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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

19 agosto 1954 – 19 agosto 2021

«Adesso ho fatto tutto ciò ch’era in
mio potere, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore
ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e
vita. Poi, quando credi di essere necessario e
indispensabile, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa
capire che sei soltanto utile, ti dice: ora basta, puoi
andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là, col
tuo compito ben finito e preciso. La nostra piccola
mente umana non si rassegna a lasciare ad altri
l’oggetto della propria passione incompiuto.»

Pochi giorni dopo aver detto queste parole alla figlia Maria Romana, il 19 agosto 1954 in Val di Sella Alcide
De Gasperi concludeva quella che era stata la sua “missione”
.

Una vita al servizio degli altri, caratterizzata dai valori che ancora oggi vivono nella Fondazione che porta il suo nome, nata proprio per volere della figlia per trasmetterli alle nuove generazioni.

Lo ricordiamo oggi nell’anniversario della scomparsa con una foto dell’Archivio storico della Camera dei Deputati che ritrae l’amico Robert Schuman in visita alla tomba dello statista trentino, rinnovando il nostro impegno quotidiano – condiviso con una comunità di uomini e donne che si riconoscono nei valori degasperiani e agli Amici che sostengono la Fondazione – a mantenere viva la sua testimonianza.

Maria Romana De Gasperi: “Papà dal carcere mi chiese di pregare la Madonna per lui”

di Corrado Occhipinti Confalonieri, pubblicato su “Maria con Te” – Dicembre 2020

 

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In occasione dell’uscita del libro di Alcide De Gasperi (1881-1954) “La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana” (Morcelliana, 2020) abbiamo incontrato l’erede dello statista democristiano per conoscere un aspetto poco noto del padre: la profonda devozione verso la Madonna.

De Gasperi e la moglie Francesca avvicinarono alla fede le quattro figlie, la secondogenita Lucia divenne suora. Maria Romana (classe 1924), dalla memoria lucidissima, è dotata anche di uno spirito arguto. Nello scrivere la prima biografa del padre, non citò i nomi dei politici ma solo la carica ricoperta per ricordare un insegnamento ricevuto da lui: il politico è al servizio dello Stato, quando termina l’incarico, torna a essere un semplice cittadino.

«La mamma mi aveva detto che era in viaggio di lavoro, invece era stato imprigionato dai fascisti. Portava sempre con sé un’effigie della Vergine dentro una piccola custodia d’argento. Nel 1946, prima di parlare con i rappresentanti dei Paesi alleati a Parigi, entrò in Nôtre-Dame e invocò Maria. I nostri pellegrinaggi al santuario di Pinè e il libro nato dall’album che mi preparò per il Natale del 1927»

 

In che epoca suo padre Alcide le realizzò l’album sulla vita di Gesù?

“Nel 1927 mio padre si trovava a Roma in prigione per le sue idee antifasciste e non mi poteva regalare nulla per il Santo Natale. Non si sa come, gli capitò fra le mani una copia del National Geographic dei primi del ’900 che conteneva un reportage su Nazaret. Decise allora di ritagliare le fotografe e di spiegarmi la vita di Gesù con delle didascalie a commento delle immagini. All’epoca avevo solo quattro anni e non capivo le parole: me le leggeva mamma Francesca”.

Per quale motivo le fece un regalo così “da grande”?

“Lui voleva darmi la possibilità d’immaginare Gesù. Il libro contiene le foto dei luoghi in cui Cristo abitò con Maria e Giuseppe, vediamo i pastori, le pecore, ma non c’è nessuna immagine del Redentore. Siamo abituati a immaginare Gesù biondo, vestito di bianco, in realtà con questo album tutti lo possiamo immaginare come lo abbiamo nel cuore, magari con la pelle scura, con addosso abiti grigi o marroni. Per mio padre Alcide l’importante era la semplicità nel raccontare solo cose vere fino a quando da grande le avrei potute vedere e valutare”.

Come fece Francesco d’Assisi nel presepe di Greccio: non volle figuranti, ma solo il bue e l’asino e una mangiatoia vuota perché diceva che il presepe è custodito nel cuore di ciascuno di noi. Qual è l’immagine del libro cui è più affezionata?

“Senz’altro quella della fontana: quando venne scattata la foto era l’unica presente a Nazaret, così come lo era all’epoca di Maria. Mi emoziona immaginare la Vergine che tenendo per mano Gesù bambino, si reca a prendere l’acqua da quella sorgente”.

Suo padre amava la Madre Celeste?

“Si era affidato a lei, dalla prigione mi scriveva: “Mia cara Pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà”. Io non sapevo che fosse incarcerato, mia mamma mi aveva detto che era in viaggio per lavoro. Terminata la prigionia, portava sempre me e le mie sorelle Lucia, Cecilia e Paola in pellegrinaggio dalla Madonna di Pinè».

Dove si trova questo santuario?

“Sorge in un bosco della media Valsugana, qui dal 1729 per cinque volte la Vergine apparve a una pastorella, Domenica Targa”.

Suo padre Alcide era legato a un’immagine in particolare della Madonna?

“Sì, teneva sempre con sé un piccolo portadocumenti argentato con all’interno l’immagine della Vergine. Ricordo che quando cambiava abito lo trasferiva subito di tasca, non usciva mai di casa senza”.

Recitavate con vostro padre il Rosario?

“Ricordo che lo facevamo per Pasqua, poi pregava per conto suo”.

Che cosa provava verso la Vergine?

“Si rivolgeva a lei quotidianamente, anche nei momenti difficili. Quando il 10 agosto 1946 si recò alla Conferenza di Parigi per tenere davanti agli alleati vincitori della guerra il discorso a sostegno della causa italiana, prima dell’incontro entrò nella basilica di Nôtre-Dame a pregare la Vergine. All’uscita mi disse: “Ecco, ora mi sento più tranquillo”. Quel giorno c’era freddezza da parte degli alleati. Al termine del suo intervento, solo il rappresentante americano gli strinse lamano, ma da quel gesto mio padre capì che era l’inizio della rinascita per la nostra Patria”.

Suo padre era devoto a un santuario mariano in particolare?

“A quello della Vergine di Loreto. Il 29 febbraio 1948, alla vigilia dell’importante tornata elettorale del 18 aprile di quell’anno, si recò da lei”.

Ricorda quel giorno?

“Mio padre proveniva da Ancona, aveva tenuto un importante discorso davanti a 80 mila persone. Giunto a Loreto in auto, entrò in Santa Casa, si mise in ginocchio e si raccolse in preghiera. Dopo aver visitato la basilica, uscì sul sagrato. Ad attenderlo c’erano migliaia di persone e improvvisò un discorso. Ad aprile vinse le elezioni: quando seppe della vittoria, commentò: “Mi aspettavo una pioggia di voti, non una grandinata”. Il trionfo delle forze democratiche contro quelle di ispirazione totalitaria garantì a mio padre quel consenso necessario che portò poi al boom economico”.

Anche sua madre Francesca era devota alla Madonna di Loreto?

“Sì, ormai vedova, il 24 maggio 1959 visitò il santuario in occasione del convegno “Le lavoratrici della Santa Casa”: io non potei parteciparvi perché impegnata con i miei due figli ancora piccoli”.

 

La famiglia: un nuovo protagonismo?

Il Consiglio dei Ministri ha approvato lo stanziamento in legge di bilancio per l’assegno unico e universale previsto dal Family Act.

di Francesco De Santis

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La famiglia è ormai vittima di una delle più gravi crisi economiche vissute dal sistema capitalistico (non solo in Europa) nel secondo dopoguerra. Il comportamento “dell’attore famiglia” risente, al giorno d’oggi, dell’influenza di diversi fattoritra cui, sicuramente, quello economico. Il nesso fra economia e famiglia, d’altronde, si rinviene già nel corpo della parola economia, unione di “òikos”, che significa casa, e “nomos”, che sta a significare la parola legge.

Si può affermare, difatti, che già all’interno del nucleo familiare vengono a sussistere determinati “fattori economici”, fondamentali per la vita in comunione. Basti pensare non solamente al ruolo giocato dal risparmio ma anche dal ruolo giocato dalla produzione e dal guadagno, oltre alla formazione vera e propria del bambino nella tabella dei “valori” da portare avanti nel corso della propria esistenza. In questo anche la perdita di influenza del Cristianesimo sulla nostra cultura e sulla nostra civiltà, come ricordato da Benedetto XVI nel suo “Caritas in veritate”, ci ricorda come i difetti dei mercati spersonalizzati hanno riunificato il mondo intero in un villaggio globale senza renderci davvero fratelli.

La salvaguardia della famiglia ha assunto, con il trascorrere del tempo, un’importanza assai elevata nel dibattito pubblico e nei tavoli di concertazione fra i diversi attori presenti sulla scena socio-politica-economia.

Famiglia che, però, non può essere analizzatacome un soggetto dalla mera razionalità “economicista”. Difatti, il ruolo giocato dalla famiglia, basato su un’interpretazione multidimensionale e interdisciplinare, venne già ben interpretato dalle parole di J. Stuart Mill, secondo il quale:

“La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finché non saremo capaci di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica.”

La famiglia pur rimanendo un soggetto forte è, infatti, un “progetto” che, seppur al centro delle volontà dei singoli individui, si trova, oggi, dinanzi alla necessità di emergere con forza per consentire uno sviluppo maggiormente armonioso dell’intera società. Abbattere le disuguaglianze sociali è un compito che deve essere perseguito e, attraverso l’analisi delle politiche messe in atto, un nuovo paradigma per il concetto di “famiglia” è diventato auspicabile. La riforma dei congedi parentali, ad esempio, se troverà effettiva attuazione, riporterà al centro della discussione un elemento dall’indubbio valore: il ruolo della “madre-lavoratrice”. Come non ricordare, in questo, il bellissimo esempio di Martina Camuffo, assunta a tempo indeterminato “nonostante” incinta? La parità di genere deve essere foriera di nuove possibilità di convivenza, in quanto armonizzare i tempi della vita familiare e della vita lavorativa può incentivare il rientro al lavoro delle donne dopo la maternità e una maggiore serenità per tutti i “protagonisti” del “mondo famiglia”.

Dal punto di vista demografico è interessante notarecome il paragone tra i dati italiani e la media europea sia impietoso. Mentre il tasso di natalità nel nostro paese si attesta all’1.29, nel resto del continente lo stesso indicesi attesta ad un valore pari a 1,59. Questo dato, indicativo senz’altro di un progressivo sviluppo (in senso negativo) della famiglia nel lungo periodo, ha trovato ampia descrizione nel “Family Act”, la misura del Governo Italiano che intende porre un freno non soltanto alla crisi demografica ma anche consentire unprogressivo ripensamento delle abitudini di vita all’interno degli stessi nuclei familiari.Il “Family Act”, che ha trovato approvazione alla Camera il 21/07/2020 e poi lo stanziamento in Legge di Bilancioper l’assegno unico e universale a partire dal 1/07/2021, è una passo in avanti senz’altro importante che va incontro, soprattutto, alle nuove generazioni e a chi, non senza fatica, culla il sogno della famiglia.

Ma in che misura l’intervento del governo si sostanzierà per armonizzare i livelli di benessere e regalare una maggior possibilità di “investire” nella famiglia? Dai 5 punti presenti nel Family ACT (assegno universale calibrato sul reddito per figli under 18; Riforma dei congedi parentali; Sostegno alle spese educative; Incentivi al lavoro femminile; Protagonismo dei giovani under 35) appare chiaro, infatti, come il Ddl, composto da 8 articoli, si pone l’ambizioso obiettivo di intervenire in un ambito, quello della famiglia, che non può più essere tralasciato. Ad ogni modo il “Family Act” andrà valutato all’interno del complesso sistema burocratico italiano. Come, ad esempio, si concilierà con le riforme previdenziali? Inoltre, i singoli decreti attuativi dell’assegno unico e universale si concilieranno con l’equità orizzontale e verticale previste dall’art. 53 della Costituzione? L’assegno sarà progressivo, come sembra, o ci saranno, in corso d’opera, alcune correzioni prendendo spunto da altri paesi Europei in è uguale per tutti?

In questo le somme da stanziare possono giocare un ruolo fondamentale. Difatti, essendo il Family Act finanziato in parte con la soppressione di misure già esistenti (vedi bonus bebè), i fondi del “Recovery Fund” potrebbero liberare risorse e convergere sull’assegno.

È necessariosostenere un cambiamento nella divisione delle responsabilità di cura, mirando a introdurre maggiore uguaglianza di genere nella famiglia, facendo sì che i ruoli familiari non siano più subordinati l’uno all’altro ma siano complementari.

Il futuro della famiglia potrà essere roseo solo se sicomprenderà, fino in fondo, che la famiglia è davvero un “soggetto” multidimensionale, e che per la sua comprensione occorre mettersi dinanzi alla sfida della complessità.

Blangiardo (Istat): “Con il Covid nascite ai nuovi minimi. Scenderemo sotto 400 mila, il welfare deve cambiare”

Riportiamo l’intervista di Federico Fubini pubblicata sul Corriere della Sera / L’Economia a Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat e membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi. 

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Gian Carlo Blangiardo, 71 anni, demografo, presidente dell’Istat dal 2019, ha notato una stranezza: nove mesi dopo l’arrivo della nube tossica di Chernobyl, nel maggio del 1986, la natalità in Italia è calata (temporaneamente) del 10% rispetto alla norma di quel periodo. Gli italiani avevano reagito all’incertezza e alla paura rinviando le scelte di procreazione.

Presidente, il Covid innescherà lo stesso effetto, magari moltiplicandolo?

«In Italia abbiamo una tendenza che dura dal 2009, con un calo di circa un quarto delle nascite da allora. Già gennaio 2020, prima della pandemia, ha un calo dell’1,5% rispetto a un anno prima. Vedremo dai dati di dicembre quanto la paura avrà inciso, a partire da marzo. Contano anche l’incertezza sul lavoro e le difficoltà della vita quotidiana, che inducono le persone a posticipare il momento di avere un figlio fin quando magari diventa tardi. Fare previsioni è difficile, ma temo che nel 2021 potremmo scendere sotto le 400 mila nascite».

Erano più di un milione nel 1964, 576 mila nel 2008.

«Da notare che il declino riguarda anche la popolazione straniera. L’immigrazione oggi porta 62 mila nati all’anno, dopo essere arrivata a 80 mila. Ma aldilà dei fattori congiunturali — la crisi, la pandemia — in Italia c’è soprattutto un effetto strutturale, perché si sta riducendo il numero di persone in età feconda. I nati all’apice del baby boom oggi hanno 56 anni. Le generazioni in età riproduttiva saranno sempre più ristrette».

Come reagire?

«Dobbiamo rendere compatibili lavoro e maternità, con un maggiore coinvolgimento dei padri».

Più congedi di paternità?

«C’è anche un aspetto culturale. Ci siamo sempre illusi che dovesse essere lo Stato a risolvere il problema con un bonus, un aiuto, una legge. Invece occorre coinvolgere su questa vera e propria emergenza anche altri attori: il non profit o le imprese, che possono offrire ai dipendenti il servizio di asilo nido. Non è paternalismo, è un investimento. Stiamo prendendo coscienza del problema solo ora, iniziamo a capire che se non facciamo niente la questione diventa veramente problematica per il welfare».

Che intende dire?

«Oggi abbiamo 33 ultrasessantacinquenni ogni cento soggetti in età attiva. Tra trenta o quarant’anni questo numero raddoppia, dunque raddoppia anche la fetta delle pensioni in proporzione al prodotto interno lordo. A quel punto o raddoppiamo la torta, ma sappiamo che non è così semplice…»

Oppure non ci saranno soldi per scuola o sanità?

«…oppure dovremmo tagliare altre cose, è inevitabile. Questa è la guerra tra poveri che sarebbe bene evitare. Ormai c’è una certa consapevolezza del problema. Ma anche resistenza nel prendersi la responsabilità di fare qualcosa per risolverlo».

Il Covid sta rovesciando il paradigma per cui in Italia la speranza di vita migliora più a Nord che a Sud?

«Senz’altro c’è una fortissima variabilità nei territori. A Roma o a Agrigento la mortalità quest’anno scende rispetto al 2019, mentre per Bergamo o per la Val d’Aosta naturalmente è vero l’opposto. Certo la speranza di vita riflette sempre i dati più recenti, ma è solo una proiezione statistica. Detto questo, l’effetto Covid dovrebbe produrre certo un numero di decessi drammatico, ma non enorme nel confronto storico. Non sono i 600 mila morti della febbre spagnola, per capirci».

Che cifre ha in mente?
«Abbiamo fatto delle simulazioni, immaginando diversi scenari. Si va dai 40 mila morti in più rispetto al 2019 agli 80 mila, ma in quest’ultimo caso solo con una seconda ondata che aumenti del 50% il rischio di morte per gli anziani».
Lo scenario centrale è di 60 mila morti in più?

«In teoria sì. Ma la seconda ondata, se ci sarà — speriamo di no — sarà meno dura dal punto di vista della letalità. Abbiamo capito come gestire meglio questo fenomeno. Noi all’Istat stiamo lavorando, con l’Istituto Superiore di Sanità e alcune università, per mettere in piedi un sistema di monitoraggio per identificare in fretta i focolai e segnalarli. Anche avere 40 mila morti in più sull’anno prima è drammatico, chiaro, ma sarebbe sempre meno di quanto è successo nel 1956 o anche nel 2015 rispetto agli anni precedenti».

La fuga dei giovani all’estero frena l’economia. In questo la riduzione della mobilità dovuta a Covid può aiutare?

«Prima del Covid, spesso il Paese non era in grado di dare un futuro ai giovani. Stupidamente investiva su di loro, li formava e li regalava al resto del mondo. Anch’io ho una figlia a Londra. Ora i giovani sono a casa, ma solo perché la mobilità si è bloccata. La scommessa sarà riuscire a creare condizioni che consentano loro di restare anche dopo per la ricostruzione. Altrimenti andranno a fare la ricostruzione degli altri Paesi».

I dati dell’occupazione durante la pandemia dicono che sono sempre i giovani a pagare.

«Sono le fasce meno protette, che si fanno carico di tutta la flessibilità. Credo che la parola magica sia opportunità. Magari con regole un po’ più adatte non a licenziare o a sfruttare, ma a dare a ciascuno la possibilità di trovare il posto giusto».

L’eredità di due padri dell’Europa

Questo articolo è l’ultimo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

Le profonde differenze che separavano Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli non impedirono la particolare sintonia che si creò tra i due personaggi nella collaborazione alla costruzione del loro sogno comune. L’Europa unita. Infatti Spinelli, fondatore del Movimento Federalista Europeo, trovò in De Gasperi, europeista convinto, un interlocutore attento e disponibile all’ascolto, e contribuì così a rendere sempre di più il suo europeismo di tipo federalista.

Si può dunque dire che De Gasperi nutrì il suo federalismo anche delle elaborazioni di Spinelli. De Gasperi, fra l’altro, aveva una rara capacità di aprirsi agli apporti culturali provenienti da ambienti diversi, traendone tutto ciò che di positivo poteva venirne alla sua azione politica. Egli seppe recepire dalla cultura federalista quegli spunti istituzionali che senza difficoltà andavano a integrarsi nel suo iter formativo, facendone risultare un approccio ai temi europei assolutamente originale.

Si trattò quindi di un fecondo confronto di idee e di un reciproco arricchimento ed è forse in questa chiave e in questo sforzo di armonizzazione che va ricercata l’eredità più importante lasciata da De Gasperi e Spinelli. Infatti, sebbene non sia andato in porto il progetto che più avevano a cuore – la CED e il tentativo di una Federazione europea – resta infatti a futura memoria l’unità di intenti con cui i due padri dell’Europa, con fedi così distanti, lavorarono alacremente. Si può quindi affermare che fra i due padri fondatori, con storie e convinzioni così dissimili, vi sia stata un’unione di intenti e persino un’affinità maggiore di quanta ciascuno di loro ne trovò fra i propri compagni politici.

Questo vale certamente per De Gasperi, il cui federalismo non fu compreso e accettato da tutti, né all’interno della Democrazia Cristiana, né all’interno dei suoi governi, fra i suoi stessi Ministri. Ma vale anche per Spinelli, le cui tesi federaliste radicali furono difficili da digerire persino tra i membri del Movimento Federalista, oltre che fra le altre correnti europeiste. Condivisero pertanto, oltre ad un nucleo importante di idee, anche quello che spesso è il destino di molti precursori e visionari: l’essere difficilmente compresi dai loro contemporanei.

L’idea di Europa in De Gasperi e Spinelli

Questo articolo è il secondo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

La grande differenza di pensiero, nonché le diverse convinzioni in antitesi, non impedirono ad Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli di condividere il comune sogno europeista. Si potrebbe osservare come, nonostante la notevole distanza che separa i due personaggi, si sia creata una sintonia, in particolare, attorno a tre questioni concernenti il progetto di uno stato europeo.

La prima attiene al “tipo” di europeismo. Entrambi imboccarono infatti con convinzione la soluzione propriamente federalista, nella consapevolezza che fosse distinta dalla strada funzionalista e da quella confederale, restia ad accettare effettive limitazioni di sovranità nazionale in favore di istituzioni sopranazionali.

Il punto non fu di carattere teorico. Si trattava di considerare la costruzione europea come un effettivo processo di devoluzione di competenze statali alle istituzioni federali. Non bastavano istituzioni europee in cui ogni Paese trovasse la sua rappresentanza attraverso i propri governanti, ma di istituzioni europee tendenzialmente indipendenti dagli Stati. Il principio federalista richiedeva infatti la creazione di un’autorità politica svincolata dagli interessi dei singoli Stati, che andasse oltre la mera cooperazione e fosse autenticamente sopranazionale.

La seconda attiene alla democrazia. De Gasperi e Spinelli si trovarono infatti all’unisono non solo sul federalismo in senso autenticamente inteso, ma anche su di un aspetto non marginale, attinente alla rappresentatività delle istituzioni europee, ossia alla loro reale democraticità. Per entrambi, infatti, l’Europa avrebbe dovuto unire e rendere interdipendenti non solo i governi, ma anche i popoli. Gli stessi cittadini europei avrebbero dovuto consapevolmente partecipare a questa integrazione, attraverso il voto e attraverso istituzioni giuridiche federali che rendessero possibile la rappresentanza popolare, come il Parlamento europeo. I due padri fondatori avevano chiaro come l’unione europea dovesse essere un’opera realizzata dagli stessi popoli europei e non dalle varie agenzie specializzate, dalle diplomazie o da efficienti burocrazie sopranazionali.

La terza questione concerne la prospettiva sociale. Il federalismo di De Gasperi e Spinelli significava anche giustizia ed equità nelle relazioni fra i soggetti del nuovo ordinamento europeo. La fine del dogma della sovranità statale doveva infatti significare un cambiamento nelle relazioni economiche e nei rapporti di lavoro, e quindi un miglioramento delle condizioni di povertà e di disoccupazione del dopoguerra. L’Europa federale significava per loro una società più umana, tollerante, giusta e politicamente libera. L’aspetto della giustizia sociale fu dunque un ulteriore elemento di unione, sebbene fossero molto differenti i fondamenti dottrinali ed etici su cui si basava.De Gasperi si ispirava infatti alla dottrina sociale cristiana e ai suoi principi di dignità della persona, di solidarietà, sussidiarietà e bene comune. D’altra parte era altresì certo che la condizione di base per una convivenza pacifica passasse attraverso l’armonizzazione delle diverse correnti di pensiero. E che pertanto tutte – sia il liberalismo, sia il socialismo, sia il cristianesimo – fossero indispensabili per cementificare l’unione del continente. In uno dei suoi ultimi discorsi tenne a ribadire come l’essenza dell’internazionalismo fosse la sintesi storica di fattori ideologici diversi, ognuno dei quali arreca elementi giuridici, sociali e spirituali atti a promuovere l’unità e la pacifica collaborazione delle genti.

Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli: due fedi opposte e un ideale comune

Questo articolo è il primo di una serie di tre estratti della tesi di laurea magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici dell’Università degli Studi di Palermo dal titolo “L’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Due fedi opposte e un ideale comune” del giovane Francesco Libotte. In queste righe, si approfondisce l’idea di Europa in Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli cercando di ricostruire come queste due figure così diverse hanno portato avanti il medesimo ideale dell’unificazione Europea.
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di Francesco Libotte

Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, nonostante la differenza di ruoli e di funzioni, di responsabilità politiche e, anche, di visione sociale, di credo e, non ultimo, di età, hanno apportato un contributo di primaria importanza per la costruzione dell’integrazione europea, anche collaborando insieme in alcune occasioni.

Il loro pensiero europeista però non può essere compreso appieno senza considerare il vissuto storico in cui operarono e si formarono queste figure e durante il quale si delineò la persuasione di questo ideale. De Gasperi, di origine trentina, visse il contesto multietnico e multinazionale dell’impero austroungarico, anche svolgendo incarichi politici, battendosi per la minoranza italiana che rappresentava e questo fu poi fondamentale per la sua concezione di un’Europa dei popoli. Allo scoppio della Grande Guerra si trovò quindi in una prospettiva particolarmente difficile, come uomo di frontiera fra l’Impero austroungarico e l’Italia e durante e dopo il conflitto si impegnò per salvaguardare la sicurezza e i diritti dei trentini.  Subì poi pesantemente le conseguenze del ventennio fascista, che per lui significò il carcere, la persecuzione, il nascondimento, lo scioglimento del partito in cui militava.

Altiero Spinelli visse invece il fascismo e la seconda guerra mondiale da giovanissimo militante comunista, come tale ricercato, imprigionato e confinato. Proprio gli studi condotti negli anni del carcere lo condussero però ad allontanarsi dal marxismo e dalle relative interpretazioni della realtà economica e sociale, per elaborare una prospettiva politica progressista autonoma e del tutto nuova, di cui la prima manifestazione fu il Manifesto di Ventotene, scritto durante la prigionia insieme ad Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941. Lo scenario successivo alla seconda guerra mondiale fu caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali, che coinvolsero non solo il nostro Paese, ma le principali Nazioni europee: tutto era da ricostruire in un quadro internazionale contrassegnato dalle nuove tensioni e incertezze dell’inizio della guerra fredda e della divisione del mondo per aree di influenza.

In questo contesto Alcide De Gasperi fu in grado di condurre il Paese, sconfitto dalla guerra, nell’area occidentale, e di ottenere che all’Italia fosse riconosciuta la dignità propria di una delle principali Nazioni dell’Europa continentale e, anche, il supporto economico, in particolar modo degli Stati Uniti. La questione dell’unità europea, in questo quadro, fu ritenuta da De Gasperi la condizione necessaria per una pace duratura, oltre che per l’autonomia politica italiana. La costruzione della federazione europea divenne così il perno dell’attività politica dello statista trentino e, in questo, i suoi obiettivi politici si trovarono a coincidere con quelli di Altiero Spinelli, per quanto il percorso personale e la formazione politica di quest’ultimo divergessero notevolmente da quelli di Alcide De Gasperi.

Spinelli infatti, inizialmente nelle file del Partito Comunista, se ne discostò, come si è detto, sempre di più, fino a divenire apertamente anticomunista. Ritenne infatti di dover attuare tutt’altra rivoluzione: quella volta a creare un nuovo Stato federale ad opera di forze popolari e democratiche, unica strada politica per eclissare definitivamente la sovranità nazionale, causa principale di guerre, conflitti e divisioni. Il Movimento Federalista Europeo, fondato per intuizione dello stesso Spinelli, divenne un punto di riferimento importante per De Gasperi. Quest’ultimo trovò così nei federalisti e, in particolare, nei memorandum di Spinelli, linee d’azione e programmi concreti, strategie istituzionali e propriamente costituzionali per giungere a creare organi comuni europei effettivamente indipendenti dai governi nazionali.

“La Banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”. Per una storia economica del Paese

Di Emanuele Lorenzetti

 

Dal 1947 l’annuale Relazione proposta dal Governatore all’assemblea dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia si è arricchita delle “Considerazioni finali”. Queste pagine conclusive riassumono gli elementi fattuali e analitici contenuti nel corpo della Relazione. Soprattutto danno al Governatore l’opportunità di esprimere in forma sintetica e con un diverso, personale linguaggio la propria visione degli accadimenti, dei problemi, delle soluzioni. […] Lungo settant’anni le Considerazioni degli otto Governatori della Banca d’Italia che dal 1947 al 2017 si sono succeduti offrono uno spaccato – storico appunto – della vicenda, non solo economica, italiana e mondiale”.

È con queste parole che Pierluigi Ciocca e Federico Carli, co-autori de “La banca d’Italia e l’Economia. L’analisi dei governatori”, introducono la loro pubblicazione a motivazione dell’opera omnia sull’Istituto di Via Nazionale. Si tratta di un’opera suddivisa in sei tomi che raccoglie tutte le Considerazioni finali pronunciate dai governatori della Banca d’Italia, dalle prime di Einaudi alle ultime di Visco, passando per Menichella, Carli, Baffi, Ciampi, Fazio e Draghi.

La Banca d’Italia ha sempre rivestito un ruolo di primo piano nel Sistema Paese, garantendo stabilità non solo economica, ma politica ed istituzionale. A detta di Federico Carli, nipote dell’ex Governatore Guido Carli, questa opera “vuole essere innanzitutto un omaggio e uno strumento per preservare il prestigio di una istituzione fondamentale della Repubblica”. Numerosi sono i fatti storici documentati con estrema chiarezza, profondità intellettuale ed informazioni statistico-econometriche che, legati tra loro, sottendono un filo rosso che ricostruisce la storia economica del Paese. A partire da Donato Menichella “banchiere e capitano d’industria”, così viene definito dagli autori Federico Carli e Pierluigi Ciocca, che resse da Direttore Generale la Banca d’Italia nel periodo giugno 1947/maggio 1948 con Luigi Einaudi governatore, negli anni della ricostruzione democratica ed economica del Paese. Erano anni difficili quelli del dopoguerra, durante i quali l’obiettivo primario era preservare la stabilità monetaria. Obiettivo, rammentano gli autori, che Menichella riuscì a raggiungere in quanto “il livello dei prezzi ingrosso, seppure fra oscillazioni, nel 1959 era lo stesso del 1947.”

Ma Menichella è ricordato anche per essere stato tra i protagonisti della cosiddetta stabilizzazione monetaria del 1947 insieme allo statista Alcide De Gasperi, il quale durante il suo quarto gabinetto ebbe il grande merito di ripristinare quella fiducia necessaria all’azione di governo, consentendo l’implementazione della strategia antinflazionistica nota come “Linea Einaudi”. Insomma un pezzo di storia italiana, un esempio vincente di collaborazione istituzionale tra politica, alta dirigenza pubblica e Banca d’Italia, in cui le migliori menti vollero unirsi per delineare strategie comuni di lungo periodo, nell’unico intento di consentire il progresso e lo sviluppo economico del Paese. Insomma, come si ebbe modo di definire altrove,è stato il “primo esempio di collaborazione tra politici e tecnici nell’Italia repubblicana”.

Ebbene una collaborazione istituzionale, quella tra l’Istituto di emissione centrale e le altre istituzioni pubbliche e private, che abbraccia tutte le fasi dell’arco costituzionale italiano.Se allora, nel dopoguerra, il tema prioritario era la garanzia della stabilità monetaria, negli anni a seguire in via Nazionale si dovette seguire molte altre questioni economiche. Se con Menichella gli sforzi convergevano su come far ripartire l’economia dopo le devastazioni della guerra, negli anni Sessanta l’economia italiana viveva una fase di splendore. L’alta dirigenza economica italiana si doveva porre la domanda: quale politica economica necessaria a seguire il formidabile sviluppo di quegli anni? Sono gli anni del governatorato Guido Carli in via Nazionale che “lasciò un’impronta marcata su tutti gli ambiti in cui una banca centrale è chiamata a operare: sull’economia internazionale, non solo europea, nella quale l’economia italiana si andava integrando sempre più saldamente, attraverso l’ascoltato contributo analitico, la costante opera di proposta, l’incisiva cooperazione sullo scacchiere finanziario mondiale; sull’attività di indagine statistica e sul governo dell’economia nazionale; sullo studio, la supervisione e l’orientamento del sistema creditizio e finanziario; sulla gestione e modernizzazione dell’Istituto”. Carli, economista lungimirante, fu però tra i primi a intravedere i segni di contraddizione della struttura socioeconomica italiana di quegli anni, quando ancora non erano visibili. Esperto di questioni monetarie internazionali, Carli contribuì inoltre all’internazionalizzazione della Banca d’Italia. Seguì con attenzione gli sviluppi con il crollo dell’ordine monetario internazionale istituito a Bretton Woods, in cui egli “manifestò perplessità sulla possibilità di ricostituire un sistema monetario mondiale basato sul principio della universalità, individuò la soluzione nell’istituzione di grandi aree valutarie che offrissero strumenti di regolamento dei pagamenti internazionali atti a facilitare il processo di aggiustamento tra vasti aggregati: Stati Uniti, Comunità economica europea, Giappone, paesi produttori di petrolio, paesi emergenti. Le fluttuazioni dei tassi di cambio tra grandi aree avrebbero dovuto rispecchiare l’andamento delle bilance dei pagamenti e non subire brusche oscillazioni provocate da flussi di capitali a breve termine”. Guido Carli è considerato da tutti Il Governatore, a lui infatti furono riconosciute doti manageriali sofisticate. Come scrivono Federico Carli e Pierluigi Ciocca, “Einaudi ripristinò l’indipendenza della Banca d’Italia, Menichella la consolidò, Carli la accrebbe”.

Ma quel prestigio e quegli alti splendori dell’Istituto di via Nazionale sotto la guida di Carli trovarono negli anni a venire una serie di eventi negativi come la vicenda Fazio dove “la Banca d’Italia non fu in condizione di ottenere il consenso del Presidente del Consiglio Berlusconi, del Ministro dell’Economia Tremonti e del Capo dello Stato Ciampi per una successione interna al vertice dell’Istituto.” Pertanto, la scelta ricadde su di un uomo esterno come Mario Draghi, il quale dovette avere come obiettivo primario il dover “ristabilire un clima di normalità”. È lo stesso Draghi a dire nel 2006: “A me (…) stava, sta, la responsabilità di accompagnarla nel ritorno al prestigio di cui ha sempre goduto; di guidarne il cambiamento in un contesto nazionale e internazionale profondamente diverso da quello che ha caratterizzato la sua storia”. Oltre a ciò, il Governatore Draghi ebbe come obiettivo primario il dover tornare alla crescita dell’economia nazionale: egli disse “La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso” (2011).

Tutti questi aneddoti, storie di vite ma soprattutto storie di persone che, attraverso la loro alta preparazione intellettuale, anteposero e tutt’ora antepongono l’interesse generale su quello particolare, ci aiutano a comprendere che la Banca d’Italia è tra le migliori istituzioni che il Sistema Paese abbia mai potuto avere. Il forte monito va alla politica, che sappia vedere in Via Nazionale un baluardo imprescindibile per il progresso e lo sviluppo dell’Italia. Ed anche quando tutto sembra andare bene ascolti i moniti che il Governatore sintetizza nelle sue “Considerazioni finali”.

 

 

Popolari e leghisti. La politica vista dal presidente del Copasir Raffaele Volpi

di Luca Di Cesare, Responsabile Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

Cosa è rimasto dell’eredità politica di De Gasperi? Popolari e populisti sono la stessa cosa? Cosa significa essere cattolici in politica? Abbiamo girato queste domande a chi la politica la conosce, e la fa, da tanto tempo. Raffaele Volpi, pavese, leghista della prima ora, oggi presidente del Copasir, il comitato di raccordo fra Parlamento, governo e agenzie di intelligence, non fa mistero di rivendicare le sue radici popolari e spiega perché, oggi, quella lezione politica appartiene a tutti quelli che ne sappiano fare tesoro.

 

Presidente, sappiamo che la sua storia politica non è stata estranea alla cultura della Dc, tra i cui fondatori ricordiamo Alcide De Gasperi, di cui la Fondazione porta appunto il nome. Chi oggi è erede di quella tradizione politica?

L’esperienza della Democrazia Cristiana è irripetibile per un elemento storico. Probabilmente serve una riflessione sui valori.Penso che ci sia un aspetto fondante: con Luigi Sturzo abbiamo sbagliato un punto alla base, cioè quello di tradurre le teorie economiche in quelle politiche, passando dal socialismo reale al liberismo. La politica non può essere subordinata all’economia ma deve essere in grado di governare i cambiamenti economici, altrimenti si rischiano i fallimenti che abbiamo vissuto.

 

Cosa direbbe ad un giovane che le chiedesse se si può essere oggi allo stesso tempo democristiani e leghisti?

Non si può essere democristiani perché non esiste più la Dc, ma si può essere popolari in qualsiasi partito. Io sono per il confronto.Oggi credo che ci siano delle anomalie nel sistema politico. La politica dovrebbe partire dall’interpretazione dei valori. Nel nostro Paese, per fortuna, apparteniamo tutti ad una radice valoriale comune, legata all’Occidente e all’atlantismo. È chiaro però che ci sono diverse declinazioni. Ritengo che parlare da un lato di un popolarismo non necessariamente centrista e dall’altro di un riformismo creerebbe un confronto più sano in questo momento.

 

Sentiamo molto spesso dire che esiste una domanda politica al centro, si parla di “moderati”. Chi sono, oggi, i moderati?

Penso che sia una declinazione meno interpretabile in assoluto. Il moderatismo è l’elemento personale per il quale ci si mette a servizio della politica o, meglio,un approccio più che una posizione politica. Questo significa che si può essere “moderati” in qualsiasi schieramento politico e ciò dovrebbe essere il richiamo per i giovani che vogliono impegnarsi nella politica.

 

Oggi in Europa il Partito Popolare europeo ha molte anime al suo interno che a volte sembrano parcellizzate, come spiega questa situazione?

È necessario un ripensamento da parte del Partito Popolare Europeo perché per molti anni in Europa ha governato con i socialisti europei. A mio avviso, rimane centrale la bontà del confronto politico. A livello sistemico, abbiamo una politica europea di compromesso; forse bisogna nuovamente considerare quali sono gli spazi comuni, ma tenendo a mente le differenze,anche perché nel Ppe ci sono delle diversità enormi; forse ha perso la sua anima più profonda di partito europeo.Oggi potrebbe essere considerato una coalizione e non più un partito.

 

Ci sono tanti cristiani in politica che rivendicano la loro appartenenza al cattolicesimo, De Gasperi ha sempre tenuto ben distinto i concetti di cattolici in politica e politici cattolici. Oggi cosa significa essere cattolici in politica?

Bisogna essere cattolici in un Stato laico. Il legislatore deve affermare i suoi valori sapendo che la legge ha un carattere generale perché è riferita a tutti gli italiani. Parlando delle riforme costituzionali, come dice quel vecchio detto, quando si fanno certe cose bisogna che i banchi del Governo siano vuoti.

 

De Gasperi è stato cristiano, europeo e democratico. Settant’anni fa ha operato una scelta di campo con l’entrata nella Nato, schierandosi con gli Stati Uniti d’America. Eppure ancora oggi, con un nuovo Oriente che si fa largo, la Cina, assistiamo all’eterna tentazione italiana di fare da ponte pontiere fra Est e Ovest. È giusto ribadire quella scelta di campo degasperiana?

La scelta di campo è necessaria, importante e non prorogabile. Cito spesso, anche se non riguarda la storia democristiana, il professor Andrea Carandini, che a mio parere è il più grande divulgatore di storia romana e di archeologia. In una importante presentazione, Carandini dichiarava che nella parte geografica occidentale, come in Grecia e a Roma, nascevano corrispettivamente l’Agorà e il Foro, mentre in Oriente sbocciavano le grandi dinastie. In fondo, è un richiamo storico a due visioni completamente diverse della vita sociale, ovvero, di quali sono le regole della vita sociale. Da tali valori si può determinare l’area di appartenenza, non per essere nemici di qualcuno, ma per essere sicuri che le amicizie abbiano delle fondamenta serie.

Giocatore o scacchiera? L’Unione Europea al tempo della Covid-19

Se sembra complicato prevedere gli effetti di lungo termine di questa crisi sugli equilibri internazionali, possiamo già affermare che questa pandemia sta agendo da catalizzatore accelerando due processi già in atto da diversi anni: la crisi del multilateralismo e il ritorno della politica di potenza.

Le reazioni all’emergenza Covid-19 confermano come sia impossibile immaginare oggi un rilevante problema di politica mondiale risolto (pacificamente o meno) da un solo attore statale. Nel contesto geopolitico attuale è l’interazione tra almeno quattro grandi attori a determinare il corso degli avvenimenti: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e, se lo desiderasse, l’UE. In questa nuova realtà multipolare, già altri attori regionali stanno emergendo, ma le quattro elencate sono sicuramente le grandi potenze che influenzeranno la prima metà del XXI secolo: la prima rappresenta il potere stabilito, la seconda quello emergente, la terza quello calante, la quarta un potere in corso di trasformazione.

Per comprendere i destini di un multilateralismo attualmente in crisi è importante capire come queste quattro grandi potenze si posizioneranno. Se condivideranno il potere scegliendo di cooperare, il multilateralismo potrà riprendersi e tornare a prosperare, anche se dovrà essere adattato ai nuovi equilibri di potere. Se invece competeranno per imporsi come forza dominante, il multilateralismo potrebbe entrare definitivamente in crisi o divenire forse ancora più importante, come mezzo per stabilizzare le relazioni e prevenire i conflitti tra le grandi potenze. In ogni caso, l’Unione Europea ha l’opportunità di giocare un ruolo determinante, ma solo se saprà superare le sue divisioni interne.

GIOCATORE O SCACCHIERA?

La crisi coronavirus e le recenti escalation militari in Siria e Libia sono gli ultimi avvertimenti affinché Paesi membri e UE comprendano che, in un mondo sempre più geopoliticamente complesso, una strategia per rimanere rilevanti nello scacchiere mondiale non è solo necessaria ma essenziale per preservare gli interessi e i valori europei.

La Russia è riuscita ad affermarsi come attore rilevante in Medio Oriente e continua ad aumentare la sua influenza globale intensificando il suo impegno in altre regioni come Africa e vicinato europeo. Appare ormai chiaro come Mosca sia disposta a utilizzare senza alcuno scrupolo le sue forniture energetiche, le sue cyber capabilities e le sue raffinate strategie di disinformazione a proprio vantaggio.

La posizione della Cina sta diventando sempre più assertiva, sia sul piano interno e regionale che a livello globale.  Pechino usa il suo potere economico in maniera strategica per aumentare la sua forza a livello geopolitico e il suo capitalismo di Stato per influenzare il mercato internazionale. L’approccio di Pechino nei confronti di Hong Kong, Taiwan e le contestate manovre nel Mar Cinese Meridionale sono una chiara testimonianza di questa nuova postura strategica.

La Turchia è nel frattempo diventata sempre più audace nel perseguire i suoi fini geostrategici andando spesso a ledere gli interessi degli attori europei. Ankara sfrutta abilmente i flussi migratori ed è impegnata con nuova decisione in conflitti regionali: più apertamente in Siria, più velatamente in Libia.

Infine, l’Arabia Saudita fa leva in maniera sempre più speculativa sulle sue risorse energetiche per aumentare o difendere la propria influenza a livello globale. Infine, gli Stati Uniti sotto Trump sembrano disposti a sfruttare la dipendenza europea dalla NATO e dal dollaro per raggiungere obiettivi politici a breve termine.

In generale, la tendenza che si può osservare sulla scena globale è che gli attori internazionali e regionali sembrano essere diventati riluttanti a separare il funzionamento dell’economia globale dalla concorrenza geopolitica e dalle dinamiche di potenza. Questa rappresenta una cattiva notizia per l’Unione Europea, che avrebbe il potere di mercato, le spese per la difesa e il peso geopolitico per risolvere le sue vulnerabilità e ritrovare un ruolo di leadership. Tuttavia, senza un repentino cambio di rotta, l’Unione rischia di diventare, piuttosto che un attore chiave, la scacchiera su cui altri attori competono per influenzare l’ordine globale.

UN’UNIONE IN CORSO DI TRASFORMAZIONE

All’indomani di questa crisi, i Paesi membri dell’Unione avranno il difficile compito di trovare un nuovo assetto interno e un nuovo approccio allo scenario globale. Il raggiungimento di questo obiettivo passa attraverso la necessità di dare all’UE una politica di sicurezza e di difesa comune funzionante, l’autorità strategica di cui ha bisogno e una rinnovata visione della diplomazia internazionale. Andando in questa direzione, negli ultimi anni, l’Unione si è dotata di strumenti nuovi per perseguire i suoi scopi. Se gli stati membri sapranno condurre a buon fine iniziative inedite come il lancio della cooperazione strutturata permanente (PESCO), la creazione del Fondo Europeo per la Difesa o l’istituzione della DG Difesa all’interno della Commissione Europea, l’UE potrà integrare il suo potere politico ed economico con una certa capacità di azione strategica autonoma.

La quasi totale assenza di coordinazione a livello transatlantico nel rispondere al coronavirus suggerisce poi come un rinnovamento della strategia dell’UE dovrebbe passare dal il riconoscimento che l’alleanza con gli Stati Uniti da sola non è più sufficiente. Gli Stati Uniti sostengono fortemente l’Europa, attraverso la NATO e il suo impegno militare ai confini orientali. Washington tuttavia persegue politiche che sono direttamente in contrasto con quelle dell’UE. Un esempio palese è rappresentato dal sostegno americano all’Arabia Saudita contro l’Iran, un contesto dove l’UE, piuttosto che schierarsi, è incline a riconoscere che entrambi gli attori debbano essere responsabilizzati al fine di creare un nuovo equilibrio regionale. Anche il protezionismo economico americano e il conseguente indebolimento delle relative strutture multilaterali, come nel caso del blocco del meccanismo di risoluzione delle controversie dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vanno contro gli interessi dell’UE.

Inaugurare nuove strategie di cooperazione con altri attori globali e regionali potrebbe essere dunque il giusto modo non solo per far tornare l’UE ad essere un polo di gravità determinante, ma anche per rinnovare il sistema del multilateralismo. Un’Europa unita avrebbe la forza di trasformare, piuttosto che semplicemente preservare il sistema esistente, prevenendo l’emergere di raggruppamenti alternativi (a quello europeo/occidentale) che danneggerebbero sia gli interessi dei singoli Paesi membri, che la comunità internazionale tutta.

Tuttavia, il principale presupposto al successo del rilancio del ruolo dell’Unione è la sua coesione interna. I Governi degli Stati membri, che finora hanno costantemente preferito anteporre gli interessi nazionali a quelli comuni e servire i loro scopi politici interni, dovranno intensificare i loro sforzi. In questo senso, la prima risposta dell’UE a questa pandemia non fa ben sperare. Ma ritrovare unità di intenti è probabilmente l’unico modo per provare a (ri)costruire un’Unione Europea in grado di prosperare e rinnovare la sua leadership in un mondo dove il multilateralismo annaspa e la politica di potenza sembra aver trovato nuova forza. L’alternativa è desolante ed è quella di un inarrestabile declino della stella europea.

 

Mattia Caniglia