recentemente, in un’intervista concessa alla testata belga Tertio in occasione della conclusione del Giubileo straordinario della misericordia, spaziando tra i temi della laicità, della Chiesa moderna nella società sino alle sfide per i giovani e l’Europa, Papa Bergoglio ha denunciato apertamente, ribadendolo tra i principali temi oggetto di attenzione e condanna, il terrorismo. Se ne ricava ad ora il seguente quadro: 

Nessuna religione giustifica la guerra. Il Papa, rispondendo ad una domanda sulle guerre e il fondamentalismo religioso, dice: «Nessuna religione come tale può fomentare la guerra», perché in questo caso «starebbe proclamando un dio di distruzione, un dio di odio». Francesco ribadisce inoltre che «non si può fare la guerra in nome di Dio», «in nome di nessuna religione». Per questo, «il terrorismo, la guerra non sono in relazione con la religione». Quello che succede è che si «usano deformazioni religiose per giustificarle». Il Papa, poi, nel riconoscere che «tutte le religioni hanno gruppi fondamentalisti» sottolinea come la nostra non si sottragga a ciò.

Religione, vita pubblica e stato laico. Sospinto ad analizzare come le politiche attuali inducano la religione ad essere sempre più distante e relegata alla vita privata di ogni singolo uomo, tendenza nei fatti contraria ad una Chiesa missionaria in uscita verso la società, Papa Bergoglio risponde: «Questa impostazione è un’impostazione antiquata», e prosegue: «Il Vaticano II ci parla dell’autonomia delle cose, dei processi e delle istituzioni. C’è una sana laicità, per esempio la laicità dello Stato. In generale, uno Stato laico è una cosa buona; è migliore di uno Stato confessionale, perché gli Stati confessionali finiscono male. Però una cosa è la laicità e un’altra è il laicismo. Il laicismo chiude le porte alla trascendenza, alla duplice trascendenza: sia la trascendenza verso gli altri e soprattutto la trascendenza verso Dio; o verso ciò che sta al di là. E l’apertura alla trascendenza fa parte dell’essenza umana. Fa parte dell’uomo. Non sto parlando di religione, sto parlando di apertura alla trascendenza. Quindi, una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza della persona umana, “pota”, taglia la persona umana. Ossia non rispetta la persona umana».

Media, comunicazione e impatto sociale. È notorio ad oggi il ruolo ricoperto dai mezzi di comunicazione in tutte le sue forme e per tutte le classi del tessuto sociale. Papa Bergoglio non tralascia dunque il suo pensiero inerente ai media e alla importante funzione da essi svolta: «I mezzi di comunicazione hanno una responsabilità molto grande. Al giorno d’oggi hanno nelle loro mani la possibilità e la capacità di formare un’opinione: possono formarne una buona o una cattiva opinione. I mezzi di comunicazione sono costruttori di una società. Di per sé stessi, sono fatti per costruire, per inter-cambiare, per fraternizzare, per far pensare, per educare. In sé stessi sono positivi». Proseguendo, Papa Francesco sottolinea anche l’aspetto negativo che traspare sul mezzo, ossia «la disinformazione: è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità».

Il messaggio per i giovani. «Non abbiano vergogna della fede; non abbiano vergogna di cercare strade nuove». E prosegue in conclusione dell’intervista: «A un giovane io darei due consigli: cercare orizzonti, e non andare in “pensione” a 20 anni. È molto triste vedere un giovane pensionato a 20-25 anni, no? Cerca orizzonti, vai avanti, continua a lavorare in questo impegno umano».

Concludendo la sua ultima omelia del 2016, Papa Bergoglio non ha omesso di pronunciarsi con un ulteriore spunto a sostegno dei giovani, a cui si rivolge criticando dapprima la società odierna, colpevole di averli emarginati e non adeguatamente valorizzati, per poi spronarli con passione: «Il mondo si aspetta che le nuove generazioni “siano fermento di futuro”, seppur allo stesso tempo vengano “discriminate”. Se da una parte c’è una cultura che “idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna”, dall’altra “paradossalmente, li abbiamo emarginati” e costretti a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono». Per un domani degno dei giovani, la scommessa unica per una vera inclusione sarà dunque quella incentrata a fornire loro l’efficace supporto per un lavoro dignitoso, libero e creativo, affinché siano essi quel vero fermento di futuro.

Andrea Coppola

LA STORIA DI AMRI AIUTA A MIGLIORARE LE DIFESE DAL TERRORISMO

di Alessandro Burato*

Sono giorni delicati quelli che tutta l’Italia sta vivendo dopo l’eliminazione a Sesto San Giovanni, il 23 dicembre, di Anis Amri, tunisino che – scappato da Berlino dopo aver colpito la folla delle bancarelle natalizie nella capitale tedesca – ha terminato la sua corsa nella periferia milanese. 

Amri può essere la chiave di volta per iniziare a parlare diversamente di terrorismo in Italia. Sebbene infatti la penisola non sia stata il luogo dell’attacco, il nostro Paese ha comunque svelato il suo ruolo nella guerra ibrida del nuovo terrorismo. E lo ha fatto proponendoci un individuo che raccoglie in sé tutte le sfide che la diffusione, la pervasività e la delocalizzazione del nuovo conflitto mondiale pongono: dalle questioni legate al profilo del terrorista tunisino, all’utilizzo delle nuove tecnologie, al tema della radicalizzazione e del ruolo della propaganda.

La storia di Amri è ormai stata scritta ovunque, ma sono quattro i momenti che evidenziano tutte le vulnerabilità alle quali il sistema è esposto: di origini tunisine è sbarcato come migrante a Lampedusa nel febbraio 2011 e accolto in un centro a Catania; il 23 ottobre dello stesso anno viene arrestato per aver aggredito il custode della struttura e per aver incendiato il centro a Belpasso; oggetto di un decreto di espulsione mai eseguito (perché la Tunisia non lo riconosce come suo cittadino), lo si ritrova in Germania dove compie l’attacco a Berlino prima di rientrare in Italia. La vicenda di Amri riporta al centro della discussione sul terrorismo lo scambio di informazioni tra i paesi europei, il ruolo del sistema carcerario nei processi di radicalizzazione, le migrazioni e il sistema di espulsioni degli illegali. Temi da affrontare senza alcuna connotazione ideologica ma con l’onestà intellettuale sufficiente per ammettere la necessità di approfondire queste questioni per comprendere un fenomeno alquanto complesso.

Tutto ciò premesso, in relazione ad Amri si delinea un profilo abbastanza ricorrente: il lupo sciolto ma comunque connesso. Sono infatti le connessioni che stanno alla base del processo di radicalizzazione, tutte immerse in un contesto propagandistico del Daesh che ne favorisce lo sviluppo e l’orientamento verso una pianificazione strategica da parte del Califfato.

Le connessioni sono state il fattore centrale durante il periodo di detenzione di Amri. Il Dap segnala infatti rapporti con altri tunisini ritenuti fondamentalisti e in una nota della Questura di Catania si evidenzia come all’interno dell’istituto di detenzione Amri avesse sviluppato “una fede integralista islamica e un carattere violento”. Le relazioni strette durante il periodo in carcere hanno sicuramente avuto un ruolo importante nel processo che ha portato Amri a Berlino, tanto che, dopo la strage, il tunisino giunto a Torino sembrerebbe aver tentato di prendere contatto con un ex-galeotto compagno di cella. 

Le relazioni sono però anche quelle mediate tramite la tecnologia. Elemento chiave della nuova guerra ibrida, i sistemi di comunicazione – specie quelli garantiti da Internet – sono cruciali. Telegram, che opportunamente utilizzato assicura maggiori garanzie di riservatezza rispetto ad altri strumenti, sembra aver definitivamente rimpiazzato ogni velleità del Daesh di avere un proprio servizio di messaggistica istantanea. Lo strumento è diventato il luogo di diffusione di messaggi e materiali per il reclutamento e la radicalizzazione: è attraverso Telegram, per esempio, che Amri tiene i contatti con il nipote in Tunisia al quale invia denaro, dopo averlo radicalizzato convincendolo a giurare pubblicamente su Facebook fedeltà al califfo, per assicurargli un’identità falsa e il viaggio in Germania per unirsi al gruppo di Abou al Wala.

Si aggiungono quindi le connessioni con i gruppi jihadisti più strutturati o con i predicatori del jihad. A loro, perché ne diventino cassa di risonanza, viene affidato il messaggio della propaganda. E quelli rivolti ai combattenti, fin dal maggio scorso, sono chiari: utilizzate ogni mezzo a disposizione, dai coltelli ai camion, dall’esplosivo finanche al veleno. E sull’uso dei camion la propaganda ha ormai un esaustivo repertorio. Ancora prima dell’attacco di Nizza del 14 luglio scorso, già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) venivano suggeriti i camion come armi per “fare la più grande carneficina”. Dopo la strage sulla Promenade des Anglais è stato pubblicato dalla “Inspire Guide” un numero dedicato alle modalità di realizzazione dell’attacco (21 luglio 2016). Poi ulteriori indicazioni su quali mezzi e obiettivi scegliere sono pubblicati sul numero 2 di Rumiyah (edizione in inglese del 12 novembre 2016), poi riprese in traduzione bosniaca nel numero 4 della rivista uscita solo tredici giorni prima dell’attacco a Berlino. Ma Berlino è stato solo il gesto di emulazione di un radicalizzato, o frutto di una effettiva azione della propaganda? E più in generale quale è il ruolo della comunicazione del Daesh nell’identificare modus operandi e obiettivi? Sicuramente alcuni aspetti dell’attacco nella capitale tedesca pongono interrogativi sulla scelta della tipologia di mezzo e sulla fuga immediata dalla scena da parte del terrorista senza continuare il massacro, ma non pongono alcun dubbio sul ruolo più ampio della propaganda che prepara il terreno suggerendo modalità e strategie generali.

In quest’ottica, allora, Amri ha sbattuto in faccia a tutti quanto il suo arrivo in Piazza Primo Maggio a Sesto San Giovanni il 19 dicembre, dopo avere attraversato mezza Europa in treno, sia stato favorito da una mancanza di coordinamento e condivisione di informazioni che sempre più devono essere scambiate efficacemente tra i vari stati membri dell’Unione Europea e con paesi terzi, sia paesi di origine dei flussi migratori sia paesi a elevato rischio di terrorismo. Per alcuni versi il clima è cambiato anche in Italia (ne è la prova l’accettazione da parte della società civile delle nuove misure poste a difese di spazi di aggregazione) e questi temi possono essere affrontati in maniera serena rispondendo a un bisogno di sicurezza diffuso tra i cittadini.

* Ricercatore C.E.T.Ra. e Itstime (Università Cattolica del Sacro Cuore)

EUROPA E TERRORISMO. DOBBIAMO ACCETTARE L’IDEA CHE SIAMO IN GUERRA

Piero Vietti | Il Foglio | 21-12-2016 – (qui l’articolo originale)

Parla Marco Lombardi, esperto di terrorismo dell’Università Cattolica di Milano: “I jihadisti hanno occupato il territorio e le generazioni future”. La soluzione è “israelizzare” l’occidente per i prossimi dieci anni almeno.

La prima domanda che si sono fatti in tanti, lunedì sera, è stata: “Come è possibile che sia successo ancora?”. Cinque mesi dopo Nizza – ma sembravano molti di più – un camion ha deliberatamente travolto delle persone in una città europea uccidendole. “L’Europol e le intelligence di diversi paesi avevano avvertito nei giorni scorsi che questo sarebbe stato un momento critico”, dice al Foglio Marco Lombardi, responsabile di Itstime, centro di ricerca su sicurezza e terrorismo dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna, e direttore scientifico del dipartimento C.E.T.RA. della Fondazione De Gasperi. Si poteva dunque evitare la strage di Berlino? “In assenza di una governance politica forte e unitaria in Europa non può esserci intelligence comune – prosegue Lombardi – c’è condivisione delle informazioni tra stati fatta con lo scopo di mettere in sicurezza il singolo paese. Ma siamo di fronte a un tipo di terrorismo diffuso, pervasivo, delocalizzato”. Difficile da prevedere. “Il terrorismo è tale per gli effetti che hanno i suoi attacchi, non per le ragioni che motivano chi attacca”, spiega, e in effetti arriviamo da anni in cui “lo Stato islamico fa propaganda intensa invitando a colpire ovunque e chiunque usando i mezzi della vita quotidiana”.

Sui canali ufficiali dei jihadisti ci sono istruzioni su come guidare un camion su una folla inerme, su come uccidere con un coltello o fabbricarsi una bomba in casa. “E’ un tipo di propaganda che colpisce tutti: islamisti, difensori della umma, sbandati. Sono percorsi di radicalizzazione diversi tra loro ma che si concludono tutti con attacchi su cui lo Stato islamico mette il cappello”. Ai jihadisti interessano soprattutto gli effetti di questi atti, che sono quindi “difficilmente prevedibili se non c’è una catena di comando in cui l’intelligence si può infiltrare”. Questo tipo di attentati è caratterizzato dall’opportunismo, dice ancora Lombardi: “L’idea è quella del massacro senza premeditazione”. Il professore non crede a chi dice che a Berlino sia stato colpito un simbolo cristiano: “Gli attentatori vanno a colpire dove c’è tanta gente, e un mercatino sotto Natale è il luogo ideale per questo”. Detto dell’imprevedibilità di certi attacchi, e lasciato ad altri il compito di definire le strategie militari migliori per colpire lo Stato islamico in medio oriente, chiediamo a Lombardi che tipo di politiche si possono attuare in Europa per limitare i danni: “La minaccia c’è ed è diffusa, al momento una soluzione possibile sarebbe la mediorientalizzazione delle nostre società”. Cavalli di frisia nelle vie del centro di Milano e Roma, posti di blocco e uomini armati disposti nelle nostre città, sul modello israeliano. “Non è un bello spettacolo, ma è una soluzione. E’ però urgente che la politica faccia scelte rapide in questo senso, anche scontentando parte dell’opinione pubblica e ascoltando la parte che è ormai disposta a vivere con questo rischio”.

E’ plausibile che per i prossimi dieci anni almeno si debba convivere con attentati jihadisti in Europa. “Lo Stato islamico ha occupato non solo il territorio, ma anche il tempo: ha conquistato le giovani generazioni, ormai si arrestano ragazzi di quindici-sedici anni, a volte persino dodici, pronti a uccidere”. La domanda da farsi, semmai, è sul tipo di società che abbiamo messo in piedi, chiosa il professore, in cui un dodicenne è attratto da una propaganda che lo vuole trasformare in terrorista. Sul lungo periodo, infatti, “bisognerà individuare politiche che intercettino i percorsi di radicalizzazione, impedendo che vadano a buon fine”. Nel frattempo però bisogna mettersi in testa che la nostra vita quotidiana deve cambiare, è già cambiata. “Bisogna promuovere consapevolezza tra la gente: come ci si può trovare in mezzo a un incendio sapendo come comportarsi dobbiamo essere coscienti che ci potremo trovare in mezzo a un attacco terroristico e sarà vitale sapere come reagire”. In tre parole: consapevolezza del rischio, informazione e formazione. C’è il problema dei rifugiati, però, su cui Lombardi è poco politicamente corretto: “I migranti non sono terroristi – dice – ma i terroristi sono dei migranti”.

Che l’estremismo islamico sfrutti le migrazioni per introdurre “combattenti” in occidente non è una novità. E proprio “la Germania è tra i paesi che meglio analizzano i flussi di ritorno e monitorano gli spostamenti. Ma non c’è dubbio che l’accoglienza tedesca è stata poco controllata: servono più controlli, identificazioni, diritti per chi ne ha le prerogative ma pugno duro per gli altri”. La domanda di tanti, adesso, è cosa aspettarsi nelle prossime settimane: “Il 2016 purtroppo non è ancora finito – conclude Lombardi – e avremo un 2017 in continuità con l’anno che sta finendo. Lo Stato islamico è ormai in 40 paesi del mondo, ha un esercito delocalizzato che combatte questo nuovo tipo di guerra ibrida che è in corso da anni, non geolocalizzata ma a pezzi. Abbiamo paura di ammetterlo, ed è un ritardo culturale grave, ma siamo in guerra”.

Piero Vietti