Skip to main content
L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Per un nuovo risorgimento delle istituzioni italiane

di Matteo Briotti

Ogni comunità, in ogni epoca, ha conosciuto, sulla propria identità, ponderose crisi e drastiche situazioni di squilibrio sociale che ne hanno determinato, spesso in modo nettamente significativo e prorompente, non solo una modifica importante ed evidente, ma altresì, una acquisizione profonda della conoscenza di quei valori che accomunano ogni individuo, ogni singolo e libero cittadino che è inserito in un contesto giuridico e psicologico più grande, quale quello di una società basata su concezioni moderne. È, però, quanto mai evidente che, nella storia dell’Italia repubblicana, ci si trovi dinanzi ad una importante, quanto nuova, situazione emergenziale, nella quale trova spazio una difficile comprensione del fenomeno anche da parte delle autorità competenti e protagoniste nell’ardua gestione della stessa. Una situazione che ha mostrato grandi ricadute sul fronte socio-economico del nostro Paese, alimentando sentimenti di incertezza, paura e impotenza soprattutto all’interno del tessuto sociale della nostra collettività. Sin dai primi giorni del mese di marzo, le autorità di Governo hanno necessariamente elaborato una serie di provvedimenti stringenti e rigorosi, volti a contrastare il dilagare dei contagi da COVID-19. Si tratta di provvedimenti composti da una serie di prescrizioni fortemente perentorie che, tra le varie argomentazioni, dispongono l’assoluto divieto di spostamento delle persone fisiche se non per comprovate esigenze di carattere medico o lavorativo. Appare chiaro come queste misure modifichino inevitabilmente le abitudini di tutto il corpo sociale, limitando una delle più importanti e “sacre” garanzie costituzionali: la libertà individuale. Viene chiesto, in questo tempo, un radicale cambiamento della quotidianità collettiva e un interfaccio certo con la paura. La paura di ciò che ci è ignoto, la paura di una sconfortante indeterminatezza, la paura del mettere alla prova i nostri valori e la nostra identità nazionale, ovvero ciò che ci accomuna. A tal riguardo, trovo importante ricordare le parole del giudice antimafia Giovanni Falcone, assassinato nel 1992, che affermava:

“L’importante non è stabilire se una persona ha paura o meno; l’importante è saper convivere con la propria paura e non farsi dominare dalla stessa, altrimenti sarebbe incoscienza.”

In un momento così incerto e preoccupante, l’inevitabile tensione provocata dalla paura può, però, essere funzionale, poiché può trasformarsi in attivazione alla collaborazione e alla responsabilità nel rispettare al meglio le indicazioni igienico-sanitarie e preventive. Ma la paura, in questo momento, deve necessariamente farci rendere conto che siamo spettatori della nostra storia, del nostro tempo; spettatori di un tempo senza dubbio difficile, certo, è inutile nasconderlo, ma al quale è necessario rivolgerci con coraggio e determinazione.

Un tempo nel quale ci sentiamo prigionieri di un carceriere invisibile e meschino; un tempo dove i nostri cuori si uniscono agli sforzi dei tanti medici, infermieri e tutori dell’ordine che si sono ritrovati ad essere, ora più che mai, “soldati di trincea” in questa difficile ed incomprensibile guerra; un tempo nel quale l’appartenenza europea rappresenta il fondamento per la ricostruzione soprattutto del nostro sistema economico gravemente danneggiato, perché è evidente che per fronteggiare al meglio una crisi senza precedenti, occorre mettere in campo tutte quelle misure finanziarie, di concerto con le istituzioni europee, che salvaguardino le economie di tutti noi; un tempo dove il grido di “coesione e solidarietà” si erge a faro per il nostro avvenire, udito oggi da tutti coloro che non si fermano, che non si arrendono e che sostengono la catena produttiva italiana. Solamente così, solo uniti, coesi e solidali comprenderemo che, come la storia ci insegna, l’unione ci consentirà di progredire e di debellare tutti quei vincoli che oggi angosciano il nostro animo. Non si tratta di uno slogan, ma di una concreta certezza. Si tratta di una chiamata ad un comune sentimento responsabile, in un’ottica più ampia, soprattutto europea, in quanto, tutti gli Stati membri devono sentirsi, ora più che mai, uniti e pronti a farsi carico anche delle determinazioni risolutive.

In tempi non lontani dal nostro presente, dove lo spirito democratico nazionale veniva sottoposto a frustranti tensioni, lo statista Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana e tessitore di un nuovo modello di coesione sociale nazionale ed internazionale, pronunciò le seguenti, incoraggianti, parole, sulle quali dovremmo far soffermare tutti una sensibile riflessione:

“[…] Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremo di farlo. Ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso; si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà […]”.

Quanto di più attuale? La forza sta nella consapevolezza della responsabilità del singolo nel proprio tempo; la responsabilità di rimanere uniti, anche a distanza. L’Italia sta reagendo bene, questo va riconosciuto; sia per quel che riguarda la gestione dell’emergenza, che vede come protagonisti sia gli attori della compagine governativa, costantemente protesi al dialogo costruttivo con le diverse parti che compongono il sistema Paese e con le istituzioni europee, sia per coloro che gestiscono l’emergenza dal punto di vista logistico e territoriale, come il sistema di Protezione Civile ed il sistema sanitario, ai quali va il mio personale ringraziamento, e, infine, sia per tutti quei cittadini che non si lasciano sopraffare dallo sconforto, ma reagiscono e cantano l’Inno nazionale.

L’Italia ne uscirà, ce la farà e si rialzerà. Noi tutti ce la faremo, ricordando, prima di tutto a noi stessi, che siamo un grande Paese e che risulta nodale mantenere alto l’amore per la nostra comunità, la nostra identità e la nostra libertà.

L’urgenza dei Solidarity-Bond contro la crisi da COVID-19 e come argine alle derive antieuropeiste. E sul Mes? Basta la BEI. Parla Federico Carli

di Emanuele Lorenzetti

Eurobond, Coronabond, scudo del Mes contro la crisi da COVID-19. Sono i temi ricorrenti che fanno da sfondo all’indirizzo di politica economica verso cui l’UE dovrebbe andare per risolvere la fase di emergenza sanitaria e sociale provocata dal Coronavirus. La Fondazione De Gasperi ha sentito il parere di Federico Carli, economista e presidente dell’Associazione di cultura economica e politica Guido Carli.

 

Dottor Carli, in questi giorni è tornato in auge il tema degli ‘EuroUnionBond’ come risposta al Coronavirus. Dal Commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, sono in molti ad unirsi lungo questo filone di pensiero. Lei è uno di questi e in proposito ha coniato il termine “solidarity bond”. Ci spieghi in cosa consiste e qual è l’importanza di implementare una simile scelta di politica economica?

Credo che sia giunto il tempo di utilizzare il linguaggio della verità, e non per distruggere bensì per costruire un percorso europeo che torni a diffondere la speranza di un futuro di progresso per i popoli del Continente. Ebbene, l’emergenza sanitaria, gravissima di per sé, ha messo in luce problemi già esistenti e già evidenti a chi avesse voluto vederli ben prima che il coronavirus ci colpisse: la debolezza dell’economia italiana, la fragilità dei suoi assetti istituzionali, lo scollamento della società, che era già vicina a un punto di rottura quando l’epidemia era un evento inimmaginabile. Soprattutto, ha messo in luce l’incompiutezza e l’inadeguatezza attuali dell’UE. In occasione di un convegno organizzato dall’Associazione Guido Carli alla fine dell’estate 2019, il Presidente della Consob ha ricordato, per esempio, che già “lo scorso 7 settembre il Presidente della Repubblica Mattarella aveva ribadito i punti sollevati nella sua illuminante prolusione all’Università di Lund del novembre 2018, quando affermò che «fosse dirimente un chiarimento introspettivo sulla direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere» di comune accordo, secondo il principio di sussidiarietà. L’idea di un’Europa unita riprenderà vigore il giorno in cui sarà possibile discutere seriamente dei contenuti da dare alla richiesta di riesame o di completamento, senza che i partecipanti al dibattito incappino nella consueta distinzione tra europeisti e antieuropeisti”. In questa cornice deve essere inquadrata la proposta dei “solidarity-bond”, che ho formulato il 7 marzo in un’intervista concessa a Avvenire, che è stata poi ripresa da vari economisti italiani e infine fatta propria dal nostro governo che l’ha formalmente avanzata (con un altro nome, meno bello in verità…) in sede europea. Nella mia visione, il punto è duplice: 1) far affluire risorse all’economia reale, segnatamente agli investimenti di cui c’è evidente bisogno dopo la spinta contenitiva degli ultimi anni; 2) rivitalizzare su nuove basi il disegno europeo. I “solidarity-bond” costituiscono uno strumento tecnico che ha un obiettivo politico: rilanciare un’Europa carente e ingessata, che, di fronte alla crisi del coronavirus, ha manifestato tutti i suoi limiti e rischia la disgregazione. Essi sono pensati per consentire il finanziamento di indispensabili piani d’investimento senza gravare sul debito dei singoli Stati e per dare un impulso affinché le istituzioni di Bruxelles e i governi dei Paesi membri tornino a ispirare le proprie azioni secondo i principi della solidarietà, della cooperazione e della sussidiarietà. Sotto il profilo strettamente economico, queste obbligazioni di scopo, volte a finanziare investimenti per l’adeguamento delle strutture sanitarie europee, insieme con l’introduzione della “golden rule”, altro obiettivo di cui il governo italiano deve farsi portabandiera, mirano a distinguere tra spese correnti e spese in conto capitale affinché solo le prime siano assoggettate ai vincoli di bilancio stabiliti dall’UE. La realizzazione di piani pluriennali d’investimenti per l’adeguamento delle nostre strutture sanitarie su tutto il territorio nazionale, per favorire la transizione ecologica, per la messa in sicurezza del territorio, per la modernizzazione delle reti infrastrutturali (materiali e immateriali), per la scuola, non solo rappresenta un’indispensabile forma di sostegno per l’economia reale (imprenditori, lavoratori, famiglie) colpita duramente dalla crisi scaturita dall’epidemia Covid-19, ma costituisce altresì una strategia politica per attenuare gli inaccettabili squilibri e disuguaglianze tra gruppi di cittadini e tra territori, per tutelare e per dare piena dignità alla vita stessa delle persone. In altri termini, per rivitalizzare l’Europa riportandola nel solco pensato e tracciato dai padri fondatori, tra i quali spicca in tutta la sua grandezza la figura di Alcide De Gasperi.

Il presidente del Consiglio Conte, in un’intervista rilasciata al Financial Times, ha chiesto lo scudo del MES contro la crisi da Coronavirus. Cosa ne pensa e quali sono i dubbi sull’applicabilità del Fondo salva-stati?

Il punto è politico, non tecnico. Pensare di far evolvere la costruzione europea attraverso l’istituzione progressiva di meccanismi tecnici, prevalentemente orientati a regolamentare i mercati bancari e finanziari e i bilanci pubblici degli Stati, è un errore mortale. Continuare a discutere nelle sedi ufficiali e quindi, inevitabilmente, sulla stampa di MES, Fondo salva-stati, Basilea4, Patto di Stabilità, 3%, MiFID3, etc… porterà alla liquefazione dell’Unione Europea. Penso che questo non sia il momento più opportuno per spingere avanti negoziazioni tecniche su meccanismi che suscitano la preoccupazione di larghi strati dell’opinione pubblica di diversi paesi; i solidarity-bond possono essere tranquillamente emessi dalla BEI, non c’è bisogno di forzare la mano sul MES in questo momento. Lo stesso nome “Fondo salva-stati” evoca una battaglia di retroguardia e non un piano di largo respiro volto a promuovere il progresso delle Nazioni d’Europa, ritengo che il linguaggio sia più importante di quanto normalmente si pensi perché la forma è sostanza. Il linguaggio non è semplicemente un mezzo per esprimere il proprio pensiero, ma ne è anche il nutrimento di cui il pensiero si alimenta per prendere corpo e da cui quindi trae origine. Non limitiamoci a ergere muri per la conservazione di posizioni difensive, a cominciare dalla scelta stessa delle parole. Iniziamo, noi tutti, a modificare il linguaggio e a utilizzare frasi che mostrino l’esistenza di una visione nuova, in grado di scaldare i cuori intorno a progetti alti. Apriamo piuttosto un tavolo ufficiale di discussione volto a dirimere quale sia la “direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere” affinché ne scaturiscano sviluppo, coesione e stabilità. È giunta l’ora di sostituire agli sterili temi tecnici posti sul tavolo dai funzionari amministrativi di Bruxelles, i temi di vitale importanza attorno ai quali è nata l’Unione Europea: temi propriamente politici, che richiedono l’ardimento, la visione e la risolutezza di una classe politica all’altezza del proprio ruolo. Solo in questo modo sarà possibile dare un rinnovato slancio alla costruzione europea.

L’UE sta subendo una forte crisi di fiducia e sempre più rilevanti sono le derive antieuropeiste. I “solidarity-bond” perché potrebbero essere il trampolino di lancio per una ripresa del processo d’integrazione europea?

Risollevare l’economia, rivitalizzare l’Europa, favorire l’emersione di una nuova classe politica: questi sono gli obiettivi che dobbiamo porci. I “solidarity-bond” possono essere il trampolino di lancio per una ripresa del processo d’integrazione non solo e non tanto perché costituiscono uno strumento per assicurare il bene supremo della salute, ridurre gli squilibri tra classi di cittadini e tra regioni d’Europa, sostenere l’economia reale e l’occupazione in un momento così difficile, colmare la carenza di capitale sociale che in alcune aree del Continente è drammatica, incluso qui in Italia, bensì perché, sotto il profilo del metodo, essi si prestano a capovolgere l’impostazione tutta tecnica su cui si sono fondati il dibattito e l’azione europei negli ultimi trent’anni. I “solidarity-bond”, rappresentano un grimaldello per riportare la politica al centro della scena e, con essa, i temi che davvero rilevano ai fini di una vita piena e degna delle persone. Occorre lavorare affinché emergano una nuova impostazione, non tecnica bensì politica, e una nuova visione per l’Europa. E con esse, emergeranno uomini nuovi all’altezza della sfida che abbiamo davanti. Per uscire dalla crisi dell’Europa, occorre far nascere una nuova classe dirigente, competente e portatrice di un pensiero nuovo, che sappia evitare gli errori compiuti da coloro i quali hanno governato il Paese e l’Europa negli ultimi trent’anni. Questa è l’unica speranza, perché non possiamo immaginare che a risolvere il problema siano coloro i quali lo hanno creato.

L’Università al tempo del Coronavirus. Parla il Rettore Raffaele Calabrò

di Luca Di Cesare

Dal 4 marzo il Dpcm ha decretato la chiusura delle università e delle scuole su tutto il territorio nazionale per far fronte alla pandemia dovuta al Covid-19, ciò non si è verificato neanche durante la Seconda guerra mondiale. Per questo, la Fondazione De Gasperi – da sempre vicina alle nuove generazioni – ritorna a prestare attenzione agli studenti universitari. Il Professore Raffaele Calabrò, Rettore del Campus Bio-Medico di Roma e Senior Fellow presso la Fondazione De Gasperi, risponde ad alcune domande ai nostri microfoni.

 

Professore, quali sono le iniziative prese dall’Università Campus Bio-Medico di Roma a seguito della grande emergenza sanitaria dovuta al nuovo Coronavirus?

Per fronteggiare tempestivamente l’emergenza Covid-19 garantendo il più possibile i servizi e l’attività didattica è stata istituita una task force in ambito Universitario, avendo come obiettivo la centralità dello studente e dei dipendenti. Nel rispetto dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri abbiamo sospeso le attività didattiche in presenza, i tirocini pre e post lauream degli studenti, le attività convegnistiche e congressuali e tutti gli eventi, e abbiamo contestualmente avviato le lezioni in diretta streaming e registrate da parte dei nostri docenti.

Anche i test di ammissione previsti, come quello per il corso di Medicine and Surgery in lingua inglese per il quale erano iscritti circa 500 candidati, sono stati rinviati, fatti salvi i test di ammissione per gli studenti esteri per i quali era già prevista una selezione a distanza. Gli studenti potranno seguire linee guida ad hoc per ridurre al minimo i disagi, mentre ai dipendenti dell’università sono state fornite tutte le indicazioni per proseguire serenamente il lavoro, attuando dove possibile lo smart working, utilizzando dispositivi di protezione individuale sul posto di lavoro o potendo utilizzare i giorni di ferie.

A tutti i dipendenti, specializzandi, studenti e volontari con sintomatologia di febbre, tosse o dispnea è stato messo a disposizione un ambulatorio open, tre giorni alla settimana, presso il quale sarà possibile effettuare una visita specialistica internistica e, a seconda dei casi e per disposizione del medico, eventuali approfondimenti diagnostici.

Essendo la nostra Università una realtà vocata alla formazione, alla ricerca e all’assistenza, il nostro Policlinico universitario sta continuando a erogare prestazioni sanitarie, processando i tamponi dell’Asl Roma 6 dei Castelli Romani, secondo l’organizzazione della Regione Lazio per il Covid-19, e assicurando – come struttura “non- Covid” assistenza a tutte quelle esigenze sanitarie non differibili, in piena sicurezza, accogliendo anche pazienti da altre strutture, in un gioco di squadra del Servizio Sanitario per garantire il diritto alla salute a chi ne ha bisogno e non può aspettare la fine dell’emergenza: dalle terapie oncologiche, per le quali è stato realizzato un percorso ad hoc che non incrocia altri flussi di pazienti, agli interventi di traumatologia, a quelli cardiochirurgici, solo per fare qualche esempio.

Sul piano della ricerca stiamo cercando di dare – anche in lavoro sinergico con i più autorevoli centri internazionali – il nostro contributo: siamo stati i primi a individuare la mutazione nel passaggio di specie dal pipistrello all’uomo e stiamo continuando a indagare le caratteristiche del virus, la modalità di diffusione e le possibili modalità di diagnosi precoce per sostenere lo straordinario lavoro che operatori sanitari e medici stanno facendo in tutti i Paesi investiti dal Covid-19. Abbiamo per esempio adottato – primi in Europa dopo l’esperienza di Wuhan in Cina – un sistema di intelligenza artificiale che consente in circa 20 secondi, partendo da una immagine di tc polmonare, di identificare se ci troviamo potenzialmente di fronte a un paziente contagiato dal nuovo virus o se si tratti di altra patologia. Questo lavoro su grandi quantità di dati ci aiuta a somministrare le cure efficaci in maniera tempestiva ed efficace ai pazienti non Covid e a isolare immediatamente quei soggetti che sono stati contagiati ma che ancora non lo sanno, contribuendo a interrompere i potenziali contatti infettivi.

In che maniera l’Università si sta attrezzando per far fronte alle esigenze degli studenti e dei docenti (didattica, tasse)?

Credo che questa emergenza, per quanto stia creando in tutti noi preoccupazioni e gravi danni al sistema Paese, debba essere vissuta, per quanto possibile, cogliendo quelle opportunità che possano fare dell’università un luogo di cultura sempre più accogliente e aperto, seppure da remoto. Solo per fare tre esempi stiamo mettendo a regime una didattica innovativa, con strumenti e risorse tecnologiche che potranno essere messe a disposizione dei nostri studenti anche a emergenza conclusa; puntiamo a creare una comunità più forte e più coesa all’interno del mondo accademico, così pieno di risorse preziose; infine vogliamo rafforzare il senso di comunità già presente tra studenti che passano ogni giorno molte ore negli spazi della nostra università, siamo e ci sentiamo una famiglia, e ancor di più nelle difficoltà, le famiglie devono stare unite. Ai nostri ragazzi, stiamo proponendo contenuti didattici e contenuti per aiutarli a crescere come persona.

L’Università Campus Bio-Medico di Roma organizzerà venerdì 20 marzo una prima sessione di laurea di Medicina e Chirurgia interamente a distanza, senza studenti in presenza, e saranno programmate le successive sessioni.

Una task force è al lavoro per offrire un efficace servizio di didattica a distanza collaborando con i docenti dell’ateneo con l’obiettivo di potenziare l’erogazione on line delle lezioni, mentre da questa settimana riprenderanno anche gli esami che saranno ovviamente eseguiti a distanza; in questo senso i docenti stanno lavorando per la conversione degli esami da scritti a orali, laddove possibile. Ognuno sta facendo la propria parte. Anche, per esempio, sulla donazione di sangue, abbiamo chiesto ai nostri studenti di fare la propria parte da cittadini consapevoli e con uno spiccato senso di comunità.

Le direttive emanate dal Governo, a suo avviso sono sufficienti o devono essere incrementate in qualche modo?

Seguiamo con grande attenzione l’evolversi della situazione e ci atteniamo strettamente alle regole del governo. Come ci dicono gli epidemiologi che stanno studiando l’evoluzione del contagio, dobbiamo proseguire nella direzione attuale, continuando a lavorare tutti insieme con senso di responsabilità per fronteggiare e poi debellare il virus, con un’azione unitaria che è giusto duri fino a che non saremo completamente fuori dall’emergenza, non solo a livello regionale o italiano ma europeo. Le grandi sfide del nostro tempo non riconoscono i confini e le frontiere imposte dall’uomo, e questa è la prima grande emergenza globale, alla quale dobbiamo rispondere con un approccio globale. È l’unica strada. Siamo consapevoli delle sfide che questa emergenza sta portando all’attenzione del Governo e dei presidenti di Regione e speriamo che, anche in questo caso, saremo in grado come Paese di cogliere le opportunità di miglioramento delle istituzioni e del sistema.

Concretamente, per rispondere alle esigenze delle famiglie e degli studenti di fronte all’emergenza Covid-19, l’Ateneo ha deciso di prorogare la scadenza del pagamento della rata prevista per il 13 marzo alla data del 29 maggio. Per chi è in procinto di laurearsi sanitario nazionale che questa emergenza ci sta indicando chiaramente. Penso al salto evolutivo che questa esperienza impone alla macchina amministrativa sul piano dell’erogazione dei servizi in digitale.

Questa situazione ci conferma, ahimè nel peggiore dei modi, tutti i limiti di un servizio sanitario articolato su 21 sistemi differenti e in larga parte praticamente indipendenti e la necessità invece di una cabina di regia per le strategie e lo sviluppo delle azioni che possono essere declinate sui singoli territori mediante autonomia operativa delle Regioni. Quel che stiamo vivendo oggi ci impone di effettuare una accurata rivalutazione e rimodulazione della distribuzione delle risorse sul territorio italiano perché il prezzo delle disuguaglianze che si sono sviluppate le paghiamo comunque tutti come Paese. La lezione che spero si possa apprendere da questa vicenda è che i fondi per la sanità non possono essere intesi come spesa ma vanno riconosciuti per quel che sono: un investimento. Senza questa consapevolezza si producono fragilità per il sistema in termini di persone, tecnologie, conoscenze. E anche se ci volessimo limitare a considerazioni di tipo ragionieristico, è del tutto evidente, oggi più che mai, che le conseguenze economiche e sociali sono e saranno infinitamente più gravose del mancato investimento.

Come valuta, infine, l’equiparazione della semplice laurea a titolo abilitante per l’esercizio immediato della professione?

La laurea in medicina che è diventata abilitante e permette ai neo-medici di entrare subito in servizio negli ospedali è un’ottima notizia. Il ministro Manfredi ha sottolineato come questo provvedimento accorci di diversi mesi la filiera professionale di queste figure di cui il sistema sanitario ha sempre più bisogno. Condividiamo la scelta del Governo sulla possibilità di utilizzare medici in formazione o che sarebbero dovuti andare in pensione, ma riteniamo che gli studenti non siano ancora preparati adeguatamente per affrontare questo momento così delicato. Non dimentichiamoci mai che la forza del Servizio sanitario nazionale italiano, nota e apprezzata in tutto il mondo, è data proprio dalla professionalità e dalla esperienza dei nostri professionisti, un’esperienza che non si può improvvisare nemmeno con la migliore formazione universitaria. È chiaro però che in questa emergenza ognuno farà la propria parte.

 

Il Coronavirus e gli effetti sull’economia in Italia. Parla l’economista Bracco

di Emanuele Lorenzetti

Il Coronavirus non rappresenta solo una crisi epidemiologica, ma anche una forte crisi sociale ed economica. Capire, allora, quali sono gli effetti sull’economia del nostro Paese e con quali misure rispondere è una priorità. Sul tema la Fondazione De Gasperi ha sentito il parere dell’economista Emanuele Bracco, professore all’Università di Verona con un passato alla Lancaster University, un PhD in Economics presso la University of Warwick e un MSc in Economics presso la London School of Economics.

 

Professore, il Coronavirus sta generando conseguenze sull’economia in Italia: quali settori investe e come rispondere?

I primi settori ad essere colpiti globalmente sono stati i cosidetti settori di “luxury” (lusso) e “leisure” (trasporti, ristoranti, alberghi). Ora che la situazione è molto più drammatica e non solo confinata alla Cina, sono davvero pochi i settori che non sono direttamente colpiti da questo blocco, sia per mancanza di domanda che per la difficoltà di organizzare la produzione durante una quarantena. Sicuramente ospitalità, commercio, turismo sono i primi a soffrirne, ma anche i settori manifatturieri più legati alle importazioni cinesi soffriranno. Le catene globali del valore hanno assunto un ruolo sempre più centrale nella manifattura e sempre più settori necessitano di componenti di produzione cinese. In questo senso i settori più colpiti saranno ancora una volta il tessile e l’elettronica, ma anche l’automotive. Se poi questa epidemia continuerà per altri mesi, molte piccole e medie imprese di tutti i settori soffriranno crisi di liquidità e alcune necessariamente andranno in fallimento. In tutto questo ovviamente il settore bancario sarà sotto forte stress, e ci si aspetta che la Banca Centrale Europea faccia il suo lavoro per evitare conseguenze disastrose per l’economia, come il fallimento di banche importanti.

 

Quali sono le misure più efficaci per evitare il fallimento di aziende e servizi pubblici, il potenziale licenziamento dei dipendenti e la perdita di lavoro per i professionisti?

Innanzitutto nei prossimi mesi ci sarà bisogno di un importante investimento in sanità, sia in termini di macchinari che di personale. Secondariamente, nel decreto di ieri il governo ha iniziato a stanziare fondi per far fronte a questa situazione. Sicuramente sussidiare partite IVA e piccoli imprenditori il cui reddito è stato azzerato dal lockdown è necessario, così come è necessario ampliare il ricorso alla cassa integrazione, e mantenere le altre misure di sostegno al reddito per i meno abbienti come il reddito di cittadinanza (che può, ovviamente, essere migliorato). Rispetto invece alle scadenze fiscali sembra che il governo sia stato invece molto molto timido, semplicemente posticipando alcuni pagamenti fiscali di pochi giorni. Gli obblighi fiscali delle aziende colpite dovrebbero invece essere rimodulati in modo molto più incisivo e – mi si consenta – tempestivo: posticipare di quattro giorni senza avere neanche il testo del decreto nel giorno della scadenza non aiuta certo le imprese a far fronte a questa emergenza.

 

Il Governo ha scelto di stanziare 25 miliardi di euro per imprese e famiglie. Non appena terminata la fase di quarantena, quali misure consiglierebbe per stimolare l’economia?

 

Questa pandemia è una specie di tempesta perfetta, che mina sia il lato della domanda che quello dell’offerta. Il governo dovrà agire su vari fronti. Dal lato dell’offerta sicuramente sostenere la liquidità delle aziende colpite dalla crisi ad esempio attraverso prestiti agevolati. Dato che questa epidemia sicuramente non sparirà il 2 Aprile, si dovrà anche pensare a incentivare direttamente la messa in sicurezza delle aziende, incentivando piani aziendali di smart working o distanziamento sociale; questi per altro potrebbero anche contribuire all’ammodernamento tecnologico (e quindi alla produttività) di molte piccole imprese che sono mediamente meno attrezzate da questo punto di vista. Questo tipo di ammodernamento sarebbe anche di grandissima utilità nella pubblica amministrazione che – con l’eccezione forse di alcune scuole e quasi tutte le Università – si trova in grande difficoltà nell’affrontare la gestione della “produzione” tramite modalità di lavoro remoto a causa delle rigidità amministrative del nostro sistema. Penso ad esempio all’impossibilità di fare udienze di tribunale tramite teleconferenza, o alla possibilità che queste settimane di sospensione delle udienze giudiziarie possano essere utilizzate per colmare parte delle cause pregresse accumulate.

Questo andrà unito ad un’importante azione di sostegno alla liquidità delle banche da parte della banca centrale. Ci saranno sicuramente molti fallimenti che andranno ad indebolire la situazione patrimoniale delle banche, e non ci possiamo aspettare dal settore bancario una generosità nel concedere prestiti alle aziende, anche in presenza di politiche monetarie particolarmente creative ed espansive.

Dal lato della domanda invece diventano fondamentali sia il sostegno al reddito di coloro sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, sia investimenti pubblici diretti di stimolo a consumi e investimenti: sicuramente in sanità, ma anche i tanto decantati investimenti infrastrutturali non potranno che contribuire all’uscita dalla crisi. In questo senso istituzioni come la Banca Europea degli Investimenti o la Cassa Depositi e Prestiti potranno assumere un ruolo importante. Un altro importante canale di sostegno dei consumi potrebbe venire dall’attuazione di misura al sostegno della famiglia, con un riconoscimento non solo simbolico (e non solo per il sempre più esiguo numero di lavoratori dipendenti) dei carichi familiari, ad esempio attraverso l’assegno unico per i figli, o misure universali analoghe.

Tutto questo ovviamente necessita che la Commissione Europea sia efficace nel garantire ai paesi con minore spazio fiscale come il nostro la capacità di far fronte a queste spese necessarie per la sopravvivenza di molti italiani, e per la sopravvivenza anche del tessuto produttivo italiano. Spero infine, forse contro ogni ragionevole speranza, che la crisi ci darà anche la possibilità di ragionare delle tante scelte di politica economica profondamente sbagliate di questi ultimi anni, che ci hanno portato ad avere livelli di debito altissimi e spazi autonomi di manovra davvero esigui a fronte – ad esempio – di una riduzione in termini reali della spesa sanitaria. Penso ad esempio a tutte alle politiche fiscali che stanno disincentivando il lavoro (quota 100, alcuni aspetti del reddito di cittadinanza) o sostengono con la fiscalità generale aziende di dubbio interesse strategico (Alitalia, molte municipalizzate inefficienti, eccetera) o alle politiche salariali della pubblica amministrazione ancora scollegate da dinamiche premiali e meritocratiche.

I limiti allo Stato d’eccezione nell’ordinamento italiano. Il punto di Mirabelli

di Gian Marco Sperelli.

“Sovrano è colui che decide sullo Stato d’eccezione”. La celebre affermazione di Carl Schmitt restituisce il senso della situazione politica vissuta attualmente dal nostro Paese, a seguito dei Dpcm emanati dal Presidente del Consiglio Conte nei giorni scorsi. Ma quali sono i limiti costituzionali invalicabili per l’azione del Governo in un’emergenza sanitaria di tale portata? Il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Mirabelli ne ha fatto il punto con la Fondazione De Gasperi.

 

Presidente Mirabelli, a sostegno della liceità costituzionale dei Dpcm delle ultime settimane si è fatto riferimento al Decreto-legge del 23 febbraio scorso. A suo parere è sufficiente?

Le due libertà fondamentali, che sono state fortemente limitate e compresse, sono senza ombra di dubbio quelle di circolazione e di riunione, assieme – anche se in misura minore- alla libertà d’iniziativa economica. Nella nostra costituzione vi è la possibilità restrizioni alla libertà di circolazione, previste in linea generale dalla legge, per motivi di sicurezza nazionale e di pubblica sanità. Il secondo punto, ça va sans dire, è il nodo cruciale della questione. Ma qual è il doveroso bilanciamento costituzionale di fronte ad un restringimento così ampio delle libertà personale? In questo caso, il diritto alla salute deve essere interpretato quale prerogativa fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività. Ciò che stupisce, per via dell’alta trasmissibilità del virus, è l’estensione di queste disposizioni su tutto il territorio nazionale non per mezzo di atti legislativi, ma con decreti essenzialmente attuativi. Sono due i criteri giuridici di valutazione in una questione così complessa: la proporzionalità e l’assoluta temporaneità di tali restrizioni. La questione di fondo, ad ogni modo, è se tali Dpcm siano da considerarsi come semplici decreti attuativi, ovvero mero strumento di delegificazione, esenti dunque da qualsiasi forma di controllo parlamentare o presidenziale. Un’ipotesi questa abbastanza discutibile.

 

A proposito del controllo parlamentare sull’azione dell’Esecutivo, come valuta l’ipotesi del proseguimento dei lavori delle Camere tramite video-conferenza e voto telematico?

Sarei estremamente sorpreso se, in presenza di un’emergenza sanitaria nazionale, si dovesse verificare un contingentamento prolungato dell’attività del Parlamento, che è l’organo di esercizio della sovranità nazionale. Se mi passa il termine le nostre Camere non possono avere una funzione “spettrale” o di meri luoghi di ratifica della volontà politica del Governo. In definitiva, è necessario garantire la continuità dei lavori parlamentari, pur adottando tassativamente tutte le misure igienico-sanitarie volte alla tutela della salute di tutti i membri del Parlamento. Fortunatamente la democraticità, a mio parere, del sistema è sostenuta da istituzioni di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la stessa Unione Europea.

 

Vale a dire?

Nella nostra storia repubblicana, a dire il vero, non sono mai stati adottati provvedimenti così radicali neanche durante la stagione del terrorismo alla fine degli anni ’70. Ma se ci trovassimo in un contesto storico analogo, tali restrizioni così forti ai fondamentali dei cittadini sarebbero il “brodo di coltura” perfetto, per un ulteriore ridimensionamento delle libertà civili e politiche.

Green Bond: è tutto verde ciò che luccica?

di Tancredi Rapone e Tommaso Di Prospero

 

L’Europa è verde. O così ci dicono. Dal Green New Deal della von Der Leyen ai Green Bond che occupano sempre più spazio nei mercati obbligazionari europei e internazionali. Ma, mettendo da parte la retorica, cosa sono effettivamente i Green Bond? Chi decide se un bond è “verde”? Quali sono i meriti e le limitazioni di questi strumenti? In questo articolo tenteremo di rispondere a tali domande.

 

I Green Bond sono degli strumenti finanziari aventi l’obiettivo di sostenere progetti che combattono il cambiamento climatico. L’importanza di questi strumenti è stata particolarmente discussa al World Economic Forum tenutosi lo scorso gennaio, che ha sottolineato, più di qualsiasi altro fattore, l’importanza della transizione energetica dai carbon-fossili alle fonti rinnovabili per la stabilità economica globale (1). Per illustrare la connessione tra l’economia e la crisi ambientale in corso, basti pensare al numero crescente di disastri ambientali provocati dal riscaldamento climatico che hanno un peso sempre maggiore in termini di danni economici. Per rimanere in Europa, stando ai dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, 33 paesi dell’area economica europea hanno subito danni di oltre 13 miliardi di euro dal 2010 al 2017 per eventi climatici collegati al riscaldamento del pianeta (2). Italia, Regno Unito, Francia e Germania tra i paesi più colpiti.

 

In questo contesto, la commissione europea stima che gli investimenti in energia e infrastruttura “verdi” dovranno salire di almeno 80 punti base relativi al GDP dell’unione per raggiungere il 2,8%, questo equivale a un ulteriore finanziamento di 180 miliardi di euro l’anno (3). La portata di questo target, secondo la commissione, eccede la capacità degli attori pubblici in gioco, comportando un ruolo fondamentale del settore privato. I “Green Bond”, servono per l’appunto a raccogliere tali finanziamenti del settore privato di questi progetti, permettendo a investitori di finanziarli e a società private di ottenere i finanziamenti necessari per effettuare i loro progetti “verdi”. Attualmente vi sono oltre 500 miliardi di dollari americani in green bonds sui mercati finanziari internazionali (4). A partire dallo scorso gennaio, anche la BCE ha iniziato a fare shopping “Green”, su indicazione della presidente Christine Lagarde.

 

Fondamentalmente, i Green Bond consentono all’investitore di conoscere l’impatto ambientale del proprio investimento, che dunque sarà legato alla realizzazione di progetti sostenibili di vario tipo. Ad esempio, la produzione di un impianto di energia solare per l’illuminazione di una fabbrica. Non vanno poi confusi i Green Bond con i Social Bond, che mirano ad ottenere un risultato positivo “per la società”, dunque indipendentemente dai suoi risultati ambientali (pensiamo al finanziamento per la realizzazione di un comprensorio di case popolari). Ancora diversi sono i Sustainability Bond, che richiedono a un tempo la realizzazione dei fini ambientali e sociali richiesti rispettivamente dai Green e Social Bond.

 

Ma cosa definisce, sul piano oggettivo un bond come “Green”? Chi stabilisce gli standard di trasparenza sul loro effettivo impatto ambientale? De facto, non esiste uno standard di trasparenza a cui gli emittenti debbano sottoporsi per poter apporre il label “Green” ai loro bond. La maggior parte degli emittenti si affida ai Green Bond Principles, stabiliti dalla Associazione Internazionale dei Mercati di Capitali (ICMA), che dovrebbero stabilire delle linee guida per assicurare la trasparenza e l’integrità della natura sostenibile degli investimenti (5). Alcune società di consulenza come Moody’s Investors Service e Cicero Shades of Green si propongono come attori per la certificazione terza e imparziale di sostenibilità del progetto finale. Tuttavia, come anche gli stessi Green Bond Principles tengono a sottolineare, è in ultima analisi il criterio nominalistico a prevalere. Si definiranno Green Bond quelli che gli emittenti etichetteranno come tali. Non stupisce allora che la Cina sia il secondo emittente mondiale di Green Bond, nonostante tali finanziamenti siano stati diretti a foraggiare centrali elettriche a carbone (6). Nel 2017, Repsol Sa, una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo, ha emesso un bond da 500 milioni di euro a scadenza quinquennale. Nonostante tali finanziamenti siano motivati come volti a migliorare l’efficienza energetica degli impianti produttivi, gli specialisti del settore sono dubbiosi sulla loro qualificazione come sostenibili. In questi casi allora non servirà che la strategia della società emittente sia completamente “verde”, ma basterà la sostenibilità del singolo investimento. Tutto ciò contribuisce a sollevare perplessità in merito alla mancanza, in questo campo, di standard legalmente vincolanti in capo agli emittenti in tutto il mondo. L’Unione Europea sta lavorando alla definizione di standard basati sulle pratiche di mercato attuali e che possano essere utilizzati globalmente. Anche in questo caso, però, si parlerà di standard volontari e non vincolanti. Ciò vuol dire che non servirà una certificazione europea per emettere un Green Bond denominato in euro. Ma questo criterio nominalistico, privo di valutazione imparziale e legalmente prestabilita, è funzionalmente adeguato al mercato dei Green Bond?

 

Esistono già nei mercati finanziari dei veicoli di comunicazione tra le società e gli investitori che non sono disciplinati da standard legali, bensì dal rapporto di fiducia tra le parti coinvolte. Nel gergo tecnico si parla di “signaling”, cioè l’utilizzo di pratiche come il frazionamento o il buyback azionario per comunicare un prospetto di crescita al mercato, il quale si prende il compito di punire severamente chi diffonde segnali fasulli, dunque assicurando l’integrità del sistema nel suo insieme (7). Allo stesso modo, verrebbe da pensare che qualora un emittente piazzasse sul mercato un presunto Green Bond che si rivelasse tutt’altro che “verde”, la vigilanza di questi comportamenti e il disciplinamento degli abusi possa essere effettuato con la massima efficienza dal mercato. Dopotutto, se un bond non è autenticamente “Green” gli investitori possono sempre evitare di comprarlo, come possono vendere le azioni di una società che diffonde segnali fasulli. Tuttavia, ci sono importanti motivi per essere scettici di un sistema di autogestione di uno standard di “Green” che non lambiscono la funzione di pratiche di signaling come il frazionamento o il buyback azionario. Il più importante di questi motivi è che nel caso del signaling, la veridicità del segnale può essere valutata in modo del tutto oggettivo e incontroverso senza spendere considerevoli risorse: se, dopo aver dato un segnale di futura crescita al mercato, i ricavi dell’azienda diminuiscono (o sono notevolmente al di sotto di quelli attesi dagli analisti) il segnale verrà considerato da tutti come manipolativo e falso. Nel caso di un Green Bond, giudicare se il palazzo costruito con il finanziamento del bond è effettivamente “verde” richiede un giudizio normativo al contrario di quello puramente descrittivo nel caso del segnale di futura crescita dei ricavi. Considerando che una gran parte dei più ingenti investitori investe a loro volta per conto di terzi (si pensi ai grandi fondi assicurativi o pensionistici), l’esecuzione di questo giudizio e la sua applicazione appaiono tutt’altro che semplici: cosa succede se una parte dei contribuenti ad un grande fondo di investimenti dissente dall’opinione dei loro soci?

In realtà, la considerazione più preoccupante per quanto riguarda questi standard volontari riguarda il concetto economico del costo opportunità, ovvero ciò a cui si deve rinunciare per effettuare una scelta economica. Come già menzionato, nella maggior parte dei casi, malgrado non in tutti, la certificazione “Green” non richiede che l’intera strategia della società sia verde ma solo il progetto per il quale si utilizzano i fondi ricavati dalla vendita del bond. Dunque, i soldi risparmiati grazie al premio più basso sul Green Bond per il progetto sostenibile possono essere utilizzati per un progetto “non-verde”, senza violare il già menzionato principio che i fondi ricavati dal bond vengano spesi interamente per il progetto verde.

 

Sotto altra luce, si può poi dibattere che il problema vada ben oltre il semplice aspetto legale. Il potenziale di questi strumenti finanziari è difficile da sopravvalutare. Con cifre sempre in crescita sul mercato attuale e l’aumento di investimenti in tecnologie e infrastrutture verdi per la transizione energetica, i mercati finanziari saranno un catalizzatore fondamentale nella lotta al cambiamento climatico. A nostro avviso, partendo dalla stessa natura pubblica del bene da proteggere (l’integrità ambientale), è necessario che la funzione dei mercati in questo campo sia attentamente vigilata e disciplinata da appositi enti pubblici aventi responsabilità fiduciaria nei confronti della collettività anziché lasciare questo onere agli emittenti di Green Bond e ai loro investitori. Ciò non toglie che i Green Bond effettivamente creino, già nel quadro attuale un importante contributo alla sostenibilità dell’economia; tuttavia, vediamo ancora molto lavoro da fare prima che possano raggiungere il loro potenziale.

 

 

Per approfondimenti:

 

(1) Vedi Hofmeijer, I., “Global Risks Report”, World Economic Forum 2020; e vedi Herhold, P. & Farnworth, E., “The net-zero challenge: fast forward to decisive climate action”, World Economic Forum 2020.

(2) Vedi https://www.eea.europa.eu/data-and-maps/indicators/direct-losses-from-weather-disasters-3/assessment-2

(3) Vedi https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/banking-and-finance/sustainable-finance_en; Hong, H., Karolyi, G. A., & Scheinkman, J. A. (2020). Climate finance. The Review of Financial Studies, 33(3), 1011-1023.

(4) Vedi https://www.climatebonds.net/market/explaining-green-bonds

(5) Vedi https://www.icmagroup.org/green-social-and-sustainability-bonds/green-bond-principles-gbp/

(6) Vedi https://ieefa.org/china-disqualifies-clean-coal-technology-from-green-bond-funding/

(7) Vedi: van der Sar, N.L. (2018). Stock Pricing and Corporate Events. Erasmus School of Economics,

Department of Finance, Rotterdam.

Le sfide del Green New Deal: il caso ENI strategy come esempio vincente di transizione energetica

Di Emanuele Lorenzetti

“La bolla del carbonio è la più grande bolla economica della storia”.[1] Sono le parole di Jeremy Rifkin, eminente accademico e presidente della Foundation on Economic Trends di Washington, il quale pone serie riflessioni sul momento cruciale che stiamo vivendo in tema di Green Economy e le sfide connesse che la comunità internazionale è chiamata ad affrontare.

La società post-industriale pone serie questioni sul futuro dell’umanità in rapporto con l’ambiente. È il tempo della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, cioè del passaggio da un’economia di mercato fondamentalmente basata su energie non rinnovabili (gas naturale e combustibili fossili) a quelle rinnovabili, come ad esempio l’energia eolica e solare.

È un tema che rappresenta un punto di svolta e come tale è oggi presente in ogni tavolo di politica internazionale sia degli stati che delle organizzazioni internazionali (OI). L’Unione Europea particolare è alla testa di questo processo verde e intelligente come si può notare dall’European Green Deal lanciato l’11 dicembre scorso. Un processo di radicale cambiamento quello Green che è sì di pensiero, ma anche di tipo infrastrutturale.

Ogni grande rivoluzione nella storia, infatti, ha portato una trasformazione del sistema organizzativo dell’industria e della città. Mentre la prima e la seconda rivoluzione industriale hanno insistito su di un’infrastruttura centralizzata, quella dei nostri tempi invece introduce il concetto di decentralizzazione. È un tema caro sempre a Rifkin, il quale parla per l’appunto di “power to the people” che avviene a seguito del processo di democratizzazione del mercato che la terza rivoluzione industriale porterebbe con sé.

Un’area molto importante interessata al cambiamento di paradigma è il campo dell’energia. Da un sistema basato su industrie che trasformano materie prime per realizzare prodotti si richiederebbe il passaggio ad un sistema economico-produttivo intelligente chiamato “internet dell’energia”. La bolla di carbonio risulterebbe infatti dall’emergere degli stranded assests, cioè di “beni immobilizzati” come i combustibili fossili che rimarranno nel sottosuolo a causa di un forte calo della domanda a favore delle rinnovabili. Il calo della domanda sarebbe favorito dall’emergere di un generale convogliamento delle industrie verso le energie rinnovabili, eoliche e solari, a causa dei minori costi di produzione che queste ultime rappresenterebbero.

L’Italia è uno dei Paesi europei più impegnati in questo processo di transazione carbonica. L’ENI, come emerge dalla sua recente strategy di lungo termine presentata il 28 febbraio, annuncia una diminuzione di emissioni dirette e indirette all’80 % entro il 2050. Così facendo l’italiana ENI si presenterebbe in linea con le tempistiche prefissate, anzi le supererebbe, disegnando la sua evoluzione nei prossimi trent’anni con l’obiettivo ultimo di divenire uno dei principali player actors nel sistema energetico internazionale. Con le parole del suo Amministratore Delegato Claudio Descalzi, il piano strategico di lungo termine entro il 2050 consentirebbe all’ENI “di essere un leader nel mercato a cui fornirà prodotti energetici fortemente decarbonizzati contribuendo attivamente al processo di transizione energetica.”[2] È un esempio vincente di come gli stati e le Organizzazioni Internazionali (OI) componenti la comunità internazionale possano e debbano impegnarsi per operare un piano economico di investimento nazionale, internazionale e mondiale che consenta un’uniformità di azione sul cammino comune del Green New Deal.

[1] J. Rifkin, Un Green New Deal globale, Mondadori, 2019

[2] Cfr. il Piano Strategico ENI di lungo termine entro il 2050 dal sito www.eni.com https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2020/02/piano-strategico-di-lungo-termine-al-2050-e-piano-d-azione-2020-2023.html

Il nodo energetico del Mediterraneo orientale

Di Gabriele Mele

A livello storico e geopolitico l’Italia ha sempre avuto un interesse prevalente attorno alle questioni energetiche di rilievo nel “mare nostrum”, come ricordava lo stesso Giulio Andreotti:”  I nostri vicini nel Mediterraneo non li scegliamo”. Nell’ottobre del 2019, le mire turche sullo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio nel mediterraneo orientale hanno riacceso i riflettori della politica internazionale e della stampa su questo quadrante periferico d’Europa.

Nello specifico la nave turca Yavuz, la quale era stata scortata congiuntamente da due navi da guerra ed un sottomarino, aveva iniziato le sue attività di esplorazione nel “pozzo di Guzelyurt-1”, andando ad intaccare una zona di specifica competenza della Repubblica cipriota, che, con il supporto della comunità internazionale, asseriva che riguardasse la sua Zona economica esclusiva (Zee). Coinvolte direttamente nell’affaire, vi erano anche l’italiana Eni e la francese Total, avendo quest’ultime ottenuto una concessione da parte del governo di Cipro, per portare avanti le attività di esplorazione ed estrazione in tale hub.

Il governo di Ankara sosteneva che fosse pieno diritto della Repubblica turca di Cipro del Nord (TRNC) rivendicare come proprie tali risorse[1], alzando il livello della tensione nel Mediterraneo orientale. Inoltre un’ulteriore questione fondamentale in questo “Risiko energetico”, un ruolo centrale è giocato dalla questione del Tap (Trans Adriatic Pipeline). Tale metanodotto, con un investimento indicizzato di 4,5 miliardi, dovrebbe convogliare in Europa il gas estratto in Azerbaigian dai giacimenti sotto il fondo del mar Caspio, favorendo così l’inizio di un processo di “emancipazione” energetica dell’Europa dalla Russia di Putin.

Alla luce di questa rapida panoramica, l’Italia è chiamata ancora una volta a rivolgere la propria attenzione al Mediterraneo, per una naturale propensione geografica e strategica, secondo quanto asserito da Aldo Moro: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”.

 

[1]  (La Repubblica Turca di Cipro del Nord è una repubblica auto-proclamata e non riconosciuta dalla comunità internazionale che si estende nella zona settentrionale dell’isola di Cipro dal 1983, nelle zone occupate e controllate dall’esercito turco dopo l’invasione turca di Cipro del 1974).

Green Economy: il potenziale dell’economia circolare. Parla Daniele Corsini

di Ludovica Pietrantonio

L’adozione della green economy auspica al passaggio a una società equa e prospera, capace di reagire alle sfide legate ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale migliorando la qualità della vita delle generazioni presenti e future. Al fine di valutare le potenzialità di tale sistema economico, non solo per l’economia nazionale, ma anche dell’Unione Europea, si è indagato uno dei suoi principali strumenti applicativi, rappresentato dall’economia circolare, con il Dott. Daniele Corsini, ex Direttore in Bankitalia e co-fondatore della piattaforma editoriale www.Economia&Finanza Verde.it. 

Tra gli strumenti più idonei ad attuare il modello della green economy si rinvengono meccanismi tipici dell’economia circolare che contribuiscono a modernizzare il mercato e a valorizzarne potenziali opportunità di sviluppo a livello europeo e mondiale. Quali, a suo avviso, gli obiettivi perseguibili?

Ai fini di una più completa analisi dell’economia circolare, è necessario considerare come tale concetto sia strettamente connesso a quello di green economy, da intendere come modello economico teso al soddisfacimento di aspetti attinenti al benessere sociale e alla preservazione delle risorse.L’economia circolare porta indubbiamente degli effetti benefici, sia per il governo delle risorse, mediante un loro utilizzo più razionale, sia per i cicli produttivi, avendo come effetto quello di gestire meglio le risorse produzionali attraverso il risparmio delle stesse, l’utilizzo di fonti alternative e di reingegnerizzazione dei processi produttivi, con l’obiettivo non più dello smaltimento del rifiuto, ma della sua gestione, riuso e riutilizzo nel circuito.

Da ciò si intuisce la pervasività di tale approccio poiché va a toccare tutto quello che in potenza l’uomo può produrre, ha prodotto o produrrà con l’idea che fin dalla sua progettazione il bene viene ideato non soltanto per le sue finalità (l’utilizzo da parte del consumatore), ma soprattutto dal punto di vista della sua riutilizzabilità e della sua rimessa in circolazione.

Ne deriva come questo sistema produttivo porti con sé degli aspetti di natura tecnica ed economica importanti avendo la ricerca tecnico-scientifica un ruolo fondamentale: ricerca e innovazione diventano dunque l’essenza per realizzare l’economia circolare poiché tutto è finalizzato all’obiettivo della ricircolazione. Tuttavia è necessario considerare come questo approccio si presenti per la sua innovatività più come uno scenario che come un percorso misurabile in obiettivi operativi.

 Sempre in un’ottica di implementazione dell’economia circolare, per conseguirne gli obiettivi è necessaria la piena mobilitazione dell’industria, la cui trasformazione risulta spesso troppo a rilento. Come accelerarla?

Questa è una domanda difficile poiché effettivamente dobbiamo ascoltare dei ritmi che ancora non sono soddisfacenti in questo sviluppo. Inoltre, è da tenere in considerazione come i concetti sottesi di riciclo e di utilizzo abbiano rovesciato il paradigma dell’economia tradizionale, imperante dal capitalismo della fine del settecento fino ad oggi, dettata dalla massimizzazione del profitto. Quindi in teoria è qualcosa di estremamente esteso poiché tocca il concetto dell’organizzazione della vita economica non più legata al solo parametro quantitativo, bensì bisognosa di trovare dei meccanismi di sua reinvenzione.

Concentrandosi in primo luogo sugli operatori, la velocità dipende da come è formata una struttura economica, tant’è che è necessario fare riferimento alla piccola e media impresa, segmento particolarmente diffuso e numeroso all’interno dell’economia italiana, il quale può diventare fattore di resistenza. Infatti, se per l’impresa medio grande questo approccio può avere una velocità maggiore, essendo maggiori le capacità di produzione e di progettazione, nella piccola e media impresa questa attività dovrà essere incentivata in maniera più massiccia.

Anche in riferimento all’economia digitale, strettamente connessa alla capacità di sfruttare l’informazione sulla produzione, l’Italia non è un Paese all’avanguardia e quindi tutta la spinta di Industria 4.0 di facilitare l’introduzione di sistemi digitalizzate e intelligenza artificiale rappresenta uno sforzo maggiore rispetto ad altri Paesi.

Un ulteriore elemento consente alcune riflessioni dal punto di vista finanziario, in quanto il tema della finanza verde è oggi messo particolarmente in risalto dalle banche centrali europee, le quali leggono un’economia che sfrutta in eccesso le risorse del pianeta come fattore di rischio, andando ad incidere il rapporto di finanziamento.

A livello microeconomico, è opportuno richiamare alcune recenti riflessioni del governatore della Banca d’Italia, il quale si è soffermato proprio sull’incidenza degli indicatori ambientali (emissioni CO2), sociali (percentuale di donne impiegate e ricoprenti ruoli manageriali) e di governance (presenza di donne in cda) nel guidare i singoli investimenti, comportando il favore per titoli sostenibili.

Al riguardo, ricordo come l’Italia sia stato il primo Paese ad introdurre nell’ordinamento giuridico il concetto di “società benefit”, ovvero società che inseriscono nel loro statuto i criteri appena ricordati rinunciando ad una massimizzazione del profitto con l’obiettivo di contribuire ad un’economia più sostenibile.

 Da sfida pressante a opportunità unica: qual è il ruolo dell’Unione Europea in un cambiamento che non può arrestarsi ai confini nazionali e che deve trovare riscontro nelle politiche dei singoli Stati? Di quale risorse dispone per affermarsi come leader mondiale?

L’Europa ha fatto proprio un piano di azione sull’economia circolare che punta sui concetti fondamentali di riprogettazione dei prodotti, riutilizzo e riciclo e in cui sono coinvolti diversi operatori. Al riguardo, si è assistito alla nascita di nuovi soggetti istituzionali come attori, mi riferisco alla BCE a livello europeo e alle banche centrali nazionali, i quali hanno aperto un filone rivolto al tema dell’economia circolare sensibile al degrado climatico e ambientale con politiche precise. È necessario dunque che si crei una sintesi tra i soggetti di mercato e i soggetti istituzionali.

Andando al piano del mercato e della finanza uno strumento è rappresentato dai bond verdi, pari a un valore di circa 500 miliardi a livello mondiale di cui l’Europa possiede più del 50%, rapportandosi in tal modo in maniera decisamente avanzata al riguardo. Esistono, tuttavia, altri tipi di bond legati alla sostenibilità e soprattutto legati al credito, per esempio i “sustainability bonds”, ideati per consentire credito da parte delle banche a soggetti che hanno nella propria struttura elementi di sostenibilità. Sono prodotti destinati ai agli investitori istituzionali, professionali e specializzati, non destinati al grande pubblico, poiché per questi prodotti i profili di rischio non sono ancora valutabili.

In riferimento alle politiche da adottare, l’aspetto della ricerca e dello sviluppo precedentemente sottolineato diventa fondamentale come campo di applicazione di incentivi pubblici di natura o fiscale o di contributo allo sviluppo di questa attività.

Accanto a questo aspetto del tutto rilevante, è necessario considerarne uno ulteriore di natura sociale, ovvero di considerare l’economia circolare come fonte di nuovi posti di lavoro. Essa va infatti vista come sostanzialmente labour intensive, ovvero attività ad alto impiego di lavoro materiale, differentemente dall’economia lineare in cui il progresso tecnologico è sempre stato considerato come qualcosa che spenda forza lavoro, facilmente sostituibile con macchine.

Attorno a questi concetti sono costruiti i documenti di policy oggi presenti a livello globale rappresentati non solo dal piano di azione dell’economia circolare della Commissione Europea e, conseguentemente dalle politiche nazionali, ma anche l’Agenda dell’ONU, la quale fissa gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ed Economia Circolare al 2030.

La nuova strategia di crescita rappresentata dalla green economy mira a trasformare la società dotandola di un’economia moderna, efficace sotto il profilo delle risorse e competitiva. Tuttavia è necessario che la transizione verso tale modello sia non solo innovativa e a impatto zero, ma allo stesso tempo giusta e inclusiva per far sì che i cambiamenti sostanziali derivanti non comportino disuguaglianze e squilibri sociali. In che modo guidare questa innovazione verso un esito positivo?

Nei fondamenti della green economy i motori sottostanti l’adozione di questo modello e, dunque, pilastri dello stesso sono rappresentati anche dalla disparità sociale e dagli squilibri di distribuzione del reddito eccessivamente scompensante, entrambe cause di esclusione sociale.

Attraverso l’adozione del modello green economy si devono quindi ritrovare anche degli obiettivi di inclusione, i quali richiamano parte della logica sottostante le società benefit antecedentemente esaminata. Infatti, al riguardo si sostiene come i portatori di interesse (gli stakeholders) non siano soltanto quelli tradizionali, cioè gli azionisti, i fornitori, i dipendenti, ma anche i soggetti rientranti nel mondo del lavoro.

Da un punto di vista finanziario, la crisi e altri fenomeni di tali dimensioni hanno escluso al momento una fetta di cittadini dai servizi più basici. L’Unione Europea con le sue direttive è intervenuta su questo bisogno di inclusione per parificare questi soggetti da un punto di vista di diritti di base.

Dunque dal punto di vista della green economy il discorso si riflette in maggiori occasioni di lavoro e maggiore attenzione ai territori più degradati. È infatti da mettere in conto anche un probabile cambio di concezione del lavoro in cui prevarranno i lavori a distanza, attualmente già esistenti, ma esempi di nicchia.

In sostanza, la tutela ambientale rappresenta un fattore di inclusività di sfondo, da considerare come occasione preziosa di cambiamento di paradigma non soltanto a livello economico-finanziario, ma anche di natura sociale.

Green economy: uno sguardo sulle prospettive future

Di Francesco De Santis

All’interno dei ragionamenti che la Fondazione De Gasperi sta portando avanti nella rubrica “Opinio Lab” non poteva mancare un approfondimento su un tema “caldo” del dibattito pubblico, quello della green economy. Per avere un approccio lontano da posizioni ideologiche abbiamo ritenuto opportuno chiedere informazioni a degli importanti studiosi che, con le loro parole, ci potranno permettere di muovere in una cornice che orienti i ragionamenti sul tema con diversi punti di vista. Ne abbiamo discusso con il prof. Emilio Colombo, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ci ha espresso le sue idee in questa intervista.

La “green economy” è al centro della scena internazionale. Porre al centro non solamente l’uomo ma il suo rapporto con le altre specie viventi è una sfida che tocca diversi settori. Questa sfida può essere l’occasione giusta per mettere in movimento l’Italia, l’Europa e il mondo in nome di un futuro migliore in cui si riescano a coniugare qualità, bellezza, efficienza e storia delle singole realtà come rilanciato anche da Papà Francesco con l’enciclica Laudato Si?

È indubbio come quella della green economy sia diventata una realtà sempre più consolidata nel panorama odierno. Da questo punto di vista, quindi, l’idea di un futuro migliore è certamente lodevole, tuttavia è fondamentale prendere coscienza del fatto che, per fare in modo che il tutto non rimanga solo su “carta”, si deve favorire e sviluppare un differente approccio che inverta la situazione che si è venuta a creare fino ad ora. Non solamente in relazione al rispetto che l’uomo, centrale in questi ragionamenti, deve avere nei confronti della natura e dell’ambiente, come ha giustamente rimarcato Papa Francesco, ma anche considerando il fatto che è proprio l’uomo che attraverso il proprio lavoro e attraverso il proprio coinvolgimento con la realtà è in grado di trasformare in senso positivo o negativo la realtà che lo circonda. La persona umana che trasforma il creato ma al tempo stesso lo preserva riconoscendone il dono, può essere dunque il vero protagonista della transizione ecologica. La green economy può essere, quindi, un volano per un futuro migliore ma la presa di coscienza non può prescindere dal tema educativo e culturale che, toccando sia le vecchie sia le nuove generazioni, deve essere riaffermato come elemento cardine per permettere lo sviluppo di un nuovo modo di intendere lo “stare al mondo”. Perché non può essere una “semplice” scelta politica ad incanalare il discorso nel segno del rispetto ambientale.

Il climatismo ufficiale, però, sembra essersi infilato in una trappola chiamata “2050”. È davvero quella, la data di vita o di morte, per realizzare le “zero emissioni”, ovvero la decarbonizzazione totale? Utopia, sogno o sfida?

Affidarsi ad una data che segni il punto di svolta definitivo per un tema così complesso non è semplice. Senza dubbio occorre affidarsi agli esperti del settore per dare un’idea concreta di quello che potrebbe accadere. Nonostante i pareri scientifici non siano univoci, la scienza appare concorde nell’affermare che il riscaldamento globale sia una realtà oramai acclarata e che in questo il contributo umano è decisivo. L’inversione di tendenza, quindi, deve essere realmente praticata e deve partire da noi. In questo processo la tecnologia, insieme alla già citata educazione, deve giocare un ruolo di primo piano. Proprio la tecnologia deve essere tenuta in grande considerazione per evitare di rincorrere delle utopie e poter, quindi, orientare il discorso sul grande tema del rispetto ambientale coniugato con quello di uno sviluppo sostenibile. La tecnologia può essere proprio parte della soluzione favorendo lo sviluppo di processi e innovazioni che conducano a un reale risparmio energetico e a una sostenibilità ambientale diffusa. La tecnologia è quindi un potente alleato anziché un nemico da attaccare
La lotta al cambiamento climatico, e più in generale il rispetto ambientale, è diventata una lotta di classe globale tra ricchi e paesi aspiranti ricchi? Può influenzare, se non lo ha già fatto, il dibattito politico ed orientare politiche economiche (vedasi “Plastic Tax” in Italia rimandata al prossimo anno)?

L’assunto di base che deve muovere i nostri ragionamenti è che le politiche “verdi” allo stato attuale sono spesso più costose delle politiche “maggiormente inquinanti”. Le fonti energetiche fossili ad esempio hanno il vantaggio di offrire un rendita elevata a costi relativamente bassi. Dunque le politiche ambientali si trasformano inevitabilmente in una “lotta di classe globale” dato che i paesi ricchi possono permettersi di sostenerne il costo mentre i paesi più poveri no. D’altro canto gli effetti delle politiche ambientali non sono circoscritti al confine nazionale: se un paese inquina le conseguenze ricadono su tutti. Quindi le politiche ambientali richiedono necessariamente un coordinamento su larga scala e una maggiore responsabilità da parte dei paesi avanzati che sono quelli che possono permettersi di sostenere maggiormente i costi della transizione verso l’economia. In tutto questo la posizione degli USA, che sembrano avere sposato la linea “negazionista” del riscaldamento globale, sorprende e appare poco comprensibile. Proprio perché gli USA, data la loro posizione nel panorama economico e politico internazionale, dovrebbero esercitare un ruolo di leadership in questo ambito anziché quello di freno di tutto il processo. Per quanto concerne le politiche è chiaro che sarebbe auspicabile ridurre drasticamente il consumo di plastica ma occorre sempre considerare i due aspetti illustrati precedentemente. Da una parte il tema educativo dall’altro quello economico legato ai costi di implementazione delle politiche. In altri termini possiamo tassare l’utilizzo della plastica ma questa politica sarà realmente efficace nella misura in cui le persone siano consapevoli dell’effetto delle proprie scelte di consumo sull’ambiente e nella misura in cui la tassa sia sostenibile e percepita come realmente in grado di dare un contributo fattivo.

Il rapporto generazionale tra le piazze di “Greta” e i gruppi dirigenti nel panorama mondiale non va perso ma si deve riaffermare l’esigenza di parlare anche di “politiche verosimili”. Il passaggio da economia lineare ad economica riciclabile può avverarsi senza includere l’industria?
Sono due temi molto importanti. Il rapporto inter generazionale è sicuramente molto importate e va sottolineato con grande chiarezza che è stato fatto troppo poco per i giovani. In questo non aiuta una narrazione un pò semplicistica del fenomeno Greta, inquadrata come solamente una “adolescente”.
Allo stesso modo non si può credere di sviluppare una green economy senza in tenere in considerazione l’industria, sarebbe certamente utopistico. Il mondo che evolve impone di parlare di intelligenza artificiale, di nuove tecnologia che fanno parte del mondo industriale. Quindi avrebbe dell’inverosimile pensare di sviluppare un’economia verde senza tenere dentro la componente “industriale”. La gradualità del passaggio a un’economia sostenibile, e quindi al realismo di una riduzione graduale delle emissioni carbonifere, non può essere sottostimata ma, anzi, deve essere la risposta corretta al tema. Ad esempio l’utilizzo dei motori alimentati a diesel, che sono un settore strategico per l’economia europea dato che deteniamo la maggior parte dei brevetti su questa tecnologia, e che attualmente raggiungono lo stesso livello “inquinante” dei motori alimentati a benzina, non può essere totalmente abbandonato in nome di una nuova “alimentazione”, quella elettrica, che sarà sicuramente il futuro ma che, per ora, non garantisce né lo stesso livello di prestazione e soprattutto non è caratterizzata da alcun vantaggio comparato dell’industria europea. Quindi, occorre applicare un approccio in cui riuscire a mettere insieme educazione, innovazione tecnologica e presa di coscienza di un’inversione di tendenza da mettere in atto per rispondere alle esigenze, e anche alle opportunità, che la green economy porta con sé.