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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

LIBIA: TERRENO DI CONFRONTO DI UNA NUOVA GUERRA FREDDA?

A marzo il generale USA Thomas Weldhauser, capo dell’African Command, ha accusato la Russia, davanti alla commissione del Senato per le forze armate, di voler influenzare e condizionare l’esito della crisi libica, paragonando tali tentativi alla modalità d’azione utilizzata in Siria.

È stata registrata una forte presenza russa in Egitto e in Libia: in particolare sono state avvistate navi presso il porto egiziano di Sidi Barrani, droni, velivoli cargo e Spetsnaz nell’area di Marsa Matruh, ed in Libia la presenza di contractor russi della RGB Group con l’ufficiale scopo dello sminamento e della bonifica da ordigni (tecnica già utilizzata da Mosca nel 2014 in Ucraina, ossia l’impiego di privati in aree di particolare interesse).

Sembra dunque che la Russia stia dando atto agli accordi militari firmati con Gheddafi nel 2008 – i quali prevedevano l’addestramento delle truppe libiche e la fornitura di risorse militari – a beneficio del generale Haftar. In questa direzione si sono pronunciati prima il Presidente del Parlamento di Tobruk, il quale ha manifestato la volontà di dare atto ai suddetti accordi, poi la Direttrice dell’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri russo Maria Zakharova, che ha menzionato la possibilità di fornitura e addestramento all’esercito Nazionale libico.

Un secondo accordo che preoccupa gli stati europei e l’Italia è un accordo economico concluso il mese scorso il quale prevede la collaborazione della Rosneft (controllata per il 50% dallo Stato russo) e della compagnia petrolifera nazionale libica (NOC) ad intensificare gli investimenti per potenziare l’estrazione di greggio e ammodernare gli impianti.

Il generale Haftar, in un’intervista al Corriere della Sera (2 gennaio), ha dichiarato di avere a disposizione oltre 50.000 uomini e di controllare l’80% del territorio libico, e ha sferrato un duro colpo all’Italia accusandola di stare dal lato sbagliato.

Al-Serraj

Ad oggi, il generale controlla l’intera Cirenaica, ha completato la liberazione di Bengasi, ha riconquistato i terminal petroliferi di Sidra e di Ras Lanuf e minaccia di conquistare Misurata e Tripoli. La sera del 19 marzo la base navale di Abu Sittah, dove Al Serraj era blindato dato il suo precario controllo su Tripoli, è stata attaccata dalla fazione islamista di Khalifa Gwell, capo del destituito Governo di Salvezza di Tripoli appoggiato da un parlamento che si rifiuta di riconoscere l’esecutivo designato dall’ONU e dai Fratelli Musulmani, sui quali Turchia e Qatar hanno grande influenza.

Al-Sarraj si trova dunque spiazzato senza il controllo della Tripolitania, soggetta alle continue sommosse islamiste, ed è appoggiato solamente dalle truppe di Misurata (prossimo probabile bersaglio del generale Haftar). Il GNA si ritroverà, forse e a breve, anche senza sponsor esterni europei e occidentali, i quali continuando a sostenere Al-Serraj non riescono a riservarsi quelle sfere di influenza e di controllo nel territorio libico che si aspettavano. D’altro canto il nemico Haftar è sostenuto fortemente dalla Russia, dall’Egitto e dall’Algeria, e ora si ritrova in una posizione di dominio su buona parte della Libia e sui terminal petroliferi.

Tre schieramenti sono destinate a scontrarsi – e già lo stanno facendo – in Libia: Turchia, Qatar e Arabia Saudita a sostegno dell’Islam; la Russia, sostenuta dal mondo arabo panarabista laico (Egitto e Algeria); USA e UE, che nonostante le loro ambiguità necessitano di mantenere saldi i confini NATO e tenerli lontani da ulteriori potenziali minacce.

Il ministro italiano degli Affari Esteri Angelino Alfano ha avuto modo di far emergere più volte con precisione quale sia il ruolo e la modalità d’azione del contingente italiano a Misurata e della posizione dell’Italia in Libia. Un ruolo che oggi, appunto, trascende e deve trascendere le fazioni belligeranti, ossia quello di apprestare aiuti umanitari. Secondo Alfano è di fondamentale importanza estendere gli aiuti italiani e le operazioni umanitarie (Operazione Ippocrate) su tutto il suolo libico.

Michelangelo Di Castro

IN EGITTO LA RUSSIA DISEGNA IL FUTURO DELLA LIBIA. E NON SOLO.

Alcuni report della scorsa settimana hanno evidenziato la presenza di droni e forze speciali russe nella città egiziana di Sidi Barrani, a soli 100 chilometri dal confine libico. Fonti egiziane, che hanno preferito restare anonime, hanno parlato di 22 unità di forza speciali vicine al confine con la Libia, aggiungendo che, già in precedenza, alcune forze russe erano state avvistate nei pressi del porto egiziano di Marsa Matrouh. 
Nonostante le smentite del Cairo, è ormai chiaro quale sia il disegno della Russia nel Mediterraneo: sconvolgere l’attuale balance of power per imporre l’uomo di fiducia Haftar. 
Lo spiegamento di forze speciali in Egitto, dunque, sarebbe, secondo molti analisti, da ricondurre all’interno della più grande cornice delle relazioni internazionali e, in particolare, del futuro della Libia. 
Il disegno russo sarebbe quello di aiutare militarmente il generale dissidente di Tobruk, Khalifa Belqasim Haftar e, successivamente, mettere pressioni alla comunità internazionale per il riconoscimento del suo governo. Mosca, inserendosi prepotentemente nel futuro libico, riutilizzerebbe la stessa strategia applicata in Siria con l’appoggio a Bashir al-Assad. 
Haftar, infatti, resta uno degli attori centrali nella guerra civile libica e non ha mai nascosto l’ambizione di arrivare a controllare tutta la Libia una volta pacificata. Le truppe dell’ex generale di Gheddafi, in contrapposizione a quelle di Sarraj, sono schierate nella regione orientale del Paese (la Cirenaica) dove si trova il 70% delle riserve petrolifere libiche. Mosca, dunque, sfruttando i rapporti con il generale Haftar, allungherebbe le mani sui preziosi pozzi petroliferi della regione e sui due strategici porti per la esportazioni di Ras Lanuf e di al-Sidra, tra i maggiori della costa nordafricana.
General_Haftar
In tutto questo, la posizione italiana resta delicata. L’Italia, infatti, ha riconosciuto, assieme alle Nazioni Unite, il governo di unità nazionale di Sarraj come l’unico governo legittimo della Libia. Se l’azione russa in Libia fosse efficace e le truppe di Haftar diventassero il primo interlocutore sul futuro libico, allora la posizione italiana, e dunque i nostri interessi in particolare quelli legati alla questioni migranti, passerebbero pericolosamente in secondo piano. Haftar, intervistato a inizio anno dal Corriere della Sera, ha affermato che “l’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata” consigliando di non interferire negli affari interni libici e lasciando che siano i libici a occuparsi del futuro della Libia.
Una possibile vittoria dell’uomo di Mosca spaventerebbe anche Ankara, importante membro NATO. Infatti, se nell’immediato le forze russe – attraverso il sostegno ad Haftar – potrebbero essere utili per arginare le attività jihadiste nella regione nordafricana, nel lungo periodo, la prospettiva di un’influenza di Mosca sul Mediterraneo orientale eroderebbe la posizione strategica della Turchia, la quale potrebbe, secondo alcuni analisti, spingere per azioni provocatorie nel Mediterraneo. 
Secondo recenti sondaggi di Gallup, l’influenza di Putin in Grecia è esponenzialmente aumentata a scapito di quella della NATO e dell’Europa. 
Al governo di Ankara, intrappolato dall’alleanza russa che va dalla Siria di Al-Assad ad una probabile Libia di Haftar, resterebbe solo la parte settentrionale di Cipro.
Alcuni mesi fa Putin affermò che uno dei più grandi errori dell’età contemporanea è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica e, seguendo i recenti sforzi militari di Mosca, pare proprio che il leader russo abbia un piano per riallacciare legami nella regione MENA: Stati Uniti, Europa e Nato avvisati.

Nicola Bressan

LA DIGA EUROPEISTA RESISTE ALLA MAREA POPULISTA

Il primo test probante per verificare la tenuta delle istituzioni europee ha dato esito positivo. Lo scorso 15 marzo gli elettori olandesi hanno espresso la volontà di non venir meno agli ideali di tolleranza e di rispetto per la libertà religiosa che hanno da sempre contraddistinto i territori dei Paesi Bassi fin dalla loro fondazione.

Mark Rutte, il leader del partito del centrodestra liberale denominato “VVD”, dopo un primo “battesimo del fuoco” all’appuntamento elettorale del 2006 (quando riuscì ad ottenere solamente il quarto posto dietro alle tradizionali forze politiche rappresentate dai cristiani democratici del “CDA”, dai democratici progressisti del “D66” e dai laburisti del “PVDA”), si appresta a formare il suo terzo esecutivo consecutivo.

Nel 2010 e nel 2012 non era stato semplice ottenere la sospirata soglia dei 76 – la Camera Bassa è costituita da 150 deputatati – necessaria per poter formare una coalizione di governo, ma nulla al confronto dello scenario estremamente composito che si è delineato recentemente. L’ultradestra di Wilders, la quale aveva fornito nel 2010 un appoggio esterno al primo Governo Rutte fino al settembre del 2012 quando decise di votare contro numerosi provvedimenti determinandone la caduta, non è riuscita ad attirare la parte più moderata dell’elettorato di centrodestra la quale è stata decisiva per la vittoria del VVD. La direzione estremamente ferrea e risoluta adottata nell’affair diplomatico con la Turchia ha definitivamente convinto gli ultimissimi indecisi a dare nuovamente fiducia al leader del centrodestra liberale. Le due principali sorprese sono state caratterizzate dalla “Caporetto” del partito laburista, il quale ha perso 29 seggi rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Secondo i politologi più esperti avrebbe scontato la “sterzata” a destra derivante dall’appoggio al secondo governo Rutte, consentendo al partito dei verdi di coagulare tutto il malcontento della sinistra progressista. Difatti il vero trionfatore è stato indiscutibilmente il nuovo astro nascente della politica olandese, il candidato dei verdi “GL” Jesse Klaver definito il prossimo “Justin Trudeau”, per le sue capacità oratorie, la sua attenzione all’educazione primaria ed alla green economy. Il giovanissimo “Jessiah”, come viene definito dalla stampa olandese, è risultato il migliore ad ogni confronto televisivo, diventando un punto di riferimento indiscusso per l’elettorato giovanile dei Paesi Bassi.

Un dato particolarmente interessante è caratterizzato dal fatto che due esponenti politici agli antipodi come Wilders e Klaver abbiano elementi in comune: entrambi hanno il medesimo background familiare materno proveniente dalle ex colonie delle Indie olandesi, ed hanno ricevuto un’educazione di matrice cattolica. I punti di contatto terminano qui. Ad ogni modo è singolare la statistica degli elettori tra i 18 e 35 anni i quali hanno dato la loro preferenza quasi esclusivamente a queste due figure così diverse, dimostrando un fortissimo disincanto per i partiti che hanno governato il paese dal secondo dopoguerra. 

Solamente nel 2006 i democristiani, i laburisti, i socialisti ed i liberali del centrodestra rappresentavano più dell’ottanta percento dell’elettorato a differenza del dato odierno caratterizzato esattamente dalla metà, di conseguenza possiamo notare come sia stato depauperato un capitale elettorale enorme. Il nuovo esecutivo presieduto da Mark Rutte, il quale ha conseguito dei risultati economici impressionanti nelle precedenti legislature con una disoccupazione nazionale al 5,4% ed una crescita del Pil al 2,8%, dovrà tenere conto della crescita tumultuosa del partito del suo ex alleato Geert Wilders per non vanificare questa storica vittoria per il futuro dell’Unione Europea.

Gabriele Mele

LE PRESIDENZIALI FRANCESI SOTTO IL SEGNO DELL’ANTIPOLITICA

Dopo le elezioni politiche olandesi della scorsa settimana, i riflettori dell’opinione pubblica europea si stanno spostando in Francia per il rush finale della campagna elettorale per le elezioni presidenziali. Se in Olanda il movimento populista di Geert Wilders ha subito una battuta d’arresto per via dell’affermazione del partito liberale del premier uscente Mark Rutte, che porterà quest’ultimo – secondo una prassi già consolidata- a formare una coalizione di governo in chiave centrista, in Francia invece lo scenario politico appare molto più frastagliato e complesso.

Lo spettro delle presidenziali francesi per tutte le istituzioni europee si chiama Front National, il partito antisistema più longevo e l’organizzazione politica di riferimento della destra radicale francese ed europea da oltre quarant’anni. Temuto, demonizzato, il Front National (Fn) potrebbe portare alla vittoria alle prossime presidenziali Marine Le Pen, che ha sostituito dal 2011 il padre Jean-Marie Le Pen come nuovo Presidente del Fn. Marine Le Pen, in questi 6 anni di leadership, è riuscita a portare a compimento il processo radicale di trasformazione dell’immagine del partito, meglio nota in Francia con il nome di dédiabolisation. Il partito presta molta più attenzione a preservare un’immagine rispettabile – evitando dunque di inciampare in proclami apertamente razzisti o negazionisti a differenza della precedente leadership. Dall’altro, cerca di presentarsi come un’alternativa credibile all’establishment politico francese. Tutto questo è stato possibile grazie al costante di impegno di ‘’personalizzazione’’ del partito da parte di Marine Le Pen. L’ostracismo politico nei confronti del Fn è stato superato dal crescente consenso, che La Le Pen ha saputo conquistare negli ultimi anni. I suoi appelli ultranazionalisti e sovranisti fanno leva sulle classi operaie, su piccoli artigiani, commercianti e studenti, ormai stanchi dell’incapacità dell’attuale classe dirigente francese.

Le presidenziali francesi sotto il segno dell’antipolitica 2
Macron

Le possibilità concrete di successo per il Fn aumentano in maniera esponenziale, se si considera la crisi d’identità politica del Partito Socialista, ormai lacerato da feroci lotte interne tra le varie correnti e anime del partito. Ma a fare il proprio ingresso in questa campagna elettorale è stata un’ondata generale di sfiducia verso la classe politica del paese. Questo movimento diffuso di antipolitica non ha risparmiato nessuno tra i principali candidati per la corsa all’Eliseo. Dal candidato repubblicano François Fillon, finito in un polverone giudiziario per un’inchiesta per appropriazione indebita e abuso d’ufficio nei confronti di sua moglie Penelope, passando per Catherine Griset, collaboratrice strettissima di Marine Le Pen, accusata invece di essere stata stipendiata con i soldi dei contribuenti europei quando invece lavorava per il partito a Nanterre, in Francia. Anche Emmanuel Macron, il fondatore del nuovo movimento politico centrista ‘’En Marche! ‘’, è finito nel mirino della procura di Parigi  per presunto favoritismo a vantaggio di alcune aziende francesi , durante una cena di gala a Las Vegas cui Macron ha partecipato ai tempi in cui era ministro dell’Economia nel secondo governo Valls.

Macron potrebbe uscire indebolito da questa disavventura giudiziaria, anche se fino ad oggi rimane il concorrente più accreditato per battere Marine Le Pen al secondo turno, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutto l’establishment di Bruxelles. Tuttavia la corsa all’Eliseo rimane ancora piuttosto incerta; senza ombra di dubbio – al momento – il grande sconfitto di questa campagna elettorale sotto il segno del giustizialismo è François Fillon, che sembra ormai tagliato fuori per il ballottaggio. Quest’ondata di antipolitica, mai così forte in tutta la storia della V Repubblica francese, potrebbe sconvolgere il destino non soltanto della Francia, ma soprattutto quello dell’Europa intera. Fino ad oggi il miglior risultato del Front National alle elezioni presidenziali è stato raggiunto da Jean Marie Le Pen nel 2002, quando quest’ultimo giunse a sfidare il Presidente uscente Chirac al secondo turo, perdendo tuttavia in maniera nettissima contro il candidato repubblicano. A distanza di 15 anni potrebbe avverarsi un terremoto politico senza precedenti: per la prima volta Marine Le Pen potrebbe portare il Front National alla vittoria delle presidenziali.

Gian Marco Sperelli

LA SVOLTA “POLITICA” DI TRUMP

Il 28 febbraio il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha tenuto il primo discorso davanti al Congresso. Un discorso carismatico e chiaro dove ha manifestato la volontà di dare attuazione al programma per il quale è stato eletto e ha sancito nuovi punti del programma da presidente degli Stati Uniti.

Inizialmente ha descritto la sua elezione come una rivoluzione, una ribellione nata da un piccolo vociferare divenuto tumulto e poi terremoto che tende alla rigenerazione dello spirito americano, a riportare – grande – l’America al suo posto, a guidare e a illuminare il mondo. Affermando che tutto quello che prima era impensabile oggi è possibile.

Un punto centrale della trattazione è stato il tema della difesa. Trump infatti ha dichiarato e ha promesso un grande aumento di risorse per la difesa nazionale e per i propri militari. Ha ribadito la necessità di riformare la legislazione sull’immigrazione e di chiudere le frontiere irrigidendo i controlli, definendo l’apertura degli anni precedenti come causa di proliferazione del terrorismo e del radicalismo islamico. Ha posto come obiettivo della sua presidenza quello di debellare il vile nemico ISIS dalla faccia della terraHa chiarito, espressamente in pieno favore, le sue opinioni sulle alleanze fondamentali con gli Stati europei, con Israele e con la NATO, lanciando un monito e un invito a partecipare attivamente nel Pacifico e a contribuire maggiormente alle spese militari. Tutto il Congresso ha concesso un forte e lungo applauso quando Trump ha affermato la vitale importanza del Patto Atlantico, patto che permise di sconfiggere i fascismi e di annientare il comunismo.

Altro punto fondamentale del programma presidenziale è stato l’intervento nel campo economico. Il primo obiettivo è quello di riportare le imprese in America e di investire miliardi di dollari in infrastrutture, tagliando gli investimenti nei paesi esteri e aumentando il livello occupazionale dei propri cittadini. Inoltre, una priorità sarà un’attenta riforma sulla tassazione che diminuisca le tasse e i costi per le imprese, cercando di privilegiare la classe media americana logorata dalla crisi. In secondo luogo, il Presidente ha evidenziato la necessità e la volontà di aumentare la disponibilità economica dei governatori per mezzo della concessione di maggiori risorse e flessibilità.

Infine, Trump ha riservato dei punti della sua trattazione al campo sociale, annunciando di voler dare atto a politiche di inclusione dei giovani (soprattutto afro-americani e latini), nonchè di voler concentrarsi sull’istruzione. Poi ha sferrato un duro colpo ai media accusandoli di aver messo in atto una propaganda demagogica sulla chiusura delle frontiere e di non aver parlato mai dell’istituzione di organi a tutela degli immigrati come il “Victim of immigrant crime engagement.

Il presidente ha concluso recitando: Believe in yourselves. Believe in your future. And believeonce more, in America”.

Michelangelo Di Castro

WHAT’S ON KIM JONG – UN’S MIND?

Andrei Lankov | Al Jazeera | 9 marzo 2017

Negli ultimi mesi, la Corea del Nord è stata al centro dell’attenzione internazionale. Le sue politiche sono ancora una volta state descritte come “irrazionali” o “bizzarre”, ed il suo leader ereditario, Kim Jong-un, è rappresentato come una creatura eccentrica ed irrazionale, che adora assassinare i suoi parenti e minacciare il mondo con armi nucleari. Ma questa è una descrizione distorta: Kim sa ciò che fa.

Di recente i test missilistici nordcoreani hanno indicato un avanzamento importante e rapido delle tecnologie belliche del Paese, tanto che la maggior parte degli esperti ritengono che Kim non stia bluffando quando afferma di essere vicino allo sviluppo di missili balistici intercontinentali (ICBM). L’assassinio di Kim Jong-nam, fratello maggiore del dittatore, è coinciso con l’ennesima ondata di purghe che hanno portato alla scomparsa di numerosi generali. Nel frattempo, internamente, l’amministrazione di Kim Jong-un continua a portare avanti importanti riforme economiche, senza che questo attiri l’attenzione dei media esteri. Nella sostanza, queste riforme sono estremamente simili a quelle cinesi di fine anni ’70. In Nord Corea, l’economia in stile sovietico si sta via via smantellando per lasciare spazio all’economia di mercato aperta a capitali privati. Questi eventi dimostrano le tre dimensioni della politica del leader: rafforzamento della deterrenza per scoraggiare attacchi esterni; eliminazione dei possibili rivali nelle élite del Paese; aumento delle riforme economiche di libero mercato. Tali politiche rincorrono un obiettivo prevalente: mantenere Kim al potere affrontando le tre principali minacce che egli ritiene possano far crollare il regime.

La prima è una minaccia esterna: Kim teme un’invasione statunitense in supporto a qualche rivoluzione interna, come avvenuto in Iraq ed in Libia. Egli sostiene che il miglior modo per contrastare tale rischio sia quello di sviluppare una forza nucleare su larga scala potenzialmente in grado di colpire gli USA.

La seconda è una minaccia interna: quando Kim è succeduto al padre nel dicembre del 2011, era un ventenne completamente sconosciuto: aveva ottime ragioni per temere di essere percepito come un debole dai generali anziani e dalle personalità di spicco del Paese. Non poteva permettersi che tali individui, inclusi alcuni membri della sua famiglia, potessero indirizzare il proprio sostegno verso qualcun altro. Ciò spiega le esecuzioni e le purghe di tutti coloro i quali non godono della completa fiducia del leader. Inoltre, l’assassinio del fratello, che viveva in auto-esilio da anni sotto la protezione cinese, ha dimostrato la scarsa influenza della Cina – della quale Kim Jong-un è molto sospettoso – nella politica interna nordcoreana.

Anche la terza minaccia è di natura interna: la Corea del Nord è un paese estremamente povero: il gap tra il PIL pro capite di Nord e Sud Corea è il più esteso del mondo tra due paesi che condividono un confine. Se la popolazione nordcoreana venisse a conoscenza di tali enormi differenze, potrebbe condannare il regime di Kim. Pertanto il leader sa che l’unico modo per mantenere la popolazione docile ed ubbidiente è quello di avviare una crescita economica, introducendo riforme in stile cinese.

Tutte queste politiche non sono prive di rischi: i tentativi di creare un deterrente nucleare potrebbe provocare un attacco militare statunitense; le eccessive purghe delle élite interne potrebbero portare a cospirazioni e colpi di stato; le riforme economiche potrebbero favorire l’insorgenza di movimenti sociali al di fuori dal controllo del regime.

A conti fatti, data la situazione precaria di Kim, egli ha poche alternative rispetto a ciò che sta attualmente facendo. E fino a questo momento le sue politiche hanno funzionato bene.



In recent months, North Korea has found itself at the centre of international attention. Its policies are once again described as “irrational” or “bizarre”, and its hereditary leader Kim Jong-un is presented as an eccentric and irrational creature, fond of killing his relatives and threatening the world with nuclear weapons. But this description is misleading: Kim knows what he is doing.

Recently tested missiles indicate serious and remarkably fast technological advancement – so remarkable that most foreign experts believe that Kim was not bluffing when he talked about North Korea’s ability to develop ICBMs in the near future. The recent assassination of Kim Jong-nam’s, Kim Jong-un’s elder brother coincided with yet another wave of purges inside North Korea, with another bunch of generals disappearing without any trace. Meanwhile, inside North Korea, Kim Jong-un’s administration continues to implement economic reforms, seldom attract the attention of the world media. In essence, these reforms are strikingly similar to what China did in the late 1970s. In North Korea, the Soviet-style command economy is gradually dismantled, while market economy and private entrepreneurship is increasingly accepted and encouraged. These events demonstrate the three major dimensions of Kim Jong-un’s policy: he is strengthening his ability to deter a foreign attack, he is eliminating possible rivals in the country elite, and he is speeding up market-oriented economic reforms. These policies serve one overriding goal: to keep Kim in power responding to three major threats which he thinks might bring him down.

The first of such threats is largely external. Kim is afraid of a US invasion in support of some internal revolution, should it erupt inside North Korea, given what happened in Iraq, as well as in Libya. He believes that the best way to counter a foreign threat is to have a full-scale nuclear force which would be capable of hitting the continental US.

The second threat is internal. When Kim succeeded his father in December 2011, he was in his mid-20s and completely unknown: he had good reasons to be afraid of the country’s ageing generals and dignitaries who saw him as a political lightweight. He could not rule out the possibility that the senior politicians, including some members of his own family, could switch their support to somebody else. This explains the purges and executions of all senior officials whose loyalty Kim does not fully trust. Furthermore, the assassination of his brother, who lived under Chinese protection, also undermined the their ability to intervene in North Korean politics – and Kim Jong-un is deeply distrustful of China.

The third threat is also internal. North Korea is a very poor country: the per capita income gap between South and North Korea is the world’s largest for two countries sharing a land border. If North Korean people learn how much their country is lagging behind its neighbours, they are likely to blame the Kim family. Therefore, Kim Jong-un understands that the only way to keep the population docile and obedient is to start economic growth, introducing China-style reforms.

All these policies are somewhat risky: the attempts to create a powerful deterrent might provoke a US military strike; excessive purges of the elite might bring about a conspiracy; economic reforms might unleash social movements. However, given Kim’s precarious situation, he has few alternatives to what he is doing now – and so far his policies have worked well.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

SE PUO’ AVERE SENSO PARLARE DI ISLAMOFOBIA

L’attentato e le premesse – Nel tardo pomeriggio del 29 gennaio 2017 Alexandre Bissonette, franco-canadese di 27 anni, apre il fuoco in una moschea a Quebec City mentre decine di persone sono riunite per pregare. Muoiono in sei e molti altri rimangono feriti.

L’attentato contro i musulmani, se possibile, è ancora più significativo se si considera il paese dove è avvenuto: il Canada. Considerato da molti l’unica risposta valida di fronte alle misure di Trump e il faro della democrazia che offre le giuste alternative di fronte al proliferare dei populismi, il Canada con il suo Primo Ministro Justin Trudeau è davvero un’idea di democrazia così priva di contraddizioni?

Fin da quando si è insediato nel novembre 2015 Trudeau, appoggiato dal suo Partito Liberale, ha promosso il Canada come il simbolo dell’accoglienza, dell’apertura e della sopravvivenza della diversità. Proprio in questo senso si inserisce un provvedimento che tuttora fa molto discutere e che ha spaccato l’opinione pubblica a metà.

La mozione che condanna l’islamofobia – A dicembre dello scorso anno Iqra Khalid, deputata musulmana del Partito Liberale, ha presentato al Parlamento canadese una mozione piuttosto controversa. La M-103, questo il nome ufficiale, chiede al governo di sedare il clima pubblico crescente di odio e paura, eliminare il razzismo e la discriminazione religiosa ed infine condannare ogni forma di islamofobia. La mozione, così come la intendono i liberali, non deve essere intesa come una proposta di legge ma come una spinta al governo per affrontare in maniera adeguata il problema della discriminazione religiosa in Canada.

Conservatori vs Liberali – Se la M-103 non è un disegno di legge e non diverrà mai legge, perché tante polemiche? In breve: il termine “islamofobia”. In molti si sono scatenati riguardo all’ambiguità di questo termine. C’è chi come Ezra Levant, scrittore piuttosto critico nei confronti dell’Islam, ha definito la M-103 una vera e propria intimidazione e limitazione per la libertà d’espressione. Secondo il Partito Conservatore una Sharia proiettata sul Canada sarebbe la conseguenza logica di provvedimenti come questo e ogni critica nei confronti di Maometto o dell’Islam verrebbe messa così a tacere. In poche parole i liberali di Trudeau per eliminare la discriminazione religiosa riserverebbero un trattamento speciale alla religione islamica.

David Anderson, deputato del Partito Conservatore, ha provato a modificare la mozione presentandone un’altra praticamente uguale se non per il fatto che in quest’ultima non compariva il termine “islamofobia”. Il tentativo non è però andato a buon fine visto che ha incontrato la ferma opposizione del Partito Liberale, il quale ha respinto la mozione con 165 voti contrari.

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Libertà: fino a che punto – È bene affrontare la questione, che apre un dibattito molto più ampio, lontani da pregiudizi di ogni tipo.

Da un lato parlare di censura della libertà d’espressione e di Sharia che si abbatte sul Canada sembra un’esagerazione, in quanto la M-103 non ha niente a che fare con la legge e non ha nessun potere di cambiare la Carta dei Diritti e della Libertà del Canada. Dall’altro lato è però vero che specificare nel dettaglio la condanna dell’islamofobia può sicuramente portare a un fraintendimento: i credenti di altre religioni, tra l’altro in netta maggioranza in Canada, possono risultare particolarmente sensibili rispetto a un pensiero espresso in questi termini.

In un’epoca di affermazione di fondamentalismi islamici, si sceglie di astenersi da ogni giudizio di condanna?

Il dramma e le identità – Il dramma della religione islamica è proprio questo suo non riuscire a conciliarsi con la modernità. Probabilmente i conflitti identitari, tipici del mondo globalizzato, non possono essere risolti con la stessa moneta dei fondamentalismi: il loro rifiuto per i valori occidentali non deve essere risolto tramite un’opposizione uguale e contraria dell’identità cristianità. Ci sarebbe da discutere fino a che punto questo porterebbe a uno “scontro di religioni”.

Tuttavia, d’altra parte, parlare di “condanna dell’islamofobia” sembra anacronistico, in quanto la democrazia è in crisi e deve sapersi difendere. La discriminazione religiosa e il razzismo vanno eliminati alla radice senza ulteriori specificazioni su quale di questi abbia la priorità.

Simone Stellato

SINWAR: IL NUOVO CAPO DI HAMAS CHE PREOCCUPA L’OCCIDENTE

 

Radicale, carismatico, estremista, militante e intransigente: questi sono solo alcuni degli aggettivi utilizzati dai media per descrivere Yehya Sinwar, nuova leader di Hamas nella striscia di Gaza.
Sinwar, 55enne palestinese, inizia la sua militanza fra i ranghi della Fratellanza Musulmana e si distingue, già prima della formazione ufficiale di Hamas nel 1987, per la creazione del gruppo armato “Brigate del martire ‘Izz al-Din al-Qassam” per poi impegnarsi in un’opera di “punizione morale” contro i palestinesi considerati colpevoli di collaborare con il nemico sionista.

L’elezione – dai dettagli non del tutto chiari – di Sinwar (ormai pronto a prendere il posto di Ismail Haniyeh), giunge al termine di un lungo conflitto interno ad Hamas. Sono infatti due le correnti che all’interno del gruppo si sono scontrate: una più “moderata”, rappresentata da Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, vicina al Qatar e restia ad un conflitto armato con Israele, e un’altra vicina all’Iran, più radicale e più incline ad un conflitto aperto con Israele. Il loro leader Mohammed al-Deif, per molto tempo accreditato come possibile futuro capo di Hamas, viene considerato da molti palestinesi una leggenda vivente: le sue precarie condizioni di salute, dovute secondo alcuni reportage anche ai diversi attacchi scagliati contro di lui dalle forze israeliane, hanno consentito a Sinwar di avere il via libera per la sua elezione. Il nuovo leader di Hamas, liberato nel 2011 dagli israeliani in seguito ad un accordo di scambio di prigionieri, viene considerato erede naturale di Deif e l’unico in grado di colmare il vuoto di potere attualmente presente nella gerarchia del braccio militare del gruppo.

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Alcuni analisti si sono affrettati a bollare la sua elezione come un mero passaggio di consegne all’interno del microcosmo di Hamas. Nonostante ciò, sono molte le premesse per le quali questa elezione potrebbe essere considerata come un punto di svolta, certamente non positivo, nel mondo delle relazioni internazionali.
In primo luogo, vi sono fondati timori circa un possibile avvicinamento di Sinwar al Califfato islamico. Il nuovo leader, infatti, non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’Iran e, in particolare, per una collaborazione con l’ISIS nel Sinai. Kobi Michael, ricercatore al Israel’s Institute for National Security Studies, ha evidenziato, infatti, come la vittoria del 55enne palestinese testimoni la vittoria dell’ala estremista di Hamas e l’inizio di una fase destabilizzante per l’intera regione.

Anche le relazioni tra la Palestina e Israele potrebbero essere pesantemente influenzate dal nuovo corso. Con Fatah ormai all’angolo, la nuova leadership di Gaza pare pronta, ora più che mai, all’ennesimo round di scontro con Israele. Le IDF (Israel Defense Forces) hanno combattuto dal 2008 tre guerre contro Hamas e gruppi affiliati e, negli ultimi mesi, stanno costantemente informando il mondo intero della costruzione di tunnel sotterranei e postazioni missilistiche da parte del gruppo, incurante del cessate il fuoco firmato nel 2014. L’elezione di Sinwar a capo di Hamas ha trasformato l’ipotesi di uno scontro armato in una questione di tempo: non ci si chiede più se ci sarà, ma quando.

Nicola Bressan

RUSSIAN STATE MEDIA IS FALLING OUT OF LOVE WITH DONALD TRUMP

N.S. – The Economist – 21 Febbraio 2017

In the months following Donald Trump’s election, Russian media fell hard for their brash new beau. Television anchors and columnists lauded Mr Trump’s promises to rebuild relations with Russia. Dmitry Kiselev, the Kremlin’s chief propagandist, fawned over Mr Trump on his flagship Sunday-night show, declaring the new American president to be a “muzhik”, or a “real man”—a sharp shift for a programme that had spent years stoking anti-Americanism. (His praise became so effusive that a fringe nationalist group even staged a protest accusing Mr Kiselev of “Trumpomania”.) In January, Mr Trump was mentioned more often in the Russian press than Vladimir Putin himself.

Yet just as suddenly as he appeared, the triumphant image of Mr Trump has largely vanished from Russian television sets. In the past week, as the Trump administration has issued increasingly conflicting signals on its policy toward Russia, the country’s news programmes have overlooked his activities, and commentators have taken up a decidedly more skeptical spirit. The firing of the Russia-friendly Michael Flynn as national security adviser may have caused some consternation in the Kremlin. So too did the White House’s statement last week that it expected Russia to “return” Crimea to Ukraine.

Russia may be realising that, despite Mr Trump’s promises, the bitter relationship with America is unlikely to change much. Konstantin Eggert, a commentator at the independent television network Dozhd (“Rain”), reported that the state-media holdings had received an order from the Kremlin to cut down on coverage of Mr Trump; Bloomberg, citing three anonymous sources familiar with the matter, suggested as much. Mr Putin’s press secretary, Dmitry Peskov, dismissed those claims as “fake news”, but the numbers do not lie. An analysis by RBC, a respected business-news agency, found that mentions of Mr Trump on key Sunday news and analytical programmes fell by 88% in the two weeks from February 5th to February 19th (see chart). So much for love at first sight.


Nei mesi successivi l’elezione di Donald Trump, i media russi sembravano aver trovato una nuova “fiamma”. Reti televisive ed editorialisti lodavano continuamente le promesse di Trump di ricostruire le relazioni con la Russia. Dimitry Kiselev, capo della propaganda del Cremlino, aveva adulato il neo presidente degli Stati Uniti nel suo programma televisivo domenicale, definendolo un “muzhik”, un “vero uomo”, nonostante la tradizione antiamericana dello show (tanto da essere poi tacciato di “Trumpomania” da gruppi nazionalisti). A Gennaio Trump è stato citato più volte di Putin dalla stampa russa.

Poi, tanto velocemente come era apparsa, l’immagine trionfale di Trump sembra essere svanita dalla televisione russa. Nelle ultime settimane i segnali politici di Trump, sempre più contrastanti la Russia, hanno reso scettici i commentatori ed i notiziari hanno cominciato a trascurare la sua attività.

Le dimissioni di Michael Flynn e le richieste di restituire la Crimea all’Ucraina, hanno contribuito a far realizzare ai russi che, nonostante le promesse di Trump, le relazioni tra i due Paesi non sembrano destinate a mutare poi tanto. Konstantin Eggert, cronista di una rete tv indipendente russa, ha dichiarato, e non è stato il solo, che i media hanno ricevuto l’ordine dal Cremlino di non mandare in onda i servizi su Trump. Sebbene Mr. Peskov, addetto stampa di Putin, abbia smentito la notizia, i numeri non mentono: da un’analisi di RBC è emerso che le notizie inerenti Trump sui programmi di politica e notiziari sono diminuite dell’88% nelle due settimane comprese dal 5 al 19 febbraio. A proposito di amore a prima vista.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

DOPO LA SCONFITTA DELL’ISIS, UNO STATO PER I CURDI?

Sono i più perseguitati di sempre, i curdi. Sinonimo di popolo diviso, violato, sfortunato; ma anche la più grande etnia al mondo senza Stato: 30 milioni di sunniti e – in minoranza – cristiani sparsi nell’Asia occidentale che vorrebbero un lembo di terra per sentirsi finalmente una Nazione. Se ne parla da decenni, ma il Kurdistan rimane un’entità geografica non ancora statuale.

Tuttavia oggi, con la sconfitta di Daesh che sembra vicina anche grazie al contributo dei Peshmerga (combattenti curdi), la comunità internazionale non potrà far finta di niente, e i curdi potrebbero sedersi al tavolo dei negoziati.

Quale sarà la loro pretesa? Lo stato sognato da secoli, o quantomeno un’autonomia nei territori in cui vivono, ossia Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Il Kurdistan è composto da una popolazione che condivide la stessa etnia, la stessa storia, la stessa origine e la stessa lingua. Questi elementi, in virtù del principio dell’autodeterminazione dei popoli, giustificherebbero la creazione di uno Stato. Ma, almeno fino ad oggi, i diritti del popolo curdo si sono scontrati con la complessità geopolitica mediorientale e l’importanza dei luoghi in cui essi vivono: territori ricchi di giacimenti petroliferi, come nel caso del Kurdistan iracheno, o caratterizzati dalla deriva terroristica di alcuni gruppi politici, come il Pkk turco.

Parlare dei curdi, sia a livello geopolitico che prettamente geografico, significa parlare di un popolo nato e vissuto sempre nello stesso territorio ma sempre “beffato” dalla storia e dal potere.

Per risalire all’origine dell’etnia curda occorre tornare nelle valli calde e fertili dei fiumi Tigri ed Eufrate. Nell’altopiano montuoso che circonda i due fiumi, nel 614 a.C. si stabilì la popolazione nomade dei Medi, di origine persiana. L’etnia che popola questo altopiano montuoso sarebbe stata chiamata “curda” nelle Cronache di Senofonte, storico ateniese del IV sec. a. C.. Nel XVI secolo, le popolazioni che abitavano la regione montuosa del Kurdistan furono inglobate nell’immenso nascente Impero Ottomano. Al crollo dell’Impero, dopo la prima Guerra Mondiale, si incominciò a parlare di un Kurdistan indipendente, e le basi per la nascita di questo Stato furono gettate con il Trattato di Sèvres nel 1920. Successivamente però, nel Trattato di Ginevra, gli Stati europei che una volta appoggiavano i curdi non diedero seguito alle premesse poste qualche anno prima: le speranze curde furono infrante, e i curdi spartiti tra Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Ma quella di un Kurdistan indipendente, uno Stato in Medio Oriente che accolga i 30 milioni di curdi, è davvero un’utopia, solo un sogno per cui combattere invano?

Bisogna considerare che, seppur divisi territorialmente, ad unire i curdi c’è un esercito. I guerriglieri Peshmerga (letteralmente “combattenti fino alla morte”), da semplici “soldati delle montagne”, negli ultimi anni sono diventati tra i principali oppositori all’Isis. Proprio grazie alle vittorie contro il sedicente Stato Islamico, forse mai come i questo momento storico, i curdi potrebbero dunque far valere le loro ragioni ai tavoli per i negoziati del “dopo-Daesh”.

I Peshmerga sono stati effettivamente supportati anche dalla comunità internazionale, che ha fornito loro armi e munizioni. L’Occidente, dunque, ha riconosciuto l’esercito di uno Stato inesistente, potremmo dire.

La vittoria più grande dei curdi è stata la liberazione di Kobane, città siriana a maggioranza curda liberata dopo mesi di assedio da parte dell’Isis. Successivamente, i Peshmerga hanno intrapreso un’offensiva contro Raqqa, capitale dello Stato islamico. Adesso che l’Isis controlla pochi territori, i soggetti coinvolti nello scacchiere mediorientale iniziano a preoccuparsi sul futuro dei curdi. Il più preoccupato dalle loro possibili pretese è Erdogan, impegnato al suo interno nel contrasto ai terroristi curdi.

La Turchia, così come la Siria e lo stesso Iraq, temono che, nel momento in cui i curdi si siederanno al tavolo dei negoziati, avanzeranno la tanto agognate pretesa di ottenere quello Stato per cui combattono da secoli.

La guerra che stanno affrontando contro l’Isis potrebbe dunque creare le condizioni per ottenere il riconoscimento internazionale del Kurdistan. Il problema che si pone, però, è presto detto: quale Stato si priverebbe dei suoi territori per concederli ai curdi? Difficilmente lo farebbe la Turchia, che vedrebbe i suoi confini parecchio ridotti; ugualmente l‘Iraq che non si priverebbe dei giacimenti petroliferi controllati dai curdi.

Riccarda Lopetuso