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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

IL NUOVO FRONTE “FREDDO” TRA STATI UNITI E RUSSIA

Come ormai noto, da diversi mesi la corsa alla Casa Bianca è accompagnata da delle attività cibernetiche “parallele” volte a destabilizzare la realtà politica e sociale degli Stati Uniti. Gli attori coinvolti in questo scenario, oltre agli Stati Uniti, sembrerebbero essere la Russia e la Cina (anche se la partecipazione attiva del Governo cinese non sembrerebbe ancora confermata).

Negli ultimi giorni si è assistito ad un forte inasprimento dei toni e delle accuse reciproche, portando gli Stati Uniti a formulare un atto di accusa ufficiale nei confronti della Russia nella giornata del 7 Ottobre.

Ciò che ha portato i 2 Paesi sull’orlo di una guerra cibernetica è stata la violazione dei server del Partito Democratico americano (tralasciando in questa sede quanto accaduto in relazione alle Olimpiadi di Rio, con la pubblicazione di documenti ufficiali della WADA – World Anti-Doping Agency – riguardanti test eseguiti su vari atleti statunitensi, risultati positivi a diverse sostanze dopanti; la pubblicazione di questi report fù una “risposta” all’esclusione di molti atleti russi, anch’essi positivi all’antidoping), con la conseguente pubblicazione da parte WikiLeaks di migliaia di mail della candidata Hillary Clinton. Ovviamente, tutte le accuse sono state respinte al mittente dalla Russia, che ha mostrato inoltre il suo non gradimento alle affermazioni del Vice Presidente Joe Biden sulla preparazione di un’importante azione cibernetica offensiva nei confronti della Russia, già pianificata, in grado di mettere in ridicolo il Presidente Putin agli occhi dei cittadini russi e del mondo intero. Risulta necessario quindi aprire una piccola parentesi che ricostruisca i fatti, specificando brevemente gli attori coinvolti.

Per ciò che concerne gli attacchi contro i server della WADA, tutte le accuse sono state dirette contro un gruppo di hacker conosciuto con il nome di Fancy Bears (cugini degli Energetic Bears, prevalentemente indirizzati a colpire le infrastrutture critiche sul territorio europeo), ma in realtà collegato direttamente al G.R.U. e al FSB (le due agenzie di intelligence della Russia). Ma come mai questo collegamento automatico con la Russia prima, e con il Governo russo dopo? Analizzando brevemente i gruppi maggiormente operativi, avremo più chiarezza.

Secondo il “NATO Cooperative Cyber Defence” di Tallin, i gruppi di hacker attualmente operanti possono essere ricondotti a 2 unità: “Advanced Persistent Threat” Group 29 e 28.

L’ APT 29 ha avuto come obiettivo quello di ottenere informazioni, ovviamente in modo illecito, strettamente connesse agli interessi geopolitici della Russia (vedasi ultimi accadimenti legati all’Ucraina); altri obiettivi con priorità risultano essere Istituzioni internazionali, think tanks e centri di formazione, con l’elemento comune di trattare tematiche di security.

L’APT 28 (conosciuto anche come Tsar Team/Sofacy/Pawn Storm) risulta essere particolarmente attivo contro Enti pubblici e organizzazioni private operanti nel mondo security, come i gemelli dell’APT 29, concentrando però le loro attività nella ricerca delle cosiddette “zero-day vulnerabilities” e nel loro “exploit”, riuscendo ad aggiornare sistematicamente i loro tool e rendendoli in grado di attaccare anche device mobili.

Il modus operandi dei gruppi risulta essere particolarmente efficace ma, allo steso tempo, richiede importati efforts sia in termini economici che di gestione e implementazione dei vari tools a loro disposizione. Inoltre, l’analisi dei codici effettuata dagli hacker forensi americani, ha rilevato un buon livello di complessità degli attacchi lanciati. Queste considerazioni, unite alle rilevazioni degli orari degli attacchi (che risultano essere sempre in fascia UTC + 4, Russia, dal 2007 al 2014) e alle diverse sospensioni degli attacchi in corrispondenze di festività russe, fanno pensare che dietro a questo gruppo possa esserci un attore dotato di importanti risorse finanziarie che permettano la continua evoluzione delle “armi cibernetiche”, capacità di gestione e coordinamento di una struttura operante 24/7/365, con forti interessi sui contesti geopolitici internazionali.

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Ad oggi quindi, l’amministrazione Obama considera come responsabile degli attacchi il Presidente Putin, considerandolo un nemico della democrazia e degli Stati Uniti. Allo stesso tempo però, il candidato alla Presidenza Donald Trump, plaude agli attacchi contro il partito democratico ed a WikiLeaks, invitando più volte gli hacker russi a smascherare la sua diretta rivale Hillary Clinton. Questo atteggiamento incoraggiante da parte di Trump, oltre che renderlo il primo candidato della storia degli Stati Uniti chiaramente schierato a favore della Russia, porta i suoi frutti: agli inizi di Ottobre, nella stessa giornata in cui “The Washington Post” pubblicava la nota in cui Trump esprimeva i suoi particolari istinti sessuali, veniva violato l’account privato del Presidente della campagna elettorale democratica, John Podesta.

In questo scenario, le continue affermazioni del Presidente Obama volte ad accusare la Russia degli attacchi informatici (oltre che del mancato rispetto degli accordi sull’intervento in Siria), sembrano rappresentare più degli spot a favore della candidata dei democratici americani, per diverse ragioni:

  • Qualora fosse stato realmente pianificato da tempo un attacco cibernetico clandestino su larga scala contro la Russia, perché rivelarlo? Gli effetti di deterrenza di un tale annuncio sembrano essere quasi inesistenti e volti soltanto ad aumentare i livelli di tensione tra le due potenze nucleari;
  • Qualora un attacco del genere fosse già pianificato e pronto ad essere lanciato, ammettendo come logico un annuncio in merito, perché farlo annunciare dalla CIA e non dalla NSA (attore principale su queste tematiche)?
  • Dalle informazioni che si hanno al momento, l’attacco non avrebbe come obiettivo la neutralizzazione di un network infrastrutturale critico per la Russia, ma rappresenterebbe comunque un “precedente” pericolo di attacco ufficiale nei confronti di un altro Paese (senza peraltro avere delle basi certe al 100% della provenienza governativa degli attacchi) che potrebbe essere utilizzato da altri Paesi in un futuro non troppo lontano;
  • Tutto ciò che avviene all’interno del dominio cibernetico ha delle ripercussioni sul mondo fisico e reale, sia per la ormai assodata convergenze fisico-logica delle infrastrutture critiche, sia perché una parte di codice malevolo diretta contro un determinato target potrebbe diffondersi a macchia d’olio e colpire in modo indiscriminato.

     

Al netto delle considerazione di cui sopra, è fondamentale ricordare anche le ripercussioni di una risposta all’attacco (certa in termini di probabilità e con tempistiche ovviamente rapide). Per dare una rapida idea, basta fare un piccolo esercizio di pensiero: chi subirebbe più danni (in senso ampio del termine) da un attacco di questo genere? Considerando l’effetto delle dipendenze ed interdipendenze dei sistemi, basta tenere a mente che il centro dell’economia e della finanza mondiale non è in Russia, ma negli Stati Uniti..

Risulta fondamentale quindi stabilire e capire il valore delle minacce legate al dominio cibernetico, ormai sempre più diffuse ma spesso utilizzate come “warning” in risposta ad azioni compiute nell’universo fisico, come dislocamenti di truppe non graditi, creazioni di basi avanzate o il dotarsi del missile nucleare Satan 2.

Mauro Pastorello

Ricercatore ITSTIME
Security Manager Sicuritalia Professional Service

DIBATTITO PRESIDENZIALE, ULTIMO ATTO. NON C’E’ DUE SENZA TRE.

Se è vero che tre indizi fanno una prova, allora Hillary Clinton dovrebbe essere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Chi ha vinto? – Certo, è un incipit provocatorio: in realtà, la questione è un po’ più complessa, e anche se i sondaggi – ogni giorno di più – fanno credere che proprio questo debba essere l’esito finale, non si può certo fischiare ora la fine della partita. In effetti, però, il terzo dibattito presidenziale tra la Clinton e Donald Trump non è stato poi molto differente dai primi due, in termini di impressione generale: l’ex First Lady e Segretario di Stato è andata sicuramente meglio, sia dal punto di vista retorico che da quello contenutistico, anche se più per mancanze dell’avversario che per effettivi meriti suoi.

In modo simile allo scontro precedente, inoltre, si è visto un Donald Trump particolarmente istituzionale nella prima mezzora, ma progressivamente sull’offensiva con il passare del tempo, arrivando all’ormai celebre mitragliata di “wrong…wrong!”, diventati un marchio di fabbrica. Progressione accompagnata dalle domande poste dal moderatore, che – differentemente dalle volte precedenti – ha incalzato i duellanti con domande mirate ed esigenti; purtroppo, dopo i primi 30 minuti si è riacceso il clima da “Far West”, e dalla proposta si è passati all’attacco.

Giustizia – La prima domanda, infatti, a sorpresa si è concentrata su un tema molto specifico, sfiorato la volta precedente: l’elezione della Corte Suprema, per poi affrontare il tema generale della giustizia. I due candidati, a proposito, hanno dato risposte “politiche”, offrendo due proposte diverse, soprattutto in merito al tema delle armi (dove Hillary si pone in modo nettamente più restrittivo di Trump, che invece vanta l’appoggio della lobby di categoria) e dell’aborto (con Donald che si definisce pro-life e Hillary che sostiene l’aborto e la planned parenthood). Il primo round, insomma, si conclude in pareggio.

Immigrazione – L’ambiente comincia a scaldarsi con la seconda questione in gioco: l’immigrazione, che sappiamo essere un tema che divide i due. Trump insiste sulla droga, auspicando la chiusura dei confini per prevenire l’ingresso di eroina nel paese: “bad people have to go out”, e in fondo – afferma – nel 2006 anche la Clinton voleva costruire il muro. Hillary puntualizza che le cose non stanno così, che certamente auspica la sicurezza dei confini ma senza una deportazione di massa; inoltre, lo stesso Trump – dice lei – ha costruito la Trump Tower sfruttando lavoratori irregolari. Dopo aver chiarito un passaggio ambiguo di un suo discorso rivelato da Wikileaks, però, la moglie di Bill devia sul tema “hackeraggio russo”, e quando cita 17 agenzie d’intelligence miliari e civili, ottenendo come risposta da The Donald: “I doubt it”, sembra vincere il passaggio.

 

Economia – Forse per questo, o forse per il tema “economia”, Trump comincia ad essere più irrequieto. Così facendo, però, scade sempre più nella mera offensiva: e se Clinton spiega la sua visione della classe media, del piano per infrastrutture, manifatturiero ed energia e dell’obiettivo di alzare il salario minimo nazionale, lui ripete per l’ennesima volta che i membri della NATO devono pagare, che gli accordi commerciali sono da rifare e che i lavori sono da riportare indietro. Facile no? Del resto, se India e Cina crescono di 7% e 8%, come è possibile che noi cresciamo solo dell’1% (si, l’ha detto veramente)?

Vinca il migliore – Da qui in poi è guerra vera, grazie anche al tema introdotto dal moderatore: “adeguatezza al ruolo”. Apriti cielo. Si sentono, in ordine sparso, accuse e contro-accuse su: molestie sessuali, email, tasse, fondazioni, carriera, ecc.. Le sentenze “Quando perderò ti dirò se riconosco la sconfitta” e “Donald dà sempre la colpa agli altri” chiudono tre quarti d’ora non particolarmente memorabili per la storia della politica a stelle e strisce.

Politica estera – Sul finire, come di consueto, la politica estera. Anche qui, le posizioni sono le stesse già espresse nelle settimane precedenti. Da una parte, quella democratica, ci sono il diniego a dispiegare forze terrestri per colmare un eventuale vuoto di ISIS e la proposta di una no fly zone sulla Siria. Dall’altra, quella repubblicana, c’è la richiesta di rivedere gli accordi NATO, considerando l’eventualità che i membri paghino per la protezione americana; c’è l’accusa all’Iran, o meglio alla politica accondiscendente nei suoi confronti, prima mediante l’accordo nucleare poi con la scellerata strategia in Siria; e c’è la grande boutade finale, ossia che l’offensiva di questi giorni a Mosul è un espediente per far vincere le elezioni a Hillary: “The only reason they did it is because she is running for the office of president, and they want to look tough. They want to look good”.

Il finale, sotto forma di “appello alle masse”, fa emergere la vis politica di Hillary e la vis pugnandi di Donald. Calato il sipario, restano soprattutto i sondaggi, che danno Hillary vittoriosa: nelle due occasioni precedenti, la realtà li aveva confermati. A questo punto, dunque, il finale è apparecchiato per la vittoria democratica.

Giovanni Gazzoli

OPERAZIONE RINNOVAMENTO CON DUE DISEGNI DI LEGGE

Quotidianamente riconosciamo la portata straordinaria delle trasformazioni del modo di vivere, consumare, produrre e lavorare indotte dalle tecnologie digitali. Al punto che, in atto, le definiamo come la quarta rivoluzione industriale. E, rispetto alle tre precedenti, ne individuiamo i caratteri originali della velocità e della imprevedibilità. Paradossalmente, si riscontra invece una certa timidezza a mettere in discussione quel tradizionale, rigido, quadro regolatorio che è stato via via costruito nel tempo della stabilità. Prima di realizzare che il futuro non sarebbe più stato quello di una volta.

Eppure è evidente che il diritto pubblico, ed in particolare il complicato e incerto diritto amministrativo, ci separano dai processi evolutivi dei Paesi con Amministrazioni più flessibili. Così come è evidente che nel Paese con il più grande Partito Comunista dell’Occidente il diritto del lavoro è stato edificato con caratteristiche particolarmente pesanti. Ne è stata controprova la cronica diffidenza degli imprenditori verso il fattore lavoro.

Oggi, lo stesso interrogativo sull’impatto delle nuove tecnologie sulla occupazione, per cui molti temono una polarizzazione delle competenze e dei redditi su pochi privilegiati, può trovare risposte nel segno dell’inclusione solo se non si frappongono ostacoli al pieno accesso di tutti alle innovazioni. E, spesso, il vecchio diritto del lavoro si rivela un impedimento alla piena espressione delle capacità e delle vocazioni di ciascuno perché edificato nel segno dell’omologazione.

Per queste ragioni, con i colleghi Fucksia, medico del lavoro, e Berger, piccolo imprenditore in Alto Adige, ho assunto l’iniziativa di due ddl “sovversivi” del tradizionale impianto giuslavoristico. L’uno contiene deleghe al governo per la redazione di un Testo Unico denominato Statuto dei Lavori, l’altro riguarda la delicatissima materia della salute e sicurezza nel lavoro. Il presupposto delle due iniziative è quindi il venir meno del vecchio mondo, fatto di gerarchie verticali, di mera esecuzione seriale degli ordini impartiti, di predeterminazione rigida della postazione fissa, dell’orario e del salario. Il vecchio mondo su cui è stato costruito tutto il pesantissimo diritto del lavoro. Lo stesso Jobs Act contiene apprezzabili modifiche ma le compensa con definizioni ancor più rigide circa la separazione tra lavoro autonomo e subordinato proprio nel momento in cui la realtà li avvicina.
Alla base dei due ddl si pone una sorta di “salto” metodologico, quello per cui la fonte legislativa, per definizione rigida e perciò incapace di rincorrere i cambiamenti, si deve limitare alle norme fondamentali e inderogabili che sono espressione dei principi costituzionali e comunitari. Per tutto il resto si deve fare rinvio alla duttile contrattazione, soprattutto di prossimità, compresa quella individuale sviluppando la certificazione dei contratti. L’art. 8 della manovra 2011 ha in realtà già segnato questa discontinuità e, non a caso, il governo francese ha recentemente imposto a sindacati fortemente conflittuali un’analoga disciplina. Si tratta ora di estenderne l’uso nella contrattazione e di ampliarne l’applicazione a una parte del salario nazionale come ai contratti individuali attraverso la legge.
La regolazione della salute e sicurezza nel lavoro è per molti aspetti emblematica di quel diritto pesante che si vuole abbandonare senza ridurre i livelli di prevenzione. Anche in questo caso, la riduzione del precetto legislativo ai fondamentali principi comunitari consente la rapida evoluzione di strumenti scientificamente validati come le linee guida, le buone prassi, le norme tecniche. Se il Testo Unico contiene ben 306 articoli e 50 allegati, la nostra proposta si limita a 21 articoli e ad un allegato. Il passaggio dal formalismo giuridico ad un approccio sostanzialista, fatto di formazione insistita, sorveglianza sanitaria di tipo olistico, continuo rinnovamento delle tecnologie, induce più salute. E la certificazione delle professioni esperte può esimere il datore di lavoro da responsabilità garantendo al contempo ambienti di lavoro oggettivamente più sicuri rispetto ai meri adempimenti cartacei.
All’origine di queste proposte sono le visioni di Marco Biagi, la sua diffidenza verso la iperregolazione, la sua intuizione sui cambiamenti dei lavori e sulla fondamentale tutela sostanziale dell’apprendimento continuo. Esse provocheranno discussioni e forse anche le usuali invettive. Con i due colleghi replicheremo pazientemente ai giudizi sommari e saremo aperti a recepire ogni critica costruttiva perché abbiamo inteso soprattutto provocare una riflessione politica e culturale.

Maurizio Sacconi

Intervento pubblicato su Il Sole 24 Ore del 12 ottobre 2016

TESTO DDL SALUTE E SICUREZZA

TESTO DDL STATUTO DEI LAVORATORI

ELEZIONI USA, LA TRILOGIA. SECONDA PUNTATA

La seconda puntata di una delle trilogie più accattivanti della storia recente del cinema (ops, politica) made in USA è effettivamente come quasi tutte le altre: un ponte tra la prima e la terza.
Sono infatti davvero molto pochi gli spunti reali che escono dal dibattito di stanotte, che si è tenuto alla Washington University di St. Louis, nel Missouri. Un dibattito in cui i due candidati hanno tirato fuori il peggio dell’avversario, facendo a gara per mostrare gli errori e l’inadeguatezza dell’altro: una corsa al ribasso in piena regola, nonostante il continuo riferimento fatto da Hillary alla frase di Michelle Obama: “When they go low, we go high”.
Al contrario, fin dall’inizio il tentativo è quello di mandare l’avversario più low di quanto egli già si ponga, e le domande di pubblico e intervistatori – come biasimarli – non fanno altro che aizzare questa tendenza.
Si parte con la domanda sull’importanza del candidato di essere un perfetto role model per le giovani generazioni. Un invito a nozze, ovviamente non prima di essersi lavati la propria coscienza: “Sono cambiato, non lo rifarei più”, dice Trump in riferimento all’umiliante video in cui parla poco educatamente delle donne; “Ho fatto un errore, me ne assumo le responsabilità, e certamente non lo rifarei”, garantisce Clinton quando sollecitata a proposito della cancellazione delle 35 mila e-mail private in cui trattava anche argomenti top secret.
Espiati i propri peccati, si può cominciare a evidenziare quelli altrui.

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Il primo passaggio, in realtà, è più politico che mediatico, sollecitando i contendenti ad un giudizio sulla riforma sanitaria conosciuta come “Obamacare”: la Clinton elogia l’allargamento dei beneficiari dell’assicurazione, ricordando che la copertura arriva al 90%, e glissa dalla mezza gaffe del marito Bill, che l’aveva sconfessata; mentre Trump, chiaramente, la denigra come “total disaster”, invocando la rimozione dei confini d’azione e affermando: “We want competition”.
La seconda domanda, fatta da una ragazza musulmana, offre però lo spunto per abbassare la qualità della discussione, punzecchiando “The Donald” sulle politiche verso i musulmani: Trump, con un evidente sforzo ad usare mezzi diplomatici, cerca di ribadire la sua posizione non particolarmente muslim-friendly, arrivando a denunciare la comunità musulmana di San Bernardino per non aver rivelato la possibilità di attentati pur essendone a conoscenza, e subito dopo attacca Hillary per voler far entrare nel paese – senza alcuna restrizione – chiunque lo voglia; la Clinton, in risposta, afferma di voler includere i musulmani nelle sue politiche, sottolineando le inopportune espressioni di Trump nell’alludere alla necessità di essere coalizzati con stati musulmani per sconfiggere il terrorismo.
Subito dopo, è l’ex Segretario di Stato ad essere messa all’angolo per le dichiarazioni circa il doppio gioco che ogni politico è costretto a svolgere in pubblico e in privato: lei ne esce piuttosto goffamente, tirando in ballo Lincoln e offrendo a Donald un’alzata a rete che viene schiacciata senza particolare difficoltà. Favore ricambiato subito dopo, quando alla domanda: “Ha sfruttato la perdita di 916 milioni di dollari per poter evitare di pagare le tasse?”, Trump risponde: “Of course I do”, con una naturalezza alquanto inopportuna per timing e modo.
Insomma, il dibattito scivola via in modo abbastanza piatto, nonostante la carne al fuoco degli ultimi giorni fosse davvero molta: ormai, però, sembra che dai due candidati ci si aspetti solo una bomba ancora più grossa di quella precedente, e che fino a che non succede non ci sia niente da ricordare.
Effettivamente, i passaggi sulla Siria, sull’elezione di un membro della Corte Suprema di giustizia e sull’energia scorrono abbastanza veloci, sottolineando le scelte errate che l’avversario farebbe o ha già fatto.
Il finale, tuttavia, è sorprendente: una domanda eccezionale, assolutamente inaspettata, viene posta da uno spettatore: “Cosa stima dell’altro?”. La Clinton, con astuzia, risponde: “I figli”; Trump, incassato il colpo e colto alla sprovvista, ammette: “Hillary non molla mai”.
Insomma, è stato un dibattito che doveva essere fortemente scoppiettante, ma che ha regalato perlopiù scene utili a creare video simpatici su Twitter. È stato “il respiro prima del balzo”, prendendo a prestito l’espressione di Gandalf in “Il ritorno del Re”: dal “Signore degli Anelli” ai dibattiti tra candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, il passo da una trilogia all’altra sembra essere più piccolo del previsto.

Giovanni Gazzoli

ELEZIONI USA, PRIMO ROUND: COM’E’ ANDATA E COSA ASPETTARSI

«Quando corri per la Presidenza (e ancor di più quando sei Presidente), le parole contano. Voglio rassicurare i nostri alleati che rispetteremo gli accordi di mutua assistenza»: probabilmente sta tutta qua la differenza tra Donald Trump e Hillary Clinton, in questa frase pronunciata dalla candidata democratica dopo che, verso la fine del dibattito (il primo di tre che ci accompagneranno verso il voto dell’8 Novembre), il candidato repubblicano aveva disegnato scenari di politica internazionale quantomeno originali (per citare i due più incredibili – l’Arabia Saudita ci paghi per la sicurezza che gli garantiamo e la Cina pensi a difendere la Corea del Sud perchè noi non possiamo).

La differenza sta tutta qua perchè, come forse mai, le elezioni americane non si giocano tanto sui contenuti, quanto sulle persone; il che, di per sé, non sarebbe neanche negativo, se non fosse una corsa al ribasso, nella quale (a seconda delle preferenze) almeno uno dei due candidati è sicuramente eccelso. Di conseguenza, davanti alla non-dimestichezza diplomatica, politica e “governativa” di Donald Trump, Hillary Clinton appare una statista di rango elevato, quando non fa altro che tenere botta con classe agli attacchi dell’avversario sviando il discorso mediante attacchi meglio piazzati.

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Una manna per lo spettacolo e lo share, senza dubbio: ma la politica, quella della principale potenza mondiale, dov’è finita? Eppure, lo schema della serata era ben disegnato e proporzionato per affrontare con serietà una vasta quantità di temi: tre spezzoni da mezz’ora, economia (“Achieving prosperity”), società (“America’s direction”) e politica internazionale (“Securing America”).

Il primo è stato forse il più “politico”, dato che si è potuta intravedere una differenza di visione: la Clinton sceglie di aumentare le tasse (soprattutto per i benestanti) per ricostruire la classe media e investire in infrastrutture, energie rinnovabili e tecnologia (creando, a suo dire, 10 milioni di posti di lavoro), mentre Trump punta sulle imprese, insistendo sulla necessità di impedire che vengano spostate all’estero e di riportare sul suolo americano quelle già uscite nonché abbassando il costo del lavoro e la regolamentazione, e sui trattati, da rinegoziare (il NAFTA è, secondo The Donald, il peggior accordo mai fatto da qualsiasi stato nella storia mondiale degli accordi commerciali).

Il secondo, senza dubbio, è stato il più tranquillo: il conduttore ha subito portato il dibattito sulla questione razziale, e chiaramente entrambi – e soprattutto Trump, visto il recente (e non) passato problematico in materia – hanno scelto un low profile, invocando più coesione, collaborazione tra polizia e società e pace sociale; certo, Hillary aggiunge una “rieducazione dei poliziotti” mentre Donald insiste su “law and order”, ma il succo del discorso non è poi così diverso.

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È molto diverso, invece, il profilo internazionale dei due candidati: è qua dove sembra che Hillary lasci indietro Donald per distacco, assumendo un profilo realmente presidenziale mentre l’avversario lancia accuse e – come detto in apertura – provocanti previsioni e allusioni. La democratica, ad esempio, non ha paura di entrare nello specifico (per quanto concesso da un format come questo) quando invoca supporto ai curdi contro ISIS; Trump, invece, si limita a sentenziare: “it’s a real mess” è l’espressione preferita per delineare il quadro geopolitico, e poco dopo allude al fatto che bisognerebbe ripensare alla posizione degli USA nella NATO o al loro impegno internazionale. La chiusa, poi, è abbastanza contraddittoria: “Quella nucleare è l’unica vera minaccia da affrontare, non il riscaldamento globale!”, dopo che circa mezzora prima si era difeso dall’accusa di relegare quest’ultimo ad una bufala inventata dai cinesi.

Insomma, lungi dall’essere pro-Clinton, questo dibattito conferma diverse considerazioni. Innanzitutto, giusto per tirare un sospiro di sollievo (o – forse – per preoccuparsi ancor di più), che la tendenza al ribasso del livello politico non è solo una caratteristica del nostro paese. Quindi, che il meno peggio, ad ora, sembra essere la candidata democratica, anche se sarebbe auspicabile una maggiore sollecitazione sulle sue posizioni – nel merito. Infine, che la consistenza delle due candidature è molto fragile (una più dell’altra, certo), e che basta un nulla per capovolgere i giochi. I prossimi dibattiti (9 e 19 Ottobre) saranno decisivi, anche se – come abbiamo visto – potrebbero bastare un tweet o un’email a decidere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (?!?).

Giovanni Gazzoli

LE DOMANDE DA FARSI PER CAPIRE COSA E’ SUCCESSO A NEW YORK

Articolo pubblicato sull’edizione online de “Il Foglio” in data 19 Settembre 2016.

Il terrorismo ha perso grazie alla capacità delle autorità di gestire il post evento e per la mancanza di comunicazione degli autori. Qualsiasi sia la matrice, infatti, il terrorismo è innanzitutto comunicazione che, in questo caso, è stata assente.

A quindici anni dai tragici fatti del crollo delle torri gemelle, il terrorismo a New York ha perso. Ha vinto, invece, un “modo” di gestire eventi simili che contribuisca a non diffondere il terrore. Da una parte, infatti, c’è una rivendicazione che tarda ad essere diffusa, dall’altra una comunicazione ufficiale che smorza il desiderio dell’opinione pubblica di sapere immediatamente la matrice dell’atto, frenando ogni speculazione affrettata sulle ragioni e sui responsabili.

Ciò che è accaduto a New York è sicuramente etichettabile come terrorismo, ma l’averlo definito nelle prime ore successive solo come “atto intenzionale”, anche se non ne cambia la sostanza, ha fornito un modello all’interpretazione da parte della stampa e dell’opinione pubblica, non avvantaggiando i responsabili attribuendogliene la paternità.

Il terrorismo quindi ha perso grazie alla capacità delle autorità di gestire il post evento e per la mancanza di comunicazione degli autori. Qualsiasi sia la matrice, infatti, il terrorismo è innanzitutto comunicazione che, in questo caso, è stata assente. Il Daesh ci ha abituati nella maniera più emblematica a questo concetto arrivando persino a chiedere che ad ogni attacco facesse seguito una comunicazione specifica che lo differenziasse da un qualsiasi altro atto criminale, e lo potesse invece accreditare come terroristico.

Il lungo silenzio del “rivendicatore” ufficiale non è inusuale, ma il vuoto della rete sì. Solitamente, infatti, anche in assenza di un messaggio che decreti autorevolmente la paternità dell’evento, i sostenitori del Daesh sono soliti appropriarsi, anche indebitamente, di qualsiasi atto che per modus operandi e opportunità possa essere percepito come portato a termine da uno di loro. Dopo l’esplosione dell’ordigno piazzato tra la 23esima strada e la Sesta Avenue sono state pochissime le reazioni dei supporter del jihad che sono rimasti stranamente silenti.

Due sono i principali interrogativi che si sono posti in successione: perché proprio quella zona? E poi, dopo il ritrovamento di un secondo ordigno inesploso, c’era la volontà di compiere un attacco multiplo e magari simultaneo? La risposta alla prima domanda, che puntualmente accompagna ogni attentato, è il più delle volte irrilevante. Il terrorismo colpisce. Nel caso di attacchi di questo tipo il “dove” è spesso dettato unicamente dall’opportunità. La casualità dei target, non necessariamente simbolici ma quotidiani, è ciò che rende la manaccia più difficilmente riducibile.

Solo le indagini potranno fare luce invece sulla questione che riguarda il possibile coordinamento alla base della premeditazione dell’attacco, rivelando così forse anche dettagli su chi ne è responsabile. Da un lato, infatti, è necessario capirne la matrice. Nonostante l’immagine della pentola a pressione abbia rievocato la maratona di Boston, e quindi abbia contribuito ad identificare l’atto con un certo tipo di terrorismo, non è da sottovalutare la crescente “moda” di appropriarsi dei modus operandi del terrorismo che più attrae i media, da parte di chi cerca una vetrina per i propri atti criminali.

Dall’altro ciò che è accaduto porta altrettanti spunti di riflessione. Se l’intenzione era di far esplodere entrambi i dispositivi, l’attacco multiplo che si sarebbe verificato avrebbe presumibilmente richiesto un certo grado di pianificazione, non necessaria invece per la maggior parte delle tipologie di attacchi che possono essere portati a termine da lupi solitari. Se, invece, ciò che si è verificato è quello che era stato previsto, c’è da chiedersi perché il secondo ordigno non sia esploso. L’incapacità di chi ha assemblato artigianalmente la bomba potrebbe essere una spiegazione. Di fatto la stessa cosa era accaduta poche ore prima in New Jersey, dove due tubi esplosivi posti lungo il percorso di una maratona di beneficenza non hanno funzionato. Resta il fatto però che il terrorismo viva spesso più di minaccia che di fatti. L’aver dimostrato che potenzialmente, anche e ancora in territorio americano, il terrorismo può colpire simultaneamente in luoghi diversi potrebbe essere stato l’unico scopo della pentola a pressione lasciata sulla 27esima strada. L’analisi di ciò che è accaduto a New York non può che partire dopo che verrà data risposta a questi interrogativi.

Alessandro Burato

LEGGE E PECCATO IN S. AGOSTINO. ALCUNI SPUNTI

Introduzione: Il problema della legge.

È un dato di particolare interesse, che ciò su cui ci si confronta nelle discussioni politiche in Italia oggi all’ordine del giorno e nei più accesi dibattiti sulla natura del fondamentalismo islamico – altresì detto “islamismo fondamentalista” – sia, dopotutto, la stessa cosa. Ed è ancor più notevole il fatto che si tratta di una questione tanto più decisiva, quanto, però, più o meno inconsapevolmente ignorata. Voglio dire che, in qualche modo, l’origine concettuale e quindi il punto infuocato che accomuna alla radice il parlare di due problematiche così formalmente distinte è la natura della legge.
Chiariamo brevemente. Da una parte veniamo dall’approvazione di una legge perlomeno controversa sulle unioni civili, accompagnata da tutta una serie di polemiche e scontri verbali, che hanno suscitato un dibattito sui limiti, gli scopi e le modalità di applicazione del potere legislativo. Dall’altra ogni atto di terrore del cosiddetto Califfato o di chi ad esso si ispira pare avere come scopo ultimo tra le altre cose l’imposizione di uno specifico ordine legislativo, legittimato da quell’originale interdipendenza di religione e giurisprudenza che caratterizza una delle possibili – e quindi almeno teoricamente valide – interpretazioni dell’Islam.

Ovviamente non si tratta porre le due cose sullo stesso piano: si tratta di realtà assolutamente incommensurabili. Mi sembra, però, che il nucleo teorico all’origine del problema sia lo stesso e quindi interrogarsi sulla natura, sulla finalità, sull’incidenza della legge, avviando così un dibattito su questo tema, sia di primaria importanza, perché può aiutare a darci degli strumenti utili per diventare consapevoli di che cosa c’è in gioco oggi e, di qui, affrontare con intelligenza e realismo le sfide nazionali e internazionali che ci aspettano.

Forse sembrerà una banalità, ma credo sia bene talvolta fare un passo indietro, osservare ciò che si ha davanti e chiedersi, almeno per un momento, di che si tratta, problematizzare. In fondo, il nostro è un tempo in cui la rapidità di assunzione di nozioni, notizie, contenuti è diventata un’esigenza talmente consolidata, che ogni appello ad una umana criticità appare incontemporaneo. Del resto, da quando si hanno a disposizione strumenti attraverso cui è diventato possibile disporre in un eterno presente attuale di tutto lo scibile umano e un deposito di memoria permanente – personale e mondiale – nel quale nulla è mai cancellato del tutto, si fa fatica anche a pensare di poter morire. E questo è un punto notevole sul quale tornerò più avanti.

Premetto di non essere un esperto di diritto, soltanto, studiando mi sono capitati tra le mani alcuni testi di Agostino, che mi pare offrano una prospettiva interessante all’argomento in discussione. Si tratta, tra gli altri, di un brano tratto dal De Spiritu et Littera e che ha come tema il rapporto tra il cristianesimo e la legge. Ovviamente, per capirne la portata, bisogna tenere conto del contesto storico e culturale in cui l’autore si muove: la legge per Agostino è anche e soprattutto quella norma in parte coincidente con ed in parte derivata da i precetti mosaici, che pure ha una validità prescrittiva universale, oltre che personale e che quindi può benissimo essere alla base della legislazione di uno stato non confessionale. Ciò non deve stupire o far pensare che si tratti in realtà di un escamotage argomentativo fideista che nulla ha da spartire con la ragione. Basti pensare che, dopotutto, una buona parte degli ordinamenti civili e penali contemporanei derivano il proprio contenuto normativo proprio dalla tradizione religiosa giudaico-cristiana. Agostino vive la pretesa secondo la quale il cristianesimo non è contro l’umano, ma per l’umano. Per tale ragione, allora, il suo pensiero ha tutta la dignità per poter essere proposto pur in un contesto come quello attuale, in cui non c’è più nulla di esplicitamente cristiano.

La legge e il peccato in S. Agostino

Agostino, interrogandosi sull’argomento, non può che prendere le mosse dalla riflessione di San Paolo sul rapporto tra legge e peccato ed in particolare da un passaggio capitale della Prima Lettera ai Corinti, dove curiosamente si legge: «La forza del peccato è la legge» (1Cor. 15, 56). Che cosa significa che la forza del peccato è la legge? Che cosa significa per noi, oggi, oltre che per Paolo e Agostino? La legge non dovrebbe essere un correttivo alle inclinazioni scorrette di cui abbiamo una così larga testimonianza intorno a noi? Ma allora se non opera il fine per la quale sembrerebbe fatta, dobbiamo forse considerarla un impaccio inutile? Tutti noi risponderemmo di schianto “no”. Che mondo sarebbe, infatti, un mondo senza leggi, limitazioni e quindi punizioni? D’altra parte, è altrettanto vero che, l’affermazione di San Paolo ci lascia alquanto perplessi. Perché? Personalmente credo che la ragione stia in ciò che noi crediamo o ci siamo abituati a credere spetti alla legge.
Proviamo a capire in che senso. Agostino, proseguendo nella trattazione, anziché placare il nostro già pur consistente senso di spaesamento, lo accresce ancor più, commentando così questo passaggio:

«Che cosa vuol dire: la forza del peccato è la legge? Non imponendo azioni cattive, o impedendo
opere buone; certamente no, anzi, al contrario vietando opere cattive e imponendo opere buone.»

La legge non è inutile perché vieta le opere cattive e prescrive quelle buone. Ma allora dove sta il suo limite e insieme la sua specificità? Perché essa è forza del peccato? Agostino prosegue:

«Così – dice l’Apostolo – la legge è santa e santo e giusto e buono il comandamento. Ciò che è bene, allora è diventato morte per me? No davvero! Ma [solo] il peccato, per rivelarsi peccato. Quando non ti era vietato, comunque esisteva, ma non si manifestava.»

La legge, infatti, è giusta perché è legge. Pertanto, rispondendo alla propria funzione, essa prescrive il bene e vieta il male e non esiste eventualità alcuna che questo dato possa essere in se stesso un male. Ma la legge in quanto tale ha in sé soltanto una capacità negativa o, se si vuole, formale: essa indica il fine, ma non la strada per raggiungerlo; offre una destinazione, ma non dota degli strumenti per arrivarvi; nomina un ideale, ma non dice che cosa esso sia o dove possa essere trovato. In questo senso la legge, indicando la meta, contemporaneamente mette in luce quella distanza che da essa irriducibilmente ci separa. E questa distanza che sempre si frappone – come un solido ostacolo – e che fa del “giusto” come un termine imprendibile è proprio il peccato. Senza legge non c’è peccato, perché non c’è consapevolezza del peccato: «quando non ti era vietato, esisteva infatti, ma non si manifestava». Con la legge l’uomo scopre il peccato, ma non la strada per liberarsene. Si tratta di un paradosso ed è un paradosso particolarmente difficile da accettare, perché l’ignoranza, in fondo, è un buon palliativo con cui lenire il dolore per il proprio limite e tutto ciò che ci strappa all’indeterminatezza, ci getta senza chiederci il permesso nella possibilità vertiginosa della responsabilità e della personalità. Si tratta di un’opzione radicale, perché, dopo tutto, si è di fronte ad una conoscenza che, pur essendo conoscenza, da sola non libera, ma vincola: una volta imboccata questa strada, infatti, è difficile tornare indietro. Come sciogliere, dunque, questo dilemma?

Prima di proseguire, però, è bene fare una notazione importante. Quello di Agostino, infatti, non è un discorso catechetico o per soli addetti ai lavori, può parlare anche a noi: il termine “peccato” non deve spaventarci, né farci credere di essere necessariamente in una sacrestia. Che cosa significa, infatti, “peccato”? Ha ancora un significato e, se sì, che cosa potrebbe significare oggi, in un contesto ormai quasi del tutto scristianizzato? Il termine “peccato” traduce bene tutta quella pesante insoddisfazione a cui un limite nell’essere vincola la realizzazione e l’attualizzazione di tutte le nostre aspirazioni più vere. Non è nient’altro che un dato esistenziale di cui ogni uomo minimamente attento non può non aver fatto esperienza: per quanto anelata, la giustizia perfetta rimane comunque una patria irraggiungibile secondo natura e negarlo sarebbe utopia. Pertanto, la proposta di Agostino è assolutamente universale, perché fondata su momenti di evidenza quotidiana comuni ai più e ogni pretesa di ridurla ad un discorso confessionale è spazzata via.

Tornando alle parole di Agostino, è possibile scoprire qualcosa in più. La legge, infatti, indica la meta e insieme condanna perché:

«senza dubbio quella legge, benché buona, aumenta, con la proibizione il desiderio cattivo […] Io non so perché accada che si desideri con più piacere una cosa proprio quando essa viene proibita. Ed è per questo che il peccato seduce attraverso il comandamento e uccide attraverso di esso, dal momento che si aggiunge anche la trasgressione che non ci sarebbe, se non ci fosse la legge.»

Da un certo punto di vista, infatti, è come se la legge togliesse l’ingenuità e quindi insieme con essa la scusabilità dell’ignoranza, ma al contempo si rivelasse incapace ad offrire un qualsiasi strumento per tollerare l’improvvisa pesantezza della verità.
Tuttavia, questo brano contiene una sfumatura in più e cioè come una passione educativa, fondata su una verità, che – per quanto possa certamente sembrare banale – si rivela a lungo andare esperienzialmente acuta. In queste righe, infatti, insieme al problema è nascosta anche la risposta ad esso:

«quella dottrina da cui riceviamo il comandamento di vivere sobriamente e pienamente è lettera che uccide, se non è presente lo Spirito che dona vita.»

Al paradosso di cui sopra, Agostino risponde con un altro paradosso – se possibile – ancora più radicale. La legge per essere se stessa, cioè per essere legge e rispondere della propria natura, ha bisogno di qualcosa che sia altro da sé. Non è la legge che uccide, infatti, ma il peccato. Tuttavia, è pur vero ed esistenzialmente documentato dall’umana esperienza, che la legge da sé non basta a se stessa: lasciata da sola non può far altro alla fine che tradirsi, trasformandosi in ciò che invece condanna e diventare così la forza del peccato.

«Ecco perché l’apostolo ha scelto [come espressione della dottrina] il comandamento più generale, nel quale ha riassunto tutti i comandamenti, come se fosse questa la voce della legge che proibisce ogni peccato; cioè quel comandamento che dice: “non desiderare” e infatti nessun peccato si commette se non attraverso il desiderio.»

L’inizio del peccato sta sempre in qualche modo nel desiderio – ben prima dell’atto in cui poi questa appetizione può effettivamente realizzarsi. Ma se il peccato – e occorre non dimenticarsi che cosa abbiamo definito essere peccato – inizia dal desiderio, per rispondere al peccato occorre qualcosa che intervenga a questo livello e cioè desti con un’attrattiva più grande un desiderio orientato al bene. Così, quella che sembra essere l’affermazione più umanamente impegnativa, si rivela in realtà quella più moralmente realistica. L’educazione e la tensione al bene e al vero non possono nascere dalla proibizione o dalla ripetizione formale della norma: ciò che è giusto non può essere soltanto attestato, ma personalmente riconosciuto e voluto come tale. E questo la legge da sola non può farlo. Quella banale e insieme acuta verità di cui sopra si diceva mostra qui tutta la sua enorme potenza esperienziale: la generazione di una personalità critica e adulta non può che sorgere da qui e ogni insistenza sull’ossequioso rispetto di un principio, non solo risulta storicamente infeconda, ma anche affettivamente morbosa, nella misura in cui non farebbe altro che allargare quel solco che inevitabilmente sussiste tra ciò che è giusto e la nostra incapacità di realizzarlo. Pertanto, porre permanentemente l’accento sul fine senza contemporaneamente indicare una strada è una prospettiva – prima di tutto – umanamente deprimente.
Ciò di cui il nostro tempo ha bisogno – mi sembra di poter dire – è di incontrare luoghi che tocchino la sorgente del cuore, lì dove il desiderio nasce; di imbattersi in realtà in grado di destare un’attrattiva che attinga alla radice dell’essere. Il peccato, infatti, si manifesta come decadimento della nostra aspirazione al giusto, al vero, al bene: è una sospensione nella tensione al fine. In questo intervallo, ciascuno è portato a cercare soluzioni facili e a buon mercato e a credere che tutto questo possa essere sufficiente.

La bugia della legge

La menzogna della legge – o meglio, la menzogna a cui l’abbiamo costretta e a cui, però, la legge ben si presta – nasce proprio qui, dalla sua totale, benché apparente, affidabilità, dal fatto, cioè, che con buoni argomenti, possa essere ritenuta, in fondo, lo strumento definitivo con cui eliminare proprio quella connaturata finitezza che pur caratterizza l’uomo. La legge appare così perfetta e formalmente imparziale, da sembrare effettivamente cosa di un altro mondo, da sembrare divina. La tentazione a cui essa offre ed ha in passato spesso offerto asilo è la definitività di una giustizia realizzata finalmente qui ed ora. E se ci guardiamo con attenzione, ci rendiamo ben conto di quanto inconsapevolmente siamo pervasi da questo pensiero: in fondo siamo noi che abbiamo voluto e creduto che la legge fosse questo. L’uomo è affascinato dalle potenzialità totalizzanti della legge, perché è fatalmente attirato dalla facilità dell’ideologia: il pensiero astratto è per definizione un pensiero disimpegnato.
Se infatti, come diceva Chesterton, ogni errore è una verità impazzita, si capisce bene per quale ragione l’uomo abbia un debole, benché di solito inconfessato, per ogni progetto totalizzante: l’aspirazione a che tutto sia giusto, buono e vero qui ed ora è la traduzione di quella tensione permanente che fa dell’uomo, l’uomo. L’errore, e cioè il peccato, è dimenticarsi di quanto, però, questo sia evidentemente impossibile da realizzare con le sue sole forze; è la dimenticanza – in altre parole – dell’esistenza misteriosa di un vincolo nell’essere dal quale, per quanto tentiamo, non riusciamo a liberarci.
La Chiesa nella sua saggezza è l’unica ad aver dato un nome a questo denso nucleo di impossibilità: peccato originale. La menzogna di qualsiasi ideale che pretenda identificarsi con il compimento di quella tensione e che nella legge trova una possibilità di espressione paradigmatica per le caratteristiche che la contraddistinguono consiste nel censurare deliberatamente questo dato – comunque lo si voglia chiamare – assolutamente evidente. Confonde legge e risposta al peccato.

Conclusioni

L’errore di una legge come la cosiddetta Cirinnà o di un progetto politico totalitario e giustizialista come quello del Califfato islamico sta nella sua pretesa di definitività ed omologazione, nell’essere cioè un pensiero astratto e quindi dis-tratto da quell’evidenza così drammatica che scandisce la vita di ogni uomo e che trova nelle ultime parole di Brand, di fronte alla valanga che lo sta per investire, una formulazione vera e terribile: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte mi inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza? ». In altre parole, la menzogna di tentativi come questi consiste nel dimenticarsi che si muore, di cancellare questa evidenza nascondendola sotto l’illusione di un’ideologia disincarnata e impersonale. In fondo quindi, il difetto che accomuna i due esempi da cui siamo partiti e che caratterizza ogni progetto impregnato di purismo manicheo, è quello di provare più di quanto sia necessario e di promettere più di quanto possa mantenere. La legge è usata e offerta come strumento di purificazione e di salvezza dell’uomo, rivelando così, infine, l’intento totalizzante con cui se ne serve il potere che ne detiene il controllo, il suo essere, in fondo, cioè una pretesa (paradossalmente) “iperclericale”. Come mette bene in luce Papa Francesco nel discorso tenuto ai vescovi polacchi in occasione dell’incontro a margine dell’ultima GMG:

«Credo che noi, in questo mondo così secolarizzato, abbiamo anche l’altro pericolo, della spiritualizzazione gnostica: questa secolarizzazione ci dà la possibilità di far crescere una vita spirituale un po’ gnostica che è stata la prima eresia della Chiesa: l’apostolo Giovanni bastona gli gnostici – e come – con che forza! –, dove c’è una spiritualità soggettiva senza Cristo. Il problema più grave, per me, di questa secolarizzazione è la scristianizzazione: togliere Cristo, togliere il Figlio. Io prego, sento, … e niente più. Questo è gnosticismo. Trovare Dio senza Cristo, un Dio senza Cristo, un popolo senza Chiesa […] lo gnosticismo di oggi, poiché è proprio una scristianizzazione, senza Cristo, ci porta ad una Chiesa, diciamo meglio, a dei cristiani, a un popolo orfano.»

Non c’è nulla di più astratto che dire: “si deve adorare Dio” o trasformare la legge nella risposta ultima a ciò che l’uomo più profondamente domanda. Al contrario ciò che è veramente urgente è dove e se è possibile incontrare oggi Dio? Dove e se possibile trovare oggi un ideale incarnato e vissuto? Rendersi conto di quello che è in gioco, può aiutarci a mettere a fuoco il problema e capire di che cosa il nostro tempo ha bisogno per ripartire. Tutta l’ansia di giustizia che attraversa la realtà sociale che ci circonda non può essere sommariamente liquidata come se fosse problema secondario, né tantomeno essere il pretesto per trincerarsi dietro schemi ideologici preconfezionati. Così facendo, infatti, non si fa altro che accrescere la confusione in cui già siamo e rendere facile la vita a chi offre soluzioni parziali come risposte totali. Imparare a ridare il nome alle cose secondo quello che esse sono, recuperare l’evidenza di ciò che si è dimenticato non può avvenire attraverso la replicazione di definizioni pur giuste, ma solo attraverso una libertà destata e desiderosa di ripercorre tutta la strada che ci ha portato fin qua.

Giacomo Fornasieri

Dottorando di ricerca in Storia della filosofia medievale presso il Centro FITMU dell’Università di Salerno.

ALFANO: DE GASPERI, PADRE FONDATORE DELL’ITALIA REPUBBLICANA.

Ricordare oggi l’anniversario della morte di De Gasperi assume una valenza del tutto particolare a settant’anni dalla fondazione della Repubblica italiana.
Lo statista trentino visse solamente i primi otto anni della nostra storia repubblicana, ma si può ben dire che la pace e il benessere dei quali ancora oggi godiamo dopo molte decadi sono il frutto prezioso di una semina che lui fece proprio in quegli anni.

De Gasperi seppe interpretare al meglio il nuovo paradigma repubblicano, incardinando la grammatica istituzionale e la dialettica politica nell’alveo sicuro della democrazia parlamentare. Ciò permise che nessuna delle parti in gioco potesse sentirsi tagliata fuori dal processo democratico e fece maturare anche nel popolo quel necessario coinvolgimento senza il quale una democrazia non potrebbe definirsi tale.

Oggi siamo a un nuovo tornante della nostra vita repubblicana. L’Italia ha davanti sfide che chiedono uno sforzo comune pari a quello espresso nel secondo dopo guerra. L’inverno demografico e la dissolvenza dei corpi intermedi, la lotta al terrorismo e la pressione dei flussi migratori, la crisi economica e l’involuzione del processo di unificazione europea, la compressione dello Stato sociale, rappresentano problemi che paiono insormontabili e spesso – per la loro natura che travalica la dimensione nazionale – fuori dalla nostra portata di soluzione. Ma De Gasperi ci ha insegnato che la speranza non è l’illusione di qualcosa che non c’è ma la certezza di qualcosa che è possibile, affidandosi al buon senso e alla Provvidenza.
Pertanto, di fronte a una fase così delicata per l’Italia e l’Europa, di fronte alla congiuntura economica segnata da una crescita ancora troppo flebile e soggetta a possibili improvvisi rovesci e insidiati dal consolidamento di forze politiche antisistemiche e demagogiche, a focolai di guerra non lontani dai nostri confini, la risposta delle istituzioni deve essere all’altezza di tali sfide, pena la rottura, che sarebbe esiziale, di quel legame con il popolo senza il quale nessuna democrazia, e quindi convivenza civile, può restare pacifica e generare benessere. In fondo De Gasperi ci ha lasciato proprio questo, un popolo.
Tramite la sapiente costruzione della nostra architettura democratica, la profonda azione riformatrice e l’ambizioso sogno di una Europa unita, ha saputo plasmare l’identità di un popolo per renderlo protagonista nella storia.
Le forze politiche responsabili sono chiamate oggi a riallacciare questo rapporto con il popolo per poterlo guidare fuori dalle secche nelle quali ci troviamo. Perché è proprio la forza del popolo a poterci risollevare. Per tale motivo De Gasperi facilitò in ogni modo la capacità generativa del popolo, sollecitandone le risorse migliori e valorizzando le molteplici sensibilità che lo caratterizzavano per la ricostruzione materiale e democratica del paese.

La sua era una visione alta arricchita dai valori della tradizione cristiana, mai vissuta in modo confessionale ma sempre tradotta in una piena laicità, affinché tutti, anche i non credenti, potessero riconoscersi in essa. È così che De Gasperi divenne padre della patria italiana e europea e oggi la comunità nazionale e internazionale giustamente lo celebra.

Angelino Alfano

LIBIA. RADICI STORICHE DI UN CASO GEOPOLITICO

Dopo una premessa storico-diplomatica concernente l’interesse italiano per la Libia ad inizio Novecento, l’autore passa ad illustrare alcuni dati di natura economica che mettono in luce l’importanza del Mar Mediterraneo quale crocevia strategico del commercio regionale e globale. Nell’ultima parte si contestualizza quanto descritto relazionandolo alla situazione e ai destini della Libia post Gheddafi, i cui destini sembrano dipendere in buona parte dal sostegno internazionale alla governance del deep State libico.

Scarica il paper: “Libia. Radici storiche di un caso geopolitico”.

Di Roberto Motta Sosa, studioso di geopolitica e storia delle relazioni internazionali, autore e analista per varie testate e centri studi italiani. Si è laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Storia, con indirizzo storico-religioso, approfondendo gli aspetti storici e geopolitici legati al Vicino Oriente ottomano nel periodo compreso tra la fine del XIX e l’inizio XX secolo.