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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

RETROCEDERE AVANZANDO: I PRIMI VENT’ANNI DEL NUOVO MILLENNIO TRA EUROPEISMO ED ATLANTISMO

di Francesco De Santis

Il processo d’integrazione europea è un tema che sta acquisendo sempre maggiore attualità per una serie di contingenze in cui lo scontro tra nazionalisti ed europeisti è al centro del dibattito politico nazionale e non. Un processo, quello di integrazione europea, che ha vissuto varie fasi e che muove dall’assunto di dover preservare il futuro dell’Europa dai disastri che le guerre mondiali hanno portato e lasciato nel continente. È chiaro come il pensiero di far nascere un’unione continentale non sia stato frutto di un semplice status mentale ma il crescente seme di un’idea perpetuata anche da Dante, Voltaire e Kant. Quest’ultimo affidava al concetto di unione europea il compito di propugnare una pace perpetua che ponesse il continente lontano dalla minaccia di rinnovati conflitti.
Essendo un processo non lineare e sottoposto a cambiamenti di
contesto e a motivazioni profondamente ramificate, il processo d’integrazione europea è in continuo divenire e nulla è stato, è e sarà scontato. È un processo vivo che ha vissuto una serie di alti e bassi in cui a recitare un ruolo da protagonisti sono stati i valori, condivisi dagli stati europei, per superare le ideologie totalitarie.
Ma, dopo oltre 70 anni di pace, ha ancora senso continuare a credere in un’Europa unita?
L’anno corrente segna l’inizio di un decennio in cui l’Europa deve decidere “cosa vuole fare da grande”.
Non è più in discussione, oggi, il ruolo centrale che l’Unione Europea gioca per la sopravvivenza della governance democratica ma è di stringente necessità ricorrere a nuove forme di cooperazione continentale per giocare un ruolo da reale “global player” all’interno delle grandi sfide globali che appaiono sulla scena internazionale. La questione America/Cina, il medio Oriente e le sue continue problematiche, l’Africa, i Balcani sono tematiche che vanno affrontate con senso di responsabilità dal “vecchio continente”.
La cooperazione politica, conquista Europea, non sembra, però, più essere sufficiente e, in virtù delle nuove sfide che il mondo globalizzato impone, appare importante riuscire a mostrare certezze, a riaffermare la conoscenza e l’educazione europea e, soprattutto, coordinare una politica estera in grado di garantire sicurezze. Kierkegaard parlerebbe di un “retrocedere avanzando”, ovvero essere consapevoli dell’eredità lasciataci dai padri fondatori dell’Unione Europea per poter tramandare il seme che possa germogliare nel corso del tempo che scorre. Partire dal multilateralismo, dalla democrazia rappresentativa, dal welfare universalistico, dal mercato libero e solidale per gettare lo sguardo oltre l’orizzonte.
Ma qual è il punto di partenza per giungere ad un ragionamento più ampio e condiviso?
La situazione nel vecchio continente, ad oggi, è chiara: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna sono i paesi che hanno portato avanti, fino ad oggi, la politica estera in Europa. Le difficoltà sono venute a crearsi nel momento in cui ognuno dei paesi citati ha interpretato in maniera autonoma la politica estera da attuare, soprattutto in relazione al rapporto con la NATO.
Forse per ragioni storiche, forse per interessi non coincidenti ma ognuna di queste quattro potenze ha proiettato la propria azione, in relazione alla solidarietà atlantica, in maniera profondamente incoerente:

  • la Francia si è dimostrata da sempre lontana da essa, in relazione alla sua autonomia nel settore nucleare militare;
  • La Germania, avendo geograficamente un lungo confine con l’Est avverte il peso della Russia e deve, anche per eredità di guerra, dimostrare il proprio distacco dagli obblighi della difesa militare;
  • La Gran Bretagna, storicamente (e dopo la il referendum sulla Brexit nel 2016 anche di fatto) si sente più molto più “atlantica” e molto meno “europea”;
  • L’Italia ha rappresentato l’anello di congiunzione, dalla nascita della Repubblica, tra Europa e fedeltà atlantica: un must della collocazione internazionale promossa dall’azione di Alcide De Gasperi in poi.

Questa confusione non ha permesso all’Unione Europea di essere elemento cardine dell’ordine mondiale secondo un’eterogenesi dei fini che deve essere arrestata. Se il “limes”, sia fisicamente che metaforicamente, diventa inviolabile si mette in discussione la cooperazione e l’identità europea.
Quindi, in un mondo multipolare, l’Occidente (la NATO, il Patto Atlantico) gioca ancora un ruolo strategico importante oppure Europa e USA viaggiano su binari non paralleli?
Il credo è che Europa unita, dal punto di vista della politica estera e militarmente, ed atlantismo siano destinate a convivere ancora per molto tempo e, nonostante i dubbi mostrati da Trump, dai sovranisti europei e anche, lo scorso anno, da Macron, non può essere messo in discussione il fatto che la Nato, soprattutto in Medio Oriente ove continua la politica Russo-Turca- Iraniana, resta fondamentale anche per la difesa europea. Questo perché sono i valori propri dell’Occidente, stato di diritto e libertà in primis, a giocare il ruolo di trade-union.
L’Europa, dunque, si trova al centro di uno scenario in cui un cambio di passo appare auspicabile per porsi al centro delle sfide globali, non solamente della cartina geografica.
L’evoluzione rapida delle partite da giocare in questo decennio può rappresentare una vera e propria opportunità per il processo democratico di difesa e di politica estera che l’Unione Europea deve essere in grado di cogliere.
Il riaffermarsi, quindi, di radici comunitarie che, attraverso un rafforzamento della coesione sociale e culturale e per mezzo di una reale unità politica, possano condurre alla realizzazione di una politica estera e di difesa comune.
Il compito non è facile ma la cupidigia di una politica verosimile e responsabile deve tornare di moda anche culturalmente per offrire occupazione, protezione sociale, istruzione e sicurezza e accantonare la singola ricerca del consenso interno, proiettando lo sguardo verso il mondo senza curarsi troppo del proprio ombelico.
Anche il ruolo italiano, infine, deve essere chiaro e non subalterno. L’avvicinamento alle politiche avversarie dell’Atlantismo, Russia e Cina, indebolirebbero il ruolo strategico italiano e ne deriverebbe una politica estera senza anima.
L’Italia non può giocare un ruolo silente, passivo, inefficace e ininfluente e dovrebbe riaffermare il suo ruolo “ponte” tra Europeismo ed Atlantismo. È il compito storico cui il “belpaese” è destinato.

La NATO nel nuovo sistema internazionale. Parla il Generale Battisti

Di Emanuele Lorenzetti

 

La presenza della NATO, a sette decenni dalla sua nascita, impone una seria riflessione sul ruolo che essa dovrebbe avere nel mutato scenario internazionale. Le nuove sfide alla sicurezza occidentale, in particolare, suscitano grandi interrogativi se la leadership atlantica debba andare verso un rinnovamento nella sua struttura e negli obiettivi strategici. Il Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti, già comandante del Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO, ne parla ai microfoni della Fondazione De Gasperi.

 

Generale Battisti, l’ultimo Summit NATO ha confermato i tre pilastri dell’Alleanza (difesa collettiva, gestione delle crisi e sicurezza cooperativa). È necessario secondo lei una rivisitazione del concetto strategico?

Ritengo ancora concettualmente valido il Concetto Strategico del 2010. Le linee guida espresse dai tre essential core tasks sono pienamente idonee a garantire la difesa e la sicurezza comuni degli Stati membri dell’Alleanza. I tre pilastri forniscono gli strumenti politici, diplomatici e militari per affrontare le sfide presenti e future. Quello che appare necessario, a mio avviso, è una riflessione della dimensione politica dell’Alleanza affinché si possa agire in maniera coordinata ed efficiente per far fronte alle nuove e più complesse sfide dell’attuale scenario internazionale.

In altre parole, essere tutti concordi nelle priorità e modalità per portare a termine quanto previsto dai tre essential core tasks.

Ricordo, per completezza, che Alleanza Atlantica e NATO sono due realtà diverse, sebbene nel linguaggio comune siano spesso considerate sinonimi. L’Alleanza Atlantica è un trattato difensivo (Trattato Nord Atlantico, conosciuto anche come Patto Atlantico) sottoscritto il 4 aprile 1949 dai governi di Stati UnitiCanada e di alcuni Paesi dell’Europa Occidentale ed ha una valenza politica; la NATO, invece, è la struttura militare che deriva da questa Alleanza.

Quindi, il problema non sono gli ambiti e gli strumenti d’intervento, che sono ampiamente contemplati dai tre citati essential core tasks, ma la dimensione politica dell’Alleanza.

Le decisioni, infatti, si basano sul principio del consenso (tutti i 29 Stati membri devono essere d’accordo) quale espressione della solidarietà tra Alleati.

Le recenti tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra i Paesi membri, dalle frizioni tra Stati Uniti e Paesi Europei per quanto riguarda la spesa nel settore della Difesa (2 per cento del PIL) alle divergenze con la Turchia che cerca sempre di più di seguire una propria linea autonoma in politica estera, sino all’affermazione del Presidente francese Macron che ha paragonato lo stato attuale dell’Alleanza Atlantica a una condizione di “morte cerebrale” per mancanza di coordinamento, hanno indotto il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, nella dichiarazione finale del vertice londinese (3-4 dicembre 2019) a disporre “una riflessione sulla strategia dell’Alleanza nel prossimo futuro”.

In sostanza, la prospettiva strategica rimane sempre la stessa, condivisa da tutti, che richiede, tuttavia, un costante aggiornamento del suo aspetto politico, al fine di adeguare le risposte all’evoluzione del contesto di sicurezza globale.

La chiave della longevità dell’Alleanza risiede nella capacità di essere una organizzazione in grado di adeguarsi e di mantenere la propria rilevanza per affrontare le sfide, presenti e future, alla nostra sicurezza dovute al ritorno della competizione tra grandi potenze, non più regolata dal confronto Est-Ovest, alla nuova corsa agli armamenti nucleari, all’instabilità dei confini meridionali; tutte minacce che nessun Paese può affrontare da solo.

 

Si parla tanto oggi di un rinnovamento della NATO. La minaccia principale non proviene più tanto dall’Est, ma dal cosiddetto ‘fronte sud’ e nuove tipologie di minacce si affacciano all’orizzonte (soft security). Qual è lo stato di salute delle relazioni transatlantiche e dei rapporti con gli stati mediterranei?

A dispetto delle frizioni tra i Paesi membri la solidarietà tra gli Alleati non appare compromessa; lo stesso Presidente Trump in occasione del Vertice di Londra, smentendo alcune sue precedenti vigorose critiche, ha affermato di essere un big fan della NATO.

Rimangono sicuramente divergenze con la Turchia, per la sua ricerca di assumere un ruolo di potenza regionale nell’area del “Mediterraneo Allargato”, e con la Francia, che mira ad acquisire la leadership europea dopo la Brexit, quale unica potenza nucleare e con forti velleità expeditionary.

Tuttavia, come annunciato dallo stesso Stoltenberg nella sua conferenza stampa finale, “tutti gli Alleati si sono trovati d’accordo” sul piano d’azione per la difesa dei Paesi Baltici e della Polonia.

Permangono comunque orientamenti diversi nelle priorità di sicurezza dell’Alleanza.

I Paesi dell’Europa Orientale vedono come prevalente la minaccia da Est; i Paesi dell’Europa del Nord sono più attenti alle problematiche connesse con il controllo delle rotte atlantiche e della regione artica; i Paesi mediterranei sono più sensibili alle minacce provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.

È compito del Segretario Generale e del NAC (North Atlantic Council) cercare di stemperare queste diverse priorità per fare in modo che l’Alleanza risulti comunque compatta e solidale nelle sue posizioni.

Dalla riunione di Londra per la prima volta viene menzionata la Cina, un Paese che sta ricoprendo un ruolo sempre più importante a livello mondiale in ambito economico e di sicurezza. Il Segretario Generale ha sottolineato per quest’ultimo aspetto come “l’ascesa della Cina sia portatrice allo stesso tempo di opportunità e rischi”.

Molto importanti sono anche gli sviluppi nel campo dello spazio che è divenuto ufficialmente la quinta dimensione operativa della NATO, unitamente a terra, mare, aria e cyber.

Non a caso, lo stesso Stoltenberg, al termine del Vertice, ha disposto la costituzione di un panel di esperti per tenere aggiornata la strategia dell’Alleanza, anche alla luce di queste nuove realtà.

La principale minaccia proveniente dal “fronte sud” è rappresentata dall’instabilità generale del “Mediterraneo Allargato” dovuta alla diffusione della radicalizzazione religiosa, all’immigrazione incontrollata, all’insicurezza energetica, al traffico d’armi e, soprattutto, al terrorismo islamico, capace di sfruttare tutte queste tensioni e situazioni di crisi.

Si tratta, quest’ultimo, di un avversario non statale non geograficamente circoscrivibile, che adotta un modus operandi non convenzionale, che non rispetta minimamente le regole del diritto internazionale umanitario e che colpisce indiscriminatamente, ricorrendo a tutte le soluzioni possibili, anche le popolazioni civili.

 

Quali sono le principali policy, di cui oggi ci sarebbe bisogno, che consiglierebbe alla NATO per garantire maggiore leadership nel dialogo con i Paesi Arabi?

La NATO è da tempo impegnata con vari progetti per promuovere la partnership con i Paesi Arabi mediante iniziative, politiche, diplomatiche e di assistenza ed educazione militare funzionali alla stabilità regionale. Cito, ad esempio, The Istanbul Cooperation Initiative (avviata nel 2004 con i Paesi del Golfo)  e The Mediterranean Dialogue (avviato nel 1994 con alcuni Paesi del bacino del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana) e i corsi effettuati dal NATO Defence College.

La NATO, inoltre, opera per sostenere le forze di sicurezza in aree di crisi con la projection of stability, che si concretizza con il crisis management e la cooperative security che sono il core del Concetto Strategico del 2010 unitamente alla collective defence (attualmente sono in atto la missione addestrativa in Iraq e quella di supporto ai Paesi dell’Unione Africana).

Considero pertanto, a mio modesto avviso, pienamente adeguato quanto svolto dalla NATO per mantenere e rinforzare il dialogo con i Paesi Arabi, tenuto anche conto della diffusa instabilità presente nella regione.

Generale di Corpo d’Armata (in Ausiliaria), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia e ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito. Ha comandato la Brigata Taurinense, il Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l’Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell’ottobre 2016.

 

L’Iran post Soleimani, parla Nicola Pedde

Di Michelangelo Di Castro.

La questione iraniana in questi ultimi giorni ha avuto un brusco risveglio a causa dell’eliminazione del generale Qasem Soleimani. La Fondazione De Gasperi ha voluto approfondire le cause e le conseguenze dell’uccisione del militare iraniano intervistando un esperto di Iran e medio-oriente come il professore Nicola Pedde, Direttore dell’Institute of Global Studies, per avere una panoramica sull’affaire Soleimani.

 

Chi era il generale Qasem Soleimani e quali sono state le cause della sua morte?

Soleimani era a capo della Quds Force una componente IRGC (Islamic Revolutionary Guard Corps) deputata alla direzione delle operazioni internazionali. È stato un uomo chiave nella gestione dei principali focolai di crisi regionali dalla guerra in Siria al conflitto in Iraq, dallo Yemen al Libano all’Afghanistan e, soprattutto, è stato un grande negoziatore con le varie potenze regionali e con gli americani. La morte di Soleimani si inserisce in una dinamica critica all’interno dell’amministrazione americana: l’iniziativa dell’operazione sembra essere imputabile al Segretario di Stato Mike Pompeo, di cui sono note le posizioni anti-iraniane, contro la volontà della gran parte degli apparati della difesa, dell’intelligence e delle forze armate. All’interno di tali apparati sta emergendo un sentimento di forte opposizione nei confronti dello stesso Segretario di Stato.

 

Chi è invece il suo successore Ismail Ghani?

Il generale Ghani era suo diretto subordinato ed è la persona nominata al vertice della Quds Force. È un uomo molto diverso da Soleimani il quale non amava entrare nel sistema mediatico e politico iraniano. Al contrario il suo successore è famoso per le sue posizioni antiisraeliane e aggressive nei confronti degli Stati Uniti. È una figura sicuramente più allineata IRGC e, dunque, ci si aspetta un grado di pragmatismo molto inferiore rispetto a al suo predecessore, ma questo non significa che ad oggi cambino di molto le cose.

 

Questo atto di forza degli Stati Uniti cosa ha comportato sul piano interno ed esterno? La conseguenza determinerà un’escalation di conflittualità o un acceleramento dei processi pace?

Sul piano interno l’assassinio di Soleimani ha creato un meccanismo di coesione sociale nel senso che, ai funerali del generale, hanno partecipato un numero di persone che sembra addirittura superiore a quelle che parteciparono ai funerali nell’89 dell’Ayatollah Khomeini. Dimostrazione del fortissimo sentimento di identità nazionale del popolo iraniano che ha permesso di saldare quelle due componenti della società quelle della terza generazione, ovverosia dei più giovani con la seconda generazione, o meglio quella delle componenti militari dell’IRGC e della Quds Force che hanno rappresentato il principale strumento di repressione dell’opinione pubblica e delle istanze di questa giovane generazione antisistema, critica e alla costante ricerca di riforma.  Un grande successo immediatamente vanificato a causa dell’abbattimento dell’areo civile ucraino che ha riportato la popolazione a protestare chiedendo le dimissioni del governo e della guida stessa.

 

Sul piano esterno il risultato è quello di aver portato l’Iran a condurre questa operazione di ritorsione nei confronti degli americani. Ritorsione che si è concretizzata nell’attacco missilistico alle due basi americane in Iraq (a Ayn al-Asad ed Erbil). L’attacco si è concluso senza perdite in termini di vite umane grazie ad un’oculata gestione dell’operazione sul piano della sicurezza da parte dell’Iran che prima di intervenire ha preventivamente informato lo stato l’iracheno che a sua volta ne ha dato tempestivamente avviso al personale militare statunitense. Questo è stato molto apprezzato tanto che gli USA a loro volta hanno accettato di avviare una de-escalation che dovrebbero portare idealmente alla definizione di una nuova piattaforma negoziale.

 

 

Questa nuova situazione geopolitica può avere delle conseguenze sulla missione italiana in libano UNIFIL e quindi comportare un più concreto rischio per le nostre truppe?

Gli Stati Uniti e l’Iran non sembrano in alcun modo intenzionati a una escalation. L’unico rischio più rilevante è che i militari italiani spesso fanno parte di dispositivi nei quali partecipano truppe come quelle statunitensi, dunque la possibilità di divenire obiettivi indiretti. Inoltre la missione UNIFIL rientra in un dispositivo ONU, voluto da entrambi gli schieramenti libanesi ed israeliani, per garantire la sicurezza e il cessate il fuoco. Dunque i pericoli rientrano nella normale gestione dei rischi che fanno capo a tali operazioni pur essendovi degli ulteriori rischi collegati ad un’ipotetica escalation.

 

 

La prima Repubblica non si scorda mai: la legge elettorale proporzionale al tempo della Terza Repubblica

Di Stefano Ferace.

La corte costituzionale si è espressa. Ci sono volute oltre sei ore fitte di discussione e di confronto serrato all’interno della consulta per bocciare il referendum proposto dalla lega. Con questo no, la corte presieduta da Marta Cartabia lascia aperti i giochi per una riforma della legge elettorale basata sul proporzionale. Il cosiddetto Germanicum, prevede un sostanziale ritorno al proporzionale puro con un sbarramento al 5%, data l’introduzione del diritto di tribuna. Un escamotage, tuttavia, per far contenti tutti quei partitini che, consapevoli di non riuscire nell’impresa di raggiungere la soglia di sbarramento, trovano il modo di assicurarsi seggi in Parlamento. Il diritto di tribuna infatti, consentirebbe a schieramenti minori di avere un peso enorme nella composizione degli equilibri di maggioranza.

L’approvazione del Germanicum rappresenterebbe la fine di quell’idea di bipolarismo acclamata da tanti leader politici negli anni. Si ritornerebbe, quindi, ad un modello da prima repubblica in cui ingovernabilità ed immobilismo la farebbero da padrone. La frammentazione parlamentare  non è portatrice di stabilità e per evitare che una maggioranza relativa di voti si trasformi in una maggioranza assoluta di seggi si rischia di far tornare l’Italia a un’instabilità parlamentare che determina l’impossibilità di governare. Il male del proporzionale puro si riassume in una parola, immobilismo. Il parlamento ritornerebbe ad essere un luogo non più di riforme ma di protezione dei propri interessi, per difesa dei quali, ogni gruppo parlamentare sarebbe disposto a tutto. Non ci sarebbe quindi la possibilità di affrontare i temi che attanagliano questo paese, come il mancato sviluppo industriale, perché troppo impegnati ad esser asserragliati nella propria, piccola, corte di potere.

In questo momento l’Italia ha bisogno di una presa di coscienza da parte dei suoi politici. Non ci si può più permettere leggi elettorali diverse ogni cinque anni, serve chiarezza. Le regole del gioco politico andrebbero decise una volta per tutte, in modo da dare la possibilità a tutti gli attori di fare programmi a lungo termine. L’idea di poter cambiare ad ogni turno la legge elettorale dà ai politici la sicurezza di ritagliarsi addosso la legge perfetta che gli assicurerà un futuro mandato, senza doversi preoccupare quindi dei problemi reali del Paese. Questo meccanismo malato non si invertirà certo con un proporzionale puro ma solo con una riforma che, dal post elezioni in poi, non dia alibi al parlamento sui ruoli e sulla possibilità o meno di rispettare i programmi.

Per fare ciò, uno dei sistemi che assicurerebbe la stabilità di cui l’Italia necessita sarebbe una riforma su modello francese. Un maggioritario con doppio turno e la possibilità di formare delle coalizioni in sede di ballottaggio potrebbe consentire a tutte le fazioni politiche di essere protagoniste nella formazione dei rispettivi rassemblements. Una riforma “Francese” appare come il giusto compromesso tra le attuali aspirazioni maggioritarie del centrodestra e quelle degli altri gruppi parlamentari, che spingono per una maggiore rappresentanza.

Il Mes, la riforma, e l’Eurozona

Gli scorsi mesi sono stati caratterizzati da un accesso dibattito in merito al contenuto della riforma del Mes (o Esm), il Meccanismo Europeo di Stabilità. A far scaldare gli umori, sarebbe stato il commento di Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, esposto presso il seminario OMFIF in data 15 novembre. Visco, infatti, ha parlato in effetti di «rischi enormi» per il sistema Italia in caso dell’approvazione della riforma. Secondo le opposizioni e molte testate giornalistiche, il commento di Visco delineerebbe una prospettiva drammatica per l’Italia, che si troverebbe a fare i conti con una manovra del tutto sfavorevole e di aiuto alle banche francesi e tedesche. La questione viene portata all’attenzione del vertice di maggioranza del 22 novembre scorso, richiesto a gran voce da M5S. Il vertice si è concluso con un nulla di fatto, lasciando una spaccatura tra PD e M5S. Domenica primo dicembre, un nuovo vertice, stessa storia. Tutto rinviato alle aule parlamentari. Ciò che il governo ha ottenuto al momento è un rinvio dell’approvazione definitiva in seno al Consiglio per questo gennaio. A distanza di mesi, dunque, le acque non sembrano calmarsi. Ma a cosa serve esattamente il Mes, quali critiche che possono essere mosse a questa istituzione?

Il Mes venne costituito per evitare il ripetersi della crisi del debito pubblico che mise in grave difficoltà alcuni Paesi membri dell’Eurozona, i quali avevano dovuto onerosamente coprire le perdite speculative dei rispettivi istituti di credito dell’Unione. Diversi fattori portarono questi paesi (Grecia, Irlanda, Cipro e Portogallo) a trovarsi con un debito pubblico tale da precludere le operazioni di finanziamento necessarie per risolvere la crisi. Il Mes diede, su richiesta dei suddetti paesi, assistenza finanziaria a condizioni a loro favorevoli per ristabilire un rapporto con il mercato obbligazionario. Il caso della Grecia, conclusosi nell’agosto scorso, costituì il più grande pacchetto di assistenza nella storia arrivando a oltre 200 miliardi di euro.

Il Mes storicamente è intervenuto con due funzioni: di finanziamento a paesi insolventi (nei casi sopra menzionati) e di ricapitalizzazione indiretta del settore bancario (nel caso della Spagna). Ci sono altri casi, per ora mai verificatisi, in cui il Mes può entrare in funzione. Il Mes può infatti intervenire per ricapitalizzare un istituto di credito insolvente o con paventata possibilità di insolvenza. Inoltre, può intervenire per creare liquidità nel mercato in caso di difficoltà o paventata difficoltà dell’emittente sovrano di accedere ai mercati. I fondi del Mes provengono dal capitale azionario conferito dagli stati membri (circa 80 miliardi, con una garanzia di aumento di capitale fino a 700 miliardi in caso di necessità) e dalle obbligazioni che emette sul mercato. Chiarito dunque il suo funzionamento, muoviamoci sugli aspetti più controversi.

In cambio di assistenza finanziaria il Mes esige che i paesi richiedenti implementino un pacchetto di riforme che assicurino l’abilità del paese in questione di ripagare l’assistenza ricevuta. Tale pacchetto, viene stabilito dalla commissione europea in collaborazione con la BCE e, ove possibile, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) con il Mes in qualità di partecipante informale. Tuttavia, le condizioni possono essere assai severe, portando, in alcuni casi, lo Stato richiedente assistenza a tagliare la spesa pubblica e gli investimenti strutturali oltre il livello che assicurerebbe una ripresa ottimale di un percorso di crescita. Nel caso della Grecia, basti citare la lettera aperta firmata da economisti del calibro di Thomas Piketty (Paris School of Economics) e Dani Rodrik (Harvard), che criticarono il target del raggiungimento dell’avanzo di bilancio pari al 3.5% del Pil, argomentando che una contrazione della spesa di quel livello avrebbe avuto effetti disastrosi per l’economia e il popolo greco. Tali critiche sono state espresse anche dal FMI, che aveva suggerito, nel caso della Grecia, un target molto più basso del 1.5% del Pil in avanzo di bilancio.

Ma c’è di più. Un altro aspetto problematico del Mes riguarda il suo posizionamento all’esterno del diritto UE, in una posizione “privilegiata” (anche se non interamente slegata) e di difficile controllo da parte dell’Unione. In tal modo, il Mes non rispetterebbe il principio democratico e di accountability degli organi dell’UE. Essendo istituito con un trattato internazionale, infatti, il Mes è sottratto ai meccanismi di controllo delle istituzioni dell’UE, come la Corte dei conti europea e l’accesso ai documenti. Per quanto, come menzionato, le condizioni di accesso ai fondi del Mes siano stabilite dalla Troika coinvolgendo dunque la commissione Europea, è il Consiglio dei Governatori, l’organo apicale di decisione del Mes, ad avere l’ultima parola nel garantire tale accesso allo Stato richiedente. I membri del Consiglio dei Governatori, peraltro, sono i 17 singoli ministri delle finanze dei Paesi aderenti, che non rispondono per la loro responsabilità al Parlamento europeo. Essi sono responsabili unicamente verso i rispettivi parlamenti nazionali. Sono numerosi i pareri contrari alla posizione di autonomia e distanza dal controllo UE del Mes, anche culminate in un una mozione del Parlamento europeo in richiesta di una integrazione dell’istituto all’interno dell’assetto legislativo europeo. Tali riserve, però, sono state rispedite al mittente dal managing director del Mes Klaus Regling, che le ha dichiarate infondate, essendo il Mes legalmente fuori dal quadro normativo europeo.

Oltre a queste considerazioni strutturali, taluni (in primis Visco) rivolgono le proprie critiche alla controversa bozza di riforma del Mes, che si riferisce all’adozione delle cosiddette Collective Action Clauses (CAC). Le CAC stabiliscono che qualora uno Stato europeo dovesse trovarsi in difficoltà, prima di dichiarare il default, si sieda a un tavolo con i suoi principali creditori per rinegoziare il pagamento del debito. La riforma prevede che questi negoziati si possano fare velocemente e con una maggioranza semplice dei creditori (piuttosto che una maggioranza qualificata come nella riforma del 2013, art. 12.3 del Mes). L’effetto delle CAC sullo spread è al centro del dibattito politico in Italia: Visco infatti suggerisce che adottando le CAC il nostro debito diventerà meno appetibile per gli investitori, causando proprio un aumento dello spread.

Solitamente gli economisti riconoscono due effetti che le CAC hanno sullo spread: uno di riduzione e uno di aumento. La riduzione è ottenuta facilitando la coordinazione dei creditori in caso di default, che aumenta la probabilità di recuperare una parte dei fondi prestati attraverso il negoziato; parallelamente le CAC, facilitando il processo della rinegoziazione, aumentano la probabilità che lo Stato decida di rinegoziare, portando, in questo caso, ad aumentare lo spread. Malgrado Visco, pur notando entrambi questi effetti, sostenga che l’effetto di aumento dello spread sia dominante, la letteratura economica non è affatto univoca su questo tema. Nel caso dell’introduzione delle CAC a maggioranza qualificata nel 2013 ad esempio, la Prof.ssa Carletti (Università Bocconi) ha rilevato un significativo effetto negativo sugli spread (di riduzione) soprattutto in paesi fortemente indebitati come l’Italia, abbassando gli oneri degli stati e aumentando la stabilità del sistema finanziario.

Va ricordato poi che l’adozione delle CAC ha l’obiettivo di scoraggiare l’opportunismo dei cosiddetti fondi avvoltoi, i quali comprano porzioni di debito di uno Stato in default con lo scopo di iniziare un procedimento legale per accaparrarsi il valore nominale dei bond più gli interessi. L’obiettivo delle CAC dovrebbe essere quello di proteggere lo Stato da questo tipo di opportunismo una volta che si trova in default. Detto ciò, ci sono altre critiche, più complesse che si possono fare alle CAC stesse; una di queste concerne l’incertezza legale che si crea introducendo queste clausole rispetto al trattamento di debiti sovrani emessi prima dell’introduzione in situazione di default.

Alla luce di queste considerazioni, è certamente corretto stimolare una discussione non solo sui contenuti della riforma, ma su funzionamento del Mes per sé, e sulla possibilità della sua integrazione alla stregua degli altri istituti dell’Unione. Per quanto una misura di politica economica di emergenza comune sia auspicabile, ci ancora molte questioni aperte per quanto riguarda l’assetto normativo in cui opera il Mes e la necessità di implementare un quadro di ristrutturazione del debito. Tuttavia, maggioranza e opposizioni non hanno ancora trovato una posizione definitiva in questo dibattito. Al di là delle questioni di merito, bisogna ricordare che il placet alla riforma è stato dato da un governo gialloverde ormai morente, poco dopo rimpiazzato con il governo attuale. Non sorprende dunque la poca convinzione con cui il Movimento 5 Stelle difende una riforma approvata sotto il loro mandato con la Lega, ormai rinnegato. Di contro, stupisce la scarsa preparazione della classe politica tutta di fronte agli aspetti più problematici (in verità anche i più pacifici) del Mes. Non si può fare a meno di notare che le questioni sollevate dalla politica abbiano travisato il significato del commento di Visco, le cui preoccupazioni, prese nel contesto del discorso integrale, restano valide e meritevoli di ulteriore approfondimento. Il paese resta in attesa della risposta del Parlamento, dove la maggioranza PD-M5S sembra restare divisa, e della approvazione definitiva del disegno in Consiglio. Ciò che è certo è che i malumori dovranno confrontarsi con la natura tecnica della riforma e la giusta considerazione degli interessi in gioco.

Tommaso Di Prospero e Tancredi Rapone

La Ced, spina nel fianco? Parla Matteo Gerlini

La difesa europea rimane una seria prerogativa comunitaria, recentemente è stata richiamata anche dal Presidente francese Macron. Lo storico Matteo Gerlini spiega ai microfoni della Fondazione De Gasperi il progetto della Comunità Europea di Difesa (CED) nel contesto dell’integrazione europea.

In che contesto nasce la proposta di istituzione della CED?
La proposta si pone nel 1950 in un contesto europeo segnato dalla Guerra Fredda e dai problemi del dopoguerra, in particolare rispetto alla linea difensiva da tracciare contro una temuta invasione sovietica, considerato il precedente della Guerra di Corea. Essa nasce in uno scenario politico e strategico assai dinamico, in cui i piani strategici della NATO vedevano con difficoltà la tenuta di una linea difensiva lungo il Reno, attestandosi su alcune teste di ponte in Francia. Il rischio poteva essere levatore di una pace fra gli Stati Europei: condividendo la difesa creando delle forze armate comuni, si concretizzava quell’ideale europeo che animava De Gasperi.

Senz’altro nell’ottica dei padri fondatori dell’Europa era centrale il tema dell’integrazione, ma quali erano i concreti motivi che ponevano la necessità di una comunità di difesa?
La CED doveva rispondere ad altre due esigenze politico-strategiche logicamente connesse con la difesa dell’Europa occidentale dalla minaccia sovietica. Essa doveva infatti controllare il rischio insito nel riarmo della Repubblica federale tedesca, la cui ricostituzione delle forze armate era imprescindibile per porre la linea difensiva lungo il fiume Elba, dunque per allontanare il primo fronte dal territorio francese e del Benelux; l’ovvio rischio era la ripresa di una spinta egemonica tedesca. L’altra esigenza era il mantenimento di un impegno americano in Europa, cioè il distaccamento di forze permanenti in tempo di pace sul continente. Gli americani accettarono il maggiore impegno in Europa, aumentando in modo consistente la loro presenza militare, formando una forza alleata integrata di cui avrebbero assunto il comando, ma gli europei dovevano accettare la partecipazione alle forze integrate di dieci divisioni della Germania federale. Il primo ministro francese René Pleven propose un piano che prese il suo nome, in cui sostanzialmente si applicava il modello della comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) alla difesa comune europea.

La realizzazione tanto auspicata poi fallì, cosa conseguì al suo fallimento?
Le discussioni furono ovviamente assai più difficili, essendo le forze armate ben più rilevati per la sovranità degli stati rispetto al settore carbosiderurgico, e infine la CED fallì nel 1954 quando l’assemblea nazionale francese respinse l’approvazione della versione finale del trattato. A un mese dalla bocciatura della CED il tema della difesa Comune europea fu ripreso discutendo l’ampliamento del Patto di Bruxelles, stretto nel 1948 da Regno Unito, Francia e Benelux, da cui sarebbe nata l’Unione Europea Occidentale (UEO). La Repubblica Federale Tedesca aderì all’organizzazione, che ne permise il riarmo; ovviamente anche l’Italia entrò nella UEO, che seguì i successivi allargamenti delle comunità europee pur rimanendone distinta. Questo dal punto di vista politico. Da quello strategico la NATO rappresentò il consesso difensivo dell’Europa occidentale, un consesso volutamente transatlantico.

Quindi per ciò che riguarda la difesa la Nato riuscì pienamente a colmare quel vuoto lasciato dalla CED ma sotto il punto di vista dell’integrazione rimanevano spaventose criticità. Quali erano e come si lavoro per risolverle?
L’Europa come progetto è nata per rispondere alle tensioni che attraversavano il continente secondo le faglie degli interessi nazionali confliggenti. L’angolazione economica fu privilegiato perché permetteva una certa gradualità di approccio: il precedente della CECA (la prima forma di mercato comune realizzata in Europa) che aveva visto la condivisione di risorse come il carbone e l’acciaio, il cui controllo aveva innescato in passato sanguinosi conflitti. Nonostante il modello non fosse riuscito a risolvere il problema della difesa, esso venne ripreso per proseguire l’integrazione europea.

E come si diede corpo a questa grande idea, a questo grande processo di integrazione che porta fino ai nostri giorni?
L’approccio che informò la gestione comunitaria del carbone e l’acciaio (risorse del passato e del presente) venne applicato all’energia atomica (la risorsa del futuro), che necessitava per la sua realizzazione di una programmazione e di uno sforzo comune, dacché i singoli stati non potevano sviluppare pienamente tale tecnologia. Si arrivò così alla firma dei Trattati di Roma del 1957 con i quali nacque la Comunità Economica Europea (CEE) e la CEEA (Comunità Europea dell’energia atomica) la quale costituì fondamentale presupposto per la nascita del grande mercato comune. La CEEA per la prima volta vedeva impegnati gli stati nella condivisione di professionisti, di programmi, di investimenti in ricerca; molto più della CEE parve rappresentare il primo passo per una vera integrazione, che da economica poteva aspirare a divenire pienamente politica.

La questione della difesa europea rimane dunque una questione aperta?
Senz’altro la questione della difesa europea rimane una questione aperta, seppur il contesto storico e notevolmente mutato. Oggi non si pone una minaccia russa in termini analoghi a quella che era stata l’Unione Sovietica, e nemmeno lontanamente una minaccia militare tedesca. La Nato continua a garantire la difesa del continente riunificato, ampliando la dottrina ai cinque spazi della difesa: non più solo terra, aria, acqua, ma anche spazio satellitare e cyberspazio). Ciò ci fa riflettere su quanto le esigenze della difesa siano cambiate dai tempi della CED; nondimeno la difesa comune resta un passaggio necessario nel progetto dell’Unione Europea e di una integrazione dei suoi popoli.

Rimangono comunque dubbi sulla sua fattibilità?
La cooperazione militare in ambito europeo ha raggiunto notevoli progressi. Questo è simbolo di come gli stati prediligano lo strumento della cooperazione, il quale non vede sminuita la sovranità, piuttosto che quello di una comune difesa dove l’interesse nazionale cede a quello sovranazionale e dove la condivisione può risultare contrastante. Basti pensare ai limiti dell’intelligence europea, data dalla difficoltà nella condivisione di informazioni da parte di apparati nazionali come i servizi di sicurezza. I grandi progetti ideali devono fare i conti con la realtà, dunque devono trovare trovare risposte e alternative adatte alle situazioni concrete, come si evince dall’esperienza storica.

Michelangelo Di Castro, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

Quel nodo chiamato autonomia. Perché le regioni non sono in cima all’agenda

Tutto da rifare. Sull’autonomia il governo non esce dallo stallo. Lo stesso ministro delle Autonomie in quota Pd Francesco Boccia, in visita a Pontida ai sindaci della valle Padana, si è lasciato andare a uno sfogo: “Ho detto fin dall’inizio di questo percorso sulla ricostruzione della fiducia reciproca tra i diversi livelli Istituzionali sull’attuazione dell’Autonomia differenziata che sarei stato ghandiano e non avrei accettato provocazioni tra fazioni”. Ma, ha promesso ai primi cittadini del Nord il ministro dem, “non ho nessuna intenzione di trascorrere i prossimi mesi avendo lo stesso atteggiamento paziente con i partiti di maggioranza”.

L’autonomia differenziata è uno dei tanti scomodi dossier lasciati in eredità dal governo precedente a palazzo Chigi. La sostanza al centro della querelle è ormai nota. Tutto ruota intorno al Titolo V della Costituzione Italiana e in particolare all’art. 116, introdotto con la riforma costituzionale del 2001, che al comma 3 prevede la possibilità, per le regioni a Statuto ordinario, di introdurre in alcune materie “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. In poche parole, di ridurre il gap che distanzia le loro competenze da quelle previste dalla Costituzione per le regioni a Statuto speciale. Il comma, rimasto finora inattuato, è tornato agli onori delle cronache nell’ottobre del 2017, quando un referendum in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, le tre regioni al centro del “motore industriale” del Paese, si è concluso con la richiesta al governo di maggiori forme di autonomia ex art. 116, 3.

Il 28 febbraio del 2018 le tre regioni hanno sottoscritto ciascuna un accordo preliminare con il governo, allora presieduto da Paolo Gentiloni, individuando metodologia, materie e principi regionali che avrebbero dovuto informare la devoluzione di nuove competenze. L’intesa non è però mai passata per il vaglio del Parlamento. Complici le distanze che hanno caratterizzato le posizioni dei due maggiorenti del governo Conte 1, Lega e Cinque Stelle. Nonostante la materia sia stata inserita nel “contratto di governo”, le due forze di maggioranza non hanno saputo trovare una soluzione di compromesso. Il pressing della Lega per “fare in fretta” si è più volte scontrato con le reticenze dei Cinque Stelle, formalmente a favore ma più volte trovatisi divisi sul da farsi, con gli appelli da diverse correnti del partito (specie, si intende, dai parlamentari del Sud) a non creare “regioni di serie A e serie B” e non scavalcare le competenze del Parlamento in materia.

Sullo sfondo uno scoglio tecnico che ha animato il dibattito fra addetti ai lavori. Ovvero la scelta di calibrare la devoluzione di ulteriori materie alle regioni non più sul criterio della “spesa storica” ma su quello dei fabbisogni standard della singola regione, anche detti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni, riferiti in particolare a tre materie: Istruzione e formazione, Salute e Assistenza sociale). In teoria il nodo è presto sciolto. La legge 42/2009 attuativa dell’art. 119 Cost., più conosciuta sotto il nome di “Federalismo fiscale”, prevedeva infatti già di “sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica” con quello dei fabbisogni standard. Politicamente attuare questa previsione non è bere un bicchier d’acqua.

Fra rilanci e continui rinvii, dunque, l’autonomia differenziata è rimasta congelata fino all’entrata in carica del nuovo governo. Che, tramite Boccia, ha promesso dai primi giorni di riportare al centro dell’agenda la questione e di definire, dopo un’approfondita interlocuzione con le regioni (a quelle originarie man mano se ne sono aggiunte altre, come Piemonte e Toscana), una legge quadro da votare entro dicembre. L’interlocuzione c’è stata, la legge quadro no. O meglio, non ancora. Perché l’intesa politica fra le regioni chiamate in causa è stata trovata, parola di Boccia, “da tutte le regioni”.

Peccato che non sia ancora chiaro come l’intesa si trasformerà in legge. Una prima ipotesi, auspicata dallo stesso ministro, prevedeva di inserire il tema dell’autonomia in un emendamento alla legge di Bilancio. Cassata da quasi tutti i partiti di maggioranza, e soprattutto da Italia Viva e Cinque Stelle, che hanno letto la proposta come un “blitz” inopportuno su una materia delicatissima, la soluzione è rimasta sulla carta. Mentre un altro anno si avvia alla conclusione e il governo è (comprensibilmente) alle prese con altre emergenze, crisi bancarie e industriali in testa, l’impressione è che il regionalismo differenziato sia ormai considerato una delle tante “tele di Penelope” della politica italiana. Tessute di giorno, disfatte di notte, purché non trovino mai la luce una volta per tutte.

F.B.

L’Europa, dono o progetto? Parla Ferraresi

archenet.org

Oggi sempre di più l’Europa sta diventando campo di dibattito e malcontento comune, bisogna sforzarci a far nostre le parole di Alcide De Gasperi pronunciate per il Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea nel ’54: l’Europa «è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere o di pretese da rivendicare» perché «all’origine dell’idea d’Europa vi è la figura e la responsabilità della persona umana». Le radici europee sono una questione a volte dimenticata e proprio per questo la Fondazione De Gasperi per la V edizione della Scuola di Formazione Politica in collaborazione del Wilfried Martens Centre for European Studies tenutasi a Roma ha intervistato Mattia Ferraresi, giornalista Il Foglio, per avere un quadro più dettagliato su una tematica così spinosa.

Da cosa dovrebbe ripartire l’Europa per ricercare le proprie radici e la propria identità?

È fondamentale rifarsi una domanda forse oziosa e per alcuni troppo filosofica. Che cos’è l’Europa? Bisogna vedere qual è la sua natura più profonda e in che modo c’è stata consegnata, ma non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Una distinzione che si può fare è quella di pensare l’Europa come dono, qualcosa che abbiamo ricevuto dalle nostre generazioni attraverso la trasmissione di alcuni ideali di cui i nostri padri erano animati, ma forse questi non ce li ricordiamo più, o meglio, non siamo in grado di riconoscerli proprio per il fatto di aver dimenticato che l’Europa è un dono, un’eredità non meritata. L’errore è di considerare tutto questo come un progetto, un qualcosa fatto dalle nostre mani e che richiede, perciò, il necessario contributo di tutti mantenendo noi stessi al centro. Ritengo che una buona idea per riscoprire l’identità europea sia proprio questa e cioè avere il coraggio e la voglia di concepire l’Europa come un dono.

Se partiamo da questo assunto ci troviamo di fronte ad una realtà storica e fattuale molto diversificata. Dobbiamo problematizzare l’esistenza di tante Europe differenti, in questo senso?

Da sempre esiste un dibattito su tutte le idee politiche umane. L’Unione Europea è stato un tentativo animato da un forte dibattito in cui alcune visioni dell’Europa si sono scontrate e hanno dialogato; in parte si sono fuse ma dall’altra si sono divise. Certamente, l’idea di Europa che era all’origine e nel cuore di alcuni padri fondatori europei dove spiccano De Gasperi insieme a Schumann ed Adenauer – la triade che non si può non citare – avevano una certa idea di Europa e io trovo che questa porti ad una Europa disattesa ed in alcuni casi addirittura tradita e per questo è bene averlo presente nel dibattito sia nel modo libero e sia in quello laico. Sono concetti che si possano mettere al centro come in tutte le famiglie; è fondamentale che si torni a dibattere su questa dialettica ormai dimenticata.

Luca Di Cesare, Rapporti Territoriali Fondazione De Gasperi

 

https://youtu.be/S5i30PR3kw4

La versione di Blangiardo sul regionalismo differenziato

Come da consuetudine in Italia, il dibattito sul regionalismo differenziato ha portato ad una polarizzazione delle opinioni in merito alla proposta delle regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, di un ampliamento delle loro competenze in ambito sanitario e scolastico, con evidenti ricadute sulla ridistribuzione delle risorse fiscali tra Stato centrale e Governo regionale. Spesso, tuttavia, vengono tralasciati in questo dibattito elementi demografici e statistici, che tornerebbero certamente utili per una riflessione più accurata e precisa sul tema. Proprio per questo, la Fondazione De Gasperi ha intervistato Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istat e professore di demografia presso l’Università Milano-Bicocca, per avere un quadro più chiaro su una questione così complessa.

Dati alla mano, la richiesta di competenze aggiuntive nel governo regionale, secondo quanto
previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzione, da parte di Emilia-Romagna, Veneto e
Lombardia rappresenterebbe un turning point decisivo della questione settentrionale, ovvero
un rischio concreto di un aumento del divario economico e sociale tra Nord e Sud?
Ci troviamo di fronte ad un Paese, in cui ovviamente persistono differenze. L’Istat continua a monitorare attraverso una serie di indicatori statistici su base regionale, quella che viene tecnicamente definita come misura del benessere equo e sostenibile (BES). Si tratta di 12 parametri ( livello e qualità delle prestazioni erogate in ambito sanitario, scolastico, ecc.), con cui è possibile fotografare in maniera più precisa le differenti realtà regionali e locali italiane. Se ci soffermiamo ad una mera valutazione economica, è innegabile constatare la persistenza di un clivage, che una volta veniva identificato con l’immagine delle “due Italie”. Se si allarga, tuttavia, il campo d’analisi alle esigenze e ai bisogni del tessuto sociale italiano, si può scorgere invece una sorta di omogeneizzazione del quadro socio-demografico del Paese.

Ovvero?
Una volta vi era la tendenza statistica di un Meridione con un tasso di natalità nettamente superiore rispetto a quello dell’Italia settentrionale, mentre negli ultimi anni si è assistito ad un livellamento del trend demografico, in cui, tuttavia, è il Settentrione ad avere un indicatore di natalità leggermente superiore. Questo testimonia l’omogeneizzazione dei costumi e dei comportamenti della popolazione italiana: dal tasso di nuzialità e di divorzio, passando alle nuove e differenti richieste dei cittadini in termini di welfare State. Quest’ultimo aspetto si lega ad un altro tema cruciale delle nostre rilevazioni statistiche, ovvero quello dell’invecchiamento della popolazione italiana, che ormai riguarda in maniera indistinta l’intera comunità nazionale senza alcuna differenziazione tra Nord e Sud, con evidenti ricadute sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico e assistenziale. Ciò che rimane, tuttavia, fortemente polarizzato non è naturalmente la domanda di servizi da parte dei cittadini, ma l’offerta di servizi delle amministrazioni regionali e locali, con un evidente squilibrio a favore dell’Italia settentrionale. In tal senso, non deve stupire la costante crescita della cosiddetta migrazione sanitaria, di fronte ad una generalizzata situazione critica da parte delle regioni meridionali nell’erogazione di prestazioni e servizi sanitari ai propri cittadini. La questione cruciale, a mio avviso, si giocherà sulla ridefinizione di regole e meccanismi istituzionali per il ri-allineamento nazionale dell’offerta dei servizi assistenziali e previdenziali.

Con una crescente omogeneizzazione dei bisogni della popolazione italiana, la partita verrà
giocata essenzialmente sulla redistribuzione delle risorse fiscali?
La ridistribuzione delle risorse fiscali è un elemento fondamentale per intervenire sulle dinamiche sociali ed economiche dell’intero sistema-Paese, a fronte di una “coperta” economica sempre più corta. Qui entrano naturalmente in gioco valutazioni politiche. Tuttavia, se vogliamo che il Paese sia produttivo, dobbiamo cercare di incentivare le realtà più floride ad accrescere maggiore ricchezza, provando a risolvere le criticità di un apparato burocratico-amministrativo, che spesso si trasforma in un ostacolo e in un disincentivo all’impresa. In definitiva, occorre mettere ogni amministrazione – da quella locale fino a quella nazionale- di fronte alle proprie responsabilità.

Gian Marco Sperelli e Valerio Gentili, Comitato scientifico junior Fondazione De Gasperi

 

https://www.youtube.com/watch?v=f1ZDkGO4GQQ

L’obiettivo della difesa europea si avvicina?

Lo scorso novembre la Pesco, ovvero la Cooperazione Strutturata Permanente, si è arricchita di tredici nuovi progetti, dopo l’approvazione del Consiglio dell’Unione Europea, arrivando quindi ad un totale di 47.

Questi progetti, a cui aderiscono nel complesso 25 Paesi, servono ad approfondire le collaborazioni tra i settori della difesa e della sicurezza dei diversi stati europei. La Francia diventa così il primo paese per numero di partecipazioni ai progetti (30), l’Italia, insieme alla Spagna, è seconda (24). Quando fu istituita, nel dicembre 2017, sembrava potesse essere finalmente la pietra fondante della difesa comune europea. A distanza di due anni la situazione è ancora in divenire e non esente da criticità.

Una su tutte probabilmente è lo sviluppo della cosiddetta EI2 (European Intervention Initiative), fortemente voluta dal presidente francese Macron e a cui ha aderito da poco la stessa Italia. Questa iniziativa, nata nel giugno 2018, è stata sviluppata, secondo molti, proprio con lo scopo di agire lì dove i programmi della Pesco non arrivano. C’è da dire inoltre che l’EI2 non ha alcun legame ufficiale con l’Unione Europea, con i suoi organismi e le sue istituzioni, a differenza della Cooperazione Strutturata e del Fondo per la Difesa (EDF). In molti pensano che l’EI2 serva soprattutto alla Francia per agire in determinati contesti in cui gli interessi di Parigi sono maggiori, senza dover passare per autorizzazioni di Bruxelles e Washington.

Macron insomma cerca di creare un’alternativa alla Pesco, e tra i suoi obiettivi più o meno dichiarati c’è quello di tentare di mantenere il Regno Unito legato al mondo della difesa europea., l’interlocutore sui temi di sicurezza per eccellenza della Francia. Quest’ultimo infatti ha aderito all’EI2, nonostante l’iter della Brexit in corso. Inoltre Macron vuole che la Francia abbia il ruolo principale e indiscusso delle politiche difensive del Vecchio Continente, forte anche del fatto di essere l’unica potenza col nucleare (tolta la Gran Bretagna). Per questo sorprende, ma non troppo, l’attivismo francese nei progetti Pesco.

Non sorprende neanche il fatto che il nuovo commissario europeo incaricato delle questioni della Difesa sia il francese Thierry Breton. Quest’ultimo ha affermato che “la difesa sarà un nodo essenziale nei 5 anni che aspettano questa Commissione e sarà sotto la mia responsabilità, con la creazione, per la prima volta, di un’industria europea di difesa coordinata in parte dalla Commissione europea”.

Se è vero che un esercito comune europeo non potrà esistere fin quando non ci sarà una vera e propria politica estera comune, è anche vero che non sarà possibile se prima l’industria della difesa europea non sarà realmente cooperativa e integrata. Oggi in alcuni casi i rapporti di integrazione riescono ad essere positivi, come per esempio nel caso di Naviris, la neo joint venture tra Fincantieri e Naval Group. In altri, come nel caso dei diversi progetti franco-tedesco e anglo- italiano per il caccia del futuro, le aziende di bandiera leader nel settore non riescono a integrarsi in maniera unica. La vera integrazione industriale è uno dei principali scogli su cui il progetto difensivo europeo si scontra ciclicamente.

Se dall’altra parte dell’Oceano, Washington e la NATO, si sono dichiarati a favore di una difesa comune europea e del suo ruolo complementare con l’Alleanza Atlantica, sono invece rimasti scettici al nascere dell’iniziativa di Macron. Non è un caso che il presidente francese, solamente qualche giorno fa, ha affermato che la NATO è in uno stato di ‘morte cerebrale’. Nel summit di Londra di questi giorni, Macron e Trump (che pure non è mai stato particolarmente tenero con l’Alleanza e con l’impegno di alcuni suoi paesi membri) si sono scontrati in maniera piuttosto accesa su questo punto.

In un momento piuttosto complicato per l’Alleanza Atlantica, in cui le divisioni al suo interno sono piuttosto palesi e le sfide da affrontare sono mutevoli, l’Italia e l’Unione Europea devono continuare a sviluppare il sogno degasperiano di una difesa comune, consapevoli del fatto che le attività prettamente europee e quelle nord-atlantiche possano procedere di pari passo, rafforzandosi le une con le altre. La convinzione è che solamente un impegno generale e concreto di ogni stato membro, senza ricerche di protagonismi particolari, possa portare al raggiungimento dell’obiettivo.

Luca Sebastiani