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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

TTIP, ALLARGARE LO SGUARDO

Terza puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Simona Beretta*

Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non gode complessivamente di buona stampa: se ne parla poco, e la letteratura esplicitamente pro o contro prevale sulla presentazione accurata (inevitabilmente “noiosa”) delle implicazioni di un possibile accordo commerciale e regolamentare fra paesi che rappresentano una quota importante della popolazione e del sistema economico mondiale – importante, ma oggettivamente destinata a ridimensionarsi. Eppure conviene parlarne: in tempi di crescente frammentazione e di nuove barriere, è bene che ci siano negoziati dove si possa “litigare in santa pace”. Il negoziare ha infatti valore in sé, anche indipendentemente dall’esito.

In questi giorni (11-15 luglio 2016), i negoziatori statunitensi e dell’Unione Europea si incontrano per il quattordicesimo round negoziale del TTIP. Domina un atteggiamento tra l’indifferente e l’insofferente nei confronti di questo negoziato – anche perché i suoi protagonisti stanno attraversando un momento particolare: l’incombenza di elezioni presidenziali e la recrudescenza delle tensioni etnico-sociali interne negli USA; la Brexit e il sempre più evidente calo di consensi sul TTIP in Europa. L’atteggiamento critico nei confronti del TTIP da parte della pubblica opinione europea non è un a novità: le istituzioni europee preposte al negoziato si sono trovate sistematicamente a giocare “in difesa” nella loro comunicazione esterna. Ma secondo alcune rilevazioni recenti (Bertelsmann Stiftung), in Germania solo il 17% degli intervistati nel 2016 è convinta che il TTIP sia una buona cosa – contro il 53% nel 2014. Quanto alla Brexit, l’incertezza complessiva sul futuro delle relazioni fra UE e Regno Unito pesa anche sulle prospettive del TTIP. L’unico elemento di certezza è che, nel momento in cui il governo britannico farà ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona per recedere dall’Unione, scatteranno i due anni di tempo previsti per concordare i termini del recesso – un arco di tempo in cui sono improbabili progressi significativi nel negoziato TTIP (di cui il Regno Unito è stato peraltro uno fra i principali sostenitori).

Questo tempo di incertezza, tuttavia, può essere una grande risorsa. Serve, a mio parere, una pausa di riflessone per andare a fondo delle ragioni (e non solo della reciproca convenienza) dell’accordo fra le parti; soprattutto, è indispensabile guardare al TTIP allargando lo sguardo alla realtà globale. Altrimenti, il TTIP nasce vecchio.

Cercare il compromesso ragionando su costi e benefici del TTIP e bilanciando il do ut des per le parti è forse inevitabile, ma non all’altezza della situazione. Innanzitutto, costi e benefici aggregati sono difficili da stimare in maniera robusta e affidabile, in quanto emergono da una mappa molto complessa di soggetti vincenti e perdenti, di qui e di là dell’Atlantico. Ragionare per grandi aggregati è dunque pericoloso per la qualità del processo politico. Ad esempio, se si perdono posti di lavoro in un dato settore (e nella regione in cui tale settore è insediato) e se ne guadagnano altrettanti altrove, è inadeguato concludere che non ci sia impatto occupazionale: l’impatto c’è, eccome. In questa fase di incertezza nei negoziati, è forse possibile e senz’altro opportuno mettere in circolo una riflessione sull’impatto del TTIP non solo a livello aggregato (scambi, crescita economica) per l’area transatlantica, ma soprattutto sui suoi settori, regioni e gruppi sociali meno favoriti. Negoziare a partire da questi ultimi sarebbe una vera innovazione, consona ai segni dei tempi.

Ancora più urgente è una riflessione sulle conseguenze dell’accordo nel resto del mondo – soprattutto nei paesi a reddito medio-basso così “vicini”, specie all’Europa, da rendere del tutto irragionevole il non considerarli. Con o senza TTIP, la differenza di potenziale demografico e di condizioni di vita fra macroregioni ormai connesse da legami assolutamente “reali” (anche se viaggiano per via satellitare), continuerà ad esistere a muovere le decisioni di tante persone. Con o senza TTIP, la struttura produttiva e degli scambi mondiali continuerà ad evolvere rapidamente; ed è irragionevole sottostimare la dinamica tecnologica di paesi fino a pochi anni fa catalogati come “imitatori”. I paesi già “emersi” – dire emergenti è ormai anacronistico – hanno dimostrato la capacità di promuovere nuove istituzioni economiche e nuove reti di relazioni internazionali (pensiamo alla Asian Infrastructure Investment Bank, voluta dalla Cina, al China-Africa Cooperation Forum, o ancora alla Eurasian Economic Union, promossa dalla Russia).

Eppure, nel dibattito sui negoziati TTIP, il mondo sembra assente. L’unico riferimento esplicito alla realtà globale riguarda il possibile consolidamento dell’area transatlantica come riferimento per gli standard di regolamentazione globali ruolo. L’argomentazione che USA e UE dispongono di sistemi di regolamentazione tra i più avanzati al mondo, e che la loro collaborazione in tale materia può consolidare il loro ruolo globale è plausibile, ma sembra non convincere neppure l’opinione pubblica USA e UE (per il sospetto – non senza ragioni – di eccessiva ingerenza degli interessi consolidati delle grandi imprese nel processo). Figuriamoci il resto del mondo!

Alla luce delle dinamiche globali, contare sul TTIP per incrementare o mantenere il peso di USA e UE nel sistema globale appare quanto meno dubbio. Paradossalmente, allargare l’orizzonte della riflessione, invece di chiudersi nel compromesso a tutela degli interessi di chi sa farli valere, potrebbe rivelarsi l’unica strategia realistica perché le economie USA e UE ritrovino un ruolo di riferimento nella comunità internazionale: non tanto per il peso quantitativo della loro potenza materiale, ma per la qualità inclusiva del loro promuovere l’integrazione.

* Professore ordinario di Politica Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore del Master in International Cooperation and Development, ASERI.

Puntate precedenti:

      0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
  2. | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune

IL PROCESSO DI PACE IN LIBIA TRA INTERESSI PARTICOLARI E BENE COMUNE

Seconda puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Riccardo Redaelli*

Lo stallo politico in Libia sembra senza fine: ormai a distanza di mesi dalla nascita laboriosa del governo di al-Sarraj, non si riescono ancora a vincere le resistenze che ne ostacolano il pieno riconoscimento interno. Come noto, la nomina di questo nuovo governo di unità nazionale – fortemente voluta dalle Nazioni Unite e strenuamente appoggiata dall’Italia (che si è spesa, in questi mesi, più di ogni altro paese occidentale) – aveva lo scopo di superare la pericolosa diarchia fra i governi di Tripoli e di Tobruk e di contrastare la continua frammentazione degli schieramenti. Soprattutto era pensata come unico argine credibile contro l’ascesa di Daesh in Libia, le cui milizie stavano sfruttando il vuoto di potere e la balcanizzazione del paese.

Forti opposizioni erano state preventivate, ma vi è forse stato un eccesso di ottimismo nella capacità di superarle. In particolare, il generale Khalifa Haftar – l’uomo forte di Tobruk – si oppone a questo compromesso politico che ne mina lo stra-potere personale, certo del sostegno politico, economico e militare di Egitto e monarchie del Golfo. La determinazione (o arroganza) di Haftar è altresì rafforzata dalle ambiguità della posizione britannica e soprattutto francese, le quali – pur sostenendo ufficialmente il processo avviato dall’ONU e dall’Italia – “giocano” pericolosamente con le spinte secessioniste delle zone orientali e meridionali. La conseguenza è che la rigidità di Tobruk si riverbera sulla miriade di ambizioni e rivalità personali uscite deluse dal processo di formazione del nuovo governo di unità nazionale, fomentando gli opposti estremismi.

Anche sullo scacchiere libico, in sostanza, fatica a ricomporsi l’unità della politica estera e di sicurezza occidentale, mentre permangono i tatticismi dei tanti attori locali, regionali e internazionali, incapaci di superare logiche puramente nazionali o di corto respiro. Nonostante appaia ormai evidente come la frammentazione politica libica rappresenti un pericolo oggettivo a livello macro-regionale; si pensi, ad esempio, agli effetti destabilizzanti sui paesi confinanti (Algeria e Tunisia in primis), allo sviluppo di cellule jihadiste che si richiamano al califfato jihadista di Daesh e al ruolo in negativo che la Libia di oggi gioca nel cinico traffico di migranti verso l’Europa.

Particolarmente grave non capire come la crisi di questo paese non possa essere disgiunta dalle altre crisi mediorientali, quando al contrario il sistema internazionale abbisogna di una visione maggiormente olistica e di ampio respiro. La continua e spesso superficiale ripetizione della celebre definizione di Papa Francesco sulla “Terza guerra mondiale a pezzi” rischia di banalizzare quella che è una grande intuizione del pontefice sui nessi che collegano i troppi conflitti. E sulla necessità di mitigare i meri interessi nazionali (che esistono e di cui bisogna tenere conto) con i bisogni delle popolazioni coinvolte e con l’impegno assunto – solo formalmente? – dalle Nazioni Unite di promuovere la cosiddetta Human Security. Una sicurezza che mette al centro le popolazioni più che gli stati e che collega indissolubilmente il concetto tradizionale di sicurezza, con quello di sviluppo e di libertà. Una Human Security minacciata da molti ma soprattutto dall’ascesa della violenza religiosa di marca jihadista, con la quale il sistema internazionale deve fare di più e meglio. Anche in Libia, un paese che rappresenta la cartina di tornasole della capacità degli attori interni e internazionali di combattere il terrorismo e i trafficanti di esseri umani, promuovendo una stabilizzazione politica credibile. Anche a costo di obbligare qualche protagonista a fare “dei passi indietro” e di rinunciare all’inseguimento cinico dei soli interessi nazionali di breve respiro.

* Professore ordinario di Geopolitica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Puntate precedenti:

      0. | Ornaghi Lorenzo – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

  1. | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine

LA «GUERRA A PEZZI» DI UN MONDO IN DISORDINE

Prima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.

di Damiano Palano*

Sono passati venticinque anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dal momento in cui il mondo scoprì di essere diventato «unipolare». Con la fine del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss, la politica globale non perse infatti semplicemente una delle due «superpotenze» protagoniste dalla «guerra fredda», ma le basi stesse su cui per quasi mezzo secolo si era retto l’equilibrio bipolare. Nel corso di questi venticinque anni il dibattito politologico ha cercato di fissare i tratti distintivi del «nuovo ordine mondiale», soprattutto nel tentativo di trovare precedenti storici e così di prevedere le possibili traiettorie di sviluppo. Realisti come Kenneth Waltz e John Mearsheimer formularono per esempio previsioni che – pur procedendo in una direzione diversa – concordavano sull’idea che si sarebbero riproposte le classiche dinamiche dell’equilibrio di potenza, e che dunque la riconquista di un nuovo ordine sarebbe giunta a seguito di un (problematico) processo di bilanciamento e ridefinizione delle alleanze consolidate. Altri osservatori ritennero invece che la novità del quadro emerso dopo il 1989 e il 1991 fosse tale da rendere del tutto inservibili le chiavi di lettura tradizionali. Francis Fukuyama – con una formula spesso fraintesa, eppure destinata a fissare rapidamente lo Zeitgeist degli anni Novanta – scrisse che la «Storia» (nel suo significato hegeliano) si era conclusa, perché la liberaldemocrazia occidentale aveva sconfitto per sempre i suoi storici avversari, ponendo dunque termine alla stessa «evoluzione ideologica» del genere umano. Sottolineando invece che, per la prima volta nella storia moderna, la politica mondiale era dominata da un’unica potenza, Charles Krauthammer scrisse che la nuova fase politica poteva essere descritta come un «momento unipolare». Negli anni seguenti non pochi si spinsero d’altronde a prevedere che quel «momento» era destinato a trasformarsi in una duratura «era unipolare». E qualcuno proposte anche più o meno ingegnose analogie tra l’Impero di Roma e il ‘nuovo Impero’ di Washington, o tra la lunga Pax Augustea e la stagione della Pax Americana che sembrava profilarsi dopo la conclusione della Guerra Fredda. Pur senza disconoscere almeno alcuni tratti dell’assetto «unipolare», Samuel Huntigton attirò invece l’attenzione sul ruolo che le «civiltà» – e non più gli Stati – avrebbero avuto nei conflitti del futuro. E proprio questa lettura, fissata nella formula dello «scontro delle civiltà», avrebbe fornito forse la chiave di lettura mediaticamente più efficace per interpretare gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.

Nel quarto di secolo trascorso dalla fine dell’Urss, come sappiamo molto bene, il lungo dopoguerra non ha generato uno stabile ordine internazionale. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi, giungendo fino alle porte dell’Europa, senza che neppure si siano profilate ipotesi realistiche di soluzioni durature. E anche se alcune tracce della ‘vecchia’ politica di potenza hanno fatto nuovamente la loro comparsa in Europa, le alleanze ereditate dalla Guerra fredda non sono state messe sostanzialmente in questione. Anche se l’immaginario dell’Occidente continua a essere molto simile a quello di un mondo «post-storico», la «Storia» non si è mai davvero fermata. L’«era unipolare» probabilmente non è mai neppure cominciata, e sicuramente non ha consegnato agli Stati Uniti quel ruolo di unica superpotenza globale, che avrebbe consentito di garantire la stabilità di un «impero liberale», fondato sui principi democratici e sulla libertà di mercato. Ma anche lo spettro dello «scontro delle civiltà» diventa sempre più evanescente, perché la sensazione – di fronte soprattutto ai conflitti che lacerano il Nord-Africa e il Medio Oriente – è piuttosto di avere a che fare con scontri ‘dentro’ le civiltà.

Proprio di fronte a questo quadro, la formula della «guerra mondiale a pezzi», che Papa Francesco ha proposto in diverse occasioni, deve essere presa sul serio anche sul piano teorico. «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli», disse Francesco nell’agosto 2014. E non si trattava semplicemente di una provocazione, perché il Papa è tornato in altre occasione, anche di recente, su questa lettura. L’immagine della «terza guerra mondiale a pezzi» contiene infatti una vera e propria interpretazione generale, capace di tenere insieme i diversi ‘frammenti’ di un mondo in conflittoMa, soprattutto, è un’immagine che ci consente di cogliere le principali dimensioni problematiche che attraversano lo scenario contemporaneo. E che per molti versi rendono la costruzione di un ordine non solo ‘politicamente’ complesso, ma ‘strutturalmente’ davvero difficile, sia in virtù del carattere ‘multipolare’, se non addirittura ‘apolare’, del sistema internazionale odierno, sia per il venir meno della possibilità di conflitti generali che non implichino rischi fatali per la stessa sopravvivenza dell’intero genere umano.

In primo luogo, nessuna analisi e nessuna previsione sul prossimo futuro può fare a meno di considerare, più che semplicemente il ‘declino’ relativo degli Stati Uniti, l’ascesa della Cina e di nuove importanti potenze regionali, come l’India, il Brasile, il Sudafrica, oltre che la ‘vecchia’ Russia: e proprio questa ascesa renderà inevitabilmente ‘multipolare’ il sistema dei prossimi decenni. Ma questo probabilmente non comporterà – come spesso si sostiene, pensando alla transizione egemonica tra Impero britannico e Stati Uniti – che il XXI secolo sia destinato a essere il «secolo cinese». Piuttosto, come ha scritto per esempio Charles Kupchan, il mondo del futuro non apparterrà a nessuno, nel senso che sarà al tempo stesso multipolare e politicamente plurale. Il numero delle grandi potenze sarà dunque molto elevato (comunque più elevato di quanto non sia mai stato). E ognuna di esse, sulla base dei propri valori e interessi, si farà portatrice di una specifica visione di cosa sia un ordine internazionale ‘giusto’. Un nuovo ordine – la cui conquista è però tutt’altro che scontata – non potrà allora che implicare una ridefinizione degli standard che stabiliscono la legittimità e la rispettabilità internazionale di uno Stato. In secondo luogo, non si può però trascurare il fatto che la costruzione del nuovo ordine è resa oggi ‘strutturalmente’ difficile, oltre che dal multipolarismo, anche dell’ingresso del mondo in un’era in cui diventa tecnicamente possibile l’autodistruzione nucleare. È infatti proprio l’impossibilità di ricorrere alla guerra generale, come estrema risorsa strategica degli attori, a rendere il sistema davvero ‘anarchico’ e a rendere fragile qualsiasi ordine. E proprio per questo, come ha osservato Luigi Bonanate, i «pezzi» di guerra di cui Francesco ha colto le connessioni possono anche essere letti come l’annuncio di «un mondo in pezzi», e cioè come il segnale della «totale perdita di un’idea di ordine internazionale che possa ricomporre una vita politica pacifica» (Un mondo nuovo a ‘pezzi’ tra incubo e speranza, in «Vita e Pensiero», 2/2016).

Nel mondo multipolare e ‘disordinato’ che ci attende, non possiamo così affatto escludere l’eventualità che i diversi «pezzi» della «guerra mondiale» non possano ricomporsi in un conflitto più ampio. Ciò nondimeno, è dalla rassegnazione alla guerra e dalle tentazioni del millenarismo apocalittico che bisogna guardarsi, se non altro per evitare di adottare quelle chiavi di lettura – come quelle offerte dalla tesi dello «scontro delle civiltà» – destinate a diventare profezie autoavverantesi. Perché è solo prendendo atto della complessità degli scenari, ma resistendo alla seduzione del millenarismo, che può essere ripensata, e politicamente coltivata, la possibilità di un nuovo ordine internazionale.

*Docente di Scienza politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

Puntate precedenti:

      0. | Ornaghi Lorenzo – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale

UNA SIFDA NECESSARIA: RIALLACCIARE AZIONE POLITICA E AZIONE CULTURALE

Che la politica – poco importa se nazionale o europea – sembri costretta sempre di più dentro una sorta di letto di Procuste, non è soltanto una di quelle umorali rappresentazioni da cui sono manifestamente propiziati gli atteggiamenti di indifferenza, pesante critica o permanente sospetto, nei confronti di ogni istituzione e ceto politico. È anche, ormai, la constatazione frequente da parte di chi, consapevole che la politica non è un’attività superflua o di quart’ordine, con attenzione e crescente preoccupazione scruta il senso – ossia la direzione e il significato – di ciò che sta mutando o di ciò che per la prima volta sta avvenendo in Europa. E a una simile constatazione si accompagna, con altrettanta frequenza, la sottolineatura che quelle che realmente sono o appaiono essere le più pericolose lentezze, indecisioni e condizioni di malessere o affanno delle democrazie d’Europa, dipendono soprattutto dal restringersi, se non addirittura dal progressivo affievolirsi, di una visione culturale in grado non solo di cogliere l’orientamento delle trasformazioni in corso, ma anche di far comprendere quanto la politica – proprio rispetto allo stato di incertezze e inquietudini in cui versiamo – possa risultare utile, oltre ad essere necessaria.

Il richiamo al ruolo che il rapporto fra politica e cultura ha sempre avuto nelle età di grande trasformazione, però, quando si faccia troppo insistente rischia di diventare evasivo. E di essere facilmente scambiato con l’ammissione definitiva di impotenza nei confronti di quella ‘migliorabilità’ (o, se si preferisce, ‘riqualificazione’, ‘riabilitazione’) della politica odierna, i cui ristretti tempi residui male si coniugano con le esigenze temporali che contrassegnano svolgimenti e risultati dell’azione culturale. E quasi certamente così sarebbe, in effetti, qualora considerassimo il ridursi o l’indebolirsi della visione culturale esclusivamente come una caratteristica negativa delle attuali classi politiche e dirigenti, come un deficit che automaticamente si estende ai governati e di cui noi cittadini, semplicemente e senza possibilità di alternativa, paghiamo lo scotto. No; l’accorciata visione culturale, che sembra affliggere proposte e decisioni dei principali attori delle democrazie europee, è invece la faccia solo maggiormente visibile di quel più ampio e profondo processo che sta atrofizzando ciò che rende viva e vitale la cultura: vale a dire, la sua capacità di farsi tutt’uno con la condotta individuale e con i comportamenti collettivi, rendendo la libertà di ciascuna persona un’occasione continua (e in ogni campo dell’agire umano) di positiva creatività.

«Quindicina internazionale» – la nuova sezione on line che la Fondazione Alcide De Gasperi dedica, sul proprio sito, alla chiarificazione e all’approfondimento dei temi e delle questioni di maggiore rilevanza e attualità – intende mostrare che questa capacità della cultura italiana ed europea è ben lungi dall’essersi esaurita. E che, affinché si allarghi nuovamente la visione culturale delle classi politiche e dirigenti, incominciando nel contempo a lavorare alla preparazione di quelle di un futuro che è già parte del nostro presente, occorre ripartire con onestà e semplicità dai principi e dai valori di cui si alimenta, e che a sua volta nutre e promuove, una cultura viva e autenticamente vitale.

Com’è noto, «Quindicina internazionale» era il titolo della rubrica di politica estera che Alcide De Gasperi tenne su «Illustrazione Vaticana» dal 1933 al 1938. Riproporre oggi quel titolo e farne – per ciascun lettore, oltre che per i giovani collaboratori che si dedicheranno alla redazione della nuova sezione del sito della Fondazione – la stella di continuo riferimento, è anch’esso il segno, nonostante ogni apparenza contraria, degli intendimenti semplici e onesti con cui la nuova rubrica nasce. Dei principi e valori, cristiani e popolari, che guidarono convinzioni e azione politica di De Gasperi, quando ne lamentiamo l’odierna carenza sentiamo simultaneamente l’intatta forza. E, ogniqualvolta più greve sembra diventare il peso della politica o incomprensibile la logica di quest’ultima, sono proprio tali valori e principi a restituirci la ragionata confidenza nel fatto che, se talvolta o troppo spesso la politica inquina e degrada l’esistenza di una collettività, essa è anche il solo strumento per cercare il bene comune, per rendere meno incerto il futuro assicurando il presente, per far fronte a ogni grande trasformazione prevista o inattesa.

La «Quindicina internazionale» cercherà di destare, innanzi tutto, interesse e curiosità del lettore. L’attenzione si appunterà su fatti e notizie che rischiano di restare tra le pieghe dell’informazione prevalente o più replicata. E i commenti, per quanto possibile, metteranno sotto osservazione le tendenze sotterranee da cui sono mossi i più importanti cambiamenti in atto. La costruzione politica europea – con tutte le sue difficoltà, con le disillusioni mescolate alle aspettative ancora fiduciose, con le perduranti potenzialità di avanzamento – sarà naturalmente al cuore della «Quindicina». In parallelo alla rubrica, il sito internet della Fondazione De Gasperi si arricchirà di articoli, focus paper, ricerche e studi inediti o ripresi dai siti dei principali network dedicati allo studio e all’approfondimento di tematiche politiche, economiche, sociali, con particolare riguardo per i lavori presentati nell’ambito del Martens Centre for European Studies.

Riallacciare proficuamente fra loro azione politica e azione culturale è di sicuro, oggi, impresa non solo tanto complessa da apparire temeraria, ma anche esposta sin dai suoi primi passi al rischio di autoconsumarsi in una banale, retorica convenzionalità. Per la Fondazione Alcide De Gasperi, quello di incominciare una simile impresa è però un dovere. Come le odierne, larghe fratture fra cittadini e ceto politico non potranno mai essere stabilmente ricomposte con rozze manipolazioni demagogiche o con sovradosaggi continui di personalizzazione del potere, allo stesso modo non si riuscirà a migliorare, o riqualificare, o riabilitare la politica, se non ripopolandola culturalmente di principi e valori. E mettendola maggiormente in grado, così, di adempiere il suo compito, indispensabile e utile, nei riguardi dell’intero Paese, delle comunità e dei gruppi sociali che lo compongono, di ciascun cittadino.

Lorenzo Ornaghi

Presidente del Comitato Scientifico Fondazione De Gasperi

Membro Academic Council, Martens Centre for European Studies