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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

L’Europa, l’ora della svolta?

di Stefano Ferace

 

Il covid-19, virus sbarcato per la prima volta in Europa ormai più di un mese fa, sta colpendo in modo mostruoso i paesi del Mediterraneo, in particolar modo Italia e Spagna. La drammatica situazione sanitaria ci porta ad una situazione equivalente a livello economico che rischia di far collassare, oltre che il sistema sanitario nazionale, l’intero tessuto sociale.

 

Tutti i governi nazionali stanno cercando di adottare le misure necessarie per reggere l’urto da “lockdown”; manovre che, ovviamente, non saranno abbastanza. È chiaro a tutti che le nostre economie nazionali non sono in grado di sopportare da sole uno stop completo di tutte le attività in un lasso di tempo che va, via via allungandosi sempre più.

 

Il virus, oltre a mettere alla prova i vari sistemi sanitari ed economici nazionali, è certamente uno “stress test” cruciale per la Comunità Europea e per la sua tenuta, facendo risuonare in modo ancora più forte le parole degasperiane: “solo uniti saremo forti”.

 

Viviamo un momento storico in cui l’Europa è chiamata ad un salto di qualità, non bastano più dichiarazioni di unità a reti unificate come fatto dalla presidente Von der Leyen. Non è più sufficiente il “siamo tutti italiani”, la strada degli annunci solidali l’abbiamo già provata con il “siamo tutti charlie hebdo” e non è andata bene. Esattamente come nel caso terrorismo, l’Europa, se vuole avere ragione d’esistere, ha un disperato bisogno di mettere insieme all’unità formale una profonda convergenza sul piano sostanziale.  A questo proposito, anche la Francia sembra aver capito che l’unica soluzione possibile sia l’agire comune, anche accentando differenze e dibattiti interni, piuttosto che un’unità di facciata che conduce all’immobilismo.

 

Il QE da 750 miliardi, annunciato dal Presidente della BCE, ha dato una prima risposta ai malumori dei paesi del mediterraneo abbassando gli spread nazionali. Ma la politica monetaria può solo comprare tempo alla politica di bilancio ed è, quindi, necessaria una risposta politica al virus. Durante l’ultimo consiglio europeo, alla chiamata dei presidenti Conte e Sanchez, i paesi del nord non hanno risposto, allungando l’agonia dei mercati e del popolo europeo di due settimane, momento in cui si riunirà per la seconda volta il consiglio europeo per dare risposta alla crisi. Appare sempre più chiaro che l’unica via per continuare a credere nel sogno dei padri fondatori di una Europa unita sia l’affrontare finalmente insieme questa enorme crisi.

 

 

L’ENI e la geopolitica energetica con il Covid-19 tra Medio Oriente e Green Deal. Parla il Senior Vice President Piredda

di Emanuele Lorenzetti

 

L’energia è il tema che sta al centro delle sfide poste alla sicurezza internazionale ed è decisivo per l’innovazione e la crescita europea post COVID-19: dai rapporti in Medio Oriente, con focus libico, alla transizione energetica in Europa rappresentata dall’European Green Deal – lanciato l’11 dicembre scorso dalla Commissione UE. La Fondazione De Gasperi ha voluto affrontare il tema con Eni, azienda leader nel settore energetico, attraverso l’analisi di Marco Piredda, Senior Vice President Eni per gli Affari Internazionali.

 

Dottor Piredda, qual è la situazione del Mediterraneo orientale?

Dal punto di vista energetico, quest’area sta vivendo una centralità senza precedenti. Le importanti scoperte degli ultimi anni hanno catalizzato l’interesse delle compagnie internazionali, con importanti investimenti e una nuova cooperazione energetica transfrontaliera. Pur contando per appena l’1% della produzione mondiale e il 2% delle riserve provate, l’East-Med è diventato l’”hot spot” del gas, con quasi un terzo di tutte le scoperte effettuate dall’industria negli ultimi 10 anni, nonostante le sfide tecniche e geofisiche dell’esplorazione in acque ultra-profonde. Eni è protagonista in questa nuova provincia del gas, con progetti a Cipro, in Libano e, soprattutto in Egitto, dove abbiamo riaperto i giochi con la più grande scoperta a gas mai fatta nel Mediterraneo.

Ma questi grandi sviluppi energetici si inseriscono in un contesto economico e internazionale molto difficile, ulteriormente aggravato dalla crisi causata dal COVID-19. Sarebbe impossibile, in poche righe, richiamare le dinamiche storiche ed i conflitti che segnano ancora questa parte del Mare Nostrum. Tra questi possiamo ricordare, anzitutto, le dispute ancora irrisolte sui confini marittimi (Cipro-Turchia, Libano-Siria e Libano-Israele) che continuano a ostacolare una proficua cooperazione regionale. Inoltre, la questione cipriota, le azioni muscolari di Ankara e la competizione tra le potenze regionali nel Mediterraneo, frenano le prospettive di quella crescita economica che la disponibilità di nuove risorse energetiche potrebbe invece favorire. A ciò si aggiunge un contesto istituzionale e regolatorio eterogeneo e ancora non consolidato.

Ciononostante, il potenziale energetico dell’area – sia per le fonti convenzionali che per quelle rinnovabili – rappresenta un’opportunità per lo sviluppo e la cooperazione regionale, anche con gli stati della sponda nord. La nostra convinzione è che l’energia possa costituire un terreno di dialogo ed un veicolo di stabilità e crescita sostenibile per i popoli dell’intera regione. Senza un sufficiente grado di cooperazione e volontà di condividere rischi e investimenti infrastrutturali, i volumi di risorse che potrebbero essere scoperti resteranno nel sottosuolo, a maggior ragione nell’attuale contesto di mercato che obbliga al taglio dei costi e a privilegiare i progetti più agibili.

Le potenzialità energetiche del bacino del Levante si esplicano, d’altra parte, soprattutto su scala regionale, con una porzione di gran lunga prevalente di idrocarburi che potrà essere consumata nei paesi dell’area: se teniamo in considerazione, da un lato, gli obiettivi europei di neutralità carbonica e, dall’altro, il fabbisogno di gas nel medio periodo di paesi come l’Egitto e la Turchia, è evidente che vinceranno le soluzioni più flessibili, come il GNL, e più vicine ai mercati di sbocco.

L’energia è indispensabile per l’industrializzazione, per la creazione di posti di lavoro, per elevare le condizioni di vita e per avvicinare il nord e il sud del Mediterraneo. La sfida di oggi rimane creare occasioni e spazi di collaborazione, superando contrapposizioni sterili; a tal proposito, l’auspicio è che si consolidi il dialogo strutturato – anche tra rivali storici – che è stato avviato con l’East Med Gas Forum e che vede, tra i membri fondatori, l’Italia e, tra i partner industriali, Eni.

Qui si confermano attuali e preziosi gli insegnamenti e l’esempio di un grande statista come De Gasperi: la visione di lungo periodo per il bene delle generazioni future, il valore della collaborazione anche tra ex nemici, la cultura del pluralismo unita a una forte convinzione religiosa. Penso che la leadership, la lungimiranza e la determinazione di uomini e istituzioni delle due sponde del Mediterraneo sia un ingrediente imprescindibile per lavorare ai grandi obiettivi di sviluppo pacifico e sostenibile, anche attraverso una politica energetica condivisa.

 

Come vengono valutati – alla luce degli interessi Eni – l’intervento in Libia degli attori esterni e la possibile tripartizione del territorio libico?

Non è un mistero che le interferenze esterne siano oggi il principale nodo della crisi. I flussi di armi e mercenari sono divenuti nuova norma, dunque accettati dai più; inoltre, la molteplice presenza straniera induce a deresponsabilizzare gli attori e le fazioni interne, che dopo aver invocato o favorito questi interventi non paiono più in grado di gestirli o contenerli.

Sul piano energetico la situazione – che appariva sorprendentemente sostenibile fino ad alcuni mesi orsono – sta velocemente degenerando, seppure con importanti differenze tra olio e gas e tra onshore e offshore. Eni è riuscita, grazie a un rapporto privilegiato con i libici, radicato in decenni di collaborazione, a restare e continuare a produrre in questo decennio di guerra civile e divisioni. Nel primo trimestre, le produzioni di petrolio operate da noi o da altri sono rimaste quasi tutte ferme a causa del blocco degli oleodotti e dei terminali di esportazione, con la sola eccezione di pochi campi offshore. Ciò significa, come noto, che sono crollati i flussi finanziari verso la Banca Centrale e che gli investimenti sono fermi. La situazione è parzialmente differente per il gas: la produzione finora è rimasta pressoché stabile, sia in ragione della posizione geografica degli impianti, sia per il ruolo fondamentale che le forniture di gas rivestono per la generazione elettrica e, quindi, i servizi essenziali come illuminazione, climatizzazione, sanità ecc. La gran parte dei volumi di gas che produciamo (circa due terzi) è destinata prioritariamente al consumo interno, con una minore porzione che viene ancora esportata verso l’Italia con il Greenstream.

Questa situazione di squilibrio – con un paese diviso e senza una prospettiva tangibile di pacificazione – non giova a nessuna delle parti, se non forse a qualche attore esterno. Molti libici sono stanchi del peggioramento nelle condizioni di vita quotidiana; ma restano, purtroppo, alcuni grandi e tanti piccoli rais che ancora non rinunciano a una logica binaria, nonostante questa non abbia portato che risultati di corto respiro. Eppure l’aspirazione ideale all’unità ancora resiste tra i libici: tentare di sciogliere i nodi con soluzioni estreme come una tripartizione – del tutto teorica nella sua praticabilità – rischia di essere solo un inutile aggravio e un moltiplicatore dirompente dei problemi già esistenti.

Se esiste ancora una via d’uscita, questa passa per la persuasione degli attori interni, incluse le figure di vertice, che nel gioco a somma zero degli ultimi anni i primi a perdere sono gli stessi libici; poi per un diverso coinvolgimento degli attori internazionali più autorevoli. Il primo riferimento, ovvio, è agli Stati Uniti, che tuttavia non fanno mistero del minore interesse al Mediterraneo centro-occidentale; eppure, condivido la lettura di chi vede il disengagement statunitense come foriero di conseguenze negative per la stessa superpotenza, che in tal modo vede ridursi le capacità di gestire dinamiche regionali e rischi di rilevanza strategica. Alcuni segnali positivi in primavera ci sono stati, resta da vedere quali seguiti porteranno.

L’altro attore essenziale è l’Europa, che nell’azione verso il Mediterraneo incontra certo uno dei propri limiti politici strutturali. Mentre si affronta il dramma sanitario ed economico di questi mesi, converrebbe a noi europei non rinunciare a elaborare e proporre un modello, dare una cifra dell’assetto ritenuto più adatto, accompagnarne l’attuazione: in questa prospettiva, una diversa e più ambiziosa politica di vicinato – ma anche sanzioni applicate puntualmente contro le transazioni di greggio e le forniture di armi non consentite dall’ONU – possono fare la differenza.

In questo quadro, l’energia resta il fulcro dell’economia libica: quanto più si riuscirà ad avvicinare le diverse fazioni intorno al comune interesse a preservare la produzione, tanto più si potranno allontanare gli interessi esterni nocivi e sarà immaginabile una progressiva pacificazione.

 

Come Eni vuole intraprendere il grande cambiamento alla luce del Green Deal Europeo?

La transizione energetica, che già rappresentava una sfida enorme prima del COVID, oggi potrebbe apparire un’impresa impossibile. Come potremo salvare interi sistemi economici, erosi profondamente dalle ferite di una crisi senza precedenti e, al contempo, modificare i nostri modelli di produzione e di consumo in modo così radicale da contrastare efficacemente il cambiamento climatico? La vostra domanda chiama in causa i due grandi attori che dovranno individuare e costruire le soluzioni per vincere questa difficilissima partita: il mondo delle istituzioni e dei decisori pubblici e il mondo produttivo e delle imprese.

I governi di tutto il mondo sono impegnati ad intervenire con misure straordinarie di stimolo all’economia per rispondere alla recessione. Gli investimenti pubblici, e quelli comunque favoriti dalle misure di stimolo, oltre a permettere la ripresa economica contribuiranno a dare forma ai modelli di produzione e di consumo degli anni a venire. La Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) sta esortando i governi a utilizzare queste leve anche come un’opportunità per consolidare la transizione energetica. Non sarà facile combinare gli sforzi per la ripresa e le modifiche al sistema energetico; ma non abbiamo altra scelta.

Le imprese sono chiamate a ripensare i propri modelli di business e a ridurre l’impatto carbonico con il ricorso a tecnologie e processi innovativi, nonostante la minore disponibilità di risorse. Per quanto riguarda Eni, già nel Piano Strategico 2019-2022 avevamo definito gli obiettivi per contribuire al conseguimento dei Sustainable Development Goals (SDGs) delle Nazioni Unite. Quest’anno abbiamo fatto un ulteriore, fondamentale, passo in avanti con il Piano d’Azione 2020-2023 e il Piano strategico al 2050. Abbiamo confermato e qualificato – con obiettivi di breve, medio e lungo termine – il nostro impegno per coniugare sviluppo e forte riduzione dell’impronta carbonica. Ci siamo impegnati a eliminare, entro il 2050, l’80% delle emissioni dei gas serra dei nostri prodotti (mentre la soglia indicata dall’IEA è del 70%, nello scenario compatibile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi). Mentre saremo impegnati a valorizzare il gas come risorsa di transizione, focalizzeremo la nostra attenzione anche sulle rinnovabili: in questo campo il nostro obiettivo è una progressiva espansione globale, per una capacità installata che al 2050 supererà i 55GW. Ciò che è forse più importante, siamo impegnati a realizzare un cambio di paradigma in tutte le fasi di produzione: le raffinerie europee saranno convertite in impianti “bio”, per la produzione di idrogeno e per il riciclo di materiali di scarto; e abbiamo in cantiere diversi progetti di economia circolare e per la cattura di CO₂. Il nostro plateau di produzione di petrolio è previsto nel 2025, con una componente gas nel portafoglio che crescerà sempre di più (60% al 2030 e circa 85% al 2050).

Eni sta cambiando pelle e intende svolgere un ruolo da protagonista nella transizione, in Europa e nel resto del mondo. In questa difficile fase, con i mercati energetici ai minimi per il “doppio shock” da eccesso di offerta e crollo della domanda, è lecito chiedersi se la forza innovativa dell’industria reggerà l’onda d’urto della crisi e, soprattutto, se i prezzi bassi degli idrocarburi rallenteranno la diffusione delle fonti rinnovabili, ritardando la transizione. È probabile che vedremo molte correzioni di rotta, riorganizzazioni e trasformazione dei modelli di business. Eni potrà contare sulla propria capacità finanziaria e tecnologica, oltre che sulla sua proiezione internazionale e sulla forza delle persone che ci hanno permesso di superare altri frangenti difficili.

Secondo molti, ciò che finora è mancato e che rischia di compromettere la lotta al cambiamento climatico è il governo di questo processo, che ha mille implicazioni politiche, finanziarie, tecnologiche e sociali: la transizione richiede una guida da parte dei governi e delle organizzazioni internazionali ma, soprattutto, delle grandi potenze economiche globali. Il “Green Deal” europeo prevede un percorso per una transizione sostenibile e socialmente equa; noi condividiamo questi obiettivi di fondo e saremo in prima linea per assicurare il loro raggiungimento. Ma le emissioni europee sono una piccola porzione (meno del 10%) di quelle globali: anche se confermassimo la nostra leadership nella sostenibilità ambientale, purtroppo ciò non basterebbe. Siamo, quindi, di fronte a una doppia, formidabile, prova. Da un lato, completare la grande trasformazione del sistema energetico e produttivo europeo per fare dell’eccellenza ambientale un punto di forza e un volano di sviluppo, evitando – anche con il ricorso a misure tariffarie – la concorrenza asimmetrica di altri sistemi economici. Dall’altro, promuovere con tutta la forza ideale e diplomatica di cui saremo capaci l’adozione di decisioni vincolanti a livello internazionale, tali da fornire indicazioni attendibili e di lungo periodo agli attori economici, ma anche la realizzazione di parternariati regionali e settoriali con le aree meno sviluppate, in particolare l’Africa.

L’Italia a tre velocità al tempo della lockdown economy. Per un rilancio del Sistema Paese digitale, verde e industriale 4.0

di Emanuele Lorenzetti

Il Coronavirus rappresenta una delle più gravi crisi mai registrate nella storia repubblicana italiana. Per un’analisi sociale e politica, bisogna partire dalla constatazione che ogni grande crisi introduce aspetti sia negativi sia positivi nella società di uno stato. La capacità di discernimento è fondamentale per saperne cogliere entrambi. Il primo e principale aspetto negativo, che certamente va registrato, è la morte di centinaia di migliaia di persone e la sofferenza fisica e interiore di altrettante persone che continuano a lottare contro il virus in ospedale, a casa e nel lavoro. Il secondo attiene alla sfera pubblica internazionale riguardo alla cecità politica concretizzatasi nell’indifferenza di taluni stati verso l’Italia, i quali hanno preferito erigere confini nazionali a scapito di uno dei caposaldi del pensiero europeo: il principio della solidarietà. Il momento di dura prova che siamo chiamati a vivere però va governato e superato. Prima delle grandi decisioni ciascun governante, oggi, è chiamato a fare una riflessione sul tempo. Possiamo farlo riprendendo le memorabili parole di un grande statista democristiano come Aldo Moro: “Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà.” Con la differenza che quelle erano parole rivolte alla sfida del terrorismo interno contro la quale l’Italia si è confrontata negli anni ’70 e ’80. La domanda che se ne desume però è chiara e attuale: comprendiamo davvero il tempo che stiamo vivendo? Ci sentiamo pronti a vivere questo tempo per indirizzarlo secondo una visione personalistica, cioè che sappia coniugare la dimensione della persona e l’innovazione tecnologica?

Oggi la principale sfida contro il Sistema Italia è rappresentata da COVID-19, un virus pericoloso che mostra lati oscuri, in quanto si presenta come virus sanitario, trasformandosi in virus economico e, potenzialmente, in virus europeo in cui l’Italia rischia di rimanere intrappolata dentro la narrazione dominante nel dibattito pubblico ed istituzionale europeo sulla dicotomia tra i Paesi del Nord e del Sud dell’Unione. La crisi del COVID-19 ha messo in luce le criticità presenti in diversi stati europei, compresa l’Italia. A cominciare dalla sua sanità pubblica la cui architettura ospedaliera ha mostrato notevoli carenze nell’affrontare una crisi epidemiologica che, secondo il parere di taluni scienziati e medici, si sarebbe potuta affrontare diversamente. Ad ogni modo, ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto particolare perché mentre per gli aspetti negativi dobbiamo sperare in governanti che abbiano il coraggio di avviare riforme strutturali, c’è un’altra parte del Belpaese che invece risponde bene all’emergenza.

Si potrebbe parlare di un’Italia a tre velocità: la prima è quella delle grandi industrie che dimostrano di governare COVID-19 facendone anzi un’occasione per velocizzare l’adeguamento dei parametri al Piano Nazionale Industria 4.0, all’innovazione tecnologica e gestionale e al processo di transizione energetica. È il caso di Snam, impegnata nel continuare a garantire la sicurezza energetica nazionale dalla sala di controllo a San Donato Milanese, che ospita il più grande centro di dispacciamento della rete del gas in Europa. In una recente intervista rilasciata ad Avvenire il suo Ad Marco Alverà, oltre ad assicurare il piano 2019-2023 da 6,5 miliardi di euro, spiega infatti che “avere energia a basso costo in questo momento potrebbe accelerare la transizione energetica: ad esempio, con un costo del gas più basso, potrebbe essere più conveniente introdurre a livello europeo una quota del 5% di idrogeno nelle reti.”[1] Ma la Snam non è l’unica realtà positiva del tessuto produttivo italiano emersa in questo momento difficile. A fianco c’è anche ENEL, l’industria che rappresenta il 38% dell’energia elettrica venduta nel Belpaese. Qualche giorno fa anche l’Amministratore delegato di ENEL, Francesco Starace, ha posto l’accento sugli aspetti positivi che COVID-19 sta introducendo in questo caso nello sviluppo delle fonti rinnovabili, dichiarando come “per molti governi ed economie il rilancio passerà proprio dal rinnovo in chiave ecologica dell’infrastruttura dell’energia. In Europa abbiamo il Green Deal che è una grande opportunità.”[2] La seconda velocità è rappresentata dallo Stato con le sue pubbliche amministrazioni (P.A.) che si trova in una posizione mediana. È l’immagine di una macchina statale ancora divisa tra settori avanzati e settori rimasti indietro alla digitalizzazione. In questo caso l’intervento del legislatore dovrà focalizzarsi sui temi dell’innovazione infrastrutturale e tecnologica delle modalità di lavoro e dello snellimento burocratico. La terza velocità, infine, è quella delle piccole e medie imprese (PMI), dell’artigianato, del professionista – di tutte le categorie che appartengono al mondo “partita I.V.A.” – che costituiscono il 96% della struttura produttiva e che rischiano però di venire travolte dall’ondata del virus.

La chiusura di molte micro, piccole e medie imprese – il rapporto CENSIS sulla lockdown economy parla, a riguardo, di una possibile chiusura intorno al 20%, cioè pari a circa un milione di PMI – dipenderà sicuramente dalla mancanza di liquidità che è diretta conseguenza del COVID-19, ma anche dal fatto che, se consideriamo i risultati ad oggi del Piano Nazionale Industria 4.0, solo il 14% delle imprese hanno raggiunto una reale capacità innovativa.[3] Il dato appena riportato ci è utile pure per una riflessione europea, cioè per capire non solo perché paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna riescano a far fronte alla lockdown economy, ma anche per comprendere il divario che da anni separa l’Italia dal resto dei paesi OCSE in materia di sviluppo economico. Se non comprendiamo, infatti, che è sulle scelte tecnologiche e organizzative delle imprese che si gioca la competitività internazionale nei mercati, allora l’economia italiana sarà destinata al tracollo. Il tessuto produttivo italiano, quindi, risulta ancora fortemente frammentato e molto indietro rispetto alle tempistiche prefissate, sebbene il Piano negli anni abbia consentito un incremento degli investimenti in Italia. Il Coronavirus, costringendo molte realtà a ripensare la propria attività, non potrebbe rappresentare forse il motore per un rilancio industriale del Paese? Torna dunque la riflessione sul tempo. Questo è il tempo del coraggio delle scelte, il tempo per fermarsi a riflettere dove siamo e dove vogliamo andare, il tempo per decidere quale tipo di città e di relazioni sociali – alla luce dello sviluppo economico, industriale e tecnologico raggiunto – vogliamo costruire ed abitare, oggi e domani, nello spazio nazionale ed europeo. La krísis tradotta è ‘scelta’, ‘decisione’: ribaltando un ragionamento comune, crisi non significa stato degenerativo e irreversibile delle cose, bensì misurarsi con i tempi difficili in cui l’uomo è chiamato a governare il fenomeno per fare il salto di qualità.

L’Italia, oggi, è chiamata a compiere il salto di qualità per cominciare a camminare ad un’unica velocità. Deve ripartire da un intervento riformistico che operi un rilancio del Sistema Paese più digitale, più verde e intelligente, attraverso un piano nazionale di investimenti sia pubblici sia privati, di reindustrializzazione e di un intervento nella sanità concepita come bene comune. Riservando sempre la massima attenzione alla sicurezza delle reti, vera sfida del XXI secolo. Comprendere l’importanza primaria dello sviluppo economico per l’Italia è ricordare anche quanto, con tono profetico, Servan-Schreiber affermò sul concetto moderno di sicurezza nazionale: “Dans le monde moderne la défense nationale, la sécurité, ce sera en verité le développment économique et scientifique”.[4] Se c’è una lezione che ci consegna questo tempo, dunque una è evidente: il COVID-19 ha rivelato come non possa esistere la stabilità e la sicurezza di uno stato senza un forte sistema economico integrato con una sanità pubblica strutturalmente consolidata e uniforme su tutta la rete nazionale. Un nuovo piano industriale Green, che abbia una visione antropocentrica, potrebbe consentire questa integrazione per ridare slancio all’Italia.

[1] Intervista. «Sicurezza energetica garantita». Snam procura ventilatori e mascherine: https://www.avvenire.it/economia/pagine/snam-covid-19;

[2] Covid-19. Starace: «Gestiamo l’emergenza, pronti ad accelerare sulle rinnovabili»: https://www.avvenire.it/economia/pagine/starace-cos-gestiamo-lemergenza-pronti-ad-accelerare-sulle-rinnovabili

[3] Industria 4.0, in Italia solo il 14% di aziende “real innovator”: https://www.corrierecomunicazioni.it/industria-4-0/industria-4-0-in-italia-solo-il-14-di-aziende-real-innovator/

[4] J.J. Servan-Schreiber, Le défi américain, Denoël, 1967

Il covid-19 sarà il colpo mortale inflitto alla globalizzazione?

di Nicolò Tozzi

 
Con la dichiarazione ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella quale il covid-19 viene definito una pandemia, la globalizzazione è stata posta in “quarantena”. Con il rientro dell’emergenza sanitaria, il futuro del fenomeno sarà un inevitabile ridimensionamento?
La decrescita e il ridimensionamento della globalizzazione, definita dall’Economist “slowbalisation”; era in realtà già iniziata a causa dei dazi e delle guerre commerciali tra Cina e Stati Uniti per la supremazia tecnologica ma con la diffusione del virus, che ha come focolaio iniziale la Cina che della globalizzazione è il vero motore, la situazione sta degenerando rapidamente mostrando la falla del modello economico occidentale basato sulle interconnessioni. Il progresso tecnologico, la digitalizzazione del mondo, la facilità nello spostamento di uomini e merci, tutto ciò che ha contribuito a ridurre le distanze rendendo il nostro mondo un villaggio globale ha al contempo portato rischi che adesso son ben visibili. La possibilità di spostarsi con facilità dai paesi asiatici ha aumentato i rischi della diffusione del covid-19, rendendo evidente l’equivalenza tra facilità, frequenza e numero di spostamenti, e il rischio di aumentare contagi. Come la storia ci insegna, anche in passato le epidemie sono riuscite a diffondersi in continenti lontani, basti pensare alla peste nera del 1348 il cui focolaio d’origine era presumibilmente situato nella regione del lago Bajkal in Asia centrale, ma con la differenza che il contagio avveniva con tempistiche diverse e frequenze minori. Normale se pensiamo, ad esempio, a quanto tempo in termini di mesi occorse a Colombo per attraversare l’Oceano Atlantico, mentre adesso si va da Roma a New York in circa nove ore. Ma oltre al danno ben visibile, il trasporto fisico del virus, si registrano danni indiretti che mostrano i limiti della globalizzazione che per anni è stata considerata simbolo della modernità e ritenuta processo irreversibile. L’economia liberista è fortemente messa in ginocchio dalla paura che sta paralizzando la circolazione di merci, persone e capitali con una prospettiva di recessione ancora più dura di quella del 2008 perché si fonda su una paura che non si limita alla comunità, pur estesissima, dei mercati finanziari. Ora la paura è davvero globalizzata perché corre attraverso la rete, i social e i media che ne aumentano la risonanza, provocando la paralisi delle forme dell’economia contemporanea.

 

La globalizzazione, quando l’emergenza rientrerà, sembra trovarsi di fronte ad un bivio: da una parte, una vera e propria deglobalizzazione dove, decrescita, protezionismo e il ritorno alle comunità chiuse sembrano essere effetti inevitabili. Dall’altra parte , come scritto nell’articolo “Far from making nations more insular, the coronavirus outbreak will transform globalisation”, invece di una deglobalizzazione infelice si ipotizza una società aperta in grado di garantire tutti gli strumenti capaci di combattere e ribaltare l’effetto economico del covid-19. Certo è che a prescindere dalla strada che prenderà la globalizzazione, la diffusione del virus, ci mette davanti all’idea, citando corsi e i ricorsi storici di Giovanni Battista Vico, che non sempre al futuro corrisponda il progresso e che la linearità portatrice di miglioramento forse non sia la giusta chiave di lettura del futuro che abbiamo davanti.

Prove tecniche di “unità nazionale”? Il Copasir al tempo del Covid-19

di Gian Marco Sperelli

Per tutelare e proteggere la sovranità politico-economica italiana ed europea, occorre un generale ripensamento del ruolo e delle competenze dello Stato di fronte all’attuale emergenza sanitaria. Per comprenderne sommariamente la portata storica, la Fondazione De Gasperi propone una breve analisi sul Copasir: un attore istituzionale sempre più al centro del dibattito politico in queste settimane così critiche per il Paese.

 

“Il concetto di strategico è una colossale sciocchezza. Se io guadagno facendo magliette e perdo costruendo astronavi, per me strategiche sono le magliette, non le astronavi. Eccezione è, forse la produzione destinata alla difesa.” Così Carlo Scognamiglio, allora Presidente della Commissione del Ministero del Tesoro per le privatizzazioni nel 1993, liquidò in poche battute il nesso tra la strategicità delle filiere produttive e la difesa dell’interesse nazionale. A distanza di oltre 25 anni quella analisi risulta a dir poco superficiale, soprattutto di fronte all’esplosione di una crisi economico-sanitaria senza precedenti come quella odierna. In un momento così drammatico, da più parti si sono levate voci a favore di un Esecutivo di unità nazionale o – quanto meno- di una cabina di regia condivisa tra forze di maggioranza e di opposizione, per affrontare al meglio una delle sfide più difficili della nostra parabola repubblicana e dell’intera storia dell’Unione Europea.

Allo stato attuale delle cose, l’unica istituzione, sia per la natura della sua composizione ( 5 deputati e 5 senatori in proporzione al numero dei gruppi parlamentari con una Presidenza spettante per legge ad un esponente dell’opposizione) che per le competenze di controllo su un ampio spettro di ambiti sulla sicurezza nazionale del nostro Paese, in grado di rappresentare un esempio operativo di una unità nazionale politica è probabilmente il Copasir ( Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica). A rafforzare tale ipotesi, vi è, inoltre, l’obbligo in seno al Copasir di assumere le decisioni se non tramite la modalità del consensus, rendendo di fatto necessario il raggiungimento di un’intesa bipartisan tra i componenti dell’organo di controllo.

L’attenzione del Comitato di Palazzo San Macuto, dopo le note vicende in merito alla sicurezza della nostra futura rete 5G in mano alla cinese Huawei, si è rivolta ad un allargamento del perimetro della normativa sul golden power, includendo tra le filiere industriali strategiche aziende nei settori farmaceutico ,bio-medico, fino ad arrivare a quello dell’energia e dei trasporti, senza dimenticare il comparto bancario-assicurativo, messo a dura prova qualche settimana fa dal crollo di Piazza Affari con ripercussioni sui livelli di capitalizzazione di importanti gruppi. Partendo dalla legislazione quadro dell’Ue ( Regolamento sullo screening degli investimenti esteri diretti nell’Unione Europea), l’Esecutivo, attraverso l’ultimo decreto-legge licenziato dal Consiglio dei Ministri, ha valutato – su richiesta dello stesso Copasir- positivamente la possibilità di estendere i poteri speciali di veto del Governo, in merito ad investimenti non soltanto extra-europei, ma anche intra-europei volti ad intaccare o indebolire la governance di aziende strategiche del nostro Paese. Il rischio è che dietro ad alcuni investitori europei oppure all’interno dell’Efta (Associazione europea del libero commercio) si nascondano mire predatorie di società o fondi sovrani extra-europei nei confronti di aziende italiane ed europee in grave difficoltà a seguito dell’emergenza da Covid-19.

Un altro nodo da sciogliere è, certamente, la ridefinizione del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti nei mesi successivi all’emergenza sanitaria. All’interno del Copasir, infatti, è stata rilanciata più volte l’eventualità di trasformare la Cdp in una sorta di fondo sovrano, in grado di sostenere e ricapitalizzare, anche con l’appoggio di investitori privati, aziende e filiere strategiche del nostro sistema produttivo ed industriale, sulla falsariga di quanto avviene in Germania con la Banca dello sviluppo tedesca (KWF). Tale ipotesi appare non di facile realizzazione, per via della presenza delle fondazioni bancarie nella governance della Cdp. Sempre in questa direzione, un’altra soluzione possibile potrebbe giungere da una eventuale potenziamento di un ente come Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), essendo una società per azioni partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, tale ragionamento non dovrebbe condurci all’ennesima resurrezione acritica dell’Iri, perché a distanza di anni hanno ancora un grande significato in questo dibattito le parole dell’ex liquidatore dell’Efim (Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere) Predieri: “Non hanno senso i gruppi in cui si fa di tutto, dalle ostriche in scatola ai carri armati”. Un vecchio monito ancora utile ai giorni nostri per andare, forse, oltre l’emergenza sanitaria contingente. Magari anche oltre la cronica crisi della politica italiana ed europea.

Il virus e la crisi della civiltà industriale: perché i Medici devono salvarci dai moderni Savonarola

 

di Luca Bellardini (Associazione Guido Carli)

 

La civiltà industriale era in pericolo – non solo in Europa – già da prima che si diffondesse il Covid-19. Le recenti misure di limitazione alle attività produttive sono soltanto l’ultimo degli esempi. È decisamente inopportuno che chi scrive, del tutto ignorante in campo medico, ne discuta l’adeguatezza sul piano sanitario. Eppure, alcune considerazioni di ordine economico possono – forse devono – essere tracciate. Soprattutto,  le misure di oggi andrebbero analizzate guardando a una storia nobile che abbiamo cominciato a calpestare: l’epopea, appunto, della rivoluzione industriale.

 

Partiamo da quello cui stiamo assistendo in questi giorni, perfettamente rappresentato nella stessa pagina di giornale (Corriere della sera di sabato 4 aprile) da Angelo Panebianco e Pierluigi Battista. Da un lato bisogna fare i conti con l’oggettiva debolezza in materia economica della classe politica italiana nel suo complesso, peraltro dominata da sentimenti ostili al libero mercato e in alcuni casi favorevoli alla c.d. «decrescita»: spesso alberganti in coloro che non hanno mai messo piede in una fabbrica, né hanno idea di come funzioni una filiera e si produca ricchezza. Questa forma mentis induce una visione “distribuzionista” dell’economia: come se l’output fosse disponibile in una quantità prefissata e il compito della politica fosse di decidere come assegnarne le porzioni; o come se – peggio – le autorità fossero legittimate a decidere le dimensioni della torta e l’identità dei pasticcieri. Inoltre, sta prendendo sempre più piede un’idea “millenaristica” dell’emergenza legata al virus: quasi che l’Occidente dovesse espiare la colpa di essere ricco e avanzato, innamorato dei viaggi e delle feste, desideroso di non fermarsi mai. Ad ogni catastrofe che distorca l’ordinato corso delle nostre vite libere – sia essa un terremoto o un attacco terroristico – spuntano fuori questi «apocalittici», come li avrebbe definiti Umberto Eco. La storia ci insegna che costoro possono anche avere successo, se si innestano su di un substrato sociale caratterizzato da un notevole livello di sviluppo: così accadde a fra’ Girolamo Savonarola, il predicatore pauperista che a Firenze interruppe la signoria medicea godendo – almeno inizialmente – di amplissimo consenso. Ma la storia ci insegna pure che nel lungo periodo prevalgono gli «integrati»: coloro che appoggiano il cambiamento e decidono di governarlo, anziché opporvisi per distruggerlo. La vita precedente deve tornare, come a Firenze tornarono i Medici.

 

La rivoluzione industriale, invece, ha impresso nella società europea una visione “creazionista” del progresso materiale e anche della conoscenza. Quanto già c’era poteva essere ampliato o modificato; quanto ancora non c’era poteva essere creato: questa la convinzione figlia dei fermenti scientifici del XVII secolo e delle dottrine illuministe. Oggi gli «apocalittici» fanno molta confusione tra individualismo ed egoismo: li sovrappongono, ignorando che solo il secondo è un vizio e che – anzi – la virtù del primo si è storicamente affermata in un’epoca in cui le relazioni sociali tra i singoli sono molto cresciute. Lo osserva con grande acume Thomas S. Ashton, lo storico inglese che per primo mise in discussione le critiche moraleggianti di cui era investita la grande trasformazione economica (1760-1830, nella sua periodizzazione): in quegli anni presero piede i club in Inghilterra e i caffè nel resto d’Europa, cioè i luoghi nei quali la borghesia produttiva si confrontava apertamente, facendo nascere tante idee imprenditoriali e – soprattutto – una nuova classe intellettuale slegata dall’aristocrazia (quest’ultima, invece, si crogiolava spesso nell’ozio deridendo il lavoro manuale).

 

Oggi, come sappiamo, bar e ristoranti sono chiusi. E prima, invece? Erano affollati, ma in pochi attribuivano loro la funzione che ebbero in quell’epoca. Sembra inevitabile che, dopo questa crisi, il virtuale si diffonda sempre più: per le riunioni di lavoro, per gli incontri sentimentali (c’è un problema demografico!), anche per i semplici scambi di idee. La prospettiva di una connettività diffusa ma fondata “orizzontalmente” sulla quantità – anziché sulla profondità “verticale”, come nella prima fase della rivoluzione informatica – dovrebbe quantomeno instillarci dei dubbi sui rischi che pur si celano dietro le «magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione.

 

Poi c’è il tema delle fabbriche come luoghi di produzione. Quanti stabilimenti hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, anche prima della recessione del 2008-2009? Francamente troppi perché questo discenda solo dal fisiologico spostamento dell’economia dal secondario al terziario, o magari dall’inquinamento alla sostenibilità ambientale (qualcosa di auspicabile, è ovvio). Anzi, in molti Paesi europei ha fatto scalpore solo la decisione di limitare i business più antistorici e forieri di esternalità negative, come l’estrazione del carbone: si pensi agli scioperi selvaggi fronteggiati per quasi un anno dal governo di Margaret Thatcher. Silenzio assoluto, invece, sulla disinvoltura con la quale molti governi hanno assoggettato interi settori a una regolazione asfissiante: a cominciare da quello creditizio e dei servizi d’investimento, che – va da sé – ha un ruolo imprescindibile nel finanziamento delle attività capital-intensive. Non si tratta soltanto delle norme ambientali: risolvere il trade-off tra lavoro e salute è quasi impossibile, come ci ricorda la vicenda dell’Ilva di Taranto. Questo, purtroppo, è il lato oscuro dell’aver compreso che il pianeta ci è solo dato in prestito. Ma se guardiamo allo scambio anziché alla produzione, notiamo che il protezionismo è tornato un’opzione praticabile; e oggi, nonostante il revival dei dazi, si manifesta soprattutto nelle barriere qualitative che impediscono ancora a troppi prodotti di avere standard compatibili tra i vari ordinamenti, anche all’interno del Mercato unico europeo (il principio Cassis de Dijon e il marchio CE dovrebbero ovviare a questo, ma la realtà è spesso diversa).

 

Al contrario, quella che vediamo emergere è la c.d. sharing economy. Già il nome esprime l’allentamento di quei diritti di proprietà che avevano reso possibile il miracolo produttivo del tardo Settecento: si pensi alle enclosures fondiarie inglesi, che – ponendo fine a un sistema quasi sempre dotato di un assetto collettivistico – consentirono l’accumulazione del capitale e, dunque, la destinazione di ingenti risorse agli investimenti industriali. Peraltro, all’interno della contemporanea «quarta rivoluzione industriale», la sharing economy sancisce la preminenza del digitale sull’automazione: la diffusione dei robot che immaginavano i nostri nonni è ben lungi dall’essersi realizzata, come se una mentalità neo-luddista avesse preventivamente sconsigliato di spingersi troppo in là. La celebre profezia degli anni Sessanta sui telefoni («nel Duemila faranno tutto loro») si è invece realizzata.

 

Eppure, oggi non osserviamo significativi incrementi di produttività; anzi, addirittura vediamo gli individui più distanti e l’etica del capitalismo indebolita: rispetto all’epoca descritta da Ashton, tutti rischiano meno. I capitani d’industria si sentono protetti da una concezione della crisi d’impresa che è sempre più favorevole alla conservazione del compendio aziendale, allentando così quello spirito di conquista dell’ignoto che tanto piaceva sia agli empiristi scozzesi (tra i primi a sistematizzare il liberalismo economico) sia, più tardi, a Schumpeter con la sua «distruzione creatrice». I consumatori, dal canto loro, si sentono particolarmente tutelati da un assetto giuridico che è ormai invariabilmente dalla loro parte: vale per i beni materiali come per i servizi, a partire da quelli finanziari. E una minore “propensione al rischio”, prima di abbattere il livello degli investimenti, infiacchisce l’attività intellettuale: quella derivante dalla messa a frutto del “capitale umano”. Per lungo tempo la ricerca tecnica e scientifica si è potuta esprimere senza vincoli (basti pensare al regime amministrativo speciale di cui hanno sempre goduto le università), garantendo un’adeguata remunerazione a chi la promuovesse; oggi, invece, deve fare i conti con mille pastoie burocratiche. E se lo shock negativo ai trasporti cagionato dal virus sarà persistente, lo scenario non potrà che peggiorare.

 

In tutto questo, che cosa può fare l’Europa? Innanzitutto, un passo indietro sull’implicito favor accordato negli ultimi anni al digitale rispetto all’economia che potremmo definire “sonante” (il termine richiama l’ambito monetario: non è un caso). La soluzione non è mai fiscale: sono intrinsecamente distorsivi – per esempio – tanto la web tax quanto il limite agli sconti sui libri, pensato per arginare lo strapotere della grande distribuzione online rispetto alle librerie fisiche e magari indipendenti. Piuttosto, bisognerebbe aggiornare un single rulebook commerciale che è stato concepito nell’era analogica; e questo vale anche per la regolazione del c.d. FinTech. I colossi del Web riescono a operare su base transfrontaliera con grande efficienza e ottima redditività: più che limitare loro, andrebbero tagliati quei «lacci e lacciuoli» che imbrigliano tante piccole e medie imprese.

 

Prendiamo il tema della concorrenza: il rigidissimo ordinamento antitrust americano nacque espressamente per l’economia reale, quando – alla fine dell’Ottocento, in piena «seconda rivoluzione industriale» – era diventato insostenibile lo strapotere di alcuni conglomerati manifatturieri, in particolare nei settori petrolifero e siderurgico. Per lungo tempo l’Europa ha preferito un approccio più morbido, in grado appunto di favorire il decollo industriale: da alcuni anni, invece, la Commissione si è mostrata particolarmente attiva nella difesa della concorrenza, e non solo contro le grandi società in cerca di acquisizioni. Anzi, ha addirittura agito con notevole discrezionalità, mostrando di anteporre gli interessi particolari degli Stati a una visione chiara e unitaria del governo dell’economia. Si guardi alla maniera decisamente “elastica” in cui viene interpretata la disciplina degli aiuti di Stato: il consorzio Airbus ha potuto ricevere finanziamenti diretti dai governi francese e tedesco, mentre all’italiana Tercas è stata proibita un’operazione sostanzialmente di mercato (prima che, negli ultimi mesi, tornasse in auge l’intervento pubblico per ricapitalizzare le banche).

 

Inoltre, lo sviluppo industriale europeo trova un limite anche nelle regole di finanza pubblica, là dove non viene fatta alcuna distinzione fra la spesa pubblica corrente e quella per investimenti. Col risultato che i governi sono sì meno prodighi di un tempo (bene!), ma impiegano peggio i loro denari. Adottare una regola contabile che valorizzi le finalità della spesa – c.d. golden rule – è decisamente la strada, soprattutto in un contesto nel quale sembra finalmente possibile l’emissione di un titolo di debito europeo – c.d. solidarity bond o coronabond – per fronteggiare la recessione da Covid-19 con investimenti mirati, dalle infrastrutture alla sanità. Ne ha parlato qui, proprio su questo sito, Federico Carli.

 

Salvare la rivoluzione industriale significa salvare la globalizzazione. Evitare che la prima venga calpestata significa fare in modo che la seconda continui a garantire il progresso, proprio come negli anni 1760-1830 e anche in seguito, durante la Belle Époque tristemente spezzata dalla Grande Guerra. D’altronde, non è azzardato accostare il ventennio compreso tra il crollo del Muro di Berlino e quello di Lehman Brothers (1989-2008) alla signoria di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. Non è neppure sbagliato stabilire un parallelo ideale fra il declino economico degli ultimi anni e il rapido passaggio di Piero il Fatuo al vertice di Firenze. A questo punto, però, la tirannia del Savonarola corrisponderebbe al periodo attuale: caratterizzato dai movimenti spesso definiti “populisti”, di cui abbiamo osservato il climax nel 2016 con le vittorie dei sostenitori della Brexit e di Donald Trump. Gli «apocalittici» – che identificano nella pandemia una punizione divina, puntando sulla decrescita anziché sugli investimenti e la produttività – si inserirebbero perfettamente in questo paradigma.

 

La Comunità europea nacque dal carbone e dall’acciaio; oggi dovrebbe muoversi nella direzione di una green economy che produca sviluppo; ma di fatto è immobile. Ridare slancio al «sogno europeo» – fondato sulle opportunità per i cittadini e le imprese – è ormai un imperativo categorico cui né le istituzioni di Bruxelles né gli Stati membri dovrebbero sottrarsi, nemmeno se in mezzo c’è il «nemico invisibile». Lo dobbiamo anche a chi – dopo una vita di sacrifici, magari dopo aver visto il «miracolo economico» del dopoguerra – in questi giorni se ne è andato tra le macerie di un’Europa che ha smarrito la sua vocazione industriale, dunque la sua anima.

L’EUROPA E LA SICUREZZA INTERNAZIONALE NEL DOPOVIRUS

di Claudio Ricci

Il Covid-19 ha paralizzato quasi totalmente l’attività mondiale. L’emergenza del coronavirus ha colpito ciecamente, valicando confini ed oceani. Il ventunesimo secolo, valorizzato dall’assenza di distanze e da velocità pressoché fulminee, ha dovuto frenare la sua corsa forsennata. Oltre ai profondi mutamenti legati alla globalizzazione che, inevitabilmente, si verificheranno, può essere d’aiuto analizzare il ruolo interpretato dai diretti interessati all’interno delle dinamiche di questa tragedia. Pertanto, è necessario tentare di prevedere come si muoveranno le grandi potenze dopo questo forzato pit stop. Ci dovremo imbattere in una situazione di squilibrio a livello internazionale? Come ne uscirà l’Europa? Per rispondere a queste domande si possono ricavare delle riflessioni in merito alla collocazione dei Paesi nel dopovirus e nella salvaguardia della sicurezza internazionale.

In primo luogo, la Cina è riuscita a passare in brevissimo tempo da “untore” da respingere a “salvatore” da accogliere. Essa è oramai dipinta non più come la terra natia del Covid-19, ma come il Paese che, dopo aver sofferto la prima ondata del virus, è riuscito a riemergere ed ora intende “regalare” la propria esperienza ai teatri più colpiti. La Cina, approfittando del silenzio di Washington e della titubanza di Bruxelles, ha iniziato ad inviare, nel vecchio continente, carichi di aiuti seguiti dai medici volontari. Ciononostante, il termine “virus di Wuhan” ha quasi definitivamente sostituito “Covid-19”, soprattutto nel mondo anglofono. Malgrado la tardiva reazione di Trump (“We love Italy”), è stata la Cina a monopolizzare il discorso pubblico-mediatico in Italia. I cinesi, favoriti dalle posizioni del Movimento 5 Stelle, mirano ad un rafforzamento della Nuova via della seta nel breve- medio periodo. Tuttavia, essendo l’Italia uno dei Paesi fondatori del blocco euroatlantico, risulta chiaro come l’interesse cinese verso il belpaese possa andare ben oltre il tema della semplice “solidarietà”.

Il velato scontro tra Stati Uniti e Cina è facilmente prevedibile. Il terreno di scontro non è univoco: dal commercio, alla tecnologia, passando per la propaganda “amichevole” del coronavirus. Dal canto loro, gli americani hanno voluto limitare il protagonismo cinese attraverso una fioca volontà di cooperare per fermare il virus. Dopo un colloquio telefonico, il Presidente americano Trump e quello cinese Xi Jinping hanno manifestato uno sbocco verso la collaborazione da ambo le parti. Sul virus, le misure adottate dagli americani potrebbero rassomigliare a quelle adottate in Europa, ma l’amministrazione federale ritiene che questo periodo di quarantena (non esteso a tutti gli Stati) non dovrà dilungarsi oltre la metà di aprile. È altresì vero che dal Paese leader del blocco occidentale ci si sarebbe aspettato qualcosa di più, perlomeno legata ai tempi di reazione, soprattutto laddove si sta profilando un mutamento dello scacchiere internazionale. È ancora troppo presto tuttavia, per sancire la sconfitta degli Stati Uniti. Potrebbe profilarsi dunque, una Seconda Guerra Fredda (ammesso che già non vi sia) con protagonisti Stati Uniti e Cina, e con la Russia di Putin a far da deuteragonista. Nel malaugurato caso che tale scenario si verifichi, che posto occuperà l’Europa?

Per quanto concerne l’Unione Europea appunto, il confuso silenzio da un lato e l’acceso dibattito Eurobond contro Mes dall’altro, hanno fatto da eco ad una prova d’esame che per ora risulta insufficiente. “Una comunità che lascia cadere i suoi membri nel momento di maggior bisogno non merita questo nome”: così ha scritto la versione online del “Die Zeit” dopo la riunione del Consiglio Europeo del 26 marzo. Se l’Europa doveva mostrarsi unita e decisa sin dall’inizio, questo era il momento adatto. La pandemia del coronavirus avrebbe dovuto dare forma a quel concetto di solidarietà auspicato dai padri fondatori, ma invece ha ricoperto il ruolo di leitmotiv per l’effetto domino legato alla chiusura dell’area Schengen. È pressoché certo che l’europeismo dovrà affrontare una forte ondata di euroscetticismo nel dopocrisi. A tal proposito, auspichiamo che l’Unione Europea non diventi la grande sconfitta.

L’Italia, l’Europa e la NATO dovranno essere in grado di sapersi barcamenare tra gli appuntiti sassi del dopovirus, al fine di tentare una rapida ricostruzione economica, politica e sociale. Sforzandoci di tralasciare la sofferenza che sta diffondendo, la lotta al coronavirus deve essere La sfida per incoraggiare un restauro italiano ed occidentale.

Per concludere: non può sussistere un’unione che non sia al contempo politica, economica e soprattutto solidale.

Essere una partita Iva al tempo del coronavirus

di Francesco De Santis

La necessità di superare afonia, afasia ed amnesia

Il virus che ha colpito il mondo, e in particolar modo l’Italia, impone una seria riflessione, dal punto di vista economico, che analizzi la situazione del belpaese alla luce degli ultimi accadimenti.

In particolare, analizzare alcuni punti salienti del Decreto “Cura Italia”, DL n.18 del 17 Marzo 2020, si rende importante, attraverso la focalizzazione su “minuti” particolari, per ristabilire un ordine che, altrimenti, potrebbe apparire solamente di facciata.

Crepe all’apparenza superficiali, ma in realtà profonde, devono essere il tassello fondante sulle quali poter (ri)costruire una visione prospettica che si installa in questa fase emergenziale e si dovrà protrarre ad emergenza terminata.

Mai come oggi risuonano con un’eco impossibile da non tenere a mente le parole di Alcide De Gasperi:

“Noi dobbiamo salvaguardare la libertà della persona umana anche nella sua sfera economica, perché questo è l’involucro della sua libertà spirituale.”

Una libertà economica che ben collima con Partite Iva, lavoratori autonomi, disoccupati (senza tralasciare il problema dell’economia sommersa) che non hanno affatto un ruolo marginale in questa situazione e, anzi, sono proprio loro quei “minuti particolari” da tenere in debita considerazione.

Difatti, evitare lo scoppio di una vera e propria bomba sociale, derivante dalle misure economiche adottate e da adottare, è la stella polare che deve guidare il sentiero di ragionamenti economici soggetti, causa propagazione più o meno rapida del virus, a variare da un momento ad un altro.

In questa ottica si è mosso il governo Italiano che, con un intervento di circa 25 miliardi, ha predisposto un incentivo economico, dovuto alla riduzione o alla sospensione della propria attività, pari a 600 euro per artigiani, lavoratori autonomi e professionisti, con partita Iva attiva al 23 Febbraio e non titolari di pensione. Un bonus che si ritiene possa intercettare una platea beneficiaria pari a quasi 5 milioni.

Inizialmente previsto “una tantum”, dopo dei confronti con le forze produttive del paese, con una Nota ufficiale da Palazzo Chigi il bonus, che è bene chiarire non concorre alla formazione del reddito, è pronto per essere esteso e riconfermato anche per il mese di Aprile. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha assicurato, infatti, che nel caso in cui ci fosse un perdurare di questa situazione le misure adottate nel mese di Marzo potranno subire innovazioni nei prossimi mesi.

Da notare come, i potenziali beneficiari di questa misura debbano essere iscritti alla “gestione separata INPS”, anche se, per quanto concerne avvocati, geometri, ingegneri ed altri lavoratori si concede la possibilità di appartenere ad altro ente previdenziale, come previsto dall’art. 44 del Decreto con l’istituzione di un fondo denominato “Fondo per il reddito di ultima istanza”.

Il bonus, che può essere richiesto anche da lavoratori stagionali del settore turistico e termale (tranne da chi ha pensione o lavora come dipendente), da lavoratori a tempo determinato che operano nel settore agricolo che nel 2019 hanno prestato servizio per almeno 50 giorni e da chi è iscritto al fondo pensionistico dei lavoratori dello spettacolo e ha versato almeno 30 contributi giornalieri, sarà erogato in via telematica, con procedura ad hoc e PIN semplificato, utilizzando i canali INPS, come da messaggio dell’Ente Previdenziale datato 20 Marzo. Sarà lo stesso INPS a gestire la spesa. I versamenti dovrebbero arrivare prima della fine di Aprile.

 

Emerge chiara, dunque, l’intenzione di porre l’accento su un settore, quello del lavoro autonomo, che imporrà un modus operandi costante che consenta di non lasciare indietro, nel mezzo di questa emergenza e non solo, una parte produttiva del paese indubbiamente meno tutelata di altre. Ed emerge con ancora più chiarezza come, verso questo mondo produttivo, i sintomi del tempo vissuto prima dello scoppio della pandemia, l’afonia, l’afasia e l’amnesia, impongono, ora, il loro superamento (in cui ognuno deve fare la sua parte) per lasciare spazio al “tempo che viviamo” ed adattarsi alle necessità presenti.

Affitti da pagare, mutui e spese di ogni genere devono essere sostenute, sempre ed a maggior ragione in questo momento storico, anche da quei lavoratori che, per dirla con un termine sicuramente attuale, non possono usufruire né dello “smart working” né, tantomeno, di un’entrata sicura a fine mese.

Un’analisi scevra da posizioni ideologiche permette di constatare come sia lecito attendersi uno tsunami economico che ricalchi la tempesta del 2009. L’eccezione, ad oggi, è che l’Unione Europea ha fatto saltare alcuni parametri da rispettare e, per dirla in maniera brutale, l’Italia, a maggior ragione nel caso in cui venissero adottati i “Coronabond”, dovrà essere in grado “di fare i compiti a casa da sola”. Accompagnare il rigore dei conti al rilancio deciso degli investimenti appare essere l’unica via, coinvolgendo nella gestione della crisi tutte le forze politiche dell’arco parlamentare, per garantire a tutti gli attori coinvolti il mantenimento di uno standard di vita adeguato, soprattutto per non lasciare indietro le Partite Iva, oggi protagoniste di un’affannosa rincorsa alla sopravvivenza, e non abbandonare al proprio destino chi è in cerca di lavoro, oggi spettatore pagante di un film horror degno dei “giochi” di Jigsaw nell’Enigmista .

Appare lapalissiano, quindi, come gli interventi economici debbano muoversi di pari passo con la “decrescita” derivante dall’emergenza e, quindi, si debba rispondere in maniera decisa e, soprattutto, puntuale, ora e dopo. L’angosciante abbandono più assoluto “verso l’ordinario” sarebbe un autogol imperdonabile per le classi dirigenti.

Solamente nel solco di una gestione lungimirante di una pandemia come questa si potrà tornare a sventolare la bandiera della crescita economica ed evitare che si accentuino le disuguaglianze del paese. Contrariamente, ponendo una melliflua resistenza al “grido di aiuto” proveniente da diverse classi economico-sociali, si rischia solamente di sventolare la bandiera del pressappochismo.

Virus, capitalismo e l’economia della fiducia

di Mattia Albanese

 

La pandemia che stiamo vivendo potrebbe lasciare una traccia indelebile nelle economie dei paesi industrializzati. La crisi potrebbe portare alla fine del capitalismo come lo conosciamo oggi, ma potrebbe anche garantirne la salvezza.

 

L’arrivo del coronavirus in Europa porta con sé poche certezze, ma sicuramente tra queste c’è quella che le conseguenze del suo passaggio dureranno a lungo. È vero per la sanità come per l’economia: per evitare però che il cambiamento ci travolga senza essere preparati è necessario studiare, sin da subito, come la crisi investe le strutture e le regole che regolano il nostro stare insieme e come questi cambiamenti sono percepiti. Anche quando, finalmente, le misure di distanziamento sociale potranno essere allentate e le nostre vite torneranno ad una forma di normalità, una traccia rimarrà nelle istituzioni e nel modo in cui i cittadini si rapportano ad esse: è per questo che è necessario considerare l’epidemia che stiamo vivendo come un vero e proprio spartiacque della storia contemporanea.

Sarebbe facile lanciarsi in previsioni più o meno prive di fondamento riguardo all’entità e la scala dei cambiamenti futuri, ma forse è ben più importante capire quali fondamentali della nostra società rischiano di indebolirsi a causa della crisi esistente. Guardare, in maniera comparativa, al modo in cui varie nazioni stanno fronteggiando l’emergenza può aiutarci a riflettere, in assenza di dati, sui fenomeni che stiamo vivendo e sull’unicità dei vari sistemi istituzionali che tentano di fronteggiare l’espansione dell’infezione. La limitazione delle libertà fondamentali a cui stiamo assistendo costituisce un’eccezionale occasione per capire se e come le economie di mercato possono giustificare la temporanea ma, per alcuni, ingiustificabile negazione dei loro principi fondanti: la divisione dei poteri, le libertà individuali, la partecipazione democratica e, in misura ugualmente importante, il libero scambio.

Sono due i pilastri su cui si fonda l’ordine economico e sociale a cui siamo abituati e che ora è scosso dalla pandemia globale: il mercato, l’istituzione per eccellenza in termine di allocazione delle risorse, e l’autorità, intesa come potere politico ma anche come organizzazione gerarchica e burocratica della società in diverse funzioni. Così come, all’interno del libero mercato, gli scambi sono armonizzati grazie al meccanismo dei prezzi, le nostre istituzioni politiche si reggono sul principio di autorità. La democrazia nasce e resiste grazie all’equilibrio di queste due forze contrastanti: il mercato è infatti una forza distruttiva, che attraverso la garanzia di libero accesso mette in moto la distruzione creativa di cui scrive Joseph Schumpeter, grande teorico del capitalismo e della sua evoluzione. In questo modo il capitalismo moderno ha contrastato e limitato l’autorità, abbattendo tutte le forme di potere consolidato e facendo sì che la concorrenza, intesa in termini economici, si trasformasse in partecipazione, da intendersi, invece, in chiave democratica. La burocrazia, che certamente è nemica di questa radicale trasformazione in quanto si basa sulla concentrazione, categorizzazione e preservazione dell’autorità, è al tempo stesso una struttura necessaria al corretto funzionamento e regolamento del mercato.

Ma cosa c’entra Schumpeter con il coronavirus? Non molto, anzi nulla. Ed è qui il problema: i meccanismi attraverso cui la nostra società si è regolata fino ad ora potrebbero non essere sufficienti a gestire la incredibile emergenza di una pandemia globale.  L’epidemia che stiamo vivendo in queste settimane è un problema complesso: se la ricerca di una soluzione deve avvenire attraverso la combinazione di metodologie e discipline diverse, la gestione e la condivisione di una enorme quantità di informazioni ci impone di pensare non semplicemente in termini di rischio, ma di incertezza. Affrontare l’ambiguità radicale di uno scenario di questo tipo è estremamente difficile attraverso gli strumenti del mercato: la decentralizzazione delle decisioni non genera efficienza, ma entropia e, soprattutto, la capacità decisionale degli individui è inibita a causa dell’assenza di informazioni. La tentazione sarebbe quella di trovare la soluzione spostando il baricentro del nostro sistema politico verso meccanismi autoritari di decisione. Accentrare le decisioni nelle mani di pochi può aiutare a garantire maggiore efficacia nella coordinazione e nella gestione delle risorse, ma impone costi enormi in termini democratici e sociali. Costi che, nel lungo termine, potrebbero diventare maggiori dei benefici. La gestione della conoscenza e dell’informazione in un sistema autoritario potrebbe risentire dell’assenza di pluralità e, anche in questo caso, concorrenza nell’informazione.

Uno dei maggiori esperti nell’ambito dell’organizzazione sociale e aziendale, Paul Adler, ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio di un terzo meccanismo di coordinamento istituzionale: la fiducia. È proprio questo lo strumento di cui abbiamo più bisogno per affrontare la crisi e le sue conseguenze. Parlare di fiducia non è soltanto un artificio retorico: significa invece realizzare che le nostre istituzioni, in momenti difficili, devono rispondere al bisogno di autorità, ma anche a quello di comunità.

Esistono vari tipi di fiducia: quella iterativa, che nasce dalla consuetudine che abbiamo con le persone che ci circondano e che garantisce la normalità della vita quotidiana. Nelle istituzioni complesse del mondo moderno, come i mercati, questa forma “primordiale” di fiducia (tipica infatti delle società primitive) si unisce alla fiducia generata dalla convenienza e dall’utilità: il mercato stesso ha bisogno di fiducia e sicurezza per garantire le sue funzioni. Chi si impegnerebbe negli scambi senza avere, ad esempio, fiducia che le autorità garantiranno il suo diritto alla proprietà privata?
C’è poi una terza forma di fiducia, quella normativa o valoriale. Si fonda nella convinzione che i membri della società condividano un sistema di norme, non perché ne abbiano bisogno, ma perché sostenuti da un criterio di giustizia collettiva. È di questo tipo di fiducia che abbiamo bisogno ora. È questa fiducia che regge la complessa impalcatura che tenta di arginare il virus e che trapela dietro il trend topic #iorestoacasa.

E’ questa l’opportunità che, in maniera paradossale, ci viene donata dal virus: le sfide del futuro richiedono il passaggio da una razionalità utilitaristica ad una riflessiva, che valuti le conseguenze sociali delle azioni dei singoli. Proprio la fiducia potrebbe essere la chiave necessaria per la soluzione di molti problemi dell’economia in cui viviamo. La crescente disuguaglianza che caratterizza le economie dei paesi industrializzati ha suscitato l’attenzione di molti analisti e ricercatori: Martin Wolf, una delle firme più importanti del Financial Times, definisce questo sistema rigged capitalism, cioè capitalismo truccato. Un sistema in cui la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi sta garantendo profitti anormali e ingiustificati. Questa lettura, evidente ad esempio negli scritti dell’economista francese Thomas Piketty, rintraccia il sintomo evidente della crisi nell’increment o crescente delle rendite capitali rispetto al ritorno del lavoro. Lo aveva intuito anche Schumpeter, che nella seconda parte del saggio “Il capitalismo può sopravvivere?”, parla della burocratizzazione del capitalismo, ossia nella sua cristallizzazione in forme autoritarie.

Combattere l’idea che al rentier capitalism non ci sia alternativa e fare in modo che il mercato torni a produrre ricchezza per i molti e non per i pochi è possibile, ma richiede la transizione da una concezione utilitaristica o relazionale della fiducia ad una lettura normativa. La forza della distruzione creativa può nutrirsi di questa fiducia e tornare ad aggredire le concentrazioni di potere (anche di mercato) che più che mai oggi sono nocive. Basta pensare alla rilevanza attuale della knowledge economy per il mondo in cui viviamo, per capire, come ci indica Paul Adler, che il rischio che questa conoscenza si concentri nelle mani di pochi (e quindi generi ricchezza per pochi) è enorme. Nell’era dell’informazione sarà cruciale fondare la condivisione delle informazioni alla base della nascente sharing economy nella fiducia condivisa verso un sistema di valori che ne garantisca il suo corretto utilizzo.

Mai come oggi abbiamo l’opportunità di comprendere che siamo una comunità fondata in un ideale di giustizia redistributiva e nella promessa della prosperità che nasce dal cambiamento e dell’innovazione. Questa fiducia, che alcuni chiamano riflessiva, non è frutto di pura speculazione. È già ora una componente fondamentale delle nostre interazioni sociali: come potremmo spiegarci, altrimenti, le azioni dei tanti che in questi giorni lavorano e si sacrificano per combattere l’epidemia negli ospedali, nelle strade e nelle loro case?

Sunniti e Sciiti: un conflitto religioso che divide il mondo arabo da XIV secoli

di Nicolò Tozzi

 

Sunniti e Sciiti, quanto sappiamo di loro e del loro conflitto? Negli ultimi anni ci sono giunte notizie drammatiche provenienti dal Medio Oriente, teatro di conflitti e contrasti, con la realtà dello Stato Islamico che ha catalizzato principalmente l’attenzione. Alla radice ci sono secolari divisioni tra sunniti e sciiti che, nonostante non siano mai entrati in aperto conflitto militare tra loro, si muovono all’interno del delicato scacchiere mediorientale. Alla luce dei recenti eventi in Iran (uccisione del generale Soleimani) e in Siria (intervento militare turco nel nord del paese), che hanno destabilizzato nuovamente la situazione, appare utile alla comprensione degli eventi analizzare quali sono le differenze tra i sunniti, ovvero i seguaci della Sunna (consuetudine), i quali costituiscono la corrente ortodossa e maggioritaria della comunità islamica (circa l’80% dei credenti) e gli sciiti (il cui nome deriva dall’espressione abbreviata “fazione di Alì”) che sono la minoranza (circa il 15% dei credenti).

 

Oggi la guerra interna al mondo islamico ha visto una drammatica escalation, come in Siria dove la minoranza sciita “alawita” (discendenti di Alì), guidata dal presidente Assad, sta combattendo da circa nove anni contro la maggioranza sunnita, la cui ultima roccaforte sul territorio rimane Idlib dove, non a caso, come gli sciiti libanesi di Hezbollah si sono recati in aiuto del presidente siriano, allo stesso modo i sunniti di Jabhat al Nusra si sono uniti alle fazioni ribelli. Anche l’Iran dell’Ayatollah Khamenei, dove lo sciismo è al potere, sostiene il presidente Assad. l’Iran dopo la morte del generale Soleimani, avvenuta in seguito ad un raid degli Stati Uniti, ha visto crearsi una forte coesione sociale poiché, ai funerali del generale hanno partecipato un numero di persone che sembra addirittura superiore a quelle che parteciparono nel 1989 ai funerali dell’Ayatollah Khomeini. Dimostrazione quindi di un forte senso di identità nazionale del popolo iraniano. Se parliamo di Iran non possiamo certo dimenticare uno dei suoi acerrimi avversari cioè l’Arabia Saudita paese leader dell’Islam sunnita, nella sua versione giuridico-teologica del wahhabismo[1]. I due attori da 5 anni ormai sono coinvolti, chi direttamente vedasi l’Arabia Saudita a capo di una lega di paesi sunniti e chi indirettamente come l’Iran che sostiene i ribelli sciiti, nella guerra civile in Yemen che, secondo un report dell’Armed Conflict Location and Events Dataset, ha mietuto circa 100.000 vittime di cui 12.000 sono civili. Oltre alla disputa yemenita vi è anche quella irachena dove dopo essere stato debellato lo stato islamico, il paese è conteso tra Iran e Stati Uniti (alleato dell’Arabia Saudita). Con la morte di Soleimani dovuta ad un raid statunitense effettuato proprio sul territorio iracheno, l’equilibrio precario tra i due paesi è venuto meno tanto che il 5 gennaio passato il parlamento di Baghdad ha votato una risoluzione che chiedeva l’allontanamento dei 5.200 soldati americani presenti nel paese.

 

Infine, non possiamo non parlare della Turchia del “sultano” Recep Tayyip Erdogan il quale

nutre una duplice ambizione per la sua “Grande Turchia”: far diventare il paese il vero key player

regionale in un Medio Oriente sempre più allargato dall’Afghanistan al Suda, e quello di costruire l’immagine delle Turchia come attore globale, potente e influente. Esempio ne è la sua operazione militare nel nord della Siria, che però ha suscitato più di una preoccupazione nel regime di Teheran che teme un’eccessiva influenza turca nella zona, con effetti diretti sul potere dei Pasdaran in Siria e sul possibile uso da parte di Ankara dei suoi alleati sunniti, per aumentare il suo potere regionale. Se la storia ci insegna che le guerre, anche quelle di religione, sono innescate da motivazioni politico-economiche (vedasi le Crociate), dopo XIV secoli di tensioni, il rischio che si profila per il mondo islamico è una ipotetica Guerra dei Trent’anni? Solo l’evoluzione delle dinamiche geopolitiche potrà sciogliere questo dubbio.

 

[1] indirizzo religioso musulmano di tipo dogmatico e radicale fondata alla metà del XVIII secolo

da Muhammad ibn’Abd al-Wahhab