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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

A 70 anni dalle elezioni del 1948 Riunire storia e futuro nei valori degasperiani: Europa, atlantismo, giustizia sociale

Il 18 aprile ricorre il 70° anniversario delle elezioni politiche che diedero avvio alla prima legislatura. In tale occasione la Fondazione De Gasperi promuove un convegno con lo scopo di rileggere il significato di quella tornata elettorale ed il ruolo avuto da De Gasperi nel condurre il Paese in quel delicato passaggio storico.
L’incontro si terrà mercoledì 18 aprile dalle 15 alle 19 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei – Villa Farnesina, Via della Lungara, 230.


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I Padri Fondatori dell’Europa unita arrivano all’Università di Roma Tre

La mostra “Unione Europea, storia di un’amicizia. Adenauer, De Gasperi e Schuman”, nata da un progetto della Fondazione De Gasperi sviluppato in collaborazione con la Konrad Adenauer Stiftung e la Maison de Robert Schuman, già lanciata al Meeting di Rimini nell’agosto del 2017, è recentemente arrivata per la prima volta tra le mura di una Università, cioè presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre. Infatti, il 10 aprile scorso, essa è stata presentata in un’aula dell’Ateneo romano dalla Signora Maria Romana De Gasperi, dal direttore del Dipartimento professore Giovanni Serges, dalla professoressa di Diritto dell’Unione Europea Claudia Morviducci e da uno dei curatori della mostra, Valerio Gentili; il tutto coordinato dal consigliere di amministrazione dell’Università, componente studente, Eduardo Vincenzo Isidori. Con questa mostra internazionale la Fondazione De Gasperi ha inteso celebrare il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, evento che ha portato alla lungimirante intuizione della necessità storica di una Europa unita non solo sotto il profilo economico.

La mostra, ricca di documenti, fotografie, brevi spezzoni video e un piccolo campo da bocce (per ricordare le partite che avvenivano tra i tre grandi statisti presso la villa di Castel Gandolfo abitata da Alcide De Gasperi) è stata ideata da un gruppo di giovani che collaborano assiduamente ai progetti della Fondazione De Gasperi di Roma, i quali hanno saputo coglierne il significato centrale in quella “amicizia” tra i tre protagonisti, che subito nacque ispirata dalla comunanza di intenti e dei valori di fondo legati all’individuale esperienza politica, alla loro origine culturale e al Cristianesimo vissuto, nello specifico, come fratellanza tra i popoli europei.

La mostra è stata articolata in tre sezioni. La prima illustra gli aspetti comuni che costituiscono la base della ideale sintonia tra i tre statisti già evidente durante il periodo giovanile: la componente dominate della fede cattolica introdotta nell’esperienza politica, il forte senso di responsabilità morale e la provenienza geografica. La seconda sezione si è incentrata sulla politica attuata nel periodo del dopoguerra, una volta chiamati a guidare ciascuno il proprio Paese assumendo così il difficile compito di ricostruire sul piano spirituale e materiale i territori dopo due guerre mondiali, dando vita ad una politica internazionale che tornasse ad inglobare con pari dignità nel contesto europeo la Germania, già smilitarizzata e pesantemente mutilata dalla divisione in due; riuscendo nel loro duplice intento. Nell’ultima sezione viene rappresentato il primo risultato concreto di questa “amicizia”, vale a dire il processo di integrazione europea nel settore del carbone e dell’acciaio compiuto con la creazione nel 1951 della CECA; risultato in sé straordinario anche se i tre uomini politici non riuscirono a completare nella sua interezza l’idea d’Europa che avevano sognato. Alcide De Gasperi, prima di morire nel ’54, affermava che la sua “spina nel fianco” era la CED, quel progetto di esercito comune tra i diversi paesi europei che non aveva visto attuazione per la mancata ratifica francese.

Durante l’inaugurazione della mostra Maria Romana De Gasperi ha ricordato numerosi episodi relativi al padre, quasi per far entrare ancora di più e meglio gli studenti nella conoscenza della struttura morale dello statista. Ha raccontato come solo tardi ella abbia scoperto chi fosse davvero suo padre, quale ne fosse la sua interiore fisionomia e il suo ruolo politico. In occasione di importanti visite di personalità tedesche a Roma, ha ricordato che doveva, su ordine paterno, nascondere ogni volta dei grossi pacchi, trasferendoli al piano di sotto, in casa di una vicina. “Una delle tante volte che dovetti portare uno di questi pacchi giù di sotto, in casa della vicina ero così curiosa di conoscerne il contenuto che mi misi a grattarne con le unghie il rivestimento di cartone: erano giornali, lettere e documenti dalla cui lettura ho scoperto ed inteso quale fosse la vera storia di mio padre, chi fosse veramente.”

Il direttore Serges, da parte sua, ha messo in luce il profondo legame ideale che univa il pensiero e l’azione dei tre protagonisti, illustrando brevemente le alte motivazioni dell’azione comune, mentre l’intervento della professoressa Morviducci ha voluto sottolineare le ragioni diverse eppur convergenti che hanno dato impulso all’opera dei tre grandi uomini politici.

Il programma della Fondazione De Gasperi prevede ora la presentazione di questa mostra in altre strutture universitarie per coinvolgere gli studenti e sensibilizzarli alle problematiche di cui essa è portatrice, proprio in un momento in cui il concetto stesso di unità europea sembra essere entrato in crisi.

Luca Di Cesare

Intervento del Prof. Markus Krienke alla presentazione della mostra “Unione Europea, storia di un’amicizia” Roma, 13 febbraio 2018

L’Europa e i suoi ideali cristiani – Adenauer, De Gasperi, Schuman

Markus Krienke (Lugano-Roma-Milano)

 

 

Quando Adenauer scrisse a Schuman il 23 agosto 1951 che «tutto il peso dei compiti è sulle spalle di uomini, che come Lei, il nostro comune amico Presidente del Consiglio De Gasperi ed io sono pervasi dalla volontà di sviluppare e realizzare una buona costruzione del mondo europeo su nuovi fondamenti cristiani», egli stesso dà una risposta sia a chi mette in dubbio che ci sia stata una forma di vera amicizia tra i tre “Padri fondatori” dell’Europa, sia a chi ritiene il riferimento ai valori cristiani come non essenziale nel processo della costituzione dei fondamenti di ciò che oggi è l’Unione Europea. La mostra che oggi viene inaugurata in Palazzo Montecitorio presenta non solo le biografie di tutti e tre statisti nonché autentici esponenti dell’idea di “Democrazia cristiana”, ma anche documenti d’epoca come lettere, discorsi e materiale fotografico, per evitare che l’oblio di questa “storia di un’amicizia” porti sempre più a vedere nell’Europa soltanto un colosso burocratico, amministrativo e di potere tendenzialmente ostile alle sovranità nazionali.

Per dare una risposta ai due dubbi appena citati, è senz’altro chiaro che i primi successi – e anche fallimenti – del progetto europeo sono stati sempre anche frutto di meri interessi nazionali: quello francese di acquisire attraverso i trattati un controllo sulla Germania, quello della Germania di rientrare nella famiglia dei popoli liberi, e quello dell’Italia di ampliare il suo influsso in Europa, impedendo di essere esclusa dall’interesse della Francia e dell’Inghilterra alla Germania. E certamente Adenauer, De Gasperi e Schuman, per quanto siano stati motivati dai loro ideali condivisi, erano realisti e consapevoli del fatto che gli interessi nazionali non portano nuovamente a una situazione di conflitto solo se vengono costretti dentro patti e istituzioni concrete a livello sovranazionale. E che ciò che spinge le nazioni a tali passi possono essere sempre e soltanto interessi nazionali. Per questo, sapevano senz’altro che la pace e una nuova solidarietà si lasciava realizzare soltanto attraverso un’integrazione degli interessi nazionali a un nuovo livello politico – quello che tutti e tre condividevano non a caso grazie alla loro comune fede cristiana: nati e cresciuti tutti e tre in “zone di periferia” delle loro rispettive nazioni, era la dimensione universale della fede cristiana e l’affermazione incondizionata della dignità umana, che li fece agire, ancora indipendentemente l’un dagli altri, contro il potere politico nazionale: mentre Adenauer da borgomastro di Colonia si opponeva alla predominanza prussiana in Germania, nel senso di un più articolato federalismo che avrebbe consentito di collocare la produzione dell’acciaio e del carbone nella Ruhr al di fuori di meri interessi nazionalistici, De Gasperi e Schuman combattevano contro l’unificazione del sistema scolastico e per la libertà di insegnamento nelle scuole cattoliche. Tutti e tre trovarono poi nel periodo dei totalitarismi accoglienza in strutture ecclesiastiche (De Gasperi nel Vaticano, Schuman ed Adenauer in monasteri benedettini), dove studiavano la Dottrina sociale della Chiesa con i suoi principi della dignità umana, della solidarietà universale (non nazionale o partitica), e della sussidiarietà. Le encicliche di riferimento furono la “Rerum novarum” di Leone XIII (1891) e soprattutto la “Quadragesimo anno” di Pio XI (1931). Capirono, così, che la fede cristiana si traduce in ideali non solo morali, ma istituzionali e politici, dove si rivelano universali, cioè come espressione di una visione dell’uomo in quanto persona che non dipende da una fede o Weltanschauung particolare.

Quando avvennero i primi incroci, per motivi storici ovviamente sempre tra due dei tre, nel secondo dopoguerra (in realtà un primo incontro tra Adenauer e De Gasperi risale già al periodo tra le guerre), allora si incontrarono già da leader dei loro partiti cristiano-democratici. Il loro linguaggio comune – oltre il tedesco che tutti e tre parlarono in modo “originario”, da madrelingua o comunque sin dall’infanzia – era allora questa antropologia cristiana, cioè l’idea cristiana del valore incondizionato della persona umana, e delle conseguenze di questa idea per la politica e le istituzioni. Ciò si traduceva in un rapporto che senz’altro si può chiamare “amicizia”, certamente un’amicizia politica, ma che come ogni amicizia esprime un sentire comune, una fiducia di base, un sapere di avere un alleato, una cosa di massima importanza in politica, soprattutto in una situazione di massima ostilità, dopo la guerra più terribile della storia, tra i popoli europei. In altre parole, la loro “amicizia” era una vera e propria relazione, certamente tra loro tre, ma che simboleggiava anche una nuova relazione tra i popoli. Una relazione resa possibile grazie ai loro valori condivisi. Relazione che nei termini della Dottrina sociale della Chiesa si chiama solidarietà, e per la quale i nostri tre spesso usavano la parola “pace”. E forse è questa relazione che oggi è venuta meno in Europa, per cui le forze centrifughe (che ci sono sempre stati) si sentono con nuova veemenza.

Tale rapporto di stima ed amicizia emerge senz’altro da innumerevoli documenti, dai quali in occasione di questa apertura della mostra abbiamo estrapolato soltanto alcune affermazioni che ci fanno capire senz’altro diverse sfumature con le quali i tre hanno vissuto e interpretato quest’amicizia, ma che in nessun caso si limitano a mere formule di cortesia o di protocollo internazionale. Forse si potrebbe descrivere ciò che emerge da queste affermazioni come una “stima amichevole”. Consideriamo ad esempio quanto Adenauer afferma su Schuman: «Forse noi due siamo chiamati da Dio di dare un contributo prezioso per i nostri fini comuni in un momento decisivo per l’Europa». Come si vede, anche se tutti e tre interpretano i “valori cristiani” da laici, i riferimenti ad essi sono espliciti. A De Gasperi lo stesso Adenauer scrive: «Si deve soprattutto alla Sua iniziativa se in questi giorni i deputati della Ceca a Strasburgo affrontano la grande opera, cioè il progetto della costituzione politica dell’Europa. Come difficilmente alcun altro, Lei ha dedicato la Sua vita alla costruzione di questa nuova Europa. Lei persegue una via che è stimolo agli stanchi ed agli indifferenti, è sprone ai contrari e sorgente di forza a tutti i benpensanti». Vice versa, De Gasperi affermò su Adenauer: «Se cade Adenauer, bisogna considerare disturbato il completo equilibrio continentale», ma poi fa anche trapelare che oltre l’intesa tra di loro nelle questioni politiche europee, c’è sicuramente l’appezzamento dell’uomo Adenauer: «Adenauer, che nelle occasioni ufficiali sembra così freddo e riservato, nei contatti diretti e negli incontri personali è di suprema cordialità e familiarità. Ciò ha molto facilitato le conversazioni, dalle quali risulterà, come credo, qualche beneficio concreto per l’Italia». Su Schuman, De Gasperi pronuncia l’uguale stima amichevole: «Come Schuman ha fatto notare, l’idea della solidarietà europea si è attuata in vari istituti in mezzo a difficoltà straordinarie, e noi sappiamo quanto dobbiamo alla sua iniziativa e al suo spirito di realizzazione». La solidarietà, quindi, si realizza tramite istituzioni, ecco un tratto fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa, ma certamente ciò presuppone persone coraggiose e piene di spirito di iniziativa. Su De Gasperi, Schuman invece rammarica che si sono «incontrati tardi nella vita, ma la nostra amicizia è stata profonda e senza riserve. […] Ella è stata spesso un mediatore efficace e disinteressato, sempre un animatore chiaroveggente e tenace». Ed anche di Adenauer, il politico francese ammira il suo spessore spirituale: «La Germania deve solo ad Adenauer, alla sua politica e alla sua personalità spirituale e morale, di essere tornata così presto e paritariamente nella famiglia delle nazioni».

Come emerge da queste affermazioni reciproche tra i tre “Padri fondatori”, la fede cristiana sta senz’altro alla base non solo della loro amicizia, ma anche del loro progetto europeo: non la fede ecclesiastica, che senz’altro era molto diversamente articolata in tutti e tre, ma le convinzioni dei valori dell’antropologia cristiana, cioè quale visione sulla persona e sulla politica deriva da essa. Per questo, loro non usavano un linguaggio “religioso”, “liturgico” o “spirituale”, ma usavano concetti politici, per esprimere, appunto, che questa loro visione, così la ferma convinzione di tutti e tre, non è espressione di una credenza individuale, ma presenta criteri universali per come impostare una futura politica per l’Europa. Non si deve dimenticare, infatti, che in parte dovevano realizzare le loro idee anche contro la resistenza della Chiesa e di alcuni vescovi. La loro convinzione dell’universalità della dignità umana come principio base della Dottrina sociale della Chiesa, emerge chiaramente da un’affermazione di De Gasperi nel 1954: «Voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che salda la figura e la responsabilità della persona umana col fermento di fraternità evangelica». Questa universalità della dignità umana per loro è non a caso la vera essenza della democrazia: «La democrazia è nata e si è sviluppata con il cristianesimo. Essa è nata quando l’uomo, secondo i valori cristiani, è stato chiamato a valorizzare la dignità della persona, la libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principi non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità».

Con queste parole, Schuman non vuole dire che la Chiesa sarebbe stata promotrice della democrazia, che nel contesto storico non corrisponderebbe certamente ai fatti, considerando che per l’intera modernità e in fondo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) essa ha condannato e rifiutato (fino all’inizio ’900) o, nel periodo che precede il Concilio, almeno parzialmente ostacolato la stessa democrazia. Schuman, con questa affermazione, infatti intende dire che con l’antropologia cristiana, cioè la visione cristiana dell’uomo com’è descritta nella Bibbia, è iniziata una nuova cultura che spinge verso la realizzazione di nuove forme politiche: in questo caso il superamento dei totalitarismi e nazionalismi verso la realizzazione europea della pace e della solidarietà. Tale dinamica corrisponde senz’altro alla convinzione di pensatori cattolico-liberali come Rosmini (1797-1855) o Sturzo (1871-1954), oppure quale viene espressa dai teoretici dell’economia sociale di mercato come Röpke (1899-1966), per il quale il «liberalismo» non è un’antitesi al cristianesimo, sebbene nella modernità si è realizzata la loro contrapposizione. Al contrario, esso sarebbe, sempre secondo Röpke, il «suo legittimo figlio spirituale», aggiungendo che si basa senz’altro anche su altre correnti di pensiero come la filosofia antica e l’illuminismo moderno. Ciononostante il cristianesimo ha amalgamato queste tradizioni e ha dato quella consistenza alla dignità della persona, alle idee di solidarietà e sussidiarietà, tale da costituire l’eredità spirituale-universale dell’Europa che ora, dopo l’esperienza dei totalitarismi e nazionalismi sarebbe finalmente l’ora di realizzarla.

Sta precisamente in questo punto, la comune convinzione degli “ideali cristiani” tra Adenauer, De Gasperi e Schuman. Infatti, proprio per quanto riguarda la solidarietà, Schuman afferma che proprio la sua realizzazione, come “ideale” cristiano e universale, è l’unica conseguenza possibile dalla storia bellica europea: «La solidarietà delle nazioni è il grande insegnamento del recente passato. […] Un’Europa forte e libera è la migliore garanzia per la propria sicurezza e per la pace in tutto il mondo. Nella nuova costruzione l’idea della pace e del lavoro in comune prendono una nuova forma concreta». E De Gasperi trovava le seguenti parole per questa convinzione: «lo spirito di solidarietà europea potrà creare, in diversi settori, diversi strumenti di salvaguardia e di difesa, ma la prima difesa della pace sta nello sforzo unitario che, comprendendo anche la Germania, eliminerà il pericolo della guerra di rivincita e di rappresaglia». Una nuova solidarietà per l’Europa, che però, non solo secondo la Dottrina sociale della Chiesa, ma anche secondo Adenauer, De Gasperi e Schuman, è inscindibile dall’idea di sussidiarietà, cioè quel valore che si traduce nel federalismo europeo e che è stato riconosciuto e affermato “ufficialmente” dal Trattato di Maastricht (art. 3B). «La realizzazione dell’integrazione europea non deve essere resa impossibile da una malattia dei nostri tempi: il perfezionismo. L’integrazione europea non deve essere rigida; deve essere per i popoli europei una corazza che striminzisca, ma al contrario deve essere per loro e per il loro sviluppo un appiglio comune, un sostegno comune per uno sviluppo sano che corrisponda agli interessi legittimi di tutti. Per questo motivo non ritengo necessarie le istituzioni sovranazionali […]. D’altro canto l’efficacia di una tale federazione non deve dipendere dagli interessi presunti di un unico membro». Ciò che Adenauer intende dire con queste parole è che non può esistere una perfezione istituzionale per l’Europa, per cui il suo sguardo deve essere sempre orientato alla singola persona: anche in Europa, la precedenza spetta alle istituzioni più vicine alla persona. Probabilmente è proprio questo principio che ormai abbiamo dimenticato nella burocrazia europea. Infatti, anche De Gasperi affermò: «Ho parlato da europeo, sì. Ma parlando da europeo, chi può credere che io non avessi in animo l’Italia?». La conciliazione di entrambe le dimensioni è la convinzione dei nostri tre statisti: e sono proprio gli ideali cristiani che rendono possibile per loro una tale sintesi. Per quanto riguarda Adenauer, rispetto a questa dimensione etica di fondo, che si esprimeva concretamente nell’intenzione di creare un’Europa dei popoli liberi contro la minaccia dell’Unione Sovietica – la quale nei suoi occhi rappresentava l’antitesi antropologica, cioè a livello degli “ideali” imprescindibili e non negoziabili – le concrete questioni istituzionali per lui erano decisamente di seconda importanza.

Queste dimensioni politiche degli “ideali cristiani” – dignità della persona, solidarietà, sussidiarietà, con le loro conseguenze per democrazia, federalismo e giustizia sociale – che sono quei valori universali affermati dai trattati europei fino ad oggi, senza che la “Costituzione europea” avrebbe voluto menzionare il riferimento a Dio, ma esprime senz’altro, almeno, il contributo storico delle radici cristiane, emergono – come è stato tentato di esplicitare – dai discorsi, dalle lettere e dall’agire di Adenauer, De Gasperi e Schuman. La mostra “Unione Europea – Storia di un’amicizia” mette pertanto a disposizione un pezzo da un discorso di tutti e tre che esprime proprio tale dimensione. Per concludere queste riflessioni, ne vorrei aggiungere altri tre pezzi, più brevi, e presi da tre altri discorsi di Adenauer, per confermare che abbiamo a che fare davvero con una costante delle loro convinzioni, e non soltanto di “ornamenti” aggiuntivi a qualche loro discorso “solenne”: Adenauer, certamente, non ha fatto riferimento agli ideali cristiani occasionalmente quando parlava in contesti cattolici. Magari in modo più “laico” e universale, ma cionondimeno con molto insistenza, ci si è riferito in modo costante e continuo.

In un discorso del 20 luglio 1952 Adenauer affermò: «Il nazionalismo, a prescindere dove e in quale forma esso appare, contraddice l’ordine divino. Rende lo Stato, o meglio in ogni popolo il proprio Stato, un idolo. Uno dei principi fondamentali del Cristianesimo è l’amore del prossimo e il rispetto del prossimo. Ora, questo principio non vale soltanto per l’individuo, ma anche per l’atteggiamento dei popoli gli uni nei confronti degli altri. Il nazionalismo offende questo principio del Cristianesimo». L’impatto degli “ideali cristiani” sulla politica e sulla futura forma politica dell’Europa sembra più che chiaro. Poi, il 16 aprile 1953 Adenauer viene a pronunciare: «Ma l’Europa non deve sprofondare. È il cuore della cultura occidentale-cristiana. Ha contribuito l’inverosimile per lo sviluppo dell’umanità. E sue forze spirituali, culturali, religiose, economiche e politiche non sono esaurite», certamente una frase che non ha perso niente della sua attualità, e andrebbe senz’altro riconsiderata. Infine, già il 20 ottobre 1950 aveva detto: «Stiamo vivendo in un tale periodo: in questo periodo si deciderà, se si salveranno per l’umanità la libertà, la dignità umana, il pensiero cristiano-occidentale, o se lo spirito delle tenebre e della schiavitù, questo spirito anti-cristiano sventolerà la frusta sopra l’umanità che sta indifesa a terra. Credetemi, amici, non esagero: parole sono troppo deboli per riportare ciò che minaccia i popoli liberi».

Sono questi gli ideali, espressi dalla penna di Adenauer, ma ritrovabili ugualmente negli scritti di De Gasperi e di Schuman, che segnano i primi passi dell’Europa, fino alla morte di De Gasperi nel 1954, con la quale chiude la “storia dell’amicizia” cioè anche la mostra. Schuman è uscito di scena già prima, consegnando il suo posto al suo successore. Adenauer, dal canto suo, porterà l’eredità di questo primo periodo di costruzione europea verso una nuova era di integrazione europea. Si potrebbe riassumere questo stile politico, che associa tutti e tre, e che si basava sulla “stima amichevole” reciproca, realizzandosi attraverso la traduzione degli “ideali cristiani” in politiche ed istituzioni concrete, anche con il termine “carità politica” (non a caso il titolo di una raccolta recentemente uscita, di discorsi politici di Papa Francesco, che ha definito la politica come «una delle forme più preziose di carità»): cioè una politica orientata non alla nazione e a interessi nazionali, ma – senz’altro attraverso questi – sempre orientata al valore ultimo della persona umana. E, certamente, soltanto guardando a persone, cioè politici, concreti, si possono scoprire queste dimensioni essenziali della politica. Per questo, la mostra che stiamo per inaugurare, rimedia ad un desideratum importante nell’attuale scenario politico europeo.

LA CRISI (DEL SETTANTESIMO ANNO) DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Quando i Padri costituenti hanno pesato, parola per parola, periodo per periodo, il testo della Costituzione, la immaginavano come la Legge fondamentale della Repubblica, come la (sola) Fonte della convivenza civile degli italiani, come l’unico pilastro della vita istituzionale del Paese, ma anche delle libertà e dei diritti dei cittadini (Calamandrei).
E’ vero che, agli artt. 10 e 11, era prevista un’apertura a fonti del diritto sovranazionali, ma è anche vero che quelle previsioni restavano confinate nell’ambito di un fisiologico riconoscimento degli effetti giuridici del diritto internazionale pattizio e alle limitazioni imposte dalla necessità di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni (Conforti).
Sennonchè, è accaduto, nel tempo, che la Costituzione ha progressivamente perduto quel carattere di “sacralità” (Ciampi) di cui sono connotate le Carte fondamentali di uno Stato e ha ceduto la sua “forza” originaria, per un verso, alle spinte di fonti sovranazionali e, per un altro, alle esigenze di un decisionismo governativo che non tollera più il rispetto delle procedure costituzionali.
La prevalenza delle fonti sovranazionali ha messo in crisi (perlopiù) la tenuta dei principi enunciati nella prima parte della Costituzione; le pressioni della c.d. fast democracy hanno stressato, piegandoli, i processi decisionali (fondati sulla centralità del Parlamento) descritti nella seconda parte della Carta.
Il difficile, ma mirabile ed equilibrato, compromesso raggiunto tra le diverse componenti culturali e politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente nella definizione dei principi fondamentali, dei diritti e delle libertà dei cittadini (Elia), che ha retto e governato per decenni, secondo uno schema ordinato e naturale, le relazioni tra lo Stato, i corpi intermedi e i cittadini, è entrato in crisi con l’affermazione del diritto sovranazionale come preminente o, comunque, equivalente, rispetto alle enunciazioni costituzionali.
Prima il diritto dell’Unione Europea e, poi, i principi consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) hanno, infatti, acquisito, in esito a un processo lungo e tormentato (governato, ma, allo stesso tempo, anche subìto, dalla Corte Costituzionale italiana), una “forza”, rispetto, non solo alla legislazione nazionale ordinaria, ma anche alla stessa Costituzione, che impone, ormai, di considerare quelle fonti prevalenti rispetto alla stessa Legge fondamentale della Repubblica.
O, comunque, di ritenerle, se non prevalenti in via automatica, oggetto di un giudizio di bilanciamento, affidato alla Corte Costituzionale, con i valori e i principi cristallizzati nella Carta (nello scrutinio di compatibilità con la stessa CEDU e con i Trattati europei delle disposizioni legislative nazionali sospettate di confliggere con essi).
I valori consacrati dai costituenti come fondativi della convivenza repubblicana hanno ormai perduto quel carattere di intangibilità e risultano sempre più destinati a soccombere a fronte dell’esigenza di assicurare l’attuazione dei principi europei (per come cristallizzati nei Trattati) o dei diritti della CEDU (che, è bene ricordarlo, non sempre coincidono con quelli costituzionali, soprattutto nella vincolante interpretazione che ne offrono le Corti legittimate a chiarire il senso e la portata dei rispettivi sistemi).
Come si vede, dunque, la Costituzione ha perso quel rango di Legge suprema, alla quale (sola) devono obbedire le leggi ordinarie, per acquisire quello, meno nobile, di legge cedevole, rispetto al diritto dei Trattati dell’UE, o di parametro equivalente e concorrente con le previsioni della CEDU nella verifica della costituzionalità delle norme ordinarie.
Per quanto mitigata dai principi del “margine di apprezzamento” (per come definito dalla Corte di Strasburgo) e dalla teoria dei “controlimiti” (Corte Cost., sent. n.238 del 2014), che escludono una preminenza assoluta e indefettibile dei Trattati europei e della CEDU su confliggenti valori costituzionali, la dialettica tra le predette fonti sovranazionali e la Carta si risolve, in ogni caso, in un indebolimento di quest’ultima e in una sua (inevitabile) degradazione dal rango di Legge suprema dell’ordinamento.
Né potrebbe validamente obiettarsi l’astratta inconfigurabilità di un conflitto tra le fonti confrontate: la diversa conformazione e declinazione, in esse, di alcuni principi e diritti fondamentali non solo non esclude profili di antinomia, ma, al contrario, li enfatizza, nella misura in cui proprio il carattere fondativo e generale di essi esige un loro pieno e incondizionato rispetto.
E’ vero che si è creato un “rapporto di benefica circolarità” (Caravita) tra i diversi sistemi di tutela (nazionale e sovranazionale) dei diritti fondamentali, ma è anche vero che l’idea originaria dei costituenti di disegnare un’architettura, anche valoriale, fondante, al quale avrebbe dovuto conformarsi, in via esclusiva, l’organizzazione e l’ordinamento della Repubblica è, comunque, naufragata sugli scogli del diritto sovranazionale che si è progressivamente affermato come prevalente, equiparato o concorrente, rispetto alla Costituzione.
Senza avventurarci in un giudizio politico sugli effetti di questo progressivo indebolimento della Carta fondamentale, ci limitiamo a registrare le conseguenze del processo giuridico, ma anche culturale, descritto, non senza mancare di rilevare che le nuove fonti non paiono sorrette dalla medesima legittimazione politica che ha ispirato l’Assemblea Costituente.
Ma la Costituzione è entrata in crisi anche per una diversa e ulteriore ragione.
Il fondamento parlamentare dei processi decisionali (che, secondo Kelsen, connota in maniera essenziale il carattere democratico di un regime), il pluralismo democratico, il ruolo dei corpi intermedi, il principio di rappresentatività che erano stati concepiti in un’ottica di amministrazione plurale e condivisa della Res Publica hanno progressivamente ceduto alle esigenze di un decisionismo rapido, imposto dai tempi stringenti della recente crisi economica, e alle nuove modalità di comunicazione implicate dalla diffusione dei new media (Urbinati).
Si tratta di fenomeni recenti che hanno, a loro volta, prodotto gli effetti della c.d. democrazia immediata e, in ultima istanza, della disintermediazione (Stringa), nell’attuazione di un processo di divaricazione tra la legalità procedurale e quella sostanziale, tra la Costituzione formale e quella materiale (secondo l’originaria formulazione di quest’ultima nozione da parte di Mortati).
Si assiste, in altri termini, a una divergenza che non intacca direttamente l’ossequio formale ai canoni procedurali descritti nella Carta, ma che incide profondamente, alterandola, sull’idea stessa di Repubblica che aveva ispirato i costituenti e sul funzionamento delle istituzioni, da essi immaginato secondo un modello di “democrazia mediata” (Duverger).
Si rivela, in particolare, tradito lo spirito di una democrazia parlamentare, plurale, partecipata, aperta al contributo delle società di mezzo (tra il cittadino e lo Stato), secondo l’archetipo della “democrazia consensuale” descritto da Lijphart.
L’utilizzo sviato e abnorme del decreto legge, l’abuso delle questioni di fiducia, l’interpretazione (sovente) monocratica dei poteri del Presidente del Consiglio, lo spostamento del baricentro decisionale dal Parlamento al Governo, la prevalenza della finanza sulla politica, la compressione, se non lo svuotamento, del ruolo dei corpi intermedi nei processi decisionali e, in definitiva, il sacrifico del pluralismo hanno, infatti, snaturato, nell’ambito di un “processo di presidenzializzazione” (Calise, Fabbrini), la concezione originaria, evincibile dall’assetto istituzionale disegnato nella Costituzione, della decisione politica come consacrazione di una democrazia autenticamente rappresentativa e fedele al principio maggioritario.
Sarebbe miope, tuttavia, ignorare che le torsioni appena segnalate sono il prodotto di un’esigenza di efficientamento e di semplificazione dei processi decisionali e, probabilmente, la conseguenza di una certa obsolescenza del loro disegno costituzionale, ma sarebbe altrettanto ingenuo trascurare di considerare come le citate deviazioni decisioniste finiscano, secondo la dinamica propria dell’eterogenesi dei fini, per compromettere il rapporto tra il cittadino e lo Stato, che non può che restare interpretato anche dagli organismi intermedi, e, in definitiva, per comprimere l’indefettibile esigenza di assicurare una gestione plurale e partecipata della Res Publica.
Le istanze, per lo più generate dalla crisi economica, di una democrazia decidente sono state, peraltro, aggravate dagli effetti più nefasti dell’uso dei social media da parte dei leader politici, che hanno pensato, così, di prescindere dalla mediazione della rappresentanza e di attingere, direttamente dagli utenti dei network, il consenso e la legittimazione per la loro azione politica, nell’ambito di una inedita forma di democrazia, definita, infatti, “ibrida” (Diamanti), in quanto snaturata dalla partecipazione diretta dei governati, via web, al dibattito pubblico.
Così come l’utopia di una democrazia diretta, e, cioè, senza rappresentanza, interpretata come “salvifica” da alcuni movimenti politici, rischia di conculcare ulteriormente lo “spazio di mediazione” (Campati) e quei processi di ascolto e condivisione, che, se rettamente intesi, permettono l’adozione di decisioni meditate, consapevoli, condivise e, perciò, più efficaci e socialmente sostenibili.
Ma è possibile prescindere dai meccanismi della rappresentanza e dal concorso plurale dei corpi intermedi nella formazione della decisione politica? O non si rischia, optando per un’esegesi diretta e sganciata dalla rappresentanza politica della volontà popolare, di aggravare la crisi della democrazia e di tradire lo spirito voluto dai costituenti di una partecipazione larga ai processi di public choice?
Sembra chiaro che il combinato disposto delle forzature connesse a un decisionismo spinto, all’accentramento nell’Esecutivo della decisione politica e alla disintermediazione nell’interpretazione e nella ricerca del bene comune producono l’effetto di una deviazione dallo schema di una democrazia parlamentare e plurale, che, per quanto “tarda” (Ornaghi), resta democrazia, consacrato nella Carta fondativa.
Così come appare difficilmente contestabile che le interpretazioni più azzardate di una democrazia decidente finiscono per conculcare le esigenze, pure cristallizzate nella Costituzione (o, comunque, implicite in essa), della partecipazione degli enti intermedi, sia pubblici, sia privati (nelle varie declinazioni dell’associazionismo), nell’amministrazione della Repubblica.
L’idea di contenere o annullare le spinte dell’anti-politica con l’immediatezza della relazione verticale tra governanti e governati e con l’uso (soprattutto, se non solo) mediatico della comunicazione politica si rivela, peraltro, illusoria, se non pericolosa.
Il concorso del cedimento della Costituzione alle pressanti esigenze di assicurare il rispetto delle fonti sovranazionali e del piegamento delle procedure istituzionali alle istanze della fast democracy hanno, in definitiva, certificato la crisi della Carta, sia per aver perso il carattere di Legge suprema dell’ordinamento, sia per essere concretamente disattesa, nella parte dedicata alle procedure di formazione della volontà politica.
Forse è, allora, arrivato il momento di ascoltare l’ammonimento di Luigi Sturzo, quando osservava che: “La Costituzione è il fondamento della Repubblica democratica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal parlamento, se è manomessa dai partiti, se non entra nella coscienza nazionale, anche attraverso l’insegnamento e l’educazione scolastica e post-scolastica, verrà a mancare il terreno sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà”.
Il grande pensatore e sacerdote siciliano aveva intuito molto lucidamente, con una riflessione ancora valida, che la Costituzione resta il baluardo della nostra libera convivenza civile e che ogni cedimento della sua architettura costituisce il più grave pericolo per la tenuta delle istituzioni, ma, ancor prima, per la dignità e le libertà della persona (sul cui primario rispetto si fonda la costruzione democratica consacrata nella Carta del 1948).
Non a caso Pietro Calamandrei ha definito la Costituzione “presbite”, proprio per la sua capacità di guardare lontano e di conservare la sua validità nel tempo, in ragione del carattere universale dei principi da essa consacrati.
Si tratta, allora, sia di ripristinare, sia di aggiornare, ma mai di rinnegare o di disperdere, la valenza fondativa e costituiva dell’architettura costituzionale.
Per un verso, occorre, allora, garantire il rispetto per i valori che i Padri costituenti hanno identificato come fondanti la convivenza repubblicana.
Spetterà, in questo senso, alla Corte Costituzionale, quale custode della Carta, assicurare, nel giudizio di bilanciamento con i principi sanciti dalla CEDU e dal Trattato di Lisbona, un’adeguata ed effettiva protezione dei diritti e delle libertà scolpiti nella prima parte della Costituzione (di guisa che non vengano traditi o snaturati).
Un uso accorto e saggio del “margine di apprezzamento” e dei “controlimiti” servirà, in particolare, ad arginare derive normative incoerenti con i valori costituzionali e, quindi, ad assicurare un’adeguata protezione delle regole e dei principi che i costituenti hanno concepito come indefettibili e costitutivi dell’ordinamento repubblicano.
Per un altro verso, e nonostante il fallimento dei diversi tentativi di riforma costituzionale già esperiti, si deve concepire una revisione condivisa della seconda parte della Carta, che assicuri un più efficace e agile funzionamento delle istituzioni e dei processi decisionali e una semplificazione dei meccanismi di rappresentanza, ma che, allo stesso tempo, non rinunci al pluralismo e al ruolo sussidiario dei corpi intermedi e delle autonomie.
Spetterà, inoltre, alle società intermedie, ivi compresi i partiti politici, infrangere lo schema di autoreferenzialità burocratica nel quale paiono imprigionati e recuperare una legittimazione rappresentativa e una nuova credibilità, anche mediante l’abbandono di stantìe liturgie concertative e un uso intelligente delle nuove tecnologie.
In una società complessa, come quella contemporanea, appare, infatti, impensabile l’assenza di uno spazio di mediazione e di interpretazione dei bisogni delle comunità di base, che non può che restare affidato, in via naturale, proprio ai corpi intermedi, secondo la concezione della necessità della c.d. “infrademocrazia” (de Tocqueville, Sartori).
La salvezza della democrazia non può essere consegnata a malintese e fallaci concezioni di una gestione solo diretta, immediata e telematica del rapporto tra governanti e governati o a leadership costruite al di fuori del circuito della rappresentanza democratica.
La convivenza libera e civile di un popolo è un valore troppo alto per essere svenduto ai tempi e agli interessi della finanza o confinato nell’agorà virtuale, irresponsabile e distorta dei social media e della rete.

di CARLO DEODATO

Il ruolo della cultura nella scelta di emigrazione

Di Riccardo Turati, studente del Dottorato in Economia presso l’Université Catholique de Louvain (Belgio).

Estratto:

“I nostri risultati mostrano che chi vuole emigrare dai paesi MENA (Middle East and North Africa) ha norme e valori simili ai paesi OCSE per quanto riguarda l’importanza della religione ed il ruolo della donna nella società: essi sono meno religiosi e hanno una visione liberale sul ruolo della donna, in particolare i giovani.

Da un lato dunque informare l’opinione pubblica a riguardo potrebbe influire positivamente sull’atteggiamento dei cittadini (europei e non) nei confronti dei migranti. Allo stesso tempo questo risultato non deve essere sopravvalutato, in quanto la distanza culturale tra nativi OCSE e potenziali migranti è solamente 9% inferiore alla distanza culturale tra nativi OCSE e la popolazione dei paesi MENA.

Per quanto riguarda i paesi d’origine, se i potenziali migranti (meno religiosi e più aperti sul ruolo della donna) riescono effettivamente ad emigrare, la distribuzione dei valori di questi paesi si potrebbe spostare verso una maggiore religiosità ed una visione più conservatrice del ruolo della donna, in quanto chi emigra porta con sé il proprio bagaglio di valori. Tale processo di selezione culturale degli emigranti potrebbe dunque avere un impatto negativo sulla discriminazione del donna, sul processo di modernizzazione e su altri fattori che possono influenzare la loro crescita economica. Tuttavia il nostro studio mostra che data la percentuale di potenziali migranti verso i paesi OCSE (12% in media) e la ridotta differenza culturale in diversi gruppi della popolazione, i tratti culturali nei paesi d’origini non vengono modificati in maniera sostanziale. Inoltre la presenza di migranti nei paesi OCSE può favorire la trasmissione nei paesi d’origine di norme e valori presenti nei paesi di destinazione, i quali possono avere un’influenza positiva sullo sviluppo dei paesi MENA”.

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A CHE PUNTO E’ LA NOTTE ?

Sono davvero la Russia e l’Islam i (soli) nemici dell’Occidente? O piuttosto, i pericoli dell’Occidente vengono dal suo interno?

L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e della società, e non tollera visioni riduttive della libertà.

La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nel sue varie e tragiche declinazioni).

L’Uomo occidentale non riconosce più alcuna Autorità, e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo.

Le misere vicende politiche nazionali impediscono (ai più) una visione lar­ga della crisi profonda, e, per certi, versi, irreversibile, in cui è sprofondata la ci­viltà occidentale. L’architettura politica e culturale su cui si sono rette le società europee e quella americana, pur con i rivolgimenti degli ultimi secoli, è stata edificata su architravi solide e stabili, che, tuttavia, cominciano a mostrare pro­fonde crepe e inquietanti segni di cedi­mento. Il Presidente Trump ha recente­mente avvertito l’esigenza di difendere l’Occidente dal pericolo della Russia. Co­sì come si sente ripetere, come un man- tra, che la civiltà occidentale è minaccia­ta dal fondamentalismo islamico. Ma so­no davvero la Russia e l’islam i (soli) ne­mici dell’Occidente? 0, piuttosto, i pericoli per l’Occidente vengono (soprat­tutto e innanzitutto) dal suo interno?

Prima di rispondere a queste domande, si deve comprendere l’essenza dei valori dell’Occidente. Con l’eccezione delle aberrazioni totalitarie, la civiltà occiden­tale, nei suoi naturali e più recenti appro­di, si è costruita sui valori della libertà e del primato della persona (e della sua dignità) sullo Stato; della sacralità della vita e della universalità dei diritti; sul principio di responsabilità e su quello della rappresentanza democratica (tem­perato dal canone della sussidiarietà).

La sintesi mirabile, che si è consolidata nel pensiero dell’Occidente, tra filosofia greca, diritto romano e fede cristiana ha condotto alla costruzione di un sistema culturale e di pensiero che è riuscito a coniugare la più autentica espressione della natura dell’uomo con lo sviluppo di una società ordinata e libera.

Le vette raggiunte dalla speculazione dei filosofi greci hanno, in particolare, aperto uno squarcio su una dimensione ideale dell’esistenza dell’uomo e delle sue relazioni; le regole del diritto roma­no, incentrate sulla responsabilità perso­nale e civica del pater famìlìas, hanno con­solidato l’idea che ogni convivenza uma­na ordinata deve fondarsi sul principio di giustizia delVunicuiqm suum (già presen­te nelle opere di Platone e di Aristotele e poi consacrato da Ulpiano come uno dei cardini del diritto); la rivelazione e la tra­dizione cristiana hanno illuminato di una luce soprannaturale l’armonia delle civil­tà classiche, con cui si sono coniugate, stabilendo un legame inscindibile e vir­tuoso tra la centralità della persona e i suoi doveri verso il prossimo e verso la Res Publica.

Il connubio di fede e ragione (già indi­cato come indissolubile da sant’Agostino, da san Tommaso, da Pascal e, infine, ri­preso da Benedetto XVI nella celebre Lectio ìnagistralis tenuta a Ratisbona) ha costituito, in particolare, il fondamento dell’elaborazione e dell’attuazione di un sistema che si fonda sì sulla logica e sul diritto, ma anche su una prospettiva salvi­fica dell’esistenza umana.

Si è così sviluppata, seppur con un per­corso non sempre lineare (il sonno della ragione ha anche prodotto i mostri della degenerazione giacobina della Rivoluzio­ne francese, del collettivismo socialista e ateo e del totalitarismo pagano dello Sta­to nazionalsocialista), un’idea di società e di persona che trascende ogni approccio meramente organizzativo e orizzontale e che si nutre, al contrario, della naturale aspirazione dell’uomo a valori universali e immutabili.

L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e, insieme, della società, e non tollera visio­ni riduttive della libertà dell’uomo o in­terpretazioni materialistiche della convi­venza civile.

La cultura occidentale presuppone e genera una insopprimibile ricerca, che Oswald Spengler (ne “Il tramonto dell’Oc­cidente”, troppo spesso oggetto di esegesi deviate e ideologiche) definiva (prima) apollinea e (poi) faustiana, della dimen­sione ideale, ma non per questo utopisti­ca o irrazionale, del benessere (meglio: della felicità) dell’uomo.

Per questa sua visibile aspirazione in­cessante verso il bene della persona e della società l’Occidente ha assunto il ruolo di guida nella diffusione nel mondo del valore della libertà e, senza idealiz­zarne la storia o sminuirne gli errori (che pure non sono mancati), ha garantito l’as­similazione globale e, spesso, la stessa protezione dei diritti naturali dell’uomo.

Sennonché, la civiltà occidentale sem­bra, ormai da tempo, aver abdicato a que­sta sua naturale missione, avendo ceduto ai germi interni della dissoluzione e al morbo intestino della disgregazione della sua struttura ontologica. E’ vero che, come osserva Umberto Ga­limberti, l’Occidente contiene già nella sua radice lessicale l’idea del tramonto, ma sembra che recentemente il crepusco­lo della luce che esso diffondeva si sia fatto sempre più scuro (tanto che il socio­logo Harold Bloom ha definito l’America come “terra dell’imbrunire”), secondo la regola (della fisica aristotelica) consacra­ta nel motto motus infine velocior.

La società occidentale contemporanea ha, infatti, da tempo rinunciato alla ricer­ca del significato dell’esistenza, ha abdi­cato a ogni prospettiva salvifica della vi­ta, ha smarrito il senso del sacro (come mirabilmente argomentato da Ida Magli in “Dopo l’occidente”), ha bandito Dio dalla vita pubblica e si è chiusa in un’or­ganizzazione materialistica e, in fondo, disperata delle relazioni umane.

Il sistema su cui si reggono, ormai, le convivenze occidentali si fonda sul solo predominio della tecnica e della finanza sulla dignità e sulla libertà dell’uomo.

L’uomo occidentale, soprattutto quello metropolitano, è schiacciato da una rego­lazione ossessiva di ogni aspetto della sua esistenza, oppresso da una presenza inva­dente e pervasiva dello Stato.

E’ stordito dagli smartphone e inebeti­to dai social network.

Non crede più a niente e a nessuno. Anzi, peggio, è pronto a credere al primo politicante che gli promette, con misera­bili tecniche illusionistiche, un frammen­to di felicità.

A ben vedere, tutti i pilastri su cui è stata edificata l’architettura della civiltà occidentale stanno cedendo o si sono già sgretolati (in un processo di crisi già in­tuito, nella prima metà del secondo scar­so, da Paul Hazard, “La crisi della co­scienza europea”, e Robert Musil, “L’uo­mo senza qualità”).

La dignità della persona è vilipesa e mortificata dalle preminenti e oppressive regole della scienza e dell’economia (ap­plicate senza alcuna considerazione delle istanze insopprimibili e naturali dell’in­dividuo), in tutti gli ambiti dell’esistenza umana.

La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nelle sue varie e tragiche declinazioni).

La libertà (anche di pensiero e finan­che di parola) dell’uomo (nell’espressio­ne più pura del pieno sviluppo della per­sonalità e nei rapporti con lo Stato) è con­culcata dall’attuazione indefessa dei dog­mi orwelliani di una nuova religione civile, i cui riti si celebrano nel main- stream del pensiero unico (con le aberra­zioni già stigmatizzate da Robert Hughes, “La cultura del piagnisteo”), e da una di­sciplina minuziosa e invasiva delle attivi­tà economiche, oltre che da una innatura­le oppressione fiscale.

Il principio di responsabilità, su cui so­no stati edificati gli assetti più virtuosi delle società contemporanee, è oscurato da una malintesa e incessante rivendica­zione di (soli) diritti, così assordante da provocare l’oblio dell’etica dei doveri.

La ricerca del significato della vita e la prospettiva della sua redenzione sono or­mai tristemente sostituite da un’affanno­sa brama di divertimenti, beni materiali, sballo, svago, sesso, droghe, che pare esaurire, in sé, il senso dell’esistenza, tanto che l’individuo, avendo smarrito la sua dignità, è ormai svilito al rango di un consumatore seriale di piaceri.

L’uomo occidentale è confuso da una girandola vorticosa di informazioni e di notizie, così da disconoscere persino l’i­stanza più intima della ricerca della veri­tà. Ha sostituito l’affermazione di principi assoluti con un relativismo fiacco e steri­le, che rinuncia in radice all’idea stessa della verità.

E’ così indebolito da non essere più in grado di sacrificarsi per niente e per nes­suno, da ignorare lo stesso concetto di sacrificio, nelle sue espressioni più nobi­li.

Non riconosce più alcuna Autorità e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo, irretita come appare, nella sua guida temporanea, in una visione (solo o soprattutto) orizzontale, sociale e imma­nente del mondo.

D’altra parte il rifiuto per l’Autorità, anzi: il disprezzo per essa (recentemente indirizzato verso quella politica), era già stato indicato come una delle cause prin­cipali della crisi della società contempo­ranea e della sua conseguente (o presup­posta?) anarchia strisciante da Christofer Lasch (“La cultura del narcisismo”).

L’uomo occidentale non riesce nean­che più a immaginare il suo futuro, tanto che non fa più figli, che sono il primo e il più chiaro segno della vitalità di una so­cietà. La denatalità impedisce, così, il na­turale rinnovamento della vita e delle energie della comunità e ne accelera il crepuscolare e malinconico invecchia­mento, in un’agonia (che pare) senza spe­ranza.

L’Occidente, così come lo abbiamo co­nosciuto, si sta tristemente, ma inesora­bilmente, spegnendo, in un processo di dissoluzione interna che ricorda, per molti versi, il declino dell’Impero Roma­no, quando la degenerazione morale, l’ar­rivo dei barbari, la crisi demografica, la corruzione hanno prodotto il disfacimen­to di un’organizzazione che pareva incrol­labile e spalancato le porte al Medioevo.

Sembra un percorso irreversibile di decomposizione, lento ma inesorabile, di un organismo (sempre meno) vitale (lo storico americano Andrew Michta la defi­nisce decostruzione dell’Occidente), cela­to ai più dall’ebrezza dei consumi o, per converso, dalle preoccupazioni economi­che.

Quando l’uomo e la società in cui vive perdono il senso della loro esistenza, rin­negano la loro identità e la loro tradizio­ne (come accade simbolicamente, e tragi­camente, con l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, così come con la rinuncia della principali Università sta­tunitensi allo stesso insegnamento obbli­gatorio della Western Civilization) e non hanno più fede in alcun valore che tra­scenda la dimensione solo materiale del consumo e del piacere, appare difficile immaginare una palingenesi.

Quando il denaro vale più dell’uomo, sembra impossibile scongiurare il collas­so del sistema.

Ed è arduo non pensare a un suicidio (o a una strana forma di eutanasia).

I nemici, per rispondere ai quesiti in- ziali, sono, infatti, figli degeneri e spuri dello stesso Occidente.

Si dirà che è una visione (troppo) pessi­mistica del presente (e del futuro) e (trop­po) ottimistica del passato. Forse è vero.

Ci sono ancora luci (oggi) che possono giu­stificare una speranza, così come ci sono ombre tragiche nella storia dell’Occiden­te, ma il processo è quello indicato: lo smarrimento, la confusione, la paura, la debolezza hanno preso il posto di quella energica tensione ideale verso il bene dell’uomo che ha animato, per secoli, la vita della civiltà europea.

E’, quindi, tutto perduto?

La civiltà occidentale è, dunque, desti­nata a essere sostituita da oscure, ma più forti e più vitali, culture, che, tuttavia, ignorano i principi di libertà, democra­zia, dignità dell’uomo, sacralità della vita, rispetto per la donna?

Difficile a dirsi. Sembra che manchi la forza per una rinascita. Sembra che l’Oc­cidente non abbia più l’energia, da solo, di rigenerarsi, annullato com’è da un ni­chilismo senza speranza.

Forse è necessario uno scatto traumati­co della Storia, perchè l’Occidente risco­pra i suoi valori, i suoi ideali, il senso della sua missione. Forse, come nella vita delle persone, è necessaria una tragedia, per un nuovo inizio.

La rigenerazione dell’Occidente non può, tuttavia, che passare da un nuovo umanesimo. Un umanesimo cristiano.

Non indistinto e politicamente corretto.

Ma cristiano, che si fondi, cioè, sul ricono­scimento della persona come essere natu­ralmente libero e destinato alla felicità (e alla salvezza) per mezzo della verità e dell’amore.

“Sentinella, a che punto è la notte?”

(Isaia, 21,11).

di CARLO DEODATO

pubblicato su “IL FOGLIO” inserto, 13 settembre 2017

LA FORZA COMUNICATIVA DEI TERRORISTI E LA NOSTRA IMPREPARAZIONE AGLI ATTACCHI

Questi mesi sono drammaticamente punteggiati di eventi che hanno a che fare col terrorismo islamista. Il ritmo è di oltre un caso a settimana legato a quel terrorismo: ciò conferma la diffusività e la pervasività della guerra ibrida in corso; l’efficacia della propaganda di Daesh e la sua attrattività; l’elevata probabilità di accadimento associata a una equivalente imprevedibilità del manifestarsi di queste minacce. Vale la pena soffermarsi soprattutto sulle novità delle ultime 48 ore. “La misura è colma” sembra essere il nuovo mantra della politica nazionale e internazionale. Il primo ministro May lo ha affermato con un “quando è troppo è troppo” che mostra la decennale incapacità britannica di governare la multietnicità imperiale, concentrata nelle città dell’Isola madre. La novità di questa affermazione sta nel riconoscimento di essere andati troppo oltre, per avere concesso quanto dal terrorismo è stato sfruttato, e di proporre una riorganizzazione securitaria della società britannica.

Il medesimo senso, di misura superata, si ritrova nella rottura tra Emirati, egiziani e sauditi con i vecchi amici qatarini. A quanto pare questi ultimi hanno flirtato troppo con il terrorismo. Il wahabismo che lega Arabia Saudita e Qatar è all’origine della stagione di terrorismo islamista che stiamo vivendo ed entrambi i paesi sono responsabili della crescita e del sostentamento di al Qaida, Daesh e compagini jihadiste. La novità sta nell’accusa di vicinanza all’Iran mossa al Qatar dai suoi ex amici: le relazioni pericolose con il Satana iraniano, additato come la causa di tutti i mali nella recente visita di Trump proprio ai sauditi, sembrano consumare un tradimento sunnita-salafita-wahabita. Di certo questa frattura ha un impatto rilevante sui circuiti economici e può riorganizzare il terrorismo nel braccio armatissimo di una guerra sempre meno per procura, ma più diretta, più globale e più efficace nel consumare la recente disponibilità di armi acquisita dai sauditi.

Gli altri due eventi delle ultime 48 ore sono l’attentato di Londra e il disastro di Torino legati dal filo rosso della “falsa informazione”. A Londra l’attacco con l’automobile scagliata sulla folla da parte dei terroristi non rileva nulla di nuovo eccetto l’impiego di false cinture esplosive. Armi inutili a uccidere ma utili a provocare paura e rendere più facile un’azione con coltello. False cinture che non richiedono competenza tecnica ma inventiva comunicativa e possono essere realizzate rapidamente. False cinture il cui unico risultato certo è la morte degli attaccanti come martiri, uccisi dall’intervento delle forze speciali. Eccoci ai terroristi fai da te, decisi e frettolosi nell’organizzarsi, ma che introducono la comunicazione al livello tattico della azione.

A Torino, centinaia di feriti di cui un paio gravissimi, per un’onda di folla che schiaccia e travolge, lanciata da un falso allarme, forse un botto, che materializza la paura e la reazione. Non mettiamoci a discutere di psicologia delle folle: quanto questa disciplina insegna è chiaramente scritto nella descrizione dell’evento. La folla ha reagito come prevedibile a seguito di un segnale di allarme che è interpretato nel quadro ampio della paura di essere vittime di un attacco terroristico. Il tentativo di decontestualizzare il meccanismo interpretativo attivatosi a Torino dallo scenario di chi ha negli occhi Londra e Parigi è una “pippa” mentale che genera vulnerabilità. Non si tratta neppure di psicosi ma di una reazione a una attenzione diffusa, la possibilità di un attacco terroristico, in assenza di competenze specifiche. Anche a Torino una informazione falsa produce effetti nel quadro di quello che diventa un “attacco”: il primo in Italia dovuto alla vulnerabilità della gestione di questo tipo di eventi. Complici istituzioni silenti perché infingarde. Insomma due false comunicazioni, due risultati diversi, un comune denominatore: il terrorismo. Per il futuro non possiamo fare altro che aspettarci, senza potere prevedere, questo genere di eventi: Londra e Torino. Il dramma è che il pubblico è consapevole del rischio ma non ha i mezzi per gestirlo e le istituzioni non rispondono a questo bisogno. La sicurezza non si gestisce solo con lo splendido lavoro preventivo delle agenzie e con quello seguente dei servizi di emergenza. La sicurezza si promuove fornendo ai cittadini sia i codici interpretativi sia i codici operativi per comprendere e poi attivarsi in caso di evento. I cittadini lo chiedono e sono disponibili a considerare questa (in)formazione. Insomma, le ultime sono 48 ore che, malgrado gli sforzi che troppi fanno per disconnettere gli eventi che le punteggiano da una lettura coerente con lo scenario drammatico della “Terza Guerra Mondiale a capitoli”, ci riportano inevitabilmente all’attualità del conflitto diffuso. Il dato positivo è che l’aumento della consapevolezza di questo scenario tra i cittadini riduce la possibilità di inganno e dissimulazione finora perpetrata dai governi.

a cura di Marco Lombardi DIRETTORE C.E.T.Ra

Articolo originale

IS NATO INDISPENSABLE? THE BRUSSELS SUMMIT

Giovedì 18 maggio presso la Camera dei Deputati si è svolto un seminario internazionale dal titolo: “Is NATO indispensable? The Brussels Summit”, organizzato congiuntamente dalla NATO Defence College Foundation, dal NATO Defence College e dalla Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della NATO.

La struttura della NATO, che nasce come alleanza difensiva utile a contrastare un nemico dall’identikit definito, nel vertice di Varsavia dell’8-9 luglio 2016 ha subito un lento ma importante cambiamento che trasforma in uno strumento condiviso di sicurezza per affrontare le minacce emergenti. In merito a tale aspetto le tematiche approfondite durante il summit, quali la lotta al terrorismo, la crisi mediorientale, l’incessante fenomeno migratorio, l’effetto Brexit e il rapporto con la Russia, hanno permesso di formulare una nuova posizione per l’Occidente, dove la visione globale dei focolai di crisi dovrà fare la differenza e la NATO potrà essere ancor di più il fattore di cambiamento. Chiaramente perché questo accada è bene che la NATO sappia rinnovarsi: al suo interno presenta diverse anime frutto della pluralità di identità appartenenti agli stati membri, caratteristica questa che, pur non intaccando il futuro dell’alleanza, può determinare un deficit di gestione delle emergenze, soprattutto nel monitoraggio dei “fronti caldi” non riuscendo a costituire una linea di governo univoca.

Analizzando i differenti scenari di interesse globale nei quali la NATO opera, il Mediterraneo ha acquisito nuovamente primaria importanza per la sicurezza di Unione Europea, Russia e Medioriente e una rilevanza strategica nel settore energetico. Il Mediterraneo, che è teatro delle tensioni in Medioriente – con la NATO che ha rafforzato militarmente il confine orientale, producendo una “deterrenza leggera” e alzando il livello di tensione in perfetto stile post guerra fredda – sta vivendo una rinnovata centralità politica nel post “primavere arabe” anche nell’incontro-scontro tra due continenti – quello europeo e quello africano – mettendo a dura prova con gli ingenti flussi migratori le popolazioni degli stati che si affacciano su di esso.

Per quanto concerne il fronte est europeo, la crisi in Crimea, Ucraina e Georgia ha messo a nudo la criticità sistemica della NATO, facendo registrare una instabilità politico-sociale dovuta alla mancanza di una unione d’intenti tra gli stati membri.

La guerra ibrida promossa dai filo-russi in Ucraina e l’utilizzo di nuove dinamiche belliche messe in atto per destabilizzare la zona, impongono alla NATO una revisione delle strategie e degli strumenti per garantire una presenza assidua sui territori, e un’azione per maturare l’interoperabilità militare.

Le nuove sfide dell’alleanza passano inevitabilmente attraverso l’individuazione e l’elaborazione di elementi e strategie volte a aumentare in maniera perentoria il livello di sicurezza, estendendo i contatti soprattutto con le altre organizzazioni internazionali per stabilire le linee guida in merito alle nuove politiche di sicurezza globali. La caratteristica di essere un’organizzazione intergovernativa con comprovata esperienza militare rappresenta un elemento di assoluto valore e distintivo rispetto ad altri enti internazionali. In tal senso, la NATO ha l’obbligo di trasformarsi in una piattaforma di scambio di informazioni per favorire il dialogo soprattutto tra le forze armate dei paesi non membri, garantendo così ulteriore stabilità oltre il proprio perimetro.

a cura di Emiliano Plescia

I LIMITI DELLA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA

Un’idea liberale di revisione delle funzioni pubbliche

Una nuova consapevolezza dei rapporti tra cittadino e pubbliche amministrazioni

A far data dal celebre (e impietoso) rapporto Giannini del 1979, nel quale si denunciava uno Stato che “non è un amico sicuro e autorevole, ma una creatura ambigua, irragionevole, lontana”, è cominciata a maturare una riflessione sull’esigenza di ripensare e di riequilibrare il rapporto tra l’autorità pubblica e i cittadini.

Si è progressivamente abbandonata la concezione di uno Stato hegeliano ed autoritario, in favore di una diversa, e, per certi versi opposta, idea di una pubblica amministrazione al servizio del cittadino.

Il moloch dello Stato, dinanzi al quale sacrificare i diritti e gli interessi degli amministrati, ha ceduto il passo alla visione di un potere pubblico orientato all’erogazione, in regime di efficienza ed efficacia, di servizi pubblici.

L’interesse pubblico è stato via via interpretato secondo coordinate differenti; da un’idea di bene comune concentrata su (ed esaurita da) valori statuali, distinti da quelli dei cittadini, a una sua esegesi fondata sulla coincidenza dell’interesse generale con quello di una cittadinanza attiva ed esigente.

Senza ripercorrere le conosciute tappe del percorso evolutivo appena accennato, merita di essere simbolicamente ricordato che dagli anni novanta si è avviato un percorso di trasformazione del rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione, iniziato con la legge sul procedimento amministrativo del 1990, che ha riconosciuto un ruolo partecipativo al cittadino nel processo di formazione del provvedimento, proseguito, alla fine degli anni novanta, con l’organizzazione delle funzioni pubbliche secondo il criterio del federalismo amministrativo, transitato dall’introduzione della class action pubblica, che ha codificato il principio di un’inedita esigibilità di un’amministrazione di qualità, e (finora) approdato nella definizione di “un nuovo paradigma” (Consiglio di Stato, parere n.839 del 2016), cristallizzato nella fissazione di un termine di consumazione del potere di autotutela decisoria, con la definitiva consacrazione del valore dell’affidamento del cittadino sulla stabilità dei titoli abilitativi e del canone della certezza dei rapporti giuridici prodotti da decisioni amministrative.

Questa nuova coscienza degli equilibri implicati da una corretta organizzazione dell’esercizio delle funzioni pubbliche e, soprattutto, degli effetti di un’amministrazione di qualità sulla crescita economica e sulle libertà dei cittadini ha fondato le politiche pubbliche degli ultimi decenni, che hanno tentato, con risultati alterni, di interpretare l’amministrazione secondo la (diversa) logica produttiva del servizio al cittadino-utente (declinando, fino agli approdi più avanzati, la visione riformatrice, liberale e proattiva di Benedetto Croce).

Le politiche di semplificazione

La direttrice più vistosa delle politiche riformatrici è senz’altro quella della semplificazione, nella sua duplice declinazione: normativa e amministrativa.

La semplificazione normativa si è preoccupata di migliorare la qualità della regolazione (in coerenza con le raccomandazioni diramate da organismi sovranazionali e, in particolare, dall’OCSE), sia con la raccolta delle norme afferenti a un medesimo settore in testi unici e in codici, sia con la delegificazione, mediante l’abbassamento della fonte di produzione del diritto, ai fini di una più snella e agile manutenzione della normativa, sia, infine, per mezzo della predisposizione di strumenti istruttori che precedono (l’analisi di impatto della regolamentazione) e seguono (la verifica di impatto della regolamentazione) l’intervento normativo, onde ricavarne tutte le informazioni necessarie al concepimento e, in ipotesi, alla correzione, di una opzione regolatoria efficace e idonea al raggiungimento dei risultati attesi.

La semplificazione amministrativa, invece, si è preoccupata di ridurre gli oneri burocratici, mediante l’introduzione di moduli procedurali diretti ad alleggerire la posizione del privato interessato da un procedimento amministrativo a istanza di parte.

Gli istituti del silenzio-assenso, della SCIA, della conferenza di servizi e dell’autocertificazione assolvono, in particolare, proprio alla funzione, seppur con presupposti e regimi diversi, di snellire l’azione amministrativa, di esonerare il cittadino da oneri gravosi (e ingiustificati) e, in definitiva, di rafforzare le esigenze di certezza implicate dalle iniziative, perlopiù economiche, del privato.

Nella stessa logica si sono mosse le numerose e ripetute iniziative intese a conseguire l’effetto di una completa digitalizzazione dell’attività amministrativa.

Per un verso, quindi, si è tentato di ridurre lo stock normativo nella consapevolezza che l’overload di regole, e, per di più, di regole poco chiare e istruite, complica e confonde, di per sé, la vita di cittadini e imprese, e, per un altro, si è cercato di garantire le posizioni private da abusi o lungaggini nell’amministrazione delle procedure, riducendo, in particolare, gli spazi delle autorizzazioni preventive e formali.

Le nuove istanze di libertà tra sussidiarietà e liberalizzazioni

Gli esiti delle politiche di semplificazione non sono stati, tuttavia, soddisfacenti e si avverte una persistente, inedita e pressante esigenza di liberazione del privato dal pubblico, un’insofferenza (spesso giustificata) da forme invasive e sproporzionate di controlli amministrativi.

La crescente attenzione alla better regulation e alla riduzione degli oneri burocratici ha senz’altro prodotto dei risultati apprezzabili, ma, allo stesso tempo, ha fallito l’ambizioso obiettivo di ridisegnare, in chiave più equilibrata, i rapporti tra autorità e libertà, tra Stato e cittadini.

Continua la produzione inflazionata di regole confuse, spesso contraddittorie, a volte poco intellegibili, quasi sempre prive del necessario coordinamento e di una seria istruttoria preliminare.

Così come permane, spesso, una grave incertezza sul regime amministrativo delle singole attività, sulla stabilità dei titoli abilitativi (impliciti o presunti), sui tempi di definizione delle procedure.

Allo stesso modo, l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni resta elefantiaca, pervasiva e costosa.

Né può ignorarsi che le nuove regole sulla trasparenza e sull’informatizzazione dell’attività amministrativa non riescono a scongiurare la diffusione di fenomeni corruttivi, che, anzi, appaiono sempre più radicati nel tessuto socio-economico del Paese, minandone la credibilità e le stesse fondamenta.

A questa situazione, che permane afflitta dal vulnus dell’incertezza e della confusione, reagiscono istanze liberali sempre più avvertite come ineludibili.

Le rivendicazioni di nuovi spazi di libertà si spingono in due direzioni: la sussidiarietà orizzontale e le liberalizzazioni.

La prima, costituzionalizzata dall’art.118, quarto comma, della Carta fondamentale (ma già affermata come un principio fondamentale dalla Dottrina sociale della Chiesa), esige che le pubbliche amministrazioni garantiscano ai privati, singoli o associati, i dovuti ambiti di libertà nell’esplicazione di attività di interesse generale (secondo la visione democratica di Toqueville), vietando, al contempo, l’apposizione di ostacoli, normativi o burocratici, che impediscano o complichino le relative iniziative.

Le liberalizzazioni, invece, nell’accezione qui considerata, non significano l’abbattimento di monopoli od oligopoli, ma implicano la “deamministrazione”, cioè, la riduzione del perimetro dei controlli amministrativi e, quindi, l’abolizione dei regimi pubblicistici per le attività rispetto alle quali restino ingiustificati.

Il pensiero autenticamente liberale, da Aristotele fino a Einaudi, passando dalla scuola austriaca, da Pareto e da Smith, ha da sempre interpretato i rapporti tra il cittadino e lo Stato secondo coordinate diverse da (e opposte a) quelle teorizzate dai pensatori del settecento e dell’ottocento (Hobbes, Rousseau, Hegel) e poi tragicamente sfociate nei totalitarismi (anche di matrice collettivista) del ventesimo secolo.

La concezione filosofica liberale postula uno Stato al servizio del cittadino, meglio: della persona (San Tommaso), e non viceversa ed esige, quindi, la riconduzione di ambiti di attività già presidiati dal controllo pubblico a una sfera di libertà, in coerenza con un’esegesi dell’art. 41 della Costituzione che valorizzi l’autonomia (dallo Stato) dell’iniziativa privata.

Non resta che chiedersi se la ricetta liberale non sia stata troppo trascurata nella progettazione delle politiche di riforma della pubblica amministrazione e se non si sia annesso un valore eccessivo e taumaturgico alle politiche di semplificazione (come capaci, da sole, di risolvere tutti i problemi implicati dal rapporto tra autorità e libertà).

I limiti delle politiche di semplificazione

Ma cos’è, in realtà, che non ha funzionato nelle politiche di semplificazione?

Il vero limite è che continuano a supporre la permanenza del controllo pubblico sulle attività semplificate.

A ben vedere, infatti, tutti gli istituti di semplificazione amministrativa (in particolare SCIA e silenzio assenso), pur tentando di rafforzare la posizione del privato nei confronti dell’amministrazione, sottendono, logicamente e giuridicamente, la persistenza di un regime pubblicistico dell’attività.

Ma siamo certi che sia questa la strategia giusta? O, comunque, l’unica strada per migliorare i rapporti tra il cittadino e lo Stato?

La conservazione di regimi regolatori pubblicistici e la finalizzazione delle politiche di semplificazione alla (sola) individuazione di modalità più snelle e meno gravose di gestione di quelle funzioni, ma all’interno del perimetro di un controllo amministrativo, si rivelano inefficaci, per almeno due ordini di ragioni.

Innanzitutto perché, nonostante la fissazione di un termine ultimo di diciotto mesi per l’esercizio dei poteri di autotutela, anche con riguardo ad attività illegittimamente iniziate sulla base della SCIA o del silenzio assenso, per quel tempo i titoli abilitanti (siano essi espressi, taciti o presunti) restano esposti a un loro riesame, che potrebbe condurre al loro ritiro.

Così come, a fortiori, la permanenza di autorizzazioni formali ingiustificate implica la sopportazione di costi economici e di oneri amministrativi non più sostenibili dal sistema produttivo.

E, poi, in ogni caso, la previsione di moduli procedurali semplificati generali e astratti impone all’interprete e all’operatore del diritto la difficile attività ermeneutica del loro incerto coordinamento con le discipline procedimentali speciali, che, di norma, trovano la loro fonte in atti normativi diversi dalla legge generale sul procedimento amministrativo, sicchè sovente resta una grave incertezza sulla identificazione del regime amministrativo a cui restano soggette le singole funzioni.

Una rinnovata prospettiva di revisione dei rapporti tra autorità e libertà

Le politiche di revisione dei rapporti tra cittadino e pubbliche amministrazioni vanno, allora, ripensate secondo una logica (parzialmente) diversa.

E’ necessario, innanzitutto, procedere a una preliminare ricognizione di tutte le funzioni pubblicistiche che incidono sulle attività dei cittadini e delle imprese (e non solo di quelle che si esplicano in autorizzazioni preventive, ma anche di quelle soggette a SCIA, silenzio assenso, comunicazioni amministrative, nelle quali permane, comunque, il regime del controllo pubblico).

Una volta operata la catalogazione di tutte le procedure amministrative, occorre provvedere a uno scrutinio della loro persistente necessità, secondo una disamina della rilevanza degli interessi pubblici coinvolti.

Si dovrà, in altri termini, valutare, per ogni funzione, se e in che misura la consistenza e il rilievo degli interessi generali implicati dalla procedura giustifichino il controllo pubblico delle attività cui accede.

Tale valutazione, essenzialmente politica e, quindi, assolutamente libera, dovrebbe, nondimeno, condurre, secondo la prospettiva sopra indicata, alla decisione di dismettere le funzioni che non risultano giustificate dalla tutela di interessi pubblici di rilievo costituzionale o imposte da una normativa di derivazione europea.

Le procedure amministrative attinenti ad attività che non sono presidiate da valori costituzionali o da una disciplina europea andrebbero, quindi, abolite, con la restituzione delle relative attività all’iniziativa privata libera (ovviamente fatti salvi i limiti dell’illiceità penale).

Non solo, ma le funzioni che, in esito a tale valutazione, restano pubbliche dovrebbero essere, comunque, riviste mediante l’eliminazione di adempimenti endoprocedimentali eccessivi, ridondanti o, comunque, sproporzionati, nel giudizio comparativo tra la tutela degli interessi pubblici da essi implicati e i diritti di libertà dei cittadini.

In questa prospettiva, andrebbero aboliti i pareri, gli assensi, le valutazioni, i nulla osta alla cui previa acquisizione resta condizionato l’atto autorizzatorio conclusivo, quando non rispondono a un’esigenza di tutela che ne giustifica la permanenza.

Ovviamente un’opera esauriente di classificazione delle funzioni e di identificazione di quelle dismettibili postula un’organizzazione capace del compito.

Fermo restando che la definizione della formula amministrativa più appropriata esula dai confini del presente studio, occorre, nondimeno, avvertire che la struttura incaricata non potrà che essere incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (in ragione del ruolo di coordinamento che postula) e che dovrà essere provvista di risorse e di competenze tecniche adeguate.

Il lavoro di revisione appena accennato dovrà, poi, tradursi nell’elaborazione di iniziative normative dirette all’abrogazione o alla modificazione delle funzioni che si intendono dismettere o ridurre e che può declinarsi sia nell’eliminazione di qualsivoglia forma di controllo pubblico, sia nell’abolizione di adempimenti procedurali superflui, sia, ancora, nella revisione della disciplina sostanziale, con l’abrogazione di condizioni, limiti o contingenti stabiliti per l’esercizio delle attività che possono tornare libere.

Resta, ovviamente, il problema delle funzioni amministrative afferenti a materie di competenza legislativa regionale (che non sono poche né trascurabili).

Per queste si dovrà immaginare la fissazione di disposizioni statali di principio, che impongono una loro declinazione nelle legislazioni regionali, fermo restando l’auspicio che anche le Regioni svolgano autonomamente il medesimo compito liberalizzatore.

Si tratta, come si vede, di un’opera complessa, ma, nondimeno, necessaria, anche perché appare difficile spingersi oltre sulla strada della semplificazione, essendo già ampiamente sperimentati e implementati tutti i nuovi moduli dell’azione amministrativa.

Ovviamente il progetto di revisione delle funzioni pubbliche, nella prospettiva di una loro contrazione, suppone ed impone una seria e coerente programmazione dell’attività normativa.

Solo un’Agenda di governo rigorosa e ordinata consente, infatti, di ottenere i risultati attesi e, soprattutto, di impedire una nuova espansione incontrollata dei regimi amministrativi e pubblicistici già dismessi.

 

I benefici di una riforma liberale della pubblica amministrazione

I vantaggi di una seria opera di revisione e di riduzione delle funzioni pubbliche sono molteplici e non riguardano solo la sfera delle libertà dei cittadini e delle imprese.

Innanzitutto, si produce un effetto di risparmio della spesa pubblica.

Alla dismissione delle funzioni dovrà, infatti, accompagnarsi una coerente riorganizzazione degli apparati amministrativi con la soppressione delle strutture e degli uffici che hanno perso la titolarità delle funzioni “privatizzate” e con una conseguente e proporzionata contrazione degli organici.

E non c’è bisogno di argomentare oltre su quanto sia indispensabile una riduzione della spese corrente, in una contingenza finanziaria come quella attuale.

Non solo, ma la concentrazione delle missioni delle amministrazioni sulle (sole) funzioni che restano pubbliche permette una più efficace gestione delle relative competenze.

La riduzione delle funzioni implica, in altri termini, una ottimizzazione delle performance, in quanto mirate al perseguimento dei soli obiettivi essenziali.

La dismissione delle funzioni pubbliche superflue produce, inoltre, il risultato di ridurre i rischi di corruzione.

La moltiplicazione dei compiti e delle procedure, con frequenti e improprie sovrapposizioni di funzioni, genera, infatti, di per sé, il pericolo di fenomeni corruttivi, sicchè la precisazione e la riduzione delle competenze dovrebbe ridimensionare quel grado di burocratizzazione esasperata e invasiva che, da sola, favorisce gli illeciti.

Da ultimo, la liberalizzazione di una parte delle attività economiche libera energie e dinamismo nell’attività d’impresa (Coase), con conseguente beneficio nella produzione della ricchezza (non solo privata, ma anche pubblica, con il corrispondente aumento del gettito fiscale).

Quindi, per concludere, i benefici sono diversi e non rinunciabili: meno spesa, più efficienza pubblica, meno corruzione, più sviluppo.

Un auspicio

Può apparire un programma troppo ambizioso o eccessivamente complicato ovvero, in ogni caso, difficilmente realizzabile.

Si potrebbe obiettare che molto è stato già fatto e che alcune attività sono già state liberalizzate.

Senza sottovalutare o banalizzare le difficoltà del progetto (in gran parte implicate dal sistema regolativo multilivello che complica non poco l’attuazione di un programma serio di contrazione dei regimi pubblicistici), il programma appare, tuttavia, indispensabile e, per certi versi, inevitabile, se si intende offrire uno stimolo efficace alla crescita economica e ridurre la spesa pubblica corrente, mutare l’impostazione tradizionale di riforma della pubblica amministrazione e ragionare nei diversi termini di un serio ridimensionamento del perimetro funzionale dello Stato.

Solo una seria attività di contrazione della sfera pubblica e una coerente ed efficace politica di alleggerimento dell’iniziativa privata appaiono idonei, nell’attuale e statica condizione economica, a produrre l’effetto di una nuova ripresa di fiducia nella capacità del sistema di intraprendere un nuovo inizio di sviluppo.

Non ci resta, quindi, che formulare l’auspicio che il prossimo Esecutivo, qualunque esso sia, abbia il coraggio e l’energia di intraprendere la strada che ci siamo permessi di additare come l’unica capace di sollevare il Paese dalle sabbie mobili nelle quali è precipitato e in cui si dibatte disperatamente.

La pretesa di un controllo totale della legge e dell’amministrazione pubblica sulle attività private finisce, infatti, per produrre il paradosso della “Favola delle api” (de Mandeville), nella quale l’intervento “moralizzatore” di Giove ha ridotto in miseria l’alveare, prima prospero e benestante, e dev’essere necessariamente rivista, in una prospettiva più realistica e consapevole delle dinamiche naturali e non comprimibili del sistema economico.

Torna alla mente l’incipit della Costituzione degli Stati Uniti d’America “We the people”, che non significa solo la sovranità popolare, ma, soprattutto, l’aspirazione di una nuova cittadinanza alla libertà nello Stato. Ma anche dallo Stato.

Carlo Deodato

IL PUNTO SULLA CRISI VENEZUELANA, RISCHIO DI DEFAULT

“Occorre riformare la struttura giuridica del paese per riportare la pace”. Queste le motivazioni addotte dal presidente del Venezuela  Nicolas Maduro per giustificare la sua decisone di ricorrere all’Assemblea Costituente del popolo. L’opposizione però teme il golpe da parte del presidente, incapace ormai di gestire non solo la crisi economica e sociale che investe la Repubblica Bolivariana, ma anche le crescenti proteste di piazza, sfociate già diverse volte nel sangue.

La situazione del Venezuela continua a peggiorare e da diverse parti del mondo partono appelli al dialogo e alla pace. La crisi che da quattro anni affligge il paese sud americano continua a impoverire soprattutto gli strati più deboli della popolazione poiché, dopo la mancanza del pane, è la volta dei farmaci. Il governo venezuelano ha provato a fronteggiare con vari sistemi la situazione, ma finora non è riuscito a ottenere nessun risultato. Il deficit farmaceutico ha spinto il Parlamento venezuelano a dichiarare ufficialmente una “crisi sanitaria umanitaria” durante il 2016, dopo aver istruito l’ter, lo scorso dicembre il ministero degli Esteri ha dichiarato che i canali di cooperazione con le Nazioni Unite per l’ingresso di farmaci sarebbero stati avviati, anche se un mese dopo l’opposizione scendendo in piazza denunciò che il governo non aveva ancora provveduto all’acquisto di farmaci.

Dall’inizio dell’anno oltre all’economia anche la democrazia è entrata in crisi dopo che l’Assemblea Nazionale, parlamento della Repubblica Bolivariana, composto in maggioranza  da membri dell’opposizione al governo, è stato esautorato dalla Corte suprema che ne ha assunto i poteri. Il presidente dell’Assemblea, Borges, ha parlato di colpo di stato.

Il presidente Nicolas Maduro rimane al suo posto, allontana le elezioni e si ostina ad incolpare della drammatica crisi soggetti esterni al suo paese.

Nemmeno la ripresa del prezzo del petrolio ha aiutato l’economia venezuelana. Le tensioni sociali, l’inflazione e la crisi politica aggravano la situazione della Repubblica Bolivariana di Venezuela, a un passo dal default.

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Lui, Maduro, l’erede o “figlio di Ugo Chavez” (come lui stesso si definisce) continua a rimanere al suo posto. Le elezioni presidenziali sono in programma nel 2019. Nel gennaio del 2016 alle elezioni legislative i partiti anti-chavisti avevano ottenuto il controllo della camera venezuelana ed avevano promesso di indire un referendum contro Maduro ma non sono riusciti nel loro intento. Persino le elezioni regionali in programma per la fine del 2016 sono state rinviate a data da destinarsi. Con queste premesse, anche le elezioni presidenziali del 2019 sono a rischio.

A Caracas e in tutto il Venezuela giornalmente si assiste a scene drammatiche. Supermercati presi d’assalto, rapine, mancanza di farmaci in ospedale e nelle farmacie, gente che rovista nella spazzatura. Fame e povertà in quello che fino a pochi anni fa era uno dei paesi più ricchi del Sudamerica e che dispone di risorse petrolifere e di metalli preziosi tra le più ingenti del pianeta.

Dall’inizio del mese di aprile, il malcontento della popolazione è sfociato in vere e proprie rivolte di piazza che hanno causato almeno 30 morti e decine di arresti tra i manifestanti.

Anche il pontefice Bergoglio ha rivolto il suo pensiero al popolo venezuelano affinchè cessi la violenza e si rispettino i diritti umani, mentre il presidente degli Usa Donald Trump si è detto preoccupato per quello che lui ha definito un vero e proprio “caos”.

Tra le emergenze venezuelane, oltre alla crisi sociale e istituzionale, la più grave rimane l’economia. L’ inflazione in Venezuela è la più alta al mondo. Nel 2016 ha raggiunto il  700 per cento e secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 2017 potrebbe raggiungere il 1600 per cento. L’ultima criticità riguarda il pane. Il crollo delle importazioni di grano ha ridotto le riserve nel paese e Maduro ha firmato un decreto che obbliga i panettieri a produrre solo pane, non altri prodotti provenienti dalla farina.

Il Presidente Maduro in piena crisi governativa ha affermato che la crisi economica ha un epicentro negli ambienti vicini alla destra in accordo con gli Stati Uniti d’America, rei di dimezzare la produzione per favorire il collasso. Il Presidente ha ereditato un sistema corrotto e sul filo di un’implosione a causa delle sciagurate scelte di politiche di Chavez che hanno declassato un Paese ricco di petrolio portandolo alla banca rotta: Chavez aveva deciso di concentrarsi sulla produzione petrolifera e parallelamente nazionalizzare le imprese, arrivando così ad un considerevole indebitamento con l’estero e aumentando così l’importazione di generi alimentari di primaria importanza.

In questo quadro drammatico il governo ha deciso di ristampare nuova moneta per estinguere i debiti ma quest’azione ha portato all’iperinflazione ovvero e al conseguente aumento del prezzo della merce importata. Anche i prestiti di nazioni estere non hanno portato ad una completa estinzione della massa debitoria, attualmente il Venezuela non ha nessun rapporto con il Fondo Monetario Internazionale, non ha più garanzie da sottoporre ai privati per ottenere nuovi prestiti così come le esigue riserve statali ormai sono in via di estinzione e anche la Cina, ultimo paese a effettuare un prestito, ora preme per la restituzione. Un clima questo di gravi responsabilità politico economiche che secondo gli esperti porteranno il paese sud americano verso il default.

Riccarda Lopetuso