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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

Fondazione De Gasperi e Nato hanno presentato il portale educativo Freedomanatomy.com

Durante le due giornate dei “Defence days”, è stato presentato il sito internet sui temi della difesa europea e della Nato.
Freedomanatomy.com, mapping Nato across the world, è una mappa interattiva che vuole proporsi come strumento di studio e approfondimento per le scuole, già accessibile online, con lo scopo di favorire e facilitare in maniera generalizzata la conoscenza della Nato. Un percorso storico e geografico, articolato tra missionischede paese etematiche trasversali, che si propone come chiave di lettura accurata ed accattivante della complessità dei nostri giorni e della nostra storia.
La mappa interattiva è parte del progetto Freedom is Not Free della Fondazione De Gasperi, Il progetto prevede inoltre una serie di iniziative di carattere sia istituzionale, che scientifico e divulgativo, che si articoleranno lungo tutto il corso dell’anno 2019.

TRA IMMEDIATEZZA E COMPLESSITÀ: LE ELEZIONI TEDESCHE RESTITUISCONO VALORE ALL’ARTE DELLA MEDIAZIONE?

Dodicesima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati

Le recenti elezioni tedesche hanno certificato ancora una volta le difficoltà nel definire con nettezza le tendenze di lungo periodo della politica interna e internazionale. Gli scenari ipotizzati prima del voto hanno rispecchiato solo in parte gli effettivi esiti e non tanto perché in alcuni casi i partiti non hanno ottenuto le percentuali di consenso attese, ma soprattutto perché non sono riusciti a focalizzare appieno il quadro politico-istituzionale venutosi a creare dopo la chiusura delle urne. In effetti, sarebbe stata necessaria una dose non indifferente di capacità analitica per ipotizzare quello che oggi abbiamo davanti agli occhi dal momento che l’esito delle elezioni tedesche apre una riflessione che va ben oltre il mero risultato ottenuto dalle singole formazioni politiche in corsa.

La vittoria annunciata di Angela Merkel si è effettivamente verificata, ma con un calo di consensi che, nonostante consacri la CDU/CSU come il primo partito, non le consente di formare un governo con una sola delle due forze che alla vigilia del voto erano considerate le papabili alleate dei democristiani tedeschi, ossia i socialdemocratici e i liberali. È allora molto probabile che la Merkel provi a costruire una colazione di tre partiti CDU/FDP/Verdi – ribattezzata “coalizione giamaica” per via dei colori rappresentativi delle tre forze politiche (nero, giallo, verde) – che già nella sua composizione segna un cambiamento di non poco conto, in quanto appunto composta da tre partiti e non da due, come invece è consuetudine in Germania.

I risultati elettorali, dunque, confermano la centralità della CDU/CSU (che tuttavia, nonostante il calo di consensi, ha stravinto la competizione maggioritaria conquistando 231 collegi su 299), determinano un calo drastico dei socialdemocratici della SPD che ottengono il risultato più magro dal 1949, fanno emergere come terzo partito per numero di consensi Alternative für Deutschland, la formazione euroscettica, nata sull’onda della crisi economica e della critica alla gestione dell’immigrazione, che già nelle elezioni del 2013 aveva sfiorato l’ingresso nel parlamento. Il dato di rilievo, per così dire, strutturale è dunque l’ingresso per la prima volta nell’arena parlamentare di ben sei partiti (CDU/CSU, SPD, AfD, Die Linke, Grüne, FDP), i quali rappresentano posizioni politiche molto distanti, ben evidenti anche tra i tre che dovrebbero andare a costituire la prossima coalizione governativa. Pertanto, come è stato sottolineato, dai dati elettorali emergono due tendenze principali: l’erosione dei partiti tradizionali (se nel 1998 i due partiti principali – SPD e CDU/CSU si spartivano più del 75% dei suffragi, oggi questa percentuale si è ridotta a poco più del 50%); e la spinta alla polarizzazione, ossia la propensione degli elettori a scegliere formazioni politiche poste alle estreme dello spettro politico (D. Palano, Anche la Germania perde il centro in CattolicaNews, 25 settembre 2017).

In un quadro piuttosto complesso e in parte inatteso, queste considerazioni possono apparire legate alla stretta contingenza elettorale, ma in verità saranno utili nell’immediato futuro, specialmente rispetto a due elementi sui quali si dovrà tornare a riflettere e che, per ora, accenniamo. Il primo non può che riguardare la Cancelliera uscente. Angela Merkel ha dato prova in più occasioni di esercitare una leadership decisa all’interno e all’esterno (Europa) del suo paese e ne è conferma la sua quarta vittoria elettorale consecutiva. Ma proprio i successi conquistati con tanta determinazione in uno scenario così eterogeneo come l’attuale – e a maggior ragione dopo il recente risultato elettorale – fanno tornare alla luce una delle più antiche qualità che dovrebbero appartenere a ogni capo politico, quella della mediazione. Se vorrà costruire un governo stabile, la Merkel dovrà ancor più mettere in gioco le sue capacità di mediazione per trovare una sintesi convincente tra posizioni spesso diametralmente opposte. Nell’era dell’immediatezza e della tempestività delle decisioni, abbiamo finalmente riscoperto una delle più importanti qualità del leader politico, quella che concentra nelle sue mani la capacità di saper trovare sintesi tra attitudini e aspettative differenti. Il che ovviamente non significa che il capo di governo debba necessariamente trovare soluzioni compromissorie capaci soltanto di indebolire i disegni di legge costruiti seguendo una precisa determinazione ideale. Bensì, ci ricordano che la capacità di mediare è una delle caratteristiche indispensabili per un capo dell’esecutivo e, prima ancora, per un leader politico di una democrazia parlamentare, dove è nella dimensione del confronto dialettico tra le forze politiche che risiede gran parte del processo decisionale.

Pertanto – ecco il secondo aspetto – le elezioni tedesche ci hanno ricordato come l’immediatezza politica che sembra essere la cifra distintiva delle democrazie contemporanee debba fare i conti con la complessità delle assemblee parlamentari. Una complessità, per così dire, naturale poiché figlia di una conformazione istituzionale che è intrinsecamente costruita attorno alla rappresentatività e al confronto partitico. Inoltre, l’aumento di cinque punti rispetto alle elezioni del 2013 della percentuale di votanti (che si è attestata al 76,2%) e il quasi conseguente ingresso di sei partiti nel Bundestag sono solo i due principali fattori che smentiscono le fin troppo facili profezie sull’inesorabile caduta del tasso di partecipazione politica. Il regime democratico rappresentativo – anche quello che si vorrebbe costruire sulla partecipazione attraverso un clic o con un like inviato tramite lo smartphone – richiede una particolarissima capacità di sintesi proprio in quanto le decisioni nazionali e internazionali sono sempre più complesse e quindi il capo di governo deve essere sempre più in grado di comprendere e di mediare le aspettative degli elettori e, poi, di renderle effettive con la necessaria dose di immediatezza.
Come ha rilevato Riccardo Pennisi, il sistema politico tedesco esce scosso da queste elezioni in misura talmente evidente da poter decretare la fine di quella “eccezione tedesca” basata su un sistema di partiti e di istituzioni stabile e inossidabile (R. Pennisi, La fine dell’eccezione tedesca in Aspenia online, 26 settembre 2017). Se questa analisi venisse confermata nelle prossime settimane, si potrà dire con ragionevole certezza che queste elezioni, da un lato, hanno svelato un disagio nei confronti dei partiti tradizionali anche nel paese europeo che più di ogni altro sembrava non volerne fare a meno e, dall’altro, hanno indotto gli osservatori e – allo stesso tempo – gli attori politici a interrogarsi sull’impellente necessità di trovare nuove forme di azione politica in grado di coniugare la necessaria mediazione parlamentare (e non solo) con l’altrettanto necessaria esigenza di offrire risposte governative immediate. In sostanza, le elezioni tedesche possono rappresentare l’occasione per portare alla luce alcune fondamentali dinamiche politiche e istituzionali oggi ben nascoste dal confuso dibattito animato da quello che Byung-Chul Han ha definito lo «sciame digitale» e che invece sono indispensabili per una riflessione più completa sul futuro delle nostre democrazie.

* Assegnista di ricerca in Filosofia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?
  10. | Ettore PrimoPetrolio, da motore delle guerre a carburante del cambiamento

PETROLIO, DA MOTORE DELLE GUERRE A CARBURANTE DEL CAMBIAMENTO

Undicesima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Ettore Primo

Il crollo dei prezzi del petrolio iniziato nella seconda metà del 2014 ha creato uno shock in tutti le nazioni produttrici ed esportatrici di idrocarburi, in particolare i membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), colpendo anche le ricchissime monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo che per la prima volta hanno registrato disavanzi negativi di bilancio, imposto tagli alla spesa e introduzione di tasse e imposte fino a pochi anni fa impensabili. La bassa rendita del petrolio ha tuttavia innescato un mutamento che in alcuni casi si può definire “antropologico” all’interno della varie monarchie, note non solo per la loro enorme ricchezza e diseguaglianza sociale, ma anche per professare un Islam particolarmente rigido, di ispirazione wahabita. Alle misure di austerità si è affiancato un fiorire di piano di ristrutturazione economica e anche di riposizionamento geopolitico, con l’apertura dei mercati interni e un rilancio delle relazioni con la Russia. La paura di “morire di petrolio” potrebbe trasformare nei prossimi anni una risorsa, a ragion veduta considerata per decenni come la causa scatenante di gran parte delle guerre in Medio Oriente, come motore di un cambiamento epocale.    

La causa di questo cambiamento radicale è stato un evento fino ad un decennio fa impensabile: il crollo dei prezzi del greggio a causa di una situazione di iper-offerta sui mercati internazionali. Dopo aver toccato i massimi storici di 140 dollari al barile, nel 2014 ha inizio una nuova fase ribassista che ha portato il valore del greggio a toccare i minimi a 27 dollari, un minimo che non accadeva dal 2001. Dal crollo è nata una sorta di “mutazione antropologica” delle realtà produttrici che per mezzo secolo hanno trainato il mercato globale del petrolio. La vaporizzazione delle rendite petrolifere ha costretto tutti i paesi del Golfo ad intaccare fortemente le riserve in valuta estera e a vendere parte degli asset dei propri Fondi sovrani. La mossa è avvenuta sull’onda di un sentimento: la paura di “morire di petrolio”. La frase ricalca, in senso provocatorio, la visione di Zayed bin Sultan Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi e storico fondatore degli Emirati arabi uniti, il quale considerava la dipendenza dagli idrocarburi una sorta di “maledizione” per il futuro del paese. I deficit di bilancio registrati dai paesi del Golfo tra il 2015 e il 2016, che in Arabia Saudita hanno sfiorato i 100 miliardi di dollari, hanno costretto la totalità dei paesi del Golfo e una buona parte dei membri Opec a ripensare in modo radicale le proprie economie, partendo da quella energetica per giungere fino ad un ripensamento delle politiche di occupazione per ridurre l’alta disoccupazione giovanile. 

Tra le novità riguardanti l’energia due risultano di particolare importanza: la prima è il lento abbandono del petrolio come fonte di energia per soddisfare la domanda interna a favore di un mix composto da gas, rinnovabili e nucleare, la seconda riguarda invece la ristrutturazione e la futura quotazione in borsa del colosso petrolifero saudita Aramco, considerata la più grande azienda del mondo con asset stimati pari a 2 mila miliardi di dollari. Il tema delle rinnovabili, divenuto una sorta di mantra ideologico in occidente, è per i paesi del Golfo una reale necessità che ha poco a che fare con l’ambiente, ma potrebbe indirettamente aiutare lo sviluppo del settore anche al di fuori del Golfo.

I due paesi leader di questa importante riforma sono gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita. Il primo è già all’avanguardia nel settore con importanti progetti avviati dalla società Masdar (letteralmente “fonte”), sussidiaria del fondo di investimento dell’emirato di Abdu Dhabi Mubadala. La creazione di Masdar ha condotto all’avvio di importanti progetti industriali legati alle rinnovabili, in particolare “Masdar City”, la prima città al mondo a zero emissioni che sorgerà nei pressi dell’aeroporto internazionale di Abu Dhabi. La confederazione di monarchie, ancorate alla solida cultura beduina del fondatore Zayed bin Sultan Al Nahyan e al suo rapporto con le risorse del deserto (rinunciò alle amate battute di caccia per preservare gli animali selvatici che vivono nel deserto arabo), ha inoltre annunciato di recente un piano per diversificare le risorse energetiche con scadenza al 2050, dando più spazio a rinnovabili, gas e nucleare e avviare un cambiamento “qualitativo” nella cultura dei consumi della popolazione per ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza nel settore. 

Al pari degli Emirati arabi uniti anche l’Arabia Saudita ha annunciato un piano di sviluppo delle energie rinnovabili con investimenti tra i 30 e 50 miliardi di dollari fino al 2023 e l’obiettivo ambizioso di produrre fino a 10 gigawatt di potenza da energie rinnovabili.

Il discorso sulle rinnovabili è una presa di coscienza della necessità di diversificare le economie altamente dipendenti dal petrolio, creando sviluppo industriale, investimenti e competenze tecniche. Il mix energetico su cui si stanno avviando i paesi del Golfo mira anche a liberare “barili di petrolio” ad oggi destinati a soddisfare la domanda interna ed immetterli sul mercato. La serie di riforme anche sul piano fiscale, con l’introduzione dell’Iva tra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo nel 2018, e nelle infrastrutture fa emergere anche un’altra consapevolezza: il prezzo del petrolio difficilmente raggiungerà nuovamente i picchi di 100 dollari al barile. Alla luce di questo dato, il mutamento “antropologico” riguarda anche un diverso rapporto politico tra i “campioni del Golfo” – Arabia Saudita, Qatar ed Emirati arabi uniti – e la Russia.   

L’accordo firmato lo scorso 10 dicembre 2016 a Vienna tra i paesi Opec e 11 produttori al di fuori del Cartello, tra cui la Russia, ha un valore anzitutto politico oltre che tecnico. In base all’accordo, il primo nel settore petrolifero dal 2001 e per tanto considerato storico da molti osservatori, la produzione Opec dovrebbe calare nel complesso di circa 1,2 milioni di barili al giorno mentre quella dei paesi al di fuori del Cartello di circa 600 mila barili, per un totale di 1,8 milioni di barili al giorno. La riduzione è già iniziata a gennaio con l’entrata in vigore dell’accordo che durerà per sei mesi e potrebbe essere prorogato di altri sei mesi. Da sola l’Arabia Saudita si è impegnata a tagliare di 500 mila barili di petrolio al giorno la sua produzione, mentre la Russia di almeno 300 mila barili. L’obiettivo di fondo è eliminare, o quanto meno limitare, la volatilità del mercato petrolifero mantenendo i prezzi stabili per arginare la concorrenza del petrolio non convenzionale (shale oil – petrolio da scisti bituminosi) negli Stati Uniti e in Canada, il cui boom nel 2014 è alla base della situazione di iperofferta che ha causato il crollo dei prezzi del petrolio. 

La dinamicità delle piccole aziende produttrici nordamericane e la loro capacità di adattarsi alle situazioni del mercato, interrompendo e accelerando la produzione a seconda dei prezzi, sta indirettamente mutando anche la strategia dei colossi statali che caratterizzano il settore energetico dei paesi del Golfo e della Russia. Come già sottolineato, il 2018 è l’anno della possibile quotazione in borsa del 5 per cento di Saudi Aramco, da cui l’Arabia Saudita potrebbe ricavare entrate alla prima immissione sul mercato fino a 100 miliardi di dollari, vitali per i suoi programmi di sviluppo, in particolare “Vision 2030”. Ai primi di febbraio la società ha concesso per la prima volta nella sua storia una verifica indipendente delle riserve petrolifere, ad oggi solo stimate, che potrebbe riservare sorprese dato che secondo alcune voci si aggirerebbero intorno ai 265 miliardi di barili di petrolio.

Un altro dato da non sottovalutare, che mostra l’intreccio delle alleanze strategiche avvenute negli ultimi mesi e che potrebbero avere effetti importanti anche sulle future scelte della nuova amministrazione statunitense targata Donald Trump, è la parziale privatizzazione del colosso petrolifero russo Rosneft. La mossa studiata dall’Ad Igor Sechin, il grande tessitore delle trame energetiche russe, conferma il rilancio delle relazioni economiche tra Mosca e i paesi del Golfo con l’acquisto da parte dell’Autorità per gli investimenti del Qatar (Qia) e dell’anglo-svizzera Glencore del 19,5 per cento della società. 

* Esperto di Geopolitica energetica

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?
  10. | Antonio Campati – Sessant’anni dopo, è ora di ripensare l’Europa

SESSANT’ANNI DOPO, E’ ORA DI RIPENSARE L’EUROPA

Decima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati

L’approssimarsi dell’anniversario della firma dei Trattati di Roma potrà rappresentare per la storia dell’Unione europea odierna o una stanca e ripetitiva celebrazione retorica o l’occasione per prendere atto che l’Europa nata sessant’anni fa non esiste più. La prima opzione è un rischio sempre latente nelle celebrazioni commemorative, che però in questo caso può svanire se si assume del tutto la consapevolezza evocata dalla seconda possibilità.

Che la quasi totalità dello scenario economico e geo-politico del Vecchio Continente sia mutato dal 1957 a oggi sembra essere un dato assodato. Eppure, come ha osservato Angelo Panebianco (Cambiare i trattati per salvare l’Unione europea, Corriere della Sera 23/01/2017), non ancora ci si capacita del fatto che l’Europa costruita all’indomani della Seconda guerra mondiale avesse «una data di scadenza». Perché quel tipo di Europa era figlia della Guerra fredda e neppure il colpo d’ala impresso con il Trattato di Maastricht dopo la fine della politica dei blocchi è riuscito a garantirle un futuro di lungo periodo, giacché poco più di dieci anni dopo (nel 2005 con il voto referendario contro il trattato costituzionale) entrava in una fase di profonda instabilità. Per avviare una nuova stagione, Panebianco suggerisce di aggiornarne i trattati costitutivi in modo da delineare un’Europa diversa da quella odierna, stretta in una tenaglia pressata, da un lato, dai movimenti antieuropei, dall’altro, dall’euroconservatorismo. aggiunge che nonostante la modifica dei trattati porti con sé la realistica possibilità di una sua implosione, è altamente prevedibile che lasciando tutto così com’è questa si avvii comunque verso una fine disastrosa.

L’idea di modificare la sua conformazione istituzionale è in effetti un’ipotesi che consentirebbe di risolvere una volta per tutte alcune contraddizioni profonde che il dibattito sull’Europa ha covato negli ultimi decenni. Tra queste si colloca uno degli errori di prospettiva più frequenti che consideral’Unione europea alla stregua di una grande democrazia nazionale o per lo meno come un disegno politico che si avvia inevitabilmente a raggiungere questa meta. In realtà, l’origine del progetto di integrazione è il frutto dell’attivismo di un gruppo di élite nazionali che in un primo momento non ha neppure creduto indispensabile basare la propria azione sulla legittimazione popolare diretta. Nei decenni seguenti, non pochi hanno considerato questa impostazione iniziale come un peccato originale da espiare con l’applicazione, nell’ambito europeo, di alcuni dei meccanismi di legittimazione propri delle democrazie nazionali. Ciò non significa, per esempio, che il processo di avvicinamento dei cittadini alle istituzioni sia stato vano, che la possibilità di sostenere iniziative di natura popolare sia stata inutile o che la legittimazione elettorale da parte di una platea sempre più ampia di elettori debba essere ostacolataMa che iniziative in tal senso devono essere collocate dentro una cornice istituzionale (e non solo) che sia in grado di accoglierle e, soprattutto, di renderle effettive.

Prendere atto che l’Europa è cambiata e sta cambiando è dunque molto più difficile di quanto si possa immaginare. Quasi novant’anni fa, nLa ribellione delle masse, José Ortega Y Gasset parlando dell’Europa notava come il suo magnifico e lungo passato la faceva allora approdare in uno stadio di vita «dove tutto è cresciuto», ma dove però «le strutture di questo passato sono nane e impediscono l’attuale espansione». In un certo qual modo, oggi, seppur in un contesto diversissimo, le istituzioni europee si trovano costrette a dover superare se stesse ancora una volta. E per farlo dovranno ripensare in profondità la loro natura. Questa volta, il loro obiettivo non sarà certamente l’«espansione» bensì la capacità di governare alcuni cambiamenti cruciali che – in primo luogo nei rapporti con l’America guidata da Trump – si palesano numerosi e spesso piuttosto complessi.

* Assegnista di ricerca in Filosofia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
  9. | Hasan Abu NimahShould the Arab world follow the European unification model?

SHOULD THE ARAB WORLD FOLLOW THE EUROPEAN UNIFICATION MODEL?

Nona puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Hasan Abu Nimah*

For the last three and a half decades I have been convinced that the Arab States, the 22 Arab League members, should study the example of European unification right from the Treaty of Rome in the mid twentieth century up to the creation of the European Union. The idea kept growing in my mind while serving as diplomatic envoy for my country, Jordan, in many European countries from 1973 till 1995. (I spent 12 years in Brussels as Ambassador to all the three Benelux countries in addition to the EC from 1978 till 1990; 5 years in Rome as ambassador to Italy, FAO, WFP, San Marino and Portugal, 1990 till 1995; in London previously as Counsellor of the Jordanian Embassy from 1973 till 1978).

Perhaps this is not the most appropriate moment to advance such an idea as for sometime cracks in the new European unanimity have been raising doubts about the entire scheme, seen hitherto as one of the most promising regional assemblages of our time. Since 2009, the Eurozone has been beset with a sovereign debt crisis primarily involving Greece, Ireland and Portugal, which threatened its stability and culminated in the historic British referendum last June in which Britain voted to leave the EU.

Because the world economy is globalizing fast, it is becoming increasingly difficult for any country to manage its affairs independently from the impact of external factors. Like everywhere else European difficulties are homegrown as well as external. Europe may have to deal with temporary set backs but my firm conviction is that the many factors that brought the European nations together in the first place, will prevail in the end. The structure of the Union may have to undergo some changes but the European Unity eventually  will not be destined to collapse.

This is why I still believe the Arab states need to study the European experiment and benefit from it for a more secure and prosperousArab future.

Most of the modern independent Arab states emerged in the aftermath of the dismemberment of the Ottoman Empire, of which most of the Arab World were a part of for at least four centuries.

Arab Nationalism, a movement led by various groups of Arab intellectuals began to manifest itself towards the end of the 19th Century, demanding independence from the Ottoman rule followed by unification of all the Arabs into one political entity. The movement, also referred to as Pan Arabism, is based on the fact that the Arabs speak the same language, they share the same history and the same culture, they pursue the same aspirations and the lands they exist on are territorially connected. Although Islam is the religion of the majority, it was not included as one of the the unifying factors of the Arabs out of due consideration to the Christian Arabs, of whom many prominent figures contributed largely to the dissemination of the Arab Nationalist doctrine.

Sherif Hussein Of Mecca, a descendent of Prophet Mohammad, entered into an agreement with the British in 1916, to lead an Arab Revolt against the Ottomans, in return for British recognition of a United Arab Kingdom under his leadership once the First World War had ended with an allied victory. Although the British never kept their part of the deal, the Arabs continued to cherish that Pan Arab dream. They blamed their failure to achieve it on the artificial dividing lines imposed by the colonial powers- mainly by the British and the French during the post-First World War settlements.

The so-called artificial borders, however, did not only outlive the departure of all colonial effects, but eventually became solid divisive walls that often made it much more difficult for an Arab to cross than for other nationals.

The foundering of Arab unity can broadly be summarized into four reasons:

  1. The first is the emergence of non-democratic regimes in many Arab states where autocratic rulers at the top viewed unification as a threat to their dictatorial ambitions and continuity.
  2. The second is the discovery of precious resources in some states prompting them to make sure that their wealth remained solely for themselves, while unity with others would imply sharing which they strictly ruled out.
  3. The third reason relates to external factors. Many dictatorial regimes allied with external powers to protect themselves and to guarantee their undue power positions. In return they committed themselves to submit to those powers dictates no matter how incompatible they were with their national interests or the interests of their own people.  With their loyalties firmly in place for their foreign protectors and backers rather than towards their own people, who did not elect them any way, those petty dictators had no power to make any tall or independent decisions. Mostly they acted as dependancies.
  4. The fourth and final reason is the failure of a collective Arab endeavor to tie together the interests of the Arab people regardless of their local country identity. The Arab League, despite its many specialized agencies dealing with education, trade, economy, health, security, culture and more, has failed in convincing the Arab individual that his interests are better served when in a larger union than in separation.

But if the Europeans managed to get together in a practical unity, though incomplete, after two major and devastating wars and despite massive differences why should the Arabs not be able to do the same?

The 28-member European Union has 20 official languages yet all the Arab states speak one language and belong to one culture. The Arab states economic interests are indeed complimentary with each other albeit some owning the natural resources while others having the human resources. Territorial contiguity is an important factor too. Consider the amount of potential that would unfold if the Arab World from Algeria West to the Gulf states East was open for free movement of people ad trade; if the Arab natural wealth was utilized for development, education, modernization, life advancement and good democratic governance;  imagine the amount of capital savings if the Arabs were united in both purpose and method. It is precisely because of these obstacles that have prevented any Arab mobilisation towards unification that the European experiment should be examined. 

A significant aspect of the European scheme that would be well suited to the Arab states is the gradual approach. Whereas some Arab attempts to force instant unity by decree failed, the Europeans started with modest steps. The European process began with the economy, trade, customs, agriculture and any other forms of possible  joint cooperation that wouldn’t pose any threat or compromise either the state entity or the national identity. This way Europeans were offered practical examples of the unification promise. 

On the other hand, the attempts by unelected Arab leaders to impose by decree total and immediate unity such as between Syria and Egypt in 1958 (the United Arab Republic) by Egyptian president Jamal Abdul Nasser, or with Yemen, later on, or between Jordan and Iraq at the same year (the Arab Federation) all failed due to their abrupt, forced and artificial nature. The Gulf Cooperation Council (GCC) on the other hand has managed to succeed and continue simply because it adopted the gradual approach which, like in Europe, did not require the individual Gulf States to melt in the union. 

But the GCC is also a club of rich nations, for which unity has a security dimension,  and that should not be overlooked as a significant helpful factor.The current situation in the Arab world in general is far from normal. If it is hard to predict when these abnormal conditions will end, it is equally hard to believe that such conditions will last indefinitely. Eventually the dawn of democratization will illuminate  the entire Arab world and one will be able to expect the individual Arab states to see moves towards closer cooperation in the direction of unification as more of a promise rather than a threat. Only then will the European model be a feasible choice. 

* Member of the Senate of the Hashemite Kingdom of Jordan, Member of the Jordan delegation at the NATO Parliamentary Assembly.

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  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
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  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
  8. | Tomi HuhtanenPopulist influence and how to fight it

POPULIST INFLUENCE AND HOW TO FIGHT IT

Ottava puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Tomi Huhtanen*

Inequality has never been so clear in the Western society in the last century as it is today. The economic crisis, the reduction of average salaries, the rising unemployment and the decline of investments created a strong insecurity and an increasingly strong social resentment leading to the rise of populism. The mainstream parties of the centre-right and centre-left that could once rely on 40% of the vote are now reduced to 20 or 25%.

Policy uncertainty usually rises after a financial crisis, pushing voters to be attracted to the political rhetoric of populists. Trump, Grillo and Le Pen, all have one thing in common – someone to blame, and that someone is the establishment. Half of the United States feels penalized by the economic and social changes that hit hard its interests and identity. And this is the half that transformed Donald Trump into a hero. The more Trump attacks the establishment, the media and traditional politics, the more this America supports him even if they perceive his excesses.

A similar scenario is found in Europe, where countries struggle to shake off the Eurozone’s financial crisis and where migration and Islamist terror constitute most voters’ main concerns. This is when the anti-austerity, anti-EU or anti-immigrant narrative is embraced. Populists are in power in Poland and Hungary, they are in the coalition government in Finland, they top the polls in the Netherlands, and their support is at record highs in Sweden.

In France, even if a Le Pen presidency remains extremely unlikely, the support for Front National is clearly on the rise. In Italy, Grillo’s Movimento Cinque Stelle (M5S) has succeeded in breaking into the old Italian two-party system establishing itself as a radically new political and opposition force. Additionally, unlike other populist movements in Europe that are clearly associated either with right-wing politics, such as Ukip in Britain, or with left-wing politics, such as Podemos in Spain, M5S has been able to attract votes across the political spectrum. The result is nonetheless the same: across continents, populist forces are challenging mainstream parties that for decades dominated national politics.

Two core issues lie at the root of today’s rising populism: the inflow of refugees and the persistent economic crisis. In the case of Europe, the continent’s problems can only be addressed through increased cooperation among the Member States, but European electorates refuse to authorize any further transfer of sovereignty to Brussels.

What populists from both sides of the spectrum tend to have in common is that they contrast themselves with the political elites, claiming that they alone represent the people, portraying the established political parties as self-serving and corrupt. Populists dislike representative democracy and love referendums. Moreover, they have a unique style and many voters find populists’ clear, and their simplistic messages appealing. It is much easier to relate to the colourful populist talk, the one that doesn’t feel the need to be politically correct and which does not consider insults to be taboo in political messages.

It remains to be seen, however, if the number of malcontents has truly risen to a critical level, or if there’s simply more opportunities to express dissatisfaction. Because in addition to the content, the means have changed too, with social networks having become an incessant referendum on any topic.

Either way, in an age where voters are both confused and easily malleable via the internet and social media, the populists’ way of communicating clearly helped to mobilise the masses. Yet, for many, voting for these forces is not a matter of agreeing with their policies, or lack thereof, but a revenge against the establishment parties, which, according to the electorate, lost connection with the people they are supposed to represent. Populists seem to attract young voters, many of whom cast their vote as a statement against the political elites, which hold the power as the youth unemployment rises and the economic system collapses. What is on the march across Europe may not be the far right or the far left, but distrust, disillusion, even full-scale rejection of the political establishment.

Europe is a victim of its own historic burden. For years it has been the continent of prosperity, growth and bright future, clearly clashing with the current situation. However, the EU is an important part of peoples’ lives, often taken for granted, often criticised and much too often under-estimated. Those in favour of Europe should be proud of what has worked, and what makes the EU relevant and important. The EU “peace project” should not be underestimated considering the presence of violence and war in the European neighbourhood.

Centre-right clever and simple slogans are needed to counter the populist diatribes. Those who favour Europe must be as charismatic, eloquent and single-minded as those who oppose it. Parties who believe in the EU will have to take their arguments to the people, and in return listen to the people.

However, strong and charismatic leadership is not an easy item to produce. It requires education and training. This is why both current and future leaders must be trained to communicate directly with their audience, connect with the angry generation of voters who feel disconnected from the political elites and bring back the sense of direction. And of course we need action. We need to actually resolve the problems rather than pretending that we are addressing them.

Populists are winning through their strong words. We, especially the Christian Democrats, can only win through strong actions. Small changes cannot address big challenges. Structural reforms within the party system are needed, which imply putting the whole organisation under evaluation. Changes are difficult to accept and carry out in parties which are founded on tradition, however more risk taking is necessary in order to evolve and to react faster, quicker and simpler to citizen’s request.

The sense of responsible citizenship is essential in the electoral process. The feeling of being represented by establishment politicians has to be brought back to the voters and the way to success lies in reforming our social, educational and health systems through communication with the middle-class, support of trade that benefits all and reactivation of the social elevator.

* Executive Director of the Wilfried Martens Centre for European Studies

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
  7. | Gabriele NataliziaUna “nuova” Guerra Fredda?

UNA “NUOVA” GUERRA FREDDA? CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’ TRA IL SISTEMA BIPOLARE E L’UNIPOLARISMO SFIDATO

Settima puntata della rubrica Quindicina Internazionale. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Gabriele Natalizia*

È in corso una “nuova” Guerra fredda? La domanda circola sempre più incessantemente negli ambienti politico-diplomatici e nel dibattito accademico. Una tendenza confermata dalla pubblicazione di volumi come The New Cold War di Edward Lucas (2014) o Return to Cold War di Robert Legvold (2016) e dei recenti numeri di Foreign Affairs e The Economist, rispettivamente intitolati Putin’s Russia Down But Not Out (3/2016) e Putinism (Oct 22nd 2016). Il dibattito, peraltro, ha ormai generato un effetto spill over. È uscito dai circuiti ristretti degli specialisti della materia, occupando spazi importanti anche sui mass media, tanto da divenire un fenomeno percepito dall’opinione pubblica mondiale.

Il ricorso alle categorie del passato, tuttavia, rischia di impedire l’effettiva comprensione delle dinamiche del presente e conferma la lentezza della lingua e della cultura a rispondere agli stimoli provenienti dalla realtà. Il concetto di “nuova” Guerra fredda, infatti, se da un lato coglie alcuni elementi di continuità tra il sistema bipolare e l’assetto internazionale contemporaneo, dall’altro lascia in un cono d’ombra alcune – rilevanti – discontinuità tra le due fasi storiche.  

Tra gli elementi di continuità, alcuni sembrano particolarmente significativi. Il primo rappresenta la condicio sine qua non dell’intero dibattito. A differenza degli anni Novanta e, anche se in misura minore, degli anni Duemila, attualmente l’esistenza di una sfida al potere degli Stati Uniti sembra un dato oggettivo e non un esercizio intellettuale o un wishful thinking. Il cambio di passo è stato ufficializzato direttamente da Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007, quando il presidente russo parlò di un’incompatibilità tra il primato globale americano e l’idea di democrazia e delle disfunzioni del sistema unipolare. A partire dalla Guerra russo-georgiana del 2008, alle parole sembrano essere seguiti i fatti secondo un climax ascendente. 

Un secondo elemento di continuità è il fatto che il confronto tra Stati Uniti e Russia non si svolge solo nella dimensione politico-strategica e attraverso gli strumenti dell’hard power ma, come avvenuto durante la Guerra fredda, anche nella dimensione delle idee. Se dal triennio 1989-1991 era scaturita la teoria della fine della storia, che parlava anzitutto del tramonto dei modelli politici antagonisti a quello liberal-democratico e postulava l’esaurimento del soft power di quegli attori che avrebbero comunque continuato a riempire le cronache dei giornali con la loro opposizione all’Occidente, la Russia di Putin ha posto la parola fine sulla validità di queste previsioni. Mosca, infatti, ha sviluppato un suo originale assetto politico e affinato nuovi strumenti per competere con gli Stati Uniti nella battaglia per “le menti e i cuori”. La cosiddetta “democrazia sovrana” è un mix tra fragili vincoli al potere esecutivo, elezioni formalmente libere, libertà economica limitata e uno spiccato nazionalismo. Questa ha contribuito alla stabilizzazione del Paese e al superamento delle crisi economiche degli anni Novanta, diventando oggetto di emulazione negli Stati post-sovietici. La classe dirigente putiniana, inoltre, si è dotata di un nuovo potere di “persuasione”, meglio noto sotto l’etichetta di Russkiy Mir (“mondo russo”, ma anche “pace russa”). Secondo questa formula, Mosca non solo si propone quale garante dei diritti delle popolazioni russe e russofone che vivono al di fuori dei confini nazionali ma, nell’ambito di un sistema di appartenenze fondato su cerchi concentrici, rivendica tale ruolo anche nei confronti dei popoli cristiano-ortodossi, dei cristiani d’Oriente, nonché dei cosiddetti “compatrioti”, ossia quanti avvertono un legame spirituale e culturale con la Russia. 

Infine, un ultimo elemento di continuità è il duplice livello su cui prende forma la competizione tra Washinton e Mosca. Non riguarda, infatti, la sola sfera internazionale e i rapporti interstatali, ma all’interno degli Stati “in bilico” insiste sulla tipologia di regime per cui optare. L’allineamento con gli Stati Uniti e i Paesi NATO si sovrappone con la scelta – o, quanto meno, con il tentativo – di adottare istituzioni e procedure tipiche della liberal-democrazia (Paesi dell’Europa dell’Est che hanno aderito alla NATO, Ucraina, Georgia, Moldova), mentre l’allineamento alla Russia corrisponde allo sviluppo di un sistema di gestione del potere simile alla “democrazia sovrana” o allo scivolamento verso un autoritarismo compiuto (Bielorussia, Armenia e alcuni Paesi dell’Asia centrale). Solo l’Azerbaigian e il Turkmenistan sfuggono a tale lettura per la neutralità politica che cercano di mantenere e i rapporti con altri attori forti dell’area (Turchia e Iran) che subentrano nella loro equazione strategica.

Sebbene gli elementi di continuità siano rilevanti, quelli di discontinuità non sono da meno. Anzitutto, alcuni indicatori relativi alle differenti componenti del potere fanno apparire incommensurabili la dialettica Casa Bianca-Cremlino della Guerra fredda e quella odierna. Ancora negli anni Ottanta le due superpotenze avevano un coefficiente di potenza militare pressoché equivalente e si trovavano al centro di due sistemi economici altrettanto ampi. Nel 2015, invece, gli Stati Uniti hanno sostenuto il 36% della spesa militare globale mentre la Russia il 4% (anche se la Russia spende di più in proporzione al suo PIL, fonte: SIPRI) e, similmente, i primi nel 2014 hanno prodotto il 18% del PIL mondiale contro il 3% della seconda (fonte: World Data Bank). Va ricordato, inoltre, che non solo la liberal-democrazia è l’unica formula politica a essere sopravvissuta alle tragedie del XX secolo, ma è anche l’unica che resta in grado di esercitare il suo fascino in ogni angolo del globo. Viceversa, la formula del Russkiy Mir è priva di quella carica universalista che aveva contraddistinto il comunismo. Anche nella dimensione del soft power, quindi, il raggio di azione della Russia odierna è molto più circoscritto rispetto a quello dell’Unione Sovietica. Se quest’ultima era una superpotenza e costituiva l’altro “polo” del sistema internazionale, la Federazione Russa è “solo” una grande potenza regionale. 

La più immediata conseguenza della differente collocazione di Mosca nella gerarchia del potere internazionale nelle due fasi, è la differente ampiezza che intercorre tra il perimetro politico-strategico della Guerra fredda e quello attuale. Globale il primo, come indicato da un confronto che si realizzava dalla Corea fino al Cile contaminando qualsiasi dialettica tra forze politiche contrapposte praticamente in ogni Stato. Il secondo, al contrario, ha una portata molto più limitata. La sfida della Russia, d’altronde, agisce evidentemente solo in aree ad essa geograficamente o culturalmente prossime, come la “nuova Europa orientale” (Ucraina, Bielorussia e Moldova), il Caucaso meridionale (Armenia, Azerbaigian e Georgia) e i Balcani sud-occidentali (in particolare Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia). Differente, invece, è il caso del Medio Oriente, dove il rilancio dell’influenza russa si realizza nell’ambito di una strategia attuata di concerto con l’Iran e i suoi alleati. Negli altri quadranti geopolitici, inoltre, Mosca non è un attore decisivo, né ha interessi vitali in gioco. Contrariamente all’immagine avanzata dalle teorie sulla globalizzazione, quindi, la vita politica internazionale sembra caratterizzata da logiche prevalentemente regionali piuttosto che globali, il cui vettore esclusivo di connessione è la capacità degli Stati Uniti di proiettare potenza in tutti i teatri. Tale condizione fa sì che le tensioni presenti fuori dallo Spazio post-sovietico, dai Balcani e, più di recente, dal Medio Oriente non si ricolleghino in alcun modo al confronto Washington-Mosca, né rendano verosimile lo scenario dello scoppio di nuova guerra mondiale, che era sempre stato all’orizzonte nel periodo bipolare. 

Da questi primi due elementi di discontinuità, deriva l’odierna differenza tra le poste in gioco. Quella russa è solo una – anche se la più evidente e preoccupante – delle forme di contestazione all’unipolarismo americano. A differenza dell’URSS, l’obiettivo della Federazione Russa non è più l’instaurazione di un’egemonia globale, ma il ripristino del suo primato sui territori del cosiddetto “Estero Vicino”, il ritorno a una condizione di grande potenza che la faccia “pesare” nei quadranti a essa immediatamente limitrofi e la ridefinizione multipolare del sistema internazionale (o, meglio, tripolare: Stati Uniti, Russia, Cina).

In conclusione, nonostante la carica evocativo-simbolica suscitata dalle tensioni tra Washington e Mosca, il diretto coinvolgimento di quasi tutti i Paesi europei per via della loro membership alla NATO e la scomoda posizione geopolitica del nostro continente dovuta alla sua contiguità territoriale con la Russia, la percezione dello scontro in atto è più ampia della sua realtà effettiva. I rapporti tra le forze in campo, il perimetro dello politico-strategico della competizione e la sua posta in gioco restano – almeno per il momento – circoscritti. Non bisogna escludere, inoltre, che una volta esaurito il periodo della lame duck negli Stati Uniti e con l’ingresso alla Casa Bianca del nuovo presidente, la politica della Russia di Vladimir Putin non torni ad essere ispirata da maggiore prudenza e disponibilità alla cooperazione.

* Ricercatore Link Campus University, Centro Studi Geopolitica.info

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
  6. | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane

LA RUSSIA DI PUTIN ALLA LUCE DELLE ELEZIONI GEORGIANE

Sesta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Paolo Alli*

Le recenti elezioni politiche in Georgia hanno riportato l’attenzione internazionale su un quadrante geografico assai trascurato, quello della regione caucasica. Si tratta di un’area strategicamente importantissima, in quanto costituisce una cerniera naturale tra la Russia di Putin e le sue strategie espansionistiche, l’Iran e il suo rinato protagonismo e la Turchia, la cui immagine internazionale appare per lo meno appannata dopo il fallito colpo di stato.

La campagna elettorale georgiana è stata estremamente aspra, l’afflusso alle urne di poco superiore al 50%, e le elezioni hanno sancito il trionfo dell’attuale partito di governo, il Georgian Dream, che potrebbe addirittura arrivare ad avere in Parlamento la maggioranza necessaria per la riforma costituzionale. Lo United National Movement (UNM), il secondo partito, ha annunciato la propria intenzione di boicottaggio sulla base di presunti brogli elettorali.

In realtà, gli osservatori internazionali, dei quali ho avuto la possibilità di far parte come capo della delegazione dell’Assemblea Parlamentare della Nato, non hanno rilevato significative irregolarità, al di là della presa d’atto di sporadici incidenti al di fuori di alcuni seggi. L’impressione che ho ricavato dal monitoraggio elettorale è legata alla maturità del popolo georgiano, probabilmente superiore a quella dei propri governanti.

In ogni caso, il dato politico rimane legato al fatto che il 90% degli elettori ha votato per partiti che hanno dei propri programmi l’adesione all’Unione Europea e alla NATO. Non si è trattato, pertanto, di un risultato che in qualche modo abbia decretato significativi cambiamenti nella linea politica del Paese ma, al contrario, di una schiacciante conferma delle aspirazioni euroatlantiche della Georgia.

Alle elezioni, ancora una volta, non hanno partecipato le due province militarmente occupate dai russi: l’Abkhazia e il Sud Ossezia. Se, da un lato, si tratta di province relativamente poco importanti dal punto di vista della quantità di popolazione coinvolta (meno di 300.000 persone in tutto), d’altra parte questa situazione permane assai significativa, ancorchè sottovalutata, per l’Europa. La politica estera russa, infatti, da decenni mantiene sul fianco Est dell’Europa e della Nato alcuni presidi militari che si incuneano dentro territori di paesi che rifiutano l’ipotesi di un proprio ritorno nella sfera di influenza russa. È sufficiente enumerare la Transnistria, la Crimea e il Donbass in Ucraina, e, appunto, le due province della Georgia, senza dimenticare il Nagorno-Karabakh (provincia contesa tra l’Armenia e l’Azerbaijan dove il conflitto iniziato dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica ha già prodotto più di 50.000 morti).

La presenza russa in Georgia appare silenziosa ma è in realtà molto vigile e attiva: la scorsa estate i confini della parte occupata, che distano solo una cinquantina di chilometri dalla capitale Tbilisi, sono stati spostati unilateralmente in avanti dai russi con lo scopo di includere dentro l’area occupata il percorso previsto per il futuro corridoio energetico denominato Southern Stream, che dall’Azerbaijan porterà gas attraverso la Georgia e la Turchia in Europa alimentando il TAP.

Proprio in queste situazioni, apparentementre marginali ma in realtà assai significative, si svela la tattica di Putin che approfitta del ruolo che gli è stato concesso dalla assenza americana e dalla debole risposta europea per rafforzare il proprio posizionamento e cercare di ricostruirsi quel cuscinetto verso ovest, costituito un tempo dai paesi satellite dell’Unione Sovietica. La Federazione Russa è in grado di accendere e spegnere questi piccoli conflitti a suo piacimento, nell’indifferenza generale, utilizzandoli come minacce per le popolazioni caratterizzate da un forte spirito identitario e nazionalista, come l’Armenia, la Georgia, l’Ucraina e la Moldova, quasi ad ammonirli a desistere dal proprio avvicinamento verso l’Europa e l’alleanza euro-atlantica.

Appare sinceramente sbalorditivo che gli osservatori internazionali siano così distratti rispetto a una situazione così densa di pericoli. Siamo molto interessati alle ipotesi di hackeraggio che la Russia avrebbe commesso nei confronti dei sistemi informatici statunitensi o alle legittime preoccupazioni di Angela Merkel per il posizionamento di missili balistici a Kaliningrad, ma trascuriamo quelle situazioni di reale conflitto conficcate nel fianco est dell’Europa.

Un confine, quello europeo, che si allarga inevitabilmente fino alla Russia, sulla spinta del principio di autodeterminazione di popoli che vogliono assolutamente staccare il proprio destino da quello del gigante post-sovietico del quale temono la strategia di riappropriazione neo-imperialista.

Putin sa benissimo che non bastano il pragmatismo georgiano, che comunque non chiude a un dialogo almeno commerciale con la Russia, né il fatto che l’Armenia abbia accettato di aderire al trattato euroasiatico, di fatto costrettavi da una situazione di estrema difficoltà economica, per cancellare o cambiare in modo significativo lo spirito europeista di questi paesi. Quindi ha bisogno della minacciosa presenza militare per tenere sotto controllo queste situazioni ed evitare che esse degenerino in una aperta deriva di questi paesi verso l’Europa. Fatto, questo, che nella sua narrativa indica la volontà della Nato di estendersi ad est ma che in realtà rappresenta soltanto la fotografia di una realtà che dopo decenni di dominazione sovietica vuole riaffermare la propria capacità di autodeterminazione, come già altri paesi dell’ex Patto di Varsavia hanno fatto aderendo all’Unione Europea e alla NATO.

* Deputato alla Camera e Vice Presidente dell’Assemblea Parlamentare della NATO

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  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
  5. | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi

NON ESISTE UN’ALLEANZA POLITICO-MILITARE TRA RUSSIA E IRAN MA SOLO UNA CONVERGENZA TEMPORANEA E SELETTIVA DI INTERESSI

Quinta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Nicola Pedde*

La cronaca degli eventi in Siria e l’evoluzione delle sinergie che hanno visto il regime di Bashar al-Asad tornare concretamente all’offensiva a partire dai primi mesi del 2016, impone una ragionata riflessione sulla reale natura di quelle che troppo spesso la stampa si è affrettata a definire come alleanze.

In particolar modo è stato oggetto di ampia trattazione da parte dei media il sostegno fornito dalla Russia e dalla Repubblica Islamica dell’Iran alla Siria, ipotizzando la sussistenza di una rinnovata formula di alleanze che vedrebbe Mosca e Tehran condividere pienamente non solo il piano tattico ma anche l’obiettivo strategico del proprio intervento al fianco di Bashar al-Asad.

Il rapporto tra Iran e Russia ha radici antiche, soprattutto in conseguenza del lungo periodo di condivisione delle frontiere terminato solo nei primi anni Novanta con la dissoluzione dell’URSS e l’indipendenza delle repubbliche ex-sovietiche.

A dispetto delle apparenze, la storia delle relazioni russo-iraniane non è mai stata particolarmente costruttiva e pacifica, sia in epoca zarista che in quella sovietica e post-sovietica.

L’Iran non ha mai dimenticato – né tantomeno perdonato – come l’ex Unione Sovietica sia stata di fatto responsabile non solo di una prolungata ed ingiustificata occupazione militare del territorio iraniano nel corso del secondo conflitto mondiale, ma anche e soprattutto artefice di una politica di arbitraria appropriazione di territori storicamente facenti parte dell’insieme geografico e politico iraniano.

Sia in epoca monarchica che rivoluzionaria, quindi, il generale atteggiamento nei confronti dell’URSS è stato caratterizzato dal timore di ulteriori ambizioni territoriali e politiche, determinando l’adozione di una cauta politica di vicinato mai sfociata in formule di concreta  cooperazione politica e commerciale.

Particolarmente traumatica è stata l’interpretazione a Tehran dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1980, percepita per lungo tempo come manovra preliminare per un’espansione verso l’Iran delle mire egemoniche sovietiche e per la ricerca dello storico sbocco meridionale al mare che da sempre i russi avevano teorizzato nella definizione delle proprie ambizioni di proiezione.

Con il crollo dell’ex URSS e il venir meno della minaccia diretta rappresentata dalla condivisione dei confini, i rapporti tra Iran e Russia sono transitati in una dimensione certamente migliore e più costruttiva, senza tuttavia mai innalzarsi al livello di vera e propria alleanza o di condivisione della rispettiva visione strategica.

L’Iran e la Russia, al contrario, si sono di fatto reciprocamente serviti l’uno dell’altra nella gestione del complesso e sempre conflittuale rapporto individuale con gli Stati Uniti. La gran parte delle manifestazioni di reciproco interesse o la condivisione di specifici dossier ha quasi sempre avuti come reale obiettivo quello di alimentare la tensione dei rapporti della controparte con Washington, senza quindi costruire alcun concreto elemento di sinergia e collaborazione.

Anche sul piano economico, a dispetto di quanto spesso ipotizzato dai media, la collaborazione tra Mosca e Tehran è caratterizzata da valori non significativi, così come sul piano degli investimenti e delle joint-venture.

Anche la cooperazione militare non è mai sfociata in un reale sviluppo di sinergie, come dimostrato dall’assenza sostanziale di rapporti e dalla limitatissima sfera delle sinergie commerciali sul piano della tecnologia e degli armamenti. Il caso della fornitura delle batterie antiaeree S300 all’Iran è infatti esemplificativo della riluttanza di Mosca ad instaurare una reale politica di cooperazione con l’Iran.

Il più recente caso della crisi in Siria offre anch’esso un ottimo strumento per interpretare in modo corretto i rapporti tra Iran e Russia. Quella che infatti viene spesso descritta come un’alleanza strategica per favorire la vittoria delle forze governative siriane, è al contrario il prodotto di una divergente visione politica regionale ed una altrettanto complessa formula di cooperazione militare sul terreno.

Mentre la difesa dell’integrità territoriale siriana e la transizione politica inclusiva delle attuali forze di governo costituisce una priorità assoluta per gli iraniani, in funzione del loro interesse nazionale e della capacità di mantenere intatta la credibilità difensiva del proprio apparato di deterrenza, per i russi la guerra in Siria rappresenta un’opportunità negoziale con la comunità internazionale, per segnare i limiti della sfera di influenza occidentale in Medio Oriente ma soprattutto per sfruttare la tensione militare a favore di un ammorbidimento delle posizioni della comunità internazionale sull’Ucraina e sulle politiche sanzionatorie imposte alla Russia.

Mentre quindi per l’Iran è di vitale importanza garantire l’integrità territoriale della Siria e la continuità di una politica nazionale che non orienti il proprio interesse prioritariamente in direzione del mondo arabo e dell’occidente, per la Russia la Siria rappresenta una variabile con minori fattori di rigidità e con un alto potenziale negoziale con gli Stati Uniti e l’Europa.

La cooperazione militare sul terreno siriano tra le forze governative, russe, iraniane e delle milizie libanesi di Hezbollah è quindi regolata da una sostanziale temporanea formula di accordo sul piano tattico – è necessario per tutti vincere il conflitto, ristabilendo il predominio del ruolo di Damasco – ma al tempo stesso da una sempre più evidente divergenza sul piano strategico, dove gli interessi dei singoli attori tendono a mostrare le proprie peculiarità e soprattutto le loro profonde differenze.

Non deve quindi stupire la recente frizione politica tra Iran e Russia in relazione all’utilizzo della base aerea di Hamedan da parte dei bombardieri russi impegnati nelle operazioni sulla città siriana di Aleppo. Lo stazionamento degli aerei russi, durato solo sei giorni, è stato bruscamente revocato dall’Iran, in seguito ad una crescente ondata di proteste a livello parlamentare – dove è stata denunciata la violazione della costituzione, che impedisce la concessione in uso del territorio a forze straniere – e più generiche accuse alla Russia di aver diramato informazioni circa la segretezza dell’accordo di utilizzo, violando la rigida disciplina del segreto militare iraniano.

La natura della frizione tra Mosca e Tehran sembra tuttavia essere connessa al rifiuto dell’Iran di concedere ai russi l’uso prolungato della base, trasformandola di fatto in una postazione avanzata di attacco oggi necessaria per l’intervento in Siria ed un domani potenzialmente utile a rappresentare un deterrente nell’area del Golfo.

Il rapporto tra Russia e Iran, in sintesi, è da sempre condizionato da antichi livori e dal più recente pragmatismo che impone una temporanea cooperazione per il perseguimento di comuni interessi tattici e per la reciproca gestione del rapporto con gli Stati Uniti. Tutt’altro che un’alleanza, quindi, e anche fortemente suscettibile di influenze sul piano delle relazioni regionali e globali dei due attori, con il risultato di rendere il rapporto alquanto particolare, delicato e certamente mutevole.

* Direttore Institute for Global Studies

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      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
  4. | Antonio CampatiTempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa

TEMPO SCADUTO. DALLA CRISI NUOVE ELITE PER L’EUROPA

Quarta puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Antonio Campati*

Uno dei temi più discussi fra gli osservatori delle vicende internazionali è il deficit democratico dell’Unione europea. Molte analisi dedicate allo stato di salute di quest’ultima non dimenticano di sottolineare come la sola legittimazione elettorale del parlamento non sia sufficiente per un buon funzionamento degli organi legislativi e che quindi sarebbe auspicabile l’introduzione di nuove forme di rappresentanza per rivitalizzare il progetto europeo. Ancor più radicalmente, non mancano coloro che auspicano la diffusione di canali di partecipazione diretta, capaci di far sentire protagonista del processo decisionale anche il cittadino che vive a migliaia di chilometri da Bruxelles.

Dopo il referendum inglese che ha decretato la Brexit, il quadro è divenuto ancora più complesso. Infatti, per alcuni, la consultazione dei cittadini è fondamentale, ma non per le questioni più delicate e cruciali come appunto la permanenza o meno all’interno dell’Unione. In questi casi sono necessari momenti di discernimento che hanno la loro sede naturale all’interno delle assemblee, dove i rappresentanti democraticamente eletti propongono, discutono e votano le decisioni da adottare. A una simile prospettiva controbattono i critici di tale dinamica istituzionale che, a loro dire, ha accentuato l’inadeguatezza delle classi dirigenti europee, incapaci di cogliere, nella società globalizzata, l’immediatezza dei cambiamenti e quindi di soddisfare le reali esigenze dei cittadini. E dove, pertanto, l’insieme delle decisioni da adottare deve essere vagliata e confermata dalla platea di cittadini-elettori più ampia possibile.

È abbastanza prevedibile che il vivace dibattito di queste settimane non si risolverà né con la prevalenza di chi sostiene che la più classica delle forme di partecipazione diretta (il referendum) sia la panacea di tutti i mali politici europei, né con l’affermazione di chi, invece, vede nel caso inglese un grave precedente da imputare alla leadership governativa d’oltremanica. Per non rimanere intrappolati in una simile polarizzazione, è forse utile tornare a sottolineare le funzioni che le élite europee possono avere nel delineare il futuro dell’Unione. Élite europee e non élite nazionali che agiscono nell’arena europea.

La sensazione che si è avuta dopo il referendum di giugno è che l’Europa costituita da élite sia ora messa sotto accusa dai popoli. Tutto ciò che si è sviluppato dall’azione lungimirante di De Gasperi, Schuman, Adenauer è oggetto di una condanna senza precedenti da parte degli elettori: dal rifiuto del Trattato che istituisce una Costituzione europea alla richiesta di far uscire il proprio paese dal recinto comunitario. Un’inedita (e neppure troppo inaspettata) edizione dell’eterna disputa fra l’azione dei «pochi» e le aspettative dei «molti».

Seppur suggestiva perché semplificatoria, una simile rappresentazione della crisi europea potrebbe indurci a compiere un errore prospettico. Giacché continueremmo ad avallare lo scontro che vede protagonisti, da un lato, i «popoli» europei e, dall’altro, le oligarchie dei pochi che operano a Bruxelles. Questa contrapposizione offusca però quella che deve (o dovrebbe) essere l’azione delle élite. Proprio trascurando il ruolo di quest’ultime, si è alimentata l’illusione di poterne fare a meno, ovvero di poter creare un sistema istituzionale senza attori intermedi. Che sia in atto un processo che accentua l’immediatezza nel processo decisionale è fuor di dubbio. Ma credere che questa tendenza possa evitare di fare i conti con l’azione dei «pochi» è illusorio, non per altro perché a prevederne la presenza è innanzitutto il particolare tipo di democrazia che abbiamo adottato.

In altre parole, se da un lato si sono trascurate le procedure di formazione e selezione di una élite politica realmente europea, dall’altro, i normali meccanismi democratici ne hanno restituita una che è figlia, inevitabilmente, della somma dei singoli interessi e collettività statali. E, per questo, molto spesso propensa a operare come un’oligarchia autoreferenziale, la cui colpa principale è quella di non agire avendo presente il senso della prospettiva.

L’Europa deve investire su una virtuosa circolazione di élite politiche, che può attivarsi per mezzo di partiti veramente europei, con una rigorosa formazione erogata da università e think tank e all’interno di una cornice istituzionale rinnovata e includente. Gli esiti del referendum inglese e ancor più le trasformazioni dentro e fuori i suoi confini ci inducono a investire ulteriori risorse sul Vecchio continente. E farlo oggi quando esso è in crisi ci offre un’opportunità preziosa dal momento che è proprio nei momenti di difficoltà che emergono le élite più autentiche e durature, dotate di quella speciale capacità che consente loro di gestire il contingente con lo sguardo sul futuro.

* Dottore di ricerca in Istituzioni e Politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore, fellow del Centro Studi Tocqueville-Acton e membro del Comitato di redazione della Rivista di Politica

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
  3. | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo