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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

PER SALVARE LA SINISTRA GUARDATE AL LABOUR PARTY BRITANNICO

RACHEL SHABI | AL-JAZEERA | 10 GIUGNO 2017

Gli inaspettati risultati delle elezioni britanniche della scorsa settimana sono un segnale importante per i movimenti politici di sinistra in Europa e USA. Il partito laburista britannico non ha vinto, ma nessun partito ha avuto abbastanza sedute per formare una maggioranza e governare il Paese. Contro tutte le statistiche, il partito ha acquisito più del 40% dei voti.

Il partito laburista è guidato da Jeremy Corbyn, un candidato atipico, eletto a capo dello stesso nel 2015: sessantasei anni, troppo barbuto, troppo disordinato e troppo radicale secondo gli standard. La scorsa estate il suo stesso partito l’ha sfiduciato. E’ stato costantemente soggetto a critiche e, quando sei settimane fa Theresa May ha indetto le elezioni anticipate, i laburisti erano indietro di 20 punti secondo i sondaggi.

Poi, durante le settimane di campagna elettorale, mentre Corbyn girava il Paese, il numero di elettori cresceva e le persone rimanevano affascinate dalla sua integrità, dal suo rifiuto di attaccare gli oppositori e, più di tutto, dal suo messaggio di speranza, ottimismo e possibilità di cambiamento. La sua campagna è stata energica, innovativa ed ha utilizzato i social media per portare entusiasmo, con tanto di video ed immagini spesso diventate virali. Al centro della Campagna, comunque, vi è stata la politica del partito che Corbyn ha riportato convintamente a sinistra. Egli, inoltre, ha restituito fascino al partito, muovendolo maggiormente in direzione di un socialismo democratico, proponendo tasse alla classe più ricca, a beneficio dei più. Il pubblico, e i giovani in particolare, per molto tempo strozzati da salari stagnanti, insicurezza lavorativa e costi di vita sempre crescenti, sono stati trascinati dalla visione ottimistica di una società più giusta. Il partito laburista sembra anche aver goduto del supporto di quelli che precedentemente avevano scelto di non votare. Chiaramente, ci sono stati anche molti fattori in aiuto dei laburisti, come la terribile Campagna dei conservatori, con la sua leader, Theresa May, che si è mostrata debole ed arrogante, dando per scontati gli elettori. Inoltre, si  pensava che i due attentati terroristici a Londra e Manchester, avrebbero potuto creare difficoltà ai laburisti. In realtà la politica estera di Corbyn si basa sulla critica della vendita di armi all’Arabia Saudita, ipotizzando l’incremento del terrorismo proprio a causa dell’intervento britannico in Medio Oriente. Il partito, oltre a ciò, ha fatto leva sui tagli che i conservatori hanno attuato alle forze di polizia, che lo stesso capo delle Autorità aveva ipotizzato potessero avere conseguenze negative sulla sicurezza del Paese.

Insomma, il partito laburista sotto la guida di Corbyn ha dimostrato come riacquisire rilevanza politica. Per ottenere il supporto popolare sembra che la sinistra avesse bisogno di ricordare, semplicemente e senza vergogna, di essere la sinistra.


To save the left – look to Britain’s Labour Party

The shock result of Britain’s general election this week should be a message of hope to the ailing left wing across Europe and the United States. The UK Labour party did not win  but no party has enough seats to form an overall majority and govern. Against all odds, the party took just over 40 percent of the vote.

The UK Labour party is led by Jeremy Corbyn. He came to Labour’s helm unexpectedly in 2015. He was a 66-year-old candidate, whom conventional wisdom cast as too beardy, too scruffy and too radical. Last summer, his own parliamentary party took a vote of no confidence against him. He has been subjected to constant criticism and by the time the ruling Conservative party, under Theresa May, called a snap election six weeks ago, Labour’s political fortunes did not look good: it was 20 percentage points behind in the polls.

Then, during the Britain’s six-week election campaign, as Corbyn toured the country, his rallies swelled in numbers, as people were drawn to his integrity, his refusal to attack opponents and, most of all, his message of hope, optimism and the possibility of change. He run also an energetic, innovative and youthful campaign, using social media to drive up enthusiasm and support with video clips and memes that swiftly went viral. At the heart of the campaign were the party’s politics, which under Corbyn’s leadership tacked firmly to the left. He refashioned the party, making it more about democratic socialism, taxing the most-wealthy few to benefit the many. A public, and young people in particular, that has for some time been struggling with stagnating wages, work insecurity, spiraling living costs, grabbed this optimistic vision of a fairer society. The Labour party seems also to have gained support from those who have not previously voted. There were, of course, many more factors to the Labour surge: the Conservative Party ran a terrible campaign, its leader Theresa May exposed as weak and arrogant. She had taken voters for granted. It was thought that two deadly terror attacks during the campaign – in London and the northern city of Manchester – would have an adverse affect on the fortunes of the Labour party. In reality, the party’s principled foreign policy – criticising the government’s arms sales to Saudi Arabia; speaking of the increased threat of terror that came with Britain’s destabilising interventions in the Middle East – The party also chimed with the public mood in its attacks on Conservative cuts to police numbers, which police chiefs had warned might have an effect on security.

In sum, the Labour party under Corbyn has shown how to regain political relevance. To win back popular support, it seems that the left needs to simply remember that it is, unashamedly, the left.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

DONALD TRUMP’S INSULT TO HISTORY

NYT Editorial Board | New York Times | 31 Maggio 2017

Le placche tettoniche dell’Europa si stanno spostando, e il presidente Trump è al centro di tale cambiamento. Le recenti parole di Angela Merkel hanno reso chiaro che gli Stati Uniti non sono più il partner affidabile su cui il suo Paese e l’Europa hanno fatto a lungo affidamento. La partnership transatlantica è ancora vitale. Nessuno ha parlato di sciogliere la NATO e la sicurezza europea dipende ancora dagli arsenali nucleari e convenzionali statunitensi. Ma ci sono profonde divisioni tra l’Europa e gli USA che hanno un solo chiaro beneficiario: Vladimir Putin.

Prima che Trump partecipasse al suo primo meeting della NATO e al G7 della scorsa settimana, i leader europei speravano che potesse accondiscendere sui principali temi critici del momento. Oggi, tale speranza appare essere già un sogno. Trump ha denunciato il basso livello di spesa militare dei membri della NATO, ha offerto una linea conciliante con la Russia e ha rifiutato gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico.

Tornato in patria, ha aizzato ulteriormente il fuoco, lamentando il fatto che la Germania paga “molto meno di quanto dovrebbe in ambito militare per la NATO. Molto male per gli USA. Tutto questo cambierà”.

Queste problematiche arrivano in tempi già bui per l’Europa, colpita dalla crisi finanziaria, dall’ascesa dell’autoritarismo turco, ungaro e polacco, dalla Brexit e dalla crisi dei rifugiati dal Medioriente e Nord Africa. Al contempo Putin sta espandendo l’influenza russa.

Ci sono anche punti positivi. Uno è che Merkel sembra pronta a giocare un ruolo chiave di fronte al passo indietro statunitense; un altro è l’elezione francese di Macron, che ha dimostrato disponibilità a lavorare in partnership con il cancelliere tedesco.  La sua prima visita è stata a Berlino e qualche giorno dopo ha incontrato Trump. In quell’occasione il presidente francese ha fatto trasparire un punto importante: non sono un tuo burattino. E ha fatto lo stesso quando ha incontrato Putin a Versailles, che probabilmente aveva lavorato al fianco della sua rivale politica, Le Pen. Ancora il messaggio è stato chiaro: l’Europa non può risolvere le problematiche importanti senza il dialogo con la Russia, ma le differenze con Mosca non possono essere nascoste sotto il tappeto. Per il momento sembra che solo Merkel e Macron possano tenere l’alleanza viva e rilevante, almeno finchè Trump non si sveglia, comprendendo le necessità della leadership americana o venga rimpiazzato da un presidente più saggio.


The tectonic plates of Europe are shifting, and President Trump is at the heart of this upheaval. Angela Merkel’s recent words made clear that the United States is no longer the reliable partner her country and the rest of Europe have long depended on. This trans-Atlantic partnership is still vital.  So far, no one is talking about dissolving NATO and Europe still depends for its security on America’s nuclear and conventional arsenals. But there are profound divisions between Europe and the United States that have one clear beneficiary: Vladimir Putin .

Before Mr. Trump attended his first meetings of NATO and the Group of 7 last week, European leaders hoped they could bring him around on critical issues. That now seems like a pipe dream. Mr. Trump denounced  the insufficient levels of military spending from NATO members, he offered a more conciliatory line on Russia and refused to endorse the Paris agreement on climate change.

When he returned home, Mr. Trump stoked the fires more, complaining that Germany pays “far less than they should on NATO & military. Very bad for U.S. This will change.”

These new stresses in the alliance come at a bad time for Europe, already hit by the financial crisis; the rise of authoritarianism in Turkey, Hungary and Poland; Brexit and the flow of refugees from the Middle East and North Africa. Meanwhile, Mr. Putin, is expanding the Russian influence.

There are some bright spots. One is that Ms. Merkel seems committed to playing a lead role as the United States pulls back; another is France’s election of President Emmanuel Macron, who has demonstrated a willingness to work in partnership with Ms. Merkel.

Mr. Macron’s first foreign visit was to Berlin and just days later, he met with Trump. In that occasion the French President went to a political point: I’m not your patsy. And he made an equally strong point when he met in Versailles with Mr. Putin, who had probably worked to aid his rival, Le Pen. Again, the message was clear: No major issue can be resolved without talking to Russia, but differences with Moscow should not be swept under the rug. For now, it looks as if it is up to Ms. Merkel and Mr. Macron to keep the alliance alive and relevant, at least until Mr. Trump wakes up to the need for American leadership or until another, wiser president replaces him.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

UN IMPERIALISTA TEDESCO HA APERTO LA STRADA ALLA CINA PER RIANIMARE LA VIA DELLA SETA

I. M. Sala | Quartz | 13 Maggio 2017

Per secoli e infiniti sentieri, i popoli hanno fatto avanti indietro dall’Europa e dall’Asia portando con sé religioni come il buddismo, il cristianesimo e l’islam; beni come la porcellana, vestiti e pigmenti; e anche la peste. Questi scambi culturali e commerciali sono stati fatti per secoli quasi anonimamente, fin quando un imperialista tedesco non ha usato per la prima volta il termine “Via della Seta”.

Dal 2013, il presidente cinese Xi Jinping sta cercando di ripristinare la famosa via di commercio con il suo progetto “One Belt One Road” (OBOR). Il nome si riferisce ad un via terrestre che parte dalla Cina e arriva fino a Londra, e una via marittima che parte dall’Asia sudorientale.  Ma la visione di una Via della Seta come un corridoio di commercio che unisce Asia ed Europa, che OBOR sta cercando di promuovere, è stata determinata almeno in parte da un atto di immaginazione coloniale del XIX secolo. La “Via della Seta”, come termine, è abbastanza recente: infatti fu utilizzato per la prima volta nel 1877 da un geografo tedesco, il Barone Ferdinand von Richthofen, poiché stava cercando di promuovere l’idea di una ferrovia che dalla Cina arrivasse in Europa. A quel tempo, la Germania aveva interessi coloniali nella Cina orientale. Ed esattamente da lì, Richthofen voleva che partisse la ferrovia che avrebbe dovuto portare carbone in Europa, ma lui morì nel 1905 senza riuscire a compiere alcun passo in avanti. Altri tentarono di seguire questa idea ma con lo scoppio della seconda guerra mondiale fu evidente che il progetto era impossibile da realizzare e il piano fu accantonato.

Nel battezzarla “La Via della Seta”, Richthofen voleva evidenziare che la seta fosse il capo più importante nello scambio, e rafforzare l’idea della Cina come promotore del commercio, il fulcro. Indubbiamente, la seta  ha giocato un ruolo importante per il commercio, ma era solo uno dell’ampia gamma di beni che venivano e arrivavano dalla Cina. Mentre la seta cinese era richiesta in diversi luoghi, ed era anche utilizzata come valuta per certi tipi di transazioni, la Cina, allo stesso modo, importava diversi beni da altri paesi, come l’oro e le gemme.

Tuttavia, per molto tempo, il termine “Via della Seta” fu visto come un qualcosa di estraneo alla Cina, e i decenni della guerra fredda, la rottura sino-sovietica, e la stagnazione economica del paese resero improbabile un suo ripristino. Oggi la Cina sta progettando una rete di collegamenti che porterebbe alla creazione di un sistema più grande e compatto di trasporti nell’Asia centrale e in Europa e sta anche riproponendo le vie di commercio marittime che collegherebbero il mercato cinese ad ogni altro mercato mondiale. Da notare la scala su cui agirebbe la OBOR rispetto all’antica Via della Seta:  infatti, il popolo cinese non ha prova che ci fosse un commercio su vasta scala, ma solo che il commercio fosse di tipo locale. In ogni caso, nuove idee, religioni, influenze artistiche erano costantemente fonti di scambio. E questi tipi di scambi, paradossalmente, potrebbero essere di meno interesse nella nuova Via della Seta. La Cina di Xi sta, infatti, progressivamente chiudendo le porte alle influenze esterne, e sta incoraggiando la “paranoia” verso molti stranieri, rimanendo invece molto interessata alle esportazioni dei suoi beni verso un mercato vasto e lontano. Ancora, dal momento che sta investendo miliardi di dollari, la sua determinazione nel voler attuare la OBOR potrebbe avere delle conseguenze su queste reti che, come quelle antiche, a volte potrebbero sembrare piccole e a volte di vasta portata.


A GERMAN IMPERIALIST PAVED THE WAY FOR CHINA TO REVIVE THE “SILK ROAD”

People from Europe and Asia moved back-and-forth through the centuries on the countless paths, bringing with them world religions like Buddhism, Christianity, and Islam; goods like porcelain, clothing, and pigments; and even the plague. These cultural and commercial exchanges had carried on for centuries quite namelessly—until a German imperialist dubbed them the “Silk Road.”

Since 2013, Chinese president Xi Jinping has been trying to revive the famed trade route with his  project, One Belt One Road. The name refers to a land “belt” made up, among other things, of railways stretching from China to London, and a maritime “road” made up of ports in Southeast and South Asia, and all the way to Greece. But the vision of the Silk Road as a trading corridor uniting Asia and Europe that OBOR is trying to promote has been shaped at least in part by a 19th-century act of colonial imagination. The ‘Silk Road,’ as a term, is really fairly recent: it was used for the first time in 1877, by the German geographer Baron Ferdinand von Richthofen, as he was trying to promote the idea of a railway from China to Europe.  At that time, Germany had colonial interests in eastern China. From there Richthofen wanted to have a railway that could carry coal all the way to Europe, but he died in 1905 without making much headway. Others carried on the effort until eventually World War II made the project impossible to pursue, and the idea was cast aside.

By baptizing it “The Silk Road,” Richtofen wanted to underline that “silk” was the most important item to cross the mountains and the valleys,  and he cemented the idea of China as the initiator of the trade, the pivotal point in the line. Undoubtedly, silk played an important role for the trade, but it was just one among a large variety of goods coming out of and going into China. While Chinese silk was coveted in many places, and was even used as currency for certain transactions, China coveted items from other countries too, ranging from gold and horses, to pigments and gems.

For a long time, the term “Silk Road” was seen as a foreign one in China, and the decades of the Cold War, the Sino-Soviet split, and the country’s long years of economic stagnation also made any kind of revival unlikely at any time earlier. Today China,  the second-largest economy in the world, is pursuing a connected network that would create a much larger and more compact system of transport across Central Asia and all the way to Europe. It’s also recreating old maritime commerce routes to connect the Chinese market to just about every other market in the world. That’s a scale that’s quite different from the old routes. In fact, Chinese people has absolutely no evidence that there was large-scale commerce, but just that the trade was small-scale and local. In any case, new ideas, new religions, and new artistic influences were constantly transported along  fragmented networks. These kinds of exchanges, paradoxically, may be of less interest in the OBOR incarnation of the Silk Road. China under Xi Jinping has been progressively closing the door to outside influences, and encouraging paranoia about some kinds of foreigners, while remaining very much interested in exporting its own goods to markets far and wide. Still, as China invests billions of dollars, and its prestige, in bringing about the Silk Road’s latest incarnation, it may find that the effects of these networks, like those of the old routes, may be at times smaller, and at other times more far-reaching than it can foresee.

Sintesi e traduzione di Enrica Piccolo | Articolo originale

BEHIND CHINA’S $1 TRILLION PLANE TO SHAKE UP THE ECONOMIC ORDER

J. Perlez, Y. Huang | The New York Times |May 13, 2017


Nel Laos numerosi ingegneri cinesi stanno costruendo migliaia di tunnel e ponti per collegare 8 stati asiatici: valore del piano, 6 miliardi di dollari. Inoltre, i contanti cinesi stanno foraggiando la costruzione di centrali elettriche in Pakistan, per un investimento di 46 miliardi. Ancora, gli ingegneri cinesi stanno progettando linee ferroviarie da Budapest a Belgrado, fornendo un’ulteriore via per i beni cinesi che arrivano in Europa tramite un porto (cinese) in Grecia.

Questi imponenti progetti di infrastruttura formano la colonna portante dell’ambiziosa agenda geopolitica ed economica della Cina. Il presidente Xi Jinping intende esportare il suo modello di sviluppo per creare collegamenti economici più intensi e rafforzare le relazioni diplomatiche: questa iniziativa, chiamata “One Belt One Road”, promette più di 1 triliardo di dollari in infrastrutture e coinvolge più di 60 paesi. Xi Jinping sta puntando sulla ricchezza del suo paese e sulle sue competenze tecniche per creare un nuovo tipo di globalizzazione, che farà a meno delle regole delle istituzioni occidentali.

Quindi, l’obiettivo è di realizzare un nuovo ordine economico mondiale, portando tutti questi paesi nell’orbita cinese. Il progetto, chiaramente, fa gli interessi economici della Cina. Infatti, con una crescita che va diminuendo nel proprio territorio, la Cina sta producendo più acciaio, cemento e macchinari. Più di quanto abbia in realtà bisogno: perciò Xi Jinping sta guardando il resto del mondo, in particolare i paesi in via di sviluppo, per far sì che il suo motore dell’economia continui a girare. Potrebbe sembrare che il presidente cinese stia proponendo una versione più audace del piano Marshall: effettivamente, se gli Stati Uniti intendevano assicurarsi degli alleati nel continente, la Cina, allo stesso modo, sta utilizzando migliaia di miliardi di dollari nella speranza di trovare nuovi alleati nel mondo. Il piano di Xi Jinping si regge in piedi nonostante la netta opposizione del presidente Trump, a maggior ragione che la sua amministrazione si è tirata fuori dall’accordo commerciale trans-pacifico che era concepito come una roccaforte contro la crescente influenza cinese. Ad ogni modo, gli Stati Uniti e molti dei suoi maggiori alleati asiatici ed europei sono cauti nell’approcciarsi al progetto, restii a piegarsi agli obiettivi strategici della Cina. Comunque sia, è impossibile per ogni leader mondiale ignorare la spinta propulsiva della Cina nel voler ricreare un nuovo ordine di commercio globale.

INFLUENZA TRAMITE LE INFRASTRUTTURE – Quando Xi Jinping annunciò il piano “One Belt One Road” nel settembre 2013, fu evidente che Pechino avrebbe dovuto fare qualcosa per le industrie che erano riuscite a costruire le odierne metropoli cinesi, ferrovie e strade. Ma la Cina presto non aveva più nulla da costruire e così la crescita iniziò a rallentare. A quel punto, il piccolissimo Laos divenne il fulcro della strategia cinese per erodere il potere americano nel sudest asiatico. E l’influenza americana nella regione ha cominciato ad indebolirsi. Nel piano di Xi Jinping, ogni nazione che aderisce ha dei vantaggi strategici. Le centrali elettriche in Pakistan sono un baluardo politico. Tramite la sua crescita, La Cina vuole smussare l’espandersi di terroristi pakistani nel confine della regione Xinjiang, dove vive un’irrequieta popolazione di musulmani. In Kenya, la Cina sta progettando una ferrovia dal porto di Mombasa a Nairobi che faciliterà l’arrivo di beni cinesi. Insomma, la One Belt One Road inizierà a fornire infrastrutture, portando nuove rotte di commercio e un migliore collegamento tra Asia ed Europa. Inoltre, il presidente cinese si sforzerà di convincere gli stati ancora scettici che l’iniziativa non è una copertura per un controllo strategico.

CALCOLANDO I RISCHI – Per anni, il Laos e la Cina hanno litigato sul finanziamento del progetto: con un costo di circa 6 miliardi di dollari, i funzionari in Laos si chiedevano come avrebbero potuto permettersi le loro azioni. L’output del paese è solo di 12 miliardi annui. Un’analisi delle fattibilità di una compagnia cinese disse che la ferrovia avrebbe perso soldi per i primi 11 anni. In Indonesia, la costruzione di una ferrovia ad alta velocità tra Giacarta e Bandung, finalmente è iniziata lo scorso mese dopo discussioni sull’acquisizione della terra. In Tailandia, il governo sta chiedendo migliori termini per la ferrovia. Per quanto concerne la Russia, Putin sarà al centro della conferenza di Pechino. Le grandi aspettative delle élite russe riguardo One Belt One Road sono state analizzate, e adesso gli oligarchi e i funzionari sono scettici circa i risultati pratici. Ma la Cina sta facendo dei calcoli che dimostrino che i benefici sono maggiori dei rischi. Gli ingenti investimenti potrebbero complicare gli sforzi fatti da Pechino per tamponare l’esodo di capitale che peserebbe sull’economia. Secondo alcuni stimatori, oltre metà dei paesi che hanno aderito al progetto One Belt One Road hanno un’affidabilità creditizia al di sotto dei gradi di investimento. Un ulteriore vincolo sull’entusiasmo dell’investitore è che molti paesi nella regione centro asiatica, dove c’è molta fiducia nel progetto, sono caratterizzate da economie deboli e instabili, da un’amministrazione pubblica povera, instabilità politica e corruzione. Il Laos, quindi, è uno dei partner a rischio. Infatti, sebbene il governo comunista sia amico di lunga data della Cina, il Laos si sta guardando attorno alla ricerca di nuovi alleati, inclusi i rivali della Cina, nella regione come Giappone e Vietnam, dovuto alla paura della dominazione cinese. E dopo cinque anni di negoziazioni sul binario, il Laos finalmente ha ottenuto un migliore accordo, ovvero un prestito di 800 milioni di dollari dalla Cina. Ancora, il Laos ha un enorme onere del debito e ci sono preoccupazioni che questo debito pubblico possa aumentare del 70%. E tanto per peggiorare le cose, contadini non vogliono cedere le loro terre. Quindi, il progetto della ferrovia è positivo per il Laos?



In Laos, squads of Cinese engineers are drilling hundreds of tunnels and bridges to support a 260-mille railway, a $6billion project that will eventually connect eight asian countries. Moreover, chinese money is building power plants in Pakistan,  part of an expected $46 billion worth of investment. Chinese planners are mapping out train lines from Budapest to Belgrade, Serbia, providing another artery for Chinese goods flowing into Europe through a Chinese-owned port in Greece. The massive infrastructure projects form the backbone of China’s ambitious economic and geopolitical agenda. President Xi Jinping of China is exporting its model of state-led development in order to create deep economic connections and strong diplomatic relationships.  The initiative, called “One Belt One Road”, promises more than $1 trillion in infrastructure and spans more than 60 countries. Mr. Xi is aiming to use China’s wealth and industrial know-how to create a new kind of globalization that will dispense with the rules of the Western-dominated institutions. Therefore, the goal is to refashion the global economic order , bringing countries into China’s orbit.  The projects inherently serve China’s economic interests. With growth slowing at home, China is producing more steel, cement and machinery than the country needs. So Mr. Xi is looking to the rest of the world, particularly developing countries, to keep its economic engine going. It seems that Mr. Xi is rolling out a more audacious version of the Marshall Plan. But, actually, the USA extended vast amounts of aid to secure alliances in Europe. In the same way, China is deploying hundreds of billions of dollars in the hope of winning new friends around the world. Obviously, Mr. Xi’s plan stands in stark contrast to President Trump. But the Trump administration walked away from the Trans-Pacific partnership, the American-led trade pact that was envisioned as a buttress against China’s growing influence. The USA and many of its major European and Asian allies have taken a cautious approach to the project, leery of bending to China’s strategic goals. In any case, it is impossible for any foreign leader to ignore China’s push to remarke global trade.

INFLUENCE VIA INFRASTRUCTURE – When Mr. Xi announced the “One Belt One Road” plan in September 2013, it was clear that Beijing needed to do something for the industries that had succeeded in building China’s new cities, railways and roads. China did not have a lot left to build, and growth started to sputter. The tiny Laos is linchpin in Beijing’s strategy to chip away at American power in Southeast Asia. So American influence in the region is seen to be waning. However, each nation in Mr. Xi’s plan brings its own strategic advantages.  The power plants in Pakistan are a political bulwark. By its growth, China wants to blunt the spread of Pakistan’s terrorists across the border into the Xinjiang region, where a restive Muslim population of Uighurs resides.  In Kenya, China is upgrading a railway from the port of Mombasa to Nairobi that will make it easier to get Chinese goods into the country. And Kenya will benefit for years from maintenance contracts.  China’s Belt and Road initiative is starting to deliver useful infrastructure, bringing new trade routes and better connectivity to Asia and Europe. And Xi will struggle to persuade skeptical countries that the initiative is not a smokescreen for strategic control.

CALCULATING THE RISKS – For years, Laos and China sparred over financing. With the cost running at nearly $6 billion, officials in Laos wondered how they would afford their share. The country’s output is just $12 billion annually. A feasibility study by a Chinese company said the railway would lose money for the first 11 years. In Indonesia, contruction of a high-speed railway between Jakarta and Bandung finally began last month after arguments over land acquisition. In Thailand, the government is demanding better terms for a vital railway.  Concerning Russia, Mr. Putin will be at the center of the Beijing conference.  Russia’s elites high expectations regarding Belt and Road have gone through a severe reality check, and now oligarchs and officials are skeptical about practical results. But China is making calculations that the benefits will outweigh the risks.  The investments could complicate Beijing’s effort to stem the exodus of capital outflow that have been weighing on the economy.  By some estimates, over half the countries that have accepted Belt and Road projects have credit ratings below investments grade. A major constraint in investor enthusiasm is that many countries in the central asian region, where the initial thrust is focused, suffer from weak and unstable economies, poor public governance, political stability and corruption. Laos is one of the risky partners. Although the communist government is a longstanding friend of China, Laos is casting around for other friends, including China’s regional rivals Japan and Vietnam, due to fearing China’s domination. And after five years of negotiations over the rail line, Laos finally got a better deal. Laos has an $800 million loan from China. Still, Laos faces a huge debt burden and there are concerns that public debt could rise to around 70% of the economy.  And to make matters worse, farmers are balking at giving up their land. So, is the rail project good for Laos?

Sintesi e traduzione a cura di Enrica Piccolo

Articolo originale

FIVE REASONS WHY MACRON WON THE FRENCH ELECTION

Becky Branford | BBC News | 09/05/2017

Emmanuel Macron ha innescato un terremoto politico nella politica francese. Solo un anno fa era membro del governo al fianco di uno dei presidenti meno popolari della storia francese ed ora, a 39 anni, è stato eletto Presidente della Francia. Vediamo i cinque motivi che hanno portato Macron a vincere le elezioni presidenziali:

E’ stato fortunato: Non c’è alcun dubbio. Uno scandalo pubblico ha messo fuori dai giochi il candidato di centro destra, ed iniziale favorito, François Fillon; così come il candidato Socialista Benoît Hamon ha subito una batosta pubblica durante la campagna elettorale.

-E’ stato intelligente: ha deciso di lasciare i socialisti e di guardare ai movimenti politici sorti in Europa – Podemos in Spagna, il Movimento 5 Stelle in Italia  – comprendendo che non esisteva un partito equivalente in Francia. Nell’aprile 2016 ha fondato il suo movimento: En Marche!

-Ha provato qualcosa di nuovo in Francia: Ha preso spunto dalla campagna elettorale di Obama del 2008 e, durante il cosiddetto Grande Marche ha impiegato i propri attivisti, senza esperienza ma ricchi di energia. Questi hanno bussato a 300.000 porte e somministrato 25.000 interviste agli elettori in tutto il Paese. Ciò è stato utile sia per ottenere informazioni circa le priorità e le politiche da utilizzare durante la campagna elettorale del partito, sia per presentare il Movimento alla gente.

-Aveva un messaggio positivo: L’identità politica di Macron è contraddittoria: è il nuovo arrivato pur essendo l’ex pupillo di Hollande e già Ministro dell’Economia; un centrista con un programma radicale contro il settore pubblico. Anche Marine Le Pen lo ha descritto come candidato per le élite e non come il novizio che egli diceva di essere. Ma Macron ha avuto il merito di non farsi identificare come un altro Hollande, creandosi un profilo idoneo per rispondere all’esigenza disperata di quelli che avevano bisogno di qualcosa di nuovo. E’ giovane, pieno di energia ed ha spiegato come le persone avrebbero avuto nuove opportunità. E’ stato l’unico a portare questo tipo di messaggio. 

Era contro Marine Le Pen: il messaggio della Le Pen era negativo, contrario all’immigrazione, antieuropeista ed antisistema. La Campagna di Macron era raggiante ed accompagnata da musica pop, contrariamente ai meeting di massa dell’avversaria che spesso portavano proteste, con tanto di lanci di bottiglie, fiamme e polizia ovunque. Molti francesi si sono allarmati di fronte alla possibilità destabilizzante di eleggere un presidente di estrema destra e hanno visto in Macron l’unica alternativa.


Emmanuel Macron has triggered a political earthquake in French politics. A year ago, he was a member of the government of one of the most unpopular French presidents in history. Now, at 39, he has been elected President of France. Let’s see five reason why Emmanuel Macron has won the French presidential election.

He got lucky: No doubt about it. A public scandal knocked out the initial frontrunner, centre-right candidate François Fillon; and Socialist candidate Benoît Hamon, suffered a very public drubbing during the election.

He was canny: He decided to left the Socialists, and he looked at political movements that have sprung up elsewhere in Europe – Podemos in Spain, Italy’s Five-Star Movement – and saw that there was no equivalent game-changing political force in France. In April 2016, he established his movement: En Marche!

He tried something new in France: Having established En Marche, he took his cue from Barack Obama’s grassroots 2008 US election campaign. During the Grande Marche (Big March), when he mobilised his energised but inexperienced En Marche activists. He sent out people to knock on 300,000 doors and carried out 25,000 in-depth interviews with voters across the country. On one side the information helped to form campaign priorities and policies, on the other side It introduced the new movement to the people.

He had a positive message: Mr Macron’s political persona appears beset with contradictions.

The “newcomer” who was President Hollande’s protege and then economy minister; the centrist with a radical programme to slash the public sector. Also Marine Le Pen, said he was the candidate of the elite, not the novice he said he was. But he dodged attempts to label him as another François Hollande, creating a profile that resonated among people desperate for something new. He’s young, full of energy, and he explained how people will get opportunities. He’s the only one to have this kind of message.

He was up against Marine Le Pen: Marine Le Pen’s message came across as negative – anti-immigration, anti-EU, anti-system. Macron campaign rallies featured brightly lit arenas blaring with pop music, while Marine Le Pen’s mass meetings involved protesters throwing bottles and flares, a heavy police presence.

Many were alarmed by the prospect of a potentially destabilising and divisive far-right presidency and saw him as the last obstacle in her way.

Sintesi e traduzione a cura di Lorenzo Salvati 

Articolo originale

DA INSIDER AD OUTSIDER, ROUHANI VINCE LE ELEZIONI IRANIANE E APRE AL RIFORMISMO

Oltre 40 milioni di elettori ed un nome: Hassan Rouhani. L’Iran ha scelto un clerico moderato per la guida del Paese e non era per nulla scontato. Già, perché il risultato delle elezioni è stato incerto sino all’ultimo e il confronto fra i due competitors, Rouhani appoggiato dai moderati da una parte e Raisi con i più conservatori dall’altra, è stato tra i più aspri di sempre.

I toni della campagna di Raisi, infatti, sono stati molto forti ed erano tesi a denigrare e screditare i precedenti quattro anni di governo Rouhani. Dipinto dai conservatori iraniani come una Presidenza inefficace e debole, Raisi ha voluto mostrare agli elettori gli insuccessi del governo del clerico moderato: alti tassi di disoccupazione, povertà rurale e, per lunghi tratti, antagonista ai dettami islamici. I fedeli di Raisi, certamente, non hanno perdonato ai moderati di essersi seduti al tavolo con gli Stati Uniti e di essersi piegati alle decisioni del nemico. Il programma conservatore voleva, dunque, staccarsi dalla Presidenza precedente promuovendo un ritorno al passato: islamismo, anti-capitalismo e linea dura con l’Occidente. Una ricetta intransigente già vista e che ha portato al raffreddamento delle relazioni internazionali con il serio rischio di un confronto, anche nucleare, con Israele e USA. Ricetta che comunque ha attirato il sostegno dell’Ayatollah Khamenei, Guida Suprema dell’Iran e in grado di spostare molti voti soprattutto fra gli indecisi.

Nel campo moderato, invece, i temi erano diversi e si respirava un vento nuovo, riformista: giovani, donne e clerici, insieme, hanno, a più volte, richiesto l’apertura ad ovest e una riforma economica. Tutto questo sotto la guida di Rouhani, espressione della Teheran nord: ricca, borghese e giovane. Nei molti eventi organizzati, i discorsi di Rouhani non sembravano quelli di un clerico 68enne espressione della borghesia cittadina, ma quelli di un giovane outsider stanco del giogo delle élite. “Vogliamo la libertà di stampa, la libertà di associazione e la libertà di pensiero” così Rouhani aveva chiuso il suo discorso allo stadio Azadi nella capitale iraniana di fronte a più di 10.000 sostenitori.

Il popolo viola, dai colori scelti per la campagna politica dell’incumbent, è fatto di molti giovani e donne che hanno scelto il loro leader che vuole riformare l’Iran, di nuovo. Dialogare con l’America, dire la sua nella questione siriana, diventare il key player della regione: questi sono gli obiettivi di Rouhani, l’uomo che ha intercettato il voto di molti e che è riuscito ad opporsi all’avanzata religiosa di Raisi, forte dell’appoggio della Guardia rivoluzionaria e dell’Ayatollah Khamenei.

La partita non è facile, soprattutto ora che Trump dalla vicina Arabia Saudita tuona contro la “maligna influenza iraniana” e il potere della Guida Suprema Khamenei, al quale spetta, secondo l’ordinamento iraniano, l’ultima parola su tutte le decisioni politiche, soprattutto quelle in politica estera. Come negli scacchi, certe partite possono essere molto lunghe e snervanti e certamente sarà così per la partita nel riformare l’Iran che non può permettersi, ora più che mai, di uscire dal panorama internazionale, lasciando il ruolo di egemone regionale agli ingombranti sauditi. La scacchiera è allestita da tempo e, forse, ora l’Iran è pronto a riformarsi e, nell’attesa che le sanzioni vengano cancellate, aprirsi economicamente al mondo intero. Occidente compreso.

Nicola Bressan

LA TELEFONATA DEL DISGELO

La telefonata del disgelo – È la prima volta dall’attacco missilistico degli Stati Uniti alla base siriana di Al Shayrat: Trump e Putin si sentono telefonicamente. Al centro del colloquio la Siria e la Corea del Nord ma, soprattutto, i due hanno gettato le basi per un prossimo incontro. Il primo faccia a faccia potrebbe svolgersi all’inizio di luglio ad Amburgo in occasione del G20, anche se alcuni sostengono che potrebbe svolgersi già tra il 25 e il 27 maggio durante la prossima visita di Trump in Europa, in occasione del vertice NATO a Bruxelles e del G7 di Taormina.

Le prime impressioni sul colloquio – La Casa Bianca ha fatto sapere che tra i due leader di Washington e Mosca c’è stata una convergenza di vedute sulla lotta al terrorismo e sul consolidamento del cessate il fuoco in Siria, nella quale il conflitto va avanti da troppo tempo secondo entrambi.

Dall’altro lato il Cremlino tramite la Itar-Tass, l’agenzia di stampa ufficiale russa, ha fatto sapere che dal colloquio telefonico è emersa la necessità di un coordinamento tra il Ministro degli Esteri russo e il Segretario di Stato americano per un cessate il fuoco che sia sostenibile e controllato in Siria.

Corea del Nord e Siria: i temi della telefonata – È chiaro per tutti che il disgelo russo-statunitense debba necessariamente passare per Il Medio Oriente.

Se riguardo alla crisi nord-coreana Putin ha invitato Trump a mostrare moderazione nei confronti del regime missilistico di Pyongyang, riguardo invece alla Siria sembra essere stato fatto un piccolo passo in avanti. C’è infatti la regia di Putin e Trump dietro l’intesa a cui sono giunti il leader russo ed il Presidente turco Erdogan.

Il piano consiste nella creazione di quattro zone sicure in Siria: nella provincia nord-occidentale di Idlib, nella provincia occidentale di Homs, nella zona di East Goutha nei pressi di Damasco e infine nella regione meridionale del Golan al confine con la Giordania.

In queste quattro aree verrebbero assicurati, oltre al divieto di volo e al rispetto della tregua, gli aiuti umanitari alle popolazioni locali e il rientro dei primi profughi fuggiti all’estero.

Le condizioni e gli ostacoli per le quattro zone sicure – Il rispetto dell’accordo verrebbe garantito probabilmente da una formazione mista: truppe statunitensi, russe, turche e iraniane costituirebbero i cosiddetti “peacekeepers” e vigilerebbero sulle quattro macro-aree. Oltre alla problematica che riguarda la provenienza dei peacekeepers c’è da sciogliere un altro nodo.

I curdi, infatti, rivendicherebbero un ruolo nello scenario che si verrebbe a creare in una Siria così frammentata ma l’accordo non sarebbe certo facilmente raggiungibile, dato il cattivo sangue che corre tra di loro e i turchi. E se fino ad ora è stato possibile evitare uno scontro aperto e diretto tra l’esercito curdo e le milizie curde, ciò è avvenuto soprattutto grazie all’intercessione statunitense. Questa è certamente una delle ragioni per cui Putin ha dichiarato molto spesso, anche recentemente, che la risoluzione della crisi siriana è impossibile senza una mediazione statunitense.

Un’altra telefonata di distensione – Il disgelo tra Russia e Stati Uniti è testimoniato anche da un’ulteriore telefonata, quella tra Valeri Gherasimov e Joseph Dunford, rispettivamente Capo di Stato Maggiore russo e americano. Entrambi hanno ribadito la disponibilità a ripristinare la linea diretta per evitare gli incidenti nello spazio aereo siriano.

La linea era stata sospesa in seguito all’attacco missilistico statunitense contro la base siriana di Al Shayrat, da dove Washington sospetta che siano decollati gli aerei che hanno causato il massacro di Khan Sheikhun con il presunto uso di armi chimiche, negato da Damasco e Mosca.

Reazioni e aspettative – Una delle note positive dell’elezione di Trump sembrava essere la probabile fine delle tensioni con la Russia. Si può dire però che in questi primi 100 giorni di presidenza la politica estera di Trump si sia dimostrata piuttosto turbolenta. Il tycoon, sentendosi probabilmente poco apprezzato riguardo alle iniziative prese in politica interna, criticato a più riprese dalla stampa e bloccato su più fronti, ha reagito con forza alla crisi nordcoreana e a quella siriana. Chissà, forse proprio a partire da questa telefonata le aspettative su una riconciliazione tra Stati Uniti e Russia non verranno più deluse.

Simone Stellato

IL GAME CHANGER IRANIANO

In inglese si definisce “game changer” una persona o una cosa che influisce in maniera significativa sul risultato finale di un processo. Nelle elezioni iraniane il game changer è stato, senza dubbio, il Consiglio dei Guardiani. Formato da 6 teologi e 6 giuristi, il Consiglio ha il compito di verificare la conformità delle deliberazioni parlamentari iraniane con l’Islam e la Costituzione. Ma il ruolo chiave giocato dai 12 esperti non finisce qui: essi, infatti, hanno il compito di verificare l’idoneità delle candidature parlamentari e presidenziali, potendo persino invalidare il voto popolare. E’ proprio seguendo questa linea che il Consiglio dei Guardiani ha deciso di bocciare la candidatura del falco conservatore Ahmadinejad. Divenuto famoso per le sue posizione antisemite e negazioniste, la candidatura alle elezioni presidenziali dell’ex sindaco di Teheran aveva suscitato alcuni timori fra i commentatori iraniani. Nel suo precedente mandato presidenziale, fra il 2005 e il 2013, aveva apertamente sfidato l’Occidente e gli Stati Uniti minacciando di attaccare militarmente lo stato israeliano. Nei primi mesi dalla sua elezione, Ahmadinejad aveva, infatti, ampiamente contestato il diritto di esistere di Israele specificando che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi era illegale e chiunque avesse riconosciuto Israele sarebbe “bruciato nel fuoco della furia della nazione islamica”. Israele doveva, nelle sue parole, “essere cancellata dalla mappa geografica”.

La presidenza di Ahmadinejad aveva destabilizzato lo status quo persino all’interno dei confini iraniani. La poetessa Fatemeh Shams alcuni giorni fa, dalla sua pagina di Facebook, ha ricordato come la presidenza di Ahmadinejad aveva scosso la nazione iraniana versando sangue innocente, esiliando gli uomini più ingombranti e imprigionando ingiustamente decine di persone.

Il game changer iraniano 2

Una possibile vittoria di Ahmadinejad avrebbe potuto, dunque, destabilizzare nuovamente la regione e la nazione. In molti, infatti, vedono nella decisione del Consiglio dei Guardiani la lunga mano della Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Khamenei, leader supremo della Repubblica Islamica Iraniana, aveva già in precedenza espresso tutta la sua contrarietà alla candidatura dell’ex sindaco di Teheran, considerata pericolosamente destabilizzante per il Paese. Nonostante il consiglio dell’Ayatollah, Ahmadinejad aveva comunque proseguito, forte di alcuni appoggi nell’ala più conservatrice delle Guardie della Rivoluzione, e nella sua campagna elettorale aveva sfidato apertamente il potere della guida suprema del Paese.

Ora, però, la sfida resta orfana del candidato più discusso e forse più temuto dall’Occidente. La corsa si accende attorno a tre figure. L’ala moderata punta sulla rielezione dell’incumbent Hassan Rouhani. Nonostante i moderati abbiano molte possibilità di vittoria, l’attuale situazione di difficoltà economica, dovuta in particolare alle sanzioni ancora in vigore, potrebbe spingere molti indecisi verso una scelta più conservatrice. Nel campo conservatore, infatti, spiccano due candidature: quella del laico Mohammad Baqer Ghalibaf, sindaco di Teheran, già capo delle forze di polizia e vicino all’ala militare del Paese, e quella di Ebrahim Raisi considerato da molti come il futuro erede dell’Ayatollah Khamenei e, per questo, ben visto dalle forze religiose del Paese. Molti sono gli indecisi che il 19 maggio si recheranno alle urne ma una cosa però è certa: Ahmadinejad potrà solamente guardare la corsa. Quando il Consiglio dei Guardiani parla, cambia realmente il destino del Paese.

Nicola Bressan

SUICIDIO E TRAMONTO DELLA QUINTA REPUBBLICA

Le elezioni presidenziali del 2002 furono considerate una sorta di “11 settembre” politico per la Francia: tuttavia in quel caso il Presidente gollista Chirac riuscì ad arginare il fenomeno elettorale e mediatico del Front National grazie ad una vittoria schiacciante al secondo turno, facendo tirare un sospiro di sollievo all’Europa intera. Lo spettro dell’ondata populista ed estremista sembrò allontanarsi. In realtà, quel terremoto politico di 15 anni fa si è manifestato nella sua reale potenza distruttiva soltanto ai giorni nostri.

Oggi, come allora, si cerca di correre ai ripari mobilitando un vasto movimento repubblicano, guidato dall’acerbo e politicamente inesperto Macron, capace di unire tutte le forze partitiche francesi per salvare soprattutto il destino del Vecchio Continente. Ma è qui che si annida il grande fraintendimento. Fatta eccezione per il Front National, queste elezioni hanno dimostrato la totale mancanza di fiducia degli elettori francesi nei confronti dei vecchi partiti di appartenenza.

Il partito neo-gollista (“Les Républicains”) ha compiuto il proprio seppukuanteponendo all’unità del partito stesso le mire personali dei capi-corrente. Le disavventure giudiziarie di Fillon hanno depotenziato notevolmente le possibilità di quest’ultimo. Abbandonato dal proprio partitoa pochi mesi di distanza dall’investitura trionfale delle primarie dello scorso novembreFillon è riuscito comunque ad ottenere un ragguardevole 20% di preferenze, a dimostrazione della tenacia dimostrata in questa lunghissima campagna elettorale.

Lo stesso copione si è ripetuto in maniera ancor più radicale con il candidato socialista Benoît Hamon, che è riuscito a raccogliere solamente un misero 6%Hamon ha dovuto pagare la perdita di credibilità del Partito Socialista dopo il quinquennio disastroso all’Eliseo di Hollande, oltre alle feroci lotte interne al partito che ne hanno minato fortemente l’unità.

“Meglio sbagliare stando dalla parte dei lavoratori che aver ragione contro di essi”: le parole di Pietro Nenni sintetizzano abbastanza fedelmente lo spirito con cui l’elettorato socialista disilluso ha virato in modo deciso verso il candidato “post-comunista” Jean-Luc MélenchonQuest’ultimo ha sbaragliato la debolissima concorrenza di Hamon, raccogliendo oltre il 19%. Fillon e Hamon sono stati penalizzati enormemente – con sviluppi ed evoluzioni diverse per i due casi – dalla propria appartenenza ad un partito tradizionale. Questa è la prima conclusione che si può trarre dal primo turno delle presidenziali francesi. La politica nelle democrazie contemporanee diviene sempre più focalizzata sulla personalità dei candidati. Il partito – per quel che ne rimane – s’identifica sempre più strettamente con il proprio leader. 

“I miei elettori mi hanno dato un mandato per il primo turno, non per il secondo”: Questa è stata la dichiarazione con cui lo stesso Mélenchon ha annunciato la totale di libertà di coscienza per il proprio elettorato in vista del secondo turno. Nei giorni successivi il suo entourage ha trovato una forma di mediazione, consigliando l’astensionismo al ballottaggio pur di non favorire Macron e la Le Pen. Ma lo spirito del tempo sembra andare in una direzione differente, che è quella della democrazia diretta o, per dirla con il compianto Sartori, del “direttismo”.

Persino la Le Pen, pur di intercettare l’elettorato neo-gollista, in questi giorni ha lasciato la leadership del Front National: “Non sono la candidata del Front National, sono la candidata sostenuta dal Front National. Mi sento libera e soprattutto al di sopra della politica dei partiti”. Per una incredibile eterogenesi dei fini la Le Pen potrebbe diventare il vero candidato “gollista” in previsione del ballottaggio? Sembrerebbe alquanto improbabile, ma per il fronte europeista guidato da Macron le cose non saranno così semplici. Soprattutto alla luce delle prossime elezioni legislative. Non a caso, dopo il primo turno delle presidenziali l’attenzione si è spostata alle elezioni parlamentari, che si terranno l’11 e il 18 giugno 2017. La vera incognita rimane, in caso di vittoria al ballottaggio, la capacità e la reale possibilità di formare una coalizione di governo guidata dal neonato movimento di Macron.

Il paese è letteralmente spaccato in dueIl primo turno delle elezioni presidenziali francesi mette il sigillo quasi definitivo – dopo le elezioni americane e l’esito del referendum nel giugno scorso nel Regno Unito – sul vero effetto di divario sociale scaturito dalla globalizzazione e dall’incapacità di formulare una risposta vincente a tale questione da parte delle classi dirigenti europee. Si ripropone la frattura, teorizzata negli anni sessanta da Rokkan, socio-geografica, ancor prima che politica, tra centro e periferia, tra grandi aree urbane e piccoli centri. Naturalmente la teoria delle fratture socio-politiche (cleavages) di Rokkan deve essere contestualizzata, perché la politica – come ci ha insegnato Sartori – non è soltanto un mera proiezione di queste divisioni, bensì è soprattutto esercizio di “traduzione” e di analisi concreta di tali fratture culturali e politiche. Macron dovrebbe tenerlo a mente, perché altrimenti rischierebbe, in ogni modo, di consegnare la vittoria alle presidenziali del 2022 alla Le Pen.

Gian Marco Sperelli

DOPO L’ATTACCO IN SIRIA, COSA RESTA DELL’ONU?

Era chiaro da tempo a molti che la presidenza Trump avrebbe cambiato lo scacchiere geopolitico, ma in pochi avrebbero potuto dire che ciò sarebbe passato attraverso un confronto con la Russia. Forse, il nuovo scenario geopolitico che ci eravamo immaginati prevedeva una nuova fase nei rapporti tra USA e Putin, una sorta di nuovo restart delle relazioni fra le due potenze, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. E invece no. Nulla è sicuro quando si ha a che fare con Trump.  Per l’ennesima volta, infatti, il tycoon newyorkese ci ha smentito oppure, più semplicemente, noi non l’abbiamo ancora capito bene.

L’attacco a Bashar al-Assad ha stravolto tutto quello che credevamo sulla presidenza Trump e, come oramai spesso accade quando si parla del 45esimo Presidente statunitense, abbiamo imparato qualcosa di nuovo. Su di lui e su di noi. Giovedì 6 aprile, di notte, abbiamo intuito che, forse, le Nazioni Unite non funzionano più come tutti noi auspicavamo. A dire il vero qualcosa si era già mosso quando Nikki Haley, ambasciatrice americana all’ONU, mostrando le drammatiche immagini dei bambini siriani colpiti dalle armi chimiche, aveva ammonito il Consiglio di Sicurezza con parole molte dure: “Questo Consiglio di Sicurezza si considera il difensore della pace, della sicurezza e dei diritti umani. Non meritiamo questa descrizione se oggi non agiamo.” La posizione americana era chiara: ci sono momenti in cui l’azione collettiva è richiesta ed altri in cui, non solo è difficile portarla avanti, ma è persino sconsigliata. Sconsigliata perché il problema è che la Carta delle Nazioni Unite è stata pensata nel caso di un conflitto tradizionale, uno stato contro un altro stato. Negli ultimi anni, invece, ci troviamo di fronte all’esplodere di conflitti irregolari, dove persino bande armate sono in grado di minacciare una potenza internazionale.

Il documento che sta alla base dell’ONU sarebbe, dunque, antiquato e incapace di rispondere alle necessità moderne. Quasi dieci anni fa John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali del 2008, sottolineava come l’allargamento indiscriminato delle Nazioni Unite ai paesi non occidentali e non ancora democratici aveva paralizzato il Consiglio di Sicurezza, incapace di agire persino di fronte alla minaccia terroristica. Il candidato repubblicano, infatti, riteneva fallita l’esperienza multilaterale dell’ONU a causa delle ambizioni di Mosca e Pechino, interessate a limitare la sfera d’azione statunitense in politica estera.

Nel caso di Assad, infatti, l’impasse creata ad hoc dall’ambasciatore russo nel Consiglio di Sicurezza ha agitato, e molto, gli Stati Uniti. L’attacco chimico non poteva essere ignorato: immagini di uomini, donne e bambini uccisi lentamente dai gas erano troppo persino per le posizioni isolazioniste di Trump. “Ci rivolgiamo alla sapienza di Dio mentre affrontiamo le sfide di questo mondo travagliato. Preghiamo per le vite dei feriti e per le anime di quelli morti. Finché l’America si batterà per la giustizia, speriamo che la pace e l’armonia, alla fine, prevarranno”.  All’appello di Trump hanno risposto in molti. Uno su tutti: Benjamin “Bibi” Netanyahu che, all’indomani dell’attacco, ha affermato che “Israele supporta completamente e inequivocabilmente la decisione del Presidente e spera che il chiaro messaggio riecheggi non solo a Damasco ma anche a Tehran, Pyongyang e in altri posti”. Israele combatte da anni in Medio Oriente e sta cercando di limitare l’influenza di Hezbollah nella regione. Innanzitutto limitando Assad, sponsor, anche economico, dell’organizzazione libanese.

Sono lontani i tempi dell’America first. The Donald si è risvegliato dal sogno isolazionista e ha capito che non può restare a guardare, incurante di quello che accade in Medio Oriente sotto l’influenza dell’ex amico Putin. Un nuovo protagonismo a stelle e strisce pare stia prendendo forma e, una volta finito con la Siria, il passo successivo potrebbe essere la Corea del Nord dello spavaldo Kim Jong-un. Di fronte a tutto questo c’è un solo spettatore pagante, inerme: l’Organizzazione delle Nazioni Unite, paralizzata ora più che mai.

Nicola Bressan