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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

“DIRITTI UMANI E CRISTIANESIMO”: LA CHIESA ALLA PROVA DELLA MODERNITA’

 

“Dal Romanticismo in poi, i grandi scrittori sono prigionieri che scuotono freneticamente le sbarre di quella gabbia che è diventato il mondo senza Dio”

Il Nietzsche del Sudamerica, Nicolas Gomez Davilà, con questa invettiva non solo ha racchiuso la principale linea interpretativa della civiltà occidentale, all’alba del nuovo mondo post Rivoluzione Francese, ma implicitamente ha saputo cogliere gli interpreti principali di questa battaglia: secolarizzazione e cristianesimo. Per l’Occidente, ormai, la secolarizzazione è divenuta sinonimo di democrazia; sintomo di questa nuova concezione culturale è la dottrina dei diritti umani, che ha assunto i connotati di una vera e propria “religione”.

“Diritti umani e cristianesimo” (2015), l’ultima monografia di Marcello Pera, prende le mosse da questo humus culturale per analizzare le contraddizioni intrinseche tra ideologia dei diritti, della ragione secolare e religione cristiana. Se nel 2008 Pera, con il suo saggio “Perché dobbiamo dirci cristiani”, considerava altissimo il debito che il liberalismo classico doveva pagare nei confronti del cristianesimo, con “Diritti umani e cristianesimo” prosegue, in maniera unitaria e coerente, la propria riflessione politico-filosofica: quale prezzo la dottrina cristiana deve pagare all’ideologia dei diritti? Il messaggio cristiano assecondando il mondo moderno, a partire dal Concilio Vaticano II, non ha fatto altro che sancire la propria subordinazione alla sfera secolare?

Per comprendere il nodo cruciale della questione dei diritti, l’unica via – anche se la meno battuta – da percorrere e attraversare è quella della dottrina dei doveri, intesa naturalmente nell’accezione cristiana. Con tale intuizione, Pera svela la chiave di volta del rapporto tra liberalismo e cristianesimo, e in particolar modo il grande fraintendimento che l’ideologia dei diritti ha portato nella dottrina cristiana dei doveri, giungendo a snaturarla quasi del tutto. I diritti umani sono una parte imprescindibile di un progetto di vita e civiltà che intende fare a meno di Dio, mentre i doveri cristiani portano ad una maggiore coesione comunitaria dei cittadini-credenti sotto la persona del Padre.

Il fondamento della dottrina liberale, pilastro a volte dimenticato delle nostre odierne democrazie, trova la sua attestazione più forte nella carta d’indipendenza americana (1776), all’interno della quale la libertà è definita come “un dono di Dio”: la libertà viene quindi definita nel suo fondamento come un dovere dell’uomo dinanzi a Dio. I diritti umani, invece, quale giustificazione possono portare di fronte al Tribunale secolare?

Certamente l’argomentazione più incontrovertibile, sostenuta dai grandi assertori della “religione” dei diritti umani, sarà la concezione di persona umana legata – utilizzando in questi termini una sorta di equazione – in maniera indissolubile al principio di dignità umana, tuttavia privato di ogni riferimento divino. L’uomo come immagine di Dio (“homo imago Dei“) non ha più alcuna ragion d’esistere nell’odierna dottrina dei diritti, anche se la Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II ha cercato di portare avanti entrambe le soluzioni teoriche, tuttavia con notevoli contraddizioni di sistema.

cover“L’umanesimo integrale” di Maritain altro non è che lo scacco finale portato a termine dalla secolarizzazione, travestita sotto le sembianze dell’ideologia dei diritti, nei confronti del cristianesimo. Maritain, cercando di coniugare le istanze della dottrina cristiana con quelle del Secolo, ha formalizzato – secondo Pera – il principio secondo cui ogni persona umana è intrinsecamente detentrice di diritti. La Chiesa in questo modo, sulla scorta del pensiero di Maritain, ha legittimato – anche inconsapevolmente – il fenomeno dell’autofagia dei diritti umani. Caso esemplare nella storia italiana è stato il referendum abrogativo sull’aborto del 1981: una democrazia liberale come quella italiana schierata incondizionatamente nella difesa del diritto alla vita (sottolineo un diritto pre-politico), si è ritrovata con l’opinione pubblica del paese spaccata a metà tra abortisti e antiabortisti. Perfino un laico e progressista come Bobbio fu costretto a mettere in guardia l’intera opinione pubblica sul pericolo di una giurisdizionalizzazione dei diritti. Profonda convinzione di Bobbio è che i tanto citati diritti inalienabili non siano altro che diritti storico-politici. In ultima analisi qual è il fondamento della dottrina dei diritti umani? Una maggioranza parlamentare. Quest’ultima può decretarne la legittimità e la liceità e, di conseguenza, la sua supremazia. Le maggioranze parlamentari non sono che l’emblema del pensiero comune e del conformismo sociale dilagante, frutti rigogliosi del processo di secolarizzazione in atto della nostra civiltà.

La Chiesa come si è posta, di fronte a questo mutamento radicale della cultura dell’Occidente? A suo modo restando ingabbiata e per molti versi inglobata dal Secolo. “La Chiesa, in forza del Vangelo affidatole, proclama i diritti umani”. Questa è l’espressione usata dal Concilio Vaticano II, con cui dopo secoli di grande ostilità si è cercato di riaggiornare il messaggio cristiano, accantonando, forse drasticamente, la dottrina dei doveri, pilastro imprescindibile del sistema di pensiero cristiano-cattolico. La Chiesa, dal secondo Novecento in poi, ha scelto di assimilare il linguaggio della cultura secolare e allo stesso tempo, ha preteso di intrattenere con essa un dialogo e un rapporto proficuo, secondo i suoi criteri e le sue regole. La speranza fu quella di creare, sotto l’influsso universalmente riconosciuto di Jacques Maritain, un nuovo umanesimo tenuto a battesimo dal secolarismo. I moniti e le critiche dei papi dell’Ottocento contro i diritti umani erano un vago e lontano ricordo di una Chiesa ritenuta dall’opinione pubblica semplicisticamente come retrograda e oscurantista. Tale semplificazione preclude qualsiasi tentativo di analisi serio e rigoroso su questioni cruciali dal punto di vista dottrinale, ma soprattutto su una valutazione il più oggettiva possibile dei pontefici del secondo Ottocento: nella speranza di lasciarci definitivamente alle spalle etichette di comodo come quelle di “reazionari” oppure di “despoti” poco inclini ad abbondonare una volta per tutte lo scettro del potere.

La teoria dei diritti non sembra minimamente conciliabile con la dottrina cristiana, e questo è da attribuire al fatto che la dottrina dei diritti appartiene più alla storia temporale che alla storia escatologica della salvezza. Marcello Pera sottolinea come la scissione agostiniana tra città di Dio e città terrena risulti, in definitiva, ineludibile: il progetto escatologico cristiano non potrà mai coincidere con lo sviluppo particolare della storia e della civiltà umana. Sono due piani che s’incrociano ma che non combaciano. La Chiesa, pur di abbracciare il Secolo, è disposta a retrocedere dalle proprie posizioni, anche a costo di venir meno alla propria funzione originaria?

 Gian Marco Sperelli

DOPO NIZZA NON SI PUO’ PIU’ ESSERE SUPERFICIALI

L’attacco di Nizza del 14 luglio ha visto nuovamente la Francia nel mirino di attentati terroristici che confermano la strategia del Daesh per diffondere il terrore: colpire la popolazione nei luoghi della vita quotidiana.

Tuttavia, le interpretazioni e i commenti all’attacco che sono seguiti denotano ancora una cerca approssimazione nell’analisi del fenomeno che rischia di avere, sia per le forze politiche, che per l’opinione pubblica, pericolose ripercussioni.

Partendo proprio dall’attacco e dalla sua rivendicazione si sono succedute diverse opinioni circa la vera paternità del Daesh dell’attentato. La strategia delle rivendicazioni è prettamente comunicativa: poco interessa e poco conta che l’attacco sia stato voluto dal Daesh, anzi, da quello che è noto la maggior parte degli attacchi rivendicati non sono stati comandati da una centrale operativa che detta modalità, tempi e luoghi dell’attacco, ma sono invece il frutto dell’adesione degli attentatori ad una propaganda che fa riferimento ad una catena di comando e controllo “loose”. L’effetto prodotto è uguale, se non di maggior impatto, di quello che si sarebbe ottenuto se il comando di attaccare fosse arrivato direttamente da Raqqa.

E proprio sulla catena “sciolta” che collega gli attenti europei all’Iraq e alla Siria si gioca la partita ora più importante per la politica e per la “lotta al terrorismo”. Le rassicurazioni fornite negli ultimi giorni che “giustificano” i più recenti attacchi come “colpi di coda” di un Daesh che progressivamente perde terreno proprio in Iraq e Siria sono pericolose. Sicuramente le forze della coalizione stanno infliggendo al califfato perdite nei luoghi che per primi hanno identificato il territori controllato dal Daesh. Tuttavia, sarebbe alquanto pericoloso ritenere che le azioni portate a termine fuori da quei luoghi siano gli ultimi spasmi di un Daesh morente, come se annichilendo, se mai fosse possibile, la sua presenza in Siria e Iraq si estirpasse a livello globale la minaccia. Quarantasei gruppi, sparsi per diverse regioni del mondo, hanno giurato fedeltà e agiscono in nome del Daesh e la sorte di queste sacche di islamismo radicale non è minimamente legata in maniera diretta a ciò che accade in Siria e Iraq. Abbassare la guardia, e con essa anche la consapevolezza sociale del fenomeno, è tanto pericoloso quanto non eliminare coloro che pongono la minaccia.

Ancora, lo stupore che ogni volta si ha nei confronti delle modalità di attacco è sempre più legato ad una volontà mediatica dettata dal sensazionalismo che da un’analisi consapevole del terrorismo e da una certa percezione sociale. L’utilizzo di mezzi di locomozione da lanciare contro la folla non è certo una novità nel panorama degli attacchi terroristici: diversi sono infatti quelli portati a termine con questa modalità ad esempio in Israele, anche recentemente, ma anche in Francia a Digione e Nantes nel dicembre del 2014. E seminare il panico e mietere vittime con un furgone lanciato in mezzo alla folla veniva suggerito già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) nelle sue sezioni di open source Jihad: “To achieve maximum carnage, you need to pick up as much speed as you can while still retaining good control of your vehicle in order to maximize your inertia and be able
to strike as many people as possible in your rst run”. “The ideal location is a place where there are a maximum number
of pedestrians and the least number of vehicles”.

Infine, diventa sempre più urgente approfondire il tema della radicalizzazione che porta a compiere questi gesti. Il panorama di profili che aderiscono alla causa o si ispirano alla modalità di esecuzione di atti spettacolari propagandati dal Daesh è esteso e contempla diverse tipologie: dai piccoli criminali che intraprendono il percorso di radicalizzazione nelle carceri, a quelli che si indottrinano online, a quelli che respirano l’aria del radicalismo nei tessuti sociali nei quali sono inseriti per tramite di relazioni familiari o amicali, a individui per i quali il processo di integrazione è fallito e ad altri che invece potrebbero essere sponsor della loro riuscita incarnando le giovani generazioni istruite di una comunità non necessariamente immigrata.

Capire le cause della radicalizzazione e i tempi, che in alcuni casi sono estremamente brevi, gioca un ruolo fondamentale nell’intercettare situazioni potenzialmente a rischio.

Alessandro Burato

Ricercatore “Itstime”

UE-TURCHIA, CHI VUOLE COSA?

La Turchia trema. Trema sotto i colpi del terrorismo, che in questi giorni ha provocato due attacchi consecutivi. Il primo martedì scorso, una bomba nella metropolitana di Istanbul che ha causato 11 morti e 36 feriti; il secondo, il giorno successivo, un’autobomba davanti a un commissariato nella provincia del Mardin che ha ucciso almeno un poliziotto e due civili, ferendone altri 30.

Trema, insomma, sotto i colpi della rinnovata guerriglia del PKK e, secondo i dati diffusi da Amnesty International, anche sotto il peso degli oltre 2,7 milioni di profughi siriani, che fanno della Turchia il paese con il più alto numero di rifugiati al mondo – numero peraltro destinato ad aumentare in seguito alle clausole dell’accordo con l’Unione Europea del Marzo scorso.

È proprio da Bruxelles che arrivano i segnali meno incoraggianti per i piani del Presidente Recep Tayyip Erdoğan: segnali che possono addirittura far saltare ogni tentativo di avvicinamento dello Stato degli Stretti con l’Unione Europea. Infatti, se da una parte l’UE si mostra vicina alla Turchia e convinta di fare fronte comune nella lotta al terrorismo, dall’altra resta invischiata in una partita controversa, incastrata in delicate relazioni diplomatiche. Suscita ancora molta risonanza, infatti, la dura accusa lanciata all’Unione da Erdoğan durante la chiusura dei lavori del Word Humanitarian Summit dello scorso 24 Maggio: secondo il Presidente, infatti, i 6 miliardi di euro di aiuto promessi dall’UE per l’accordo sui migranti non sarebbero mai arrivati alla Turchia, e la promessa di liberalizzare le procedure per i visti e facilitare l’ingresso della Turchia nell’area Schengen sarebbe stata rimandata ad una indefinita data di fine Giugno.

Le cause per questo rinvio sarebbero le famose 72 richieste, da rispettare alla lettera, che l’Unione Europea ha presentato alla Turchia; tra queste, sono inclusi provvedimenti giudicati essenziali, quali la revisione delle leggi nazionali anti-terrorismo, la libertà di stampa, la lotta alla corruzione e la cooperazione giudiziaria con i paesi membri dell’Unione Europea. In aggiunta, vi è anche la preoccupazione espressa dalle parole di Angela Merkel, la quale ha “caldamente” invitato Erdoğan a rispettare gli obblighi di fornire la Turchia di un Parlamento “forte”.

Siamo così di fronte ad una nuova impasse nelle trattative UE – Turchia, che mette nuovamente in discussione l’annoso e controverso processo di integrazione della stessa nell’Unione Europea.

Processo complicato già dalla sua nascita, e inevitabilmente farraginoso nel suo sviluppo. Non è un mistero, infatti, che non solo il Parlamento Europeo, ma anche molti parlamenti nazionali, tra cui quello italiano, hanno sollevato questioni di legittimità e di opportunità nel sottoscrivere un accordo che, ad oggi, stenta a raccogliere un ampio consenso. È vero che il numero di partenze di migranti dalla Turchia si è sensibilmente ridotto negli ultimi mesi, ma è altresì vero che il numero di profughi sulle coste greche rimane ancora insostenibile, e che i rimpatri sono stati ben al di sotto delle aspettative. Diverse organizzazioni internazionali presenti nei campi profughi denunciano che basse percentuali dei richiedenti asilo in Turchia ricevono un trattamento adeguato: è inevitabile, in tal caso, che violazioni dei diritti umani distruggano la legittimità dell’accordo e sgretolino la convinzione europea che la Turchia sia un “paese sicuro”. Anche se, bisogna dirlo, la narrazione europea spesso si esime da una descrizione onesta della situazione sul campo, che a rigor del vero parla di programmi molto seri del governo turco per i rifugiati siriani e iracheni.

Başbakan Recep Tayyip Erdoğan, AK Parti Genişletilmiş İl Başkanları Toplantısı'na katıldı. Başbakan Erdoğan, partilileri ''Rabia'' işareti yaparak selamladı. (Evrim Aydın - Anadolu Ajansı)

Certamente, ciò che desta maggiori perplessità in merito ad una futura reale implementazione degli accordi, è il fatto che non sembrano esserci segnali che aprano spiragli di concreto avvicinamento: Erdoğan, si sa, è un leader con cui è complicato discutere, ed è tutta da appurare la sua reale volontà di abbandonare il sogno della leadership del Medio Oriente a favore di un ruolo da comprimario (seppur di peso) in una Unione che lo vede con sospetto.

Inoltre, con l’estromissione di Davotoğlu dal Governo, le cose si fanno ancora più complesse: l’Unione Europea, infatti, perde un interlocutore fidato e si ritrova a dover avere a che fare con Erdoğan “uomo solo al comando”, sempre più restìo a cedere alle pressioni esterne e intollerante contro le minacce interne. Ora, l’Unione Europea sta correndo precipitosamente ai ripari con un piano da 62 miliardi da stanziare nei paesi di origine dei flussi migratori, nella tardiva speranza di fermarne l’emorragia: questo, in attesa di capire se potrà ottenere un reale progresso nell’asse con la Turchia, nella speranza che il suo tremolio non sia il nostro terremoto.

Matteo Radice

LA FINE DEL SOGNO. L’EUROPA E’ ANCORA IL NOSTRO FUTURO?

Grexit, Brexit, Nexit. Un exit collettivo sembra devastare l’European Dream. Un effetto domino, inatteso?! Sperato?! O forse inizialmente sottovalutato? La Brexit è però solo l’ultima spina che si è conficcata nel fianco dell’UE, che, assieme alle precedenti (chiusura dello Schengen, iniziale rischio Grexit, affermazione dei partiti anti-Ue, complessa governance economico e bancaria), ha pian piano portato al logoramento dell’identità di una già fragile Europa.

Il famoso disegno degli “Stati Uniti d’Europa” che Churchill decantava, nel suo discorso del 1946 all’Università di Zurigo, come soluzione per un’Europa libera, felice e sicura, forse non ha mai avuto la sempre agognata realizzazione completa. È evidente che sono troppi gli scenari venuti a delinearsi nell’Europa di questi anni, eventi che meritano una grande attenzione e consapevolezza. Non è stato quindi un caso che il secondo appuntamento del ciclo di incontri sul “Mondo che sarà”, organizzato dalla Fondazione De Gasperi, abbia posto l’attenzione su una domanda quanto mai appropriata: “L’Europa è ancora il nostro futuro?”.

Enzo Moavero Milanesi, giudice di primo grado presso la Corte di giustizia dell’Unione europea in Lussemburgo e collaboratore della Commissione europea in qualità di Direttore Generale del Bureau of European Policy Advisors, già Ministro per gli Affari Europei nel governo Monti e Letta, è stato il relatore dell’incontro.

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La “generazione europea”, quella dell’Erasmus, dell’Euro, delle frontiere aperte e del commercio europeo, è probabilmente l’unico spiraglio di salvezza per un’Europa che stenta a restare unita ed in piedi. Già Francia e Paesi Bassi, rifiutando il Trattato Costituzionale, hanno spezzato in partenza l’ambizione di dare all’Europa un assetto più compiuto. La ragione non è cosi diversa da quella che oggi spinge altri paesi alla frattura per il remain o il leave dall’Europa.

I meteoriti che permettono il vacillamento continuo europeo sono diversi. La globalizzazione è uno di questi, e con essa la conseguente necessità, per gli europei, di confrontarsi con nuovi popoli.

La crisi economica e finanziaria e l’immigrazione che ci ha colti impreparati (sia da un punto di vista economico che morale), hanno contribuito al declino europeo, insieme al terrorismo e le guerre. È evidente che se l’Europa non è in grado di affrontare questi  grandi problemi, gli incessanti dubbi di molti Paesi membri difficilmente si placheranno.

Quando la domanda dell’exit viene da un Paese che si può definire già in parte fuori dall’Europa, è un grande segno di un incessante declino, soprattutto in un momento così precario per questa istituzione. Allora, sarà meglio far prevalere la “pancia” che spinge verso l’uscita, o la “testa” che tende ad una stabilizzazione europea?

È evidente che non è più tempo per un ibrido europeo, che si divide tra federalismo e non federalismo, perché non soddisfa più i tempi attuali. Per cui, in una visione futura dell’Europa, in una sua prossima ricostruzione, se si dovesse ripartire da un nucleo di virtuosi coesi ed economicamente simili, viene da chiedersi se si debba riparte dalla zona dell’Euro.

Il sogno europeo, basato sul federalismo, sarebbe in grado di realizzarsi? Attraverso questa analisi attenta e limata in ogni suo piccolo dettaglio, l’incontro è stato condotto verso l’unica domanda che ogni italiano dovrebbe porsi in questa fase di un’Europa in ginocchio: “L’Italia, che fine farebbe? Sarebbe compresa in questo nucleo di virtuosi?”; “la nostra Italia, che rappresenta il secondo paese con il debito pubblico più alto al mondo, con una crescita limitata da vent’anni, che non sfrutta i fondi europei, davvero farebbe parte del grande progetto di rinascita?”; e ancora, “Che disegni resteranno della geopolitica attuale?”

EDITORIALE

A più di trent’anni dalla costituzione, la Fondazione De Gasperi conserva intatti i principi fondanti che ne hanno caratterizzato la nascita e il significato storico che ne indirizza il cammino. Il portato ideale dell’intuizione e dell’impegno di Alcide De Gasperi, padre della ricostruzione democratica dell’Europa post-bellica, rappresenta oggi la cifra di quell’europeismo concreto di cui siamo eredi e verso cui volgere orgogliosamente lo sguardo.

“L’attuazione di tale idea – dichiarava De Gasperi nell’ottobre del ‘47 all’Assemblea Costituente, con riferimento all’unione degli Stati europei – sarà lenta, ma essa costituirà la speranza dell’avvenire”. L’Europa di oggi vive un punto di svolta fondamentale: se non farà proprie, coerentemente con la tradizione culturale che ne ha ispirato la nascita a partire dalle radici giudaico-cristiane e greco-romane, questioni come la centralità della persona e della famiglia, l’attenzione ai temi del lavoro e della solidarietà, corre il rischio di uscire dalla rotta tracciata dai padri fondatori. La Fondazione, pertanto, intende sviluppare la propria attività nella diffusione del pensiero degasperiano come faro che illumini quella strada. Nessun singolo paese dell’Unione può avere un futuro da protagonista nel mondo globalizzato al di fuori di un’Europa forte e coesa.

In questo percorso di divulgazione e conoscenza, i giovani saranno protagonisti. L’attività della Fondazione De Gasperi rappresenta una guida culturale e un punto di riferimento saldo nella formazione storica e politico-istituzionale dei giovani europei. Il loro spirito di appartenenza e il desiderio di cittadinanza globale sono la testimonianza più evidente e incoraggiante che il sogno europeo di De Gasperi, che non vide realizzarsi in vita, è patrimonio delle nuove generazioni dei cittadini dell’Unione.
Il 19 agosto del prossimo anno ricorre il 60esimo anniversario della sua scomparsa. Le celebrazioni, alle quali la Fondazione dedicherà un significativo programma di iniziative, saranno impreziosite dal semestre di presidenza italiana dell’Unione europea: concomitanza straordinaria che assegna al nostro Paese una responsabilità di rilievo nella costruzione dell’edificio politico europeo.
La Fondazione opererà a partire da queste premesse, memore e testimone dell’insegnamento politico e morale e della lungimiranza di un grande padre dell’Italia. Che in un tempo lontano, prima del meritato riconoscimento della storia, sentiva già l’Europa come sua patria.

Angelino Alfano

Presidente Fondazione De Gasperi