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Democrazia e Libertà

IS TRUMP A SAVIOUR FOR MIDDLE EASTERN CHRISTIANS?

Halim Shebaya | Al Jazeera | 11 Febbraio 2017

Trump is not an obvious candidate to represent the Jesus-like, enemy-loving, turn-the-other-cheek, self-sacrificial servant-leader of the Christian gospels. But he has made it clear that he understands his role as a defender and protector of Christianity: from statements such as “we are going to say Merry Christmas again!”“We will respect and defend Christian Americans and “Christianity, it’s under siege”.

As experts put it, there is a sickness in American Christianity, and Trump is feeding on it. It is precisely such statements that have made Trump the protector of Middle Eastern Christians. Heseems to have their support because they have few alternatives to face the threats that they have in the region. According to some experts Middle Eastern Christians have a voice now. Upon closer scrutiny, however, such claims are nothing more than a cheap political exploitation of Middle Eastern Christians as pawns to score points on the domestic front, protecting the American Christian interests.

Furthermore, the use of “minorities” in his political discourse and ideologies to explain how Islamic values are inherently incompatible with Western values, risk to deepen the idea of a clash of civilisations between Muslims and a Western blocIn this way, Christians residing in the Middle East seem to form a sort of “external” or “foreign” phenomenon that needs to be saved.It encourages “the ‘false notion’ of a conflict between Christians and Muslims while wrongly suggesting Christianity is a ‘Western phenomenon’.

Also the notion itself of “Middle Eastern Christians” is problematic because it contributes to treat them as a single entity. Furthermore, Trump’s travel ban that maintained an apparent special provision for Christians risks to be itself a “trap” for Middle Eastern Christians exposing them as “foreign bodies, and as groups protected and supported by Western powers”. The focus in any discussion of Middle East should be on eradicating ISIL and the threat it poses to non-Muslims and Muslims.

Focus should equally be upon the needs for justice and accountability on account of the crimes against humanity and war crimes and on the socioeconomic problems in the region exacerbated by corruption and oppressive regimes. Any individual who preaches in favour of one or another religion or community should be considered a false prophet, not a saviour


Trump non è certamente il candidato perfetto per rappresentare gli ideali cristiani del porgere l’altra guancia, amore verso i nemicie spirito di sacrificio dei leaders. Ha però da subito reso chiaro il suo ruolo di protettore della Cristianità, dichiarando:  “Torneremo a dire Buon Natale ancora!”, “Rispetteremo e difenderemo i cristiani americani”, e “la Cristianità è sotto assedio”Come alcuni esperti hanno notato, Trump sta in tal modo provando cavalcare i disagi della comunità cristiana americana. 

Allo stesso modo, le dichiarazioni di cui sopra, hanno reso il Presidente americano il “protettore” dei cristiani in Medioriente. Egli sembra godere del loro supporto per via delle poche alternative che questi hanno nel fronteggiare i rischi cui sono esposti nella Regione. Secondo alcuni esperti i cristiani residenti in Medioriente hanno ora una “voce” in loro aiuto. 

Tuttavia, dopo un’osservazione più attenta, tale posizione di Trump pare essere volta più verso il fronte interno, a protezione degli interessi dei cristiani americani, che realmente a tutela dei cristiani in MediorienteInoltre, l’uso delle “minoranze” nei discorsi e nelle ideologie politiche del Presidente atto a spiegare l’incompatibilità dei valori musulmani e di quelli occidentali, rischia di rafforzare l’idea di uno “scontro tra civiltà”. In questo modo i cristiani residenti in Medioriente sembrerebbero formare una sorta di “comunità straniera” che ha bisogno di essere salvata.

Questo, unitamente alla definizione di “cristiani Mediorientali”, sembra suggerire che la cristianità sia un fenomeno propriamente occidentale. Il “travel ban” di Trump contro i musulmani, che ha mantenuto una certa apertura per i cristiani, rischia di isolare ulteriormente i cristiani residenti in Medioriente in quanto percepiti come “corpi estranei”, protetti e supportati dalle potenze occidentali. 

L’argomento di discussione sul Medioriente dovrebbe concentrarsi su come combattere l’ISIS e sulla minaccia che questo pone nei confronti di Musulmani e non. Il focus dovrebbe essere sul bisogno di giustizia e di condanna dei crimini di guerra e contro l’umanità e sui problemi socioeconomici nella Regione, esacerbati da corruzione e regimi oppressivi. Chiunque predichi a favore di una religione o di una comunità specifica a discapito di altre, dovrebbe essere considerato un falso profeta piuttosto che un salvatore.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

I RAPPORTI PRAGMATICI TRA RUSSIA E STATI UNITI

In uno scenario internazionale segnato dall’incertezza, dalla svolta delle elezioni americane e in un’Europa che cerca se stessa riscoprendosi sempre più fragile, si è tenuta a Monaco da pochi giorni la 53esima edizione della Conferenza per la Sicurezza. L’evento si svolge ogni anno e rappresenta un’occasione di dialogo su temi di politica internazionale. Quest’anno hanno partecipato alla Conferenza circa 80 ministri degli Esteri e della Difesa e 30 Capi di Stato.

I temi alla Conferenza – L’evento questa volta era forse più atteso rispetto agli altri anni perché la leader tedesca Angela Merkel ha incontrato per la prima volta il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence. È proprio l’intervento di quest’ultimo alla Conferenza che ha suscitato le più svariate reazioni e considerazioni. Pence, dopo l’intervento della Cancelliera tedesca, ha infatti dichiarato: “Per conto del Presidente Trump, vi garantisco che gli Stati Uniti sostengono con decisione la NATO e saranno irremovibili nei loro impegni verso gli alleati”. 

L’ennesimo cambio di rotta sulla questione: solo un mese fa Trump, pur sottolineando l’importanza dell’alleanza, l’aveva definita “obsoleta” in quanto non si stava occupando del problema principale oggigiorno, cioè il terrorismo.

Gli Stati Uniti e la Nato – Tuttavia la vecchia dichiarazione di Trump e quella più recente di Pence convergono su un punto: entrambe infatti hanno confermato le richieste di maggior impegno economico per l’Alleanza. Il vicepresidente a Monaco ha precisato questo punto e accanto alle enunciazioni di principio non ha mancato di rimarcare che gli Stati Uniti si accollano circa il 70% del bilancio della NATO e che solo altri quattro paesi membri dell’Alleanza rispettano la spesa prevista per la difesa, fissata al 2% del PIL.

Pence inoltre ha tranquillizzato gli alleati europei, asserendo che gli Stati Uniti sono il loro più grande partner e dunque riallineandosi su posizioni più coerenti con la recente storia americana.

La Russia e la Nato – Questo riavvicinamento euro-americano si inserisce in realtà in un quadro più ampio, dal momento che Pence ha poi aggiunto qualche parola sui rapporti russo-americani in un altro passaggio: “Continueremo a richiamare la Russia alle sue responsabilità, anche se stiamo creando un nuovo terreno comune”. Il vicepresidente ha fatto un passo indietro rispetto alle promesse di Trump in politica estera.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, dal canto suo, ha invece usato parole forti per la NATO, definendola un’istituzione della guerra fredda, un conflitto mai davvero superato. La dimostrazione di ciò sta, secondo il ministro russo, proprio nelle dichiarazioni di molti politici alla Conferenza di Monaco. 

Mosca tende dunque una mano semi-tesa alla Casa Bianca, dichiarando la necessità di rapporti pragmatici, basati sul rispetto reciproco, con gli Stati Uniti.

Una tegola per i rapporti pragmatici – Intanto solo cinque giorni prima dell’inizio dei lavori di Monaco, l’amministrazione Trump riceveva un altro brutto colpo. Il 13 febbraio infatti Michael Flynn, Consigliere per la sicurezza nazionale e principale sostenitore della necessità di un riavvicinamento a Mosca, si è dimesso dal suo incarico in seguito allo scandalo pubblicato sul Washington Post. 

Flynn aveva discusso delle sanzioni approvate da Obama contro la Russia prima di prestare giuramento come membro del governo, quando era privato cittadino, promettendo che sarebbero state rimosse dall’amministrazione Trump e commettendo così un reato. I contatti sarebbero avvenuti tra Flynn e Sergej Kisljak, ambasciatore russo a Washington. 

Gli altri membri del governo si dichiarano all’oscuro di tutto questo, ma a quanto sembra l’FBI sta già indagando per sapere se quantomeno Trump o Pence sapessero dei contatti di Flynn con la Russia.

Simone Stellato

WHAT JESUS CAN TEACH TODAY’S MUSLIMS

Mustafa Akyol | The New York Times | 13 Febbraio 2017

In order to explain the crisis of Islam facing the Western pressure, some expert as Arnold Toynbee, compared it with the plight of the Jews in the face of Roman domination in the first century B.C. This ordeal bred two extreme reactions: One was “Herodianism,” which meant collaborating with Rome and imitating its ways. The other was “Zealotism,” which meant militancy against Rome and a strict adherence to Jewish law. Modern-day Muslims, too, are haunted by the endless struggles between their own Herodians who imitate the West and their own Zealots who embody archaism evoked by foreign pressure.

However Muslims should find a third way, as Jesus made at his time: unlike other Messiah claimants of his time, he did not unleash an armed rebellion against Rome. He did not bow down to Rome, either. He put  to something else: reviving the faith and reforming the religion of his people focusing on their religion’s moral principles, rather than obsessing with the minute details of religious law.

Muslims need to take notice of that because they are going through a crisis very similar to the one Jesus addressed: while being pressed by a foreign civilization, they are also troubled by their own fanatics who see the light only in imposing a rigid law, Shariah, and fighting for theocratic rule. Muslims need a creative third way, which will be true to their faith but also free from the burdens of the past tradition and the current political context. Muslims already respect and love Jesus — and his immaculate mother, Mary — because the Quran wholeheartedly praises them, but most of them have never thought about the historical mission of Jesus. They have the problem of being frozen on the literal meaning of the law and thus failing to understanding the purpose of the law. Jesus defined humanism as a higher value than legalism, famously declaring, “The Sabbath was made for man, not man for the Sabbath.”

Similarly, Muslims need to understand: “The Shariah is made for man, not man for the Shariah”. Or that the Kingdom of God — also called “the Caliphate” — will be established not within any earthly polity, but within their hearts and minds. Jesus was a recognized “prophet of Islam,” whoaddressed the very problems that haunt Muslims today and established a prophetic wisdom perfectly fit for our times.

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Per riuscire a spiegare la crisi che l’Islam sta affrontando a causa delle pressioni dell’Occidente, alcuni esperti come Arnold Touynbee, l’hanno paragonata alla situazione degli ebrei durante la dominazione romana del primo secolo avanti Cristo. Questa portò a due reazioni differenti: l’Erodianismo di chi intendeva collaborare con Roma ed imitarne i metodi e lo Zelotismo che osteggiava Roma, proponendo una maggiore osservanza dei principi ebraici. Oggi, allo stesso modo, i musulmani si dividono tra chi, come gli erodiani, accetta i principi occidentali e chi, al pari dei zeloti, incarna l’arcaismo in risposta alle pressioni esterne. E’ necessario, tuttavia, trovare una “terza via”, come fece Gesù ai suoi tempi: a differenza degli altri presunti Messia, egli non invocò una ribellione armata contro Roma, né vi si inchinò. Pose piuttosto la sua attenzione nel revitalizzare la fede e riformare la religione del suo popolo, concentrandosi sui suoi principi morali piuttosto che sui dettagli letterali delle sue leggi. 

E’ importante che i musulmani comprendano questo perché la loro crisi è molto simile a quella affrontata da Gesù al suo tempo: pressati dalla civilizzazione straniera, hanno il problema del fanatismo che vede una via di uscita solo nell’imporre rigidamente la Shariah, combattendo in difesa delle leggi divine. Invece bisognerebbe percorrere una terza via che sia coerente con la fede islamica ma libera dalle limitazioni che la tradizione ed il contesto politico impongono. I musulmani, coerentemente con gli insegnamenti del Corano, rispettano ed amano Gesù e la Vergine Maria ma in molti non hanno mai riflettuto sul significato dei loro insegnamenti. Questi si sonofossilizzati sul significato letterale delle leggi religiose, senza però comprenderne gli obiettivi. Gesù pose i valori umani al di sopra delle leggi affermando: “lo Sabbath fu fatto per l’uomo, non l’uomo per lo Sabbath”.  Allo stesso modo i musulmani devono comprendere che: “la Sharia è fatta per l’uomo, non l’uomo per la Sharia”. O che il Regno di Dio, il cosiddetto Califfato, non ha bisogno di essere instaurato nella comunità terrena, ma in via spirituale nei loro cuori e nelle loro menti. Gesù fu un profeta riconosciuto dall’ Islam e dimostrò di essere pienamente in grado di affrontare gli stessi problemi che causano l’odierna crisi dei musulmani, attuando un equilibrio profetico incredibilmente adatto ai nostri tempi.

Sintesi e traduzione di Lorenzo Salvati

Articolo originale

LA SVOLTA MAROCCHINA

Se qualcuno pensa che l’Islam sia una religione ferma, impassibile di fronte all’avanzare della modernità, si sbaglia. La sponda occidentale del Nord Africa è viva e riflette un percorso di modernizzazione tutto interno alla religione del profeta MaomettoAlcuni giorni fa il Consiglio superiore degli Ulema del Regno del Marocco attraverso una fatwa (responso legale) intitolata “La via degli eruditi”, ha rinnegato la pena capitale nel caso di apostasia (riddah), ovvero nel caso di ripudio dell’Islam da parte di un musulmano. 

Eliminando il crimine di apostasia, gli eruditi marocchini permettono a chiunque di abbandonare l’Islam senza che ciò comporti la pena capitale, come invece ancora accade in altri paesi. Essi, inoltre, hanno evidenziato che “The most accurate understanding, and the most consistent with the Islamic legislation and the practical way of the Prophet, peace be upon him, is that the killing of the apostate is meant for the traitor of the group, the one disclosing secrets, […] the equivalent of treason in international law”.

L’apostasia, così come enunciata nei testi sacri, consisterebbe secondo gli ulema marocchini in apostasia politica, ripercorrendo alcune interpretazioni dottrinali malichite. Essa, dunque, equivarrebbe all’alto tradimento, condannato anche da molte carte costituzionali occidentali.
Per questo motivo l’interpretazione viene considerata dagli stessi ulema più islamicamente corretta e non rappresentante una bid’ah, termine utilizzato per indicare un rinnovamento eterodosso.

Se la decisione proveniente dal Marocco non cambia nulla a livello normativo poiché l’apostasia non è un reato, certamente la fatwa porta a termine un processo di riforma che nella sponda occidentale nordafricana ha rivoluzionato il Paese e posto le basi per una riflessione interna all’Islam. 

Dopo aver condannato gli attentati compiuti in nome di Allah e aver riformato nel 2004 il codice di statuto personale, Mudawana, il Regno del Marocco apre la strada ad una riforma del credo islamico lanciando forti segnali contro le fin troppo ristrette interpretazioni del testo coranico.
A
 conferma del clima, lAmbasciatore marocchino in Italia, Hassan Abouyoub, ai microfoni di Radio Radicale ha evidenziato che, nonostante non sia corretto parlare di rivoluzione, siamo all’interno di “un processo storico chiaro, di serenità assoluta”.

Le recenti fatwa degli ulema marocchini e il processo riformista del Re Muhammad VI sono chiari, e portano ad una altrettanto chiara linea di demarcazione che distingue da una parte i moderati musulmani che hanno scelto la convivenza fra le religioni, e dall’altra i fondamentalisti pronti ad una eterna jihad contro un mondo che, insieme, avanza. La svolta marocchina potrebbe realmente rappresentare, come già ricordato da Federico Guiglia, un grande passo per l’umanità e non solo per l’uomo.

Nicola Bressan

ISRAELE LEGALIZZA GLI INSEDIAMENTI IN CISGIORDANIA

Il conflitto arabo-israeliano è uno dei più longevi della storia contemporanea e da quasi settant’anni sconvolge l’ordine internazionale e la stabilità di tutto il Medioriente. 

A partire dal 1948 infatti, con la proclamazione dello Stato d’Israele, i paesi arabi hanno reagito considerandolo un atto di forza nei confronti della Palestina. Da qui è iniziata una lunga serie di conflitti per il possesso ed il riconoscimento territoriale dei due stati, sfociata poi in una profonda crisi internazionale. Nonostante i diversi tentativi di pacificazione e risoluzione del conflitto, spesso mediati da stati terzi, la soluzione sembra essere ancora oggi di difficile attuazione.

Oltre alle migliaia di vittime causate ogni anno dal conflittouno dei principali punti di scontro è quello relativo agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, in lingua inglese chiamata West Bank (la sponda occidentale), regione che avrebbe dovuto far parte dello stato arabo-palestinese come previsto dal piano di spartizione dell’ONU del 1947, in seguito controllata militarmente da Israele a partire dalla guerra dei sei giorni del 1967Considerata dagli ebrei la “terra natale” dei propri antenati e spesso citata nella Bibbia, molti israeliani hanno approfittato del controllo militare di Israele su parte della Cisgiordania per fondarvi proprie comunità.

Tutte le maggiori organizzazioni internazionali, tra cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, l’Unione Europea, Amnesty International e la Human RightsWatch, considerano gli insediamenti illegali secondo il diritto internazionale.

Lo scorso dicembre è stata approvata una risoluzione dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU che condanna la validità legale delle colonie israeliane, intimando l’interruzione di ogni attività in tal senso. Per la prima volta dopo anni, gli Stati Uniti, principale alleato di Israele, si sono astenuti senza utilizzare il proprio diritto di veto per bloccare una misura contraria agli interessi Israele. Il gesto degli USA è stato letto dal primo ministro israeliano Netanyahu, come un “tradimento”, tanto che egli aveva immediatamente dichiarato di voler attendere l’insediamento dell’Amministrazione Trump, convinto che questa avrebbe apportato benefici al popolo israeliano.  

Nonostante la risoluzione, lo scorso 6 febbraio il parlamento israeliano ha approvato in viadefinitiva una legge che permette ad Israele di legalizzare 3.800 alloggi in Cisgiordania

Secondo la norma, i proprietari palestinesi possono chiedere un risarcimento pari al 125% del valore dei terreni, oppure scegliere altri terreni ove insediarsi. Inoltre, la misura permette al Ministro della Giustizia israeliano di aggiungere altri nomi alla lista degli avamposti, previa approvazione della Commissione Parlamentare Giustizia, Legge e Costituzione, concedendo in futuro, ulteriori insediamenti. La legge, definita “della regolarizzazione”, è stata voluta fortemente dal partito conservatore Focolare Ebraico, molto vicino ai coloni. Prima di essere approvata, questa aveva subito un momento di arresto in seguito alle dichiarazioni del Presidente Trump che definiva la situazione degli insediamenti un “ostacolo alla pace”.

La nuova legge ha scaturito numerose critiche all’interno del Paese, ove diversi politici, accademici e personalità di spicco, tra cui il Procuratore Generale di Israele, si sono schierati contro la stessa poiché viola la Quarta convenzione di Ginevra secondo cui “la potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”.

Assodato che bisognerà osservare gli sviluppi e le conseguenze che la decisione del parlamento israeliano produrrà soprattutto a livello internazionale, la nuova legge, secondo molti, potrebberallentare il processo di pacificazione tra Israele e Palestina.

Uno dei punti focali dell’eventuale soluzione al conflitto è infatti la cosiddetta “soluzione a due stati”, caldeggiata da diversi Paesi e organizzazioni internazionali. Quest’ultima ipotizza ilreciproco riconoscimento territoriale di entrambi gli Stati, prevedendo la cittadinanza palestinese ai residenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.

Ad ogni modo, le molteplici critiche e petizioni mosse tanto sul piano interno, che su quello estero,rendono lecito aspettarsi che la norma non avrà seguito e non si esclude l’annullamento della stessa da parte della Corte Suprema israeliana, la quale ha recentemente ordinato lo smantellamento di un insediamento illegale in Cisgiordania.

Lorenzo Salvati

“LA RIVE GAUCHE”, LE PRIMARIE SOCIALISTE IN FRANCIA

“Non posso accettare la dispersione della sinistra, la sua distruzione, perché priverebbe i cittadini di ogni speranza di vincere di fronte a conservatori ed estremismo (…). Non mi ricandido per il bene della Francia”.

Con queste parole François Hollande, il 2 dicembre 2016, escluse in maniera categorica la possibilità di candidarsi alle primarie socialiste, in vista delle elezioni presidenziali del 2017 in Francia. Hollande è stato probabilmente il Capo di Stato più impopolare della storia della Quinta Repubblica. Consegnerà al prossimo inquilino dell’Eliseo un Paese in cui vige ancora lo Stato d’emergenza (dopo la ben nota sequenza di stragi e attentati) e in cui il sogno della piena realizzazione di una società multiculturale sembra ormai essersi infranto definitivamente. La diagnosi sullo stato di salute della Repubblica sembra quindi piuttosto impietoso. E la decisione storica di Hollande – per la prima volta infatti il presidente “uscente” non si presenterà per la corsa all’Eliseo – non ha avuto l’effetto di ricompattare la gauche.

Oltre due milioni di elettori socialisti si sono recati alle urne il 29 gennaio per il secondo turno delle primarie. A contendersi la nomina rimanevano l’ex primo ministro Manuel Valls e l’outsider – almeno fino al primo turno – Benoît HamonCome per i “Repubblicani” con la netta affermazione  di Fillon, anche tra le fila dei socialisti a spuntarla è stato un candidato poco accreditato prima delle votazioni. Benoît Hamon, ex Ministro dell’Educazione nazionale nel primo Governo Vallsha trionfato nelle primarie con il 58% dei consensi. Alcuni lo hanno definito il “socialista utopista”, altri sull’onda delle elezioni americane lo hanno ribattezzato  “il Sanders francese”. Il suo programma elettorale rappresenta una decisa svolta verso la base più radicale del Partito Socialista: riduzione dell’orario di lavoro da 35 a 32 ore settimanalil’abrogazione della pur timida riforma del lavoro, la sospensione del patto di stabilità e l’abbandono del 3% di deficit e soprattutto l’introduzione di un “revenu universel (il tanto discusso reddito di cittadinanza invocato dal M5S) di 750 euro mensili per i cittadini francesi.

François Fillon

Tuttavia per Hamon la corsa per l’Eliseo si prospetta tutt’altro che semplice: quest’ultimo dovrà infatti ricercare l’appoggio dell’intero partito, ormai frammentato in numerosissime correnti. Il nuovo candidato del partito sembra già tagliato fuori, e viene data quasi per scontata la sua eliminazione al primo turno delle elezioni presidenziali. Si pronostica già una sfida Le Pen – Fillon (“Penelope gate” permettendo) al secondo turno.

Ma anche di fronte ad uno scenario così desolante del socialismo francese, si può scorgere un nuovo astro nascente politico? Forse è ancora presto per dirlo, ma Emmanuel Macron, in carica come ministro dell’economia fino all’estate del 2016, che ha da poco fondato un nuovo movimento politico – “En Marche” – di ispirazione centrista, sembra essere l’unico vincitore in prospettiva del “seppuku” socialista. Ciò che Macron propone è un drastico cambio di rotta per il socialismo francese in una direzione post-partitica, capace di attirare sia gli elettori socialisti moderati che l’elettorato più riformista del centro-destra repubblicano. Ma su una cosa si può esser sicuri dopo queste primarie: del grande partito di François Mitterrand restano ormai soltanto le spoglie.

Gian Marco Sperelli 

GLI OCCHI DELL’AFRICA SU TRUMP

In questi giorni di attesa e curiosità intorno all’approdo del Tycoon e della sua First Lady alla Casa Bianca, molte sono le domande che nascono sul New Deal della politica estera americana. Se tanto si è già parlato, a causa delle polemiche e dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, di Cina e Medio Oriente, restano tuttavia dei chiaroscuri nel programma dell’amministrazione Trump su cui è bene soffermarsi. Molti si stanno chiedendo quale ruolo nella gerarchia delle priorità di politica estera ricoprirà il continente africano per la nuova amministrazione USA. Durante la campagna presidenziale i riferimenti di Trump all’Africa sono stati pressocché inesistenti, fatto salvo un accenno agli attentati di Nairobi e Dar es Salaam di fine anni ‘90 e qualche breve riferimento a Daesh in Libia. Eppure, dopo la sorprendente vittoria del 9 novembre, l’Africa è tornata al centro delle attenzioni mediatiche, con i capi di Stato e governo del continente divisi tra speranze di nuove aperture diplomatiche ed il timore di essere abbandonati al proprio destino.

Come il noto analista sudafricano Greg Mills nota, la diplomazia statunitense in Africa negli ultimi otto anni di amministrazione Obama è stata “notevole per la sua assenza”. In effetti, se si eccettua il proseguimento dei programmi iniziati già con l’amministrazione Clinton e Bush II, quali l’African Growth e l’Opportunity Act e la presenza militare sul continente dell’Africom (Comando Africano degli USA), si è rilevata una crescente indifferenza nei confronti delle sfide di democratizzazione e stabilizzazione di alcuni tra i paesi più instabili.

Il presidente dello Zimbawe Robert Mugabe

La lista degli auguri – Un primo segnale per capire come si orienterà l’amministrazione Trump verso il continente africano arriva dalle chiamate di congratulazioni ufficiali che il Tycoon ha ricevuto dopo la vittoria alle urne. Alcune sono partite dalla cornetta telefonica di alcuni strong men al potere nel continente, fatto che ha destato non poche preoccupazioni tra gli altri leader africani. Tra le reazioni più calorose, quella di Joseph Kabila, capo di Governo in Congo senza interruzioni dal 2002, i cui funzionari sono oggetto di sanzioni internazionali per violazione dei diritti fondamentali. Il leader congolese ha scritto a Trump complimentandosi per la sua “brillante elezione”. Altri capi di governo accusati dall’ONU e altre ONG internazionali di violare i diritti umani della propria popolazione hanno accolto con entusiasmo l’elezione di The Donald: il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza, il contestatissimo presidente dello Zimbawe Robert Mugabe, al potere da ben 36 anni, Idriss Déby, presidente dal polso duro dello stato Sahariano del Chad, Salva Kiir, Capo di Stato del sanguinante e sofferente Sud Sudan, le cui relazioni con l’amministrazione Obama sono arrivate a toccare il fondo.

Questi passi in avanti verso Washington da alcuni degli strong rulers sembrano ad oggi unilaterali, data l’estrema incertezza che circonda le linee di politica estera dell’amministrazione Trump per ciò che riguarda l’Africa. Qualcuno, come Peter Vale, direttore dell’Università di Johannesburg, si spinge ad affermare che “probabilmente la politica estera di Trump verso l’Africa non esiste”.

Quel che è certo è che due sono i nomi che hanno predominato nelle discussioni di politica estera di Trump durante la campagna elettorale: la Cina e l’ISIS, ed entrambe hanno a che fare con il continente africano.

Il problema cinese – Per quel che riguarda la Cina, sono in gioco gli interessi commerciali degli USA sul continente. Se Trump è davvero intenzionato a mostrare i muscoli contro Pechino, allora il vuoto lasciato dalla presenza economica statunitense in Africa e riempito dal business cinese non può non destare preoccupazioni all’amministrazione insediatasi a Washington. Il numero di compagnie cinesi che investono sul continente cresce vertiginosamente ogni anno. La dinamica di base è semplice: in cambio di nuove infrastrutture e prestiti di stato mastodontici le compagnie cinesi si sono guadagnate un ruolo di monopolio nei processi estrattivi delle risorse minerarie africane sbaragliando la concorrenza preesistente, e non diversamente funziona il meccanismo retrostante l’acquisto di enormi proprietà terriere per mettere in piedi progetti su larga scala nel campo agricolo. Si stima che solo nel 2015 il valore del commercio tra Cina e continente Africano risultò essere di 300 miliardi di dollari. 

Una lista di quattro pagine è stata consegnata dal Transition Team al Pentagono ed al Dipartimento di Stato per chiedere spiegazioni e avanzare dubbi sulla situazione degli interessi USA in Africa. Dal documento traspaiono la chiara intenzione di ridurre i fondi destinati agli aiuti umanitari e ai progetti di sviluppo e al tempo stesso la preoccupazione di salvaguardare la competitività del business statunitense dalla feroce concorrenza cinese.

Caccia americani sorvolano i cieli libici

La polveriera libica – Why aren’t we bombing the hell out of ISIS?” (D. Trump, maggio 2016) – La seconda questione è di rilevanza per la sicurezza nazionale ed è un pallino fisso di Steve Bannon, capo stratega della nuova amministrazione: il califfato nero. Pur in difficoltà e in ritirata, l’ISIS non ha abbandonato la Libia, e la presenza dei tagliagole nello stato dell’Africa del Nord allontana la speranza di qualsiasi soluzione della crisi in corso. Il governo di Serraj perde credibilità di ora in ora e, anche se è appoggiato dall’ONU, non gode di alcun appoggio al di fuori di Tripoli. A capo del Governo di Tobruk cresce invece il consenso e la forza contrattuale del Generale Khalifa Haftar, uomo forte appoggiato e finanziato dalla Russia di Vladimir Putin e sicuro di un esercito che conta più di 20.000 uomini. Non è un caso, come riporta Reuters, che il Generale sia stato tra i primi a congratularsi con Trump per la vittoria: l’uomo forte della Cirenaica sarà con ogni probabilità il diretto interlocutore della nuova amministrazione USA nella lotta all’Isis in Libia, con buona pace dell’ONU e dell’Unione Europea.

Francesco Bechis

ODI ET AMO: TRUMP, L’ONU E LA NATO

Dopo una campagna elettorale spesso dai tratti eccessivi e talvolta caricaturali, molti in questi giorni cercano di abbozzare i primi tentativi di risposta ad un grande e fondamentale quesito. Con un gioco di parole: Trump farà davvero Trump durante la sua Presidenza?

Una domanda non da poco visto il peso che ha avuto l’America nella storia recente grazie al suo ruolo di “poliziotto internazionale” lungo tutto il secondo dopoguerra e considerati il numero di squilibri e di conflitti sorti nel mondo negli ultimi anni, per molti proprio come conseguenza del recedere degli USA da questo ruolo durante l’era Clinton/Obama.

Ambito più volte toccato del neo Presidente è stato proprio quello relativo alle organizzazioni internazionali ed i rapporti esteri degli Stati Uniti d’America. Ha avuto grande effetto il tweet sull’ONU, liquidata come “un club di chiacchiere” dopo la storica astensione degli USA sulla risoluzione di condanna degli insediamenti di Israele in Cisgiordania. Ripresda quasi tutti i giornali, gli attacchi di Trump alla NATO (definita “obsoleta” perché “non si occupa di terrorismo”, nonostante per lui sia “ancora molto importante”) hanno suscitato le pronte reazioni del mondo politico internazionale.

Ma le cose stanno veramente così?

Il Generale Christopher J.R. Davis (a sinistra) con il General James Mattis (a destra).

La scelta del neo presidente di nominare l’ex generale James “Mad Dog Mattis come Segretario alla Difesa (Capo del Pentagono) fa pensare che le cose stiano diversamente, ed è stata interpretata come una sorta di “rassicurazione” agli alleatiGià comandante dello United States Central Command (succedendo a David Petraeus nel 2010) e dell’Allied Command Trasformation della NATO, struttura incaricata alla formazione, alla pianificazione, all’evoluzione ed alla programmazione dell’alleanza atlantica, Mattis nel corso della sua audizione alla Commissione delle Forze Armate del Senato dello scorso 12 Gennaio, si è schierato nettamente a favore dell’Alleanza Atlantica, definendo la NATO “l’alleanza militare di maggior successo nella storia moderna, forse di sempre” e la Russia, a causa delle scelte del Cremlino, come “avversario strategico in aree fondamentali”.

Altra nomina che si sta rivelando, al momentomeno di rottura (anche se dai tratti forse più controversi) rispetto a quanto stimato dagli osservatori è quella del Segretario di Stato Rex Tillerson. Ex amministratore delegato della compagnia petrolifera ExxonMobile (discendente della Standard Oil), è da sempre considerato vicino alla Russia e da praticamente tutti viene ritenuto come la diretta conferma dell’obiettivo della futura amministrazione di giungere ad una “normalizzazione dei rapporti” con la Russia, nonostante gli altrettanto profondi legami del neo ministro con il potere americano. Tuttavia, durante le audizioni presso il Senato per la ratifica della sua nomina, Tillerson ha mostrato un’agenda meno distesa verso il Cremlino, rassicurando al tempo stesso gli alleati dichiarando l’articolo 5 del Patto Atlantico come “inviolable”

È rimasto deluso, invece, chi si aspettava qualche rassicurazione il 20 Gennaio, durante l’inauguration day. Il discorso di insediamentodai tratti quasi elettorali, ha consegnato al mondo un messaggio molto chiaro, anche se ancora indecifrabile in ordine alla reale intensità ed ai concreti mezzi con i quali verrà perseguito: “Da questo momento in avanti, verrà “Prima l’America”. Ogni decisione sul mercato, le tasse, l’immigrazione o gli affari esteri, verrò presa al fine di ottenere a beneficio dei lavoratori e delle famiglie americane”. Proseguendo poi: “Rinforzeremo le vecchie alleanze e ne formeremo di nuove – unendo il mondo civilizzato contro il Terrorismo Islamico Radicale, che cancelleremo completamente dalla faccia della Terra”.

Continuando la serata, un pensiero è stato poi dedicato da Trump ai soldati impegnati in Afghanistan, che hanno ricevuto una videochiamata da parte del neo Presidente durante la cerimonia del “Salute to Our Armed Services Ball”. I soldati, schierati in una regione ancora profondamente instabile che è stata oggetto anche di recenti particolari dichiarazioni ed importanti impegni da parte delle istituzioni NATO, hanno ricevuto il sostegno del Presidente Trump che ha esclamato: “Sono con Voi!”.

Vladimir Putin e Rex Tillerson (Getty)

Considerando la Presidenza nel suo complesso, dietro la retorica meramente politica – a ben sperare – potrebbero esservdelle esigenze del nuovo Presidente ben più pratiche di quelle raccontate dalla propaganda politicala ferma volontà che gli alleati aumentino la loro spesa militare interna, contribuendo maggiormente ai grandi costi dell’alleanza militare. Messaggio in continuità con quanto già richiesto dall’amministrazione precedente, a causa di un impegno economico che vede al momento largamente protagonista l’America con un 70%, con l’Europa ferma al 19% del bilancio. Altro obiettivo del 45° Presidente potrebbe essere quello di pervenire ad una “maggiore libertà” nella gestione dei rapporti con i nuovi player emergenti sullo scacchiere geopolitico, prescindendo dalle necessità contingenti degli alleati e dalla loro protezione, e costringendoli ad una loro “emancipazione” soprattutto sugli scenari regionali, qui in parziale contrasto con il passato.

Ed è soprattutto sul tema dell’evoluzione dell’Alleanza Atlantica che si è concentrato il dibattito politico europeo, diviso tra chi ha auspicato una dissoluzione dell’organizzazione regionale probabilmente più importante della storia e chi, invece, ritiene questo scenario come prospero per una qualche forma di evoluzione dell’alleanza, nonostante le evidenti difficoltà tecniche. Convergenze e temperamenti delle reciproche esigenze potrebbero trovarsi in seno alla UE, altra vittima degli attacchi di Trump, nell’improbabile caso che i governi degli stati membri riescano, nel corso dei prossimi anni, a trovare una qualche forma di unità di intenti in tema di difesa comune e di geopolitica unitaria. Questione da sempre molto delicata e bisognosa di una forte coesione politica che, considerate le condizioni attuali, resta molto lontana.

Questioni che, in parte, erano però già state affrontate da tutte le parti in gioco lo scorso Luglio a Varsavia e che erano sfociate in una dichiarazione congiunta NATO/UE nella quale una maggiore integrazione nei rapporti tra stati membri dell’UE ed istituzioni NATO veniva giudicata necessaria per affrontare “una serie di sfide senza precedenti” tipiche del tempo presente.

In questi giorni, intanto, il Segretario Generale Stoltenberg si è congratulato con il nuovo Presidentedichiarando di essere pronto a “lavorare vicino al Presidente Trump per rinforzare la nostra Alleanza” al fine di garantire una risposta alle sfide in continua evoluzione, “incluso il terrorismo, con una più equa ripartizione degli oneri tra gli Alleati”, e di essere assolutamente sicuro che gli Stati Uniti resteranno “fortemente impegnati” nella NATO.

Valerio Gentili

TRUMP E IL MEDIO ORIENTE

Se pronosticare lelezione di Trump era esercizio alquanto arduo, altrettanto lo è il cercare di prevederne le mosse. In particolare, lo è in tema di politica estera, ambito che parla un linguaggio proprio, fatto di diplomazia, strategia e consuetudini che mal si addicono al ciclone Trump. La premessa, duplice, nasce proprio qui: lazione di Trump sarà – per quanto possibile – coerente con le proposte fatte in campagna elettorale? E – nel caso – riuscirà a superare i non pochi ostacoli che lapparato gli metterà sul cammino?

Pur mantenendo sullo sfondo queste considerazioni, è tuttavia doveroso ipotizzare il percorso di The Donald. Proviamo a concentrarci sul Medio Oriente, il teatro più instabile e delicato, e allo stesso tempo uno di quelli in cui le proposte” di Trump potrebbero avere gli esiti più rivoluzionari.

ISIS – Innanzitutto, partiamo dal sito della campagna elettorale del neo Presidente, che parla di Politica estera e sconfitta dellIsis, tanto per chiarire quale sia la sua prioritàProprio dalla lotta a Isis passa il primo nodo strategico mediorientale (e non solo), ossia il rapporto tra USA e Russia. Trump – è noto – vuole drasticamente cambiare rotta, riavvicinandosi a Putin proprio in virtù di una più efficace lotta allo Stato Islamico. Il punto, tuttavia, è che se anche i due capofila” si riavvicinassero, è impossibile che lo facciano i loro alleati: pensare a un riavvicinamento di Iran, Arabia Saudita o Israele è utopia, e dunque Trump deve essere in grado di guadagnare contemporaneamente credito su più tavoli tra loro poco compatibili. Laltro grande tema è il rapporto con lUnione Europea (e, più in generale, la Nato), che sarà messo a dura prova dai vari conflitti regionali per lo stesso discorso di cui precedentemente. La guerra allIsis, comunque, sarà portata avanti sia sul piano militare (che sarà implementato) che su quello ideologico (Sconfiggeremo lideologia del terrorismo del radicalismo islamico così come abbiamo vinto la Guerra Fredda), in cooperazione con gli amici e alleati arabi.

Siria – Lo scenario principale in cui Trump dovrà mettere mano è quello siriano, crocevia di interessi e alleanze che – a cascata – ricadono sulla stabilità di tutta larea. Lidea di Trump, come detto, è di collaborare con la Russia contro Isis; questo, però, potrebbe voler significare un contrasto più morbido al regime di Assad (su cui Putin ha fortemente investito), e dunque una rivalutazione del sostegno alle moltissime fazioni di ribelli attualmente supportate (molte delle quali, peraltro, fondamentaliste islamiche). Tuttavia, unazione di questo genere non lascerebbe indifferente lArabia Saudita, grande alleato regionale statunitense, che essendo schierata coi ribelli vedrebbe la scelta come un rinnegamento dellamicizia stessa. Non dimentichiamo infatti che Assad è sostenuto, oltre che dalla Russia, anche dallIran, nemico giurato dei sauditi e principale rivale nel ruolo di potenza regionale.

Monarchie del Golfo – Più in generale, ne risentirebbe il rapporto tra gli Stati Uniti e tutto il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Come se non bastasse, gli annunci fatti in merito alla ridefinizione degli accordi di cooperazione militare non hanno favorito un clima positivo: la minaccia di Trump di revocare la protezione statunitense in mancanza di adeguati pagamenti ha allertato le monarchie del Golfo. La conseguenza potrebbe essere unazione cautelativa dei membri del CCG: morto un Papa se ne fa un altro, e la Cina già pregusta la possibilità di sostituirsi agli americani (in effetti, Arabia Saudita e Cina hanno recentemente effettuato esercitazioni militari congiunte).

Iran – Sono note le affermazioni di Trump sul trattato iraniano, visto come il fumo negli occhi. Tuttavia è difficile pensare ad azioni tanto rudi e decise quanto le parole spese: innanzitutto perchè, effettivamente, rescindere unilateralmente un trattato firmato poco tempo prima e implementato correttamente dalla controparte non è così facile; inoltre, perchè strategicamente avrebbe serie conseguenze, che spazierebbero dalle reazioni positive dei sauditi (che beneficerebbero del colpo basso ai rivali iraniani) a – soprattutto – quelle negative dellEuropa, che ha tanto investito nellaccordo, perchè tanto ne beneficia a livello economico; dopo le tensioni sulla riorganizzazione della Nato, sarebbe un altro brutto affronto allaltra metà del mondo atlantico.

Israele – Ma una delle prime, clamorose mosse della Presidenza Trump in politica estera potrebbe essere la conferma del trasferimento dellambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, che romperebbe lo status quo in senso esclusivamente pro-Israele; un atto tanto forte da essere condannato praticamente da tutti, dalla Giordania allUE, ossia attori non esattamente ostili agli USA. Tale affronto farebbe impennare lesplosività del conflitto israelo-palestinese, e le conseguenze sarebbero nefaste.

Altri scenari – C’è poi la Turchia, che potrebbe sia fare da ponte tra Russia e Stati Uniti, sia allo stesso tempo essere estromessa da un loro contatto diretto perdendo il ruolo di intermediario che si è ritagliata negli ultimi mesi; c’è Il Cairo, con al-Sisi che si è congratulato con Trump, auspicando che la sua elezione possa portare nuova linfa nelle relazioni tra USA ed Egitto; ci sono altre situazioni spinose, come la guerra in Yemen, la situazione in Iraq o la crisi libica, che richiedono di essere risolte senza però essere trattate a compartimenti stagni.

Insomma, sembra abbastanza certo che se i toni usati e le azioni promesse in campagna elettorale dovessero trovate seguito, si avrebbero importanti conseguenze, con un possibile shifting delle tradizionali alleanze. Laspetto interessante, comunque, sembra essere uno in particolare: Trump è lunico attore che sembra davvero essere in grado di non bloccarsi in una visione bipolare del mondo, un clima da simil Guerra Fredda in cui effettivamente la Presidenza Obama ci ha riportato.

Giovanni Gazzoli 

IL MONDO SOTTOSOPRA

Fra poche ore ci sarà la cerimonia pubblica per l’insediamento alla Casa Bianca del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Sono forse due le domande fondamentali che i curiosi si stanno ponendo in questo momento: quanta coerenza ci sarà tra la campagna elettorale e quello che poi verrà messo in pratica? Quanta distanza effettiva tra la politica di Obama e la nuova amministrazione?

Tra le varie direzioni nelle quali poter sviluppare questi interrogativi, di seguito un rapido sguardo ai problemi che il nuovo Presidente dovrà affrontare in politica interna.

La sanità

L’Affordable Care Act (soprannominato comunemente Obamacare), la riforma sanitaria su cui l’amministrazione uscente ha puntato moltissimo, sarà – stando almeno alle ultime parole di Trump – abrogata e ben presto sostituita. Trump ha infatti dichiarato in una recentissima intervista al Washington Post: “Ci sarà un’assicurazione per tutti. Vi è una filosofia in certi circoli per cui se non puoi pagare non ottieni. La nuova riforma sarà semplificata e molto meno costosa”. Sono queste le parole che Trump ha continuato a ripetere negli ultimi giorni. Obama, almeno a quanto sembra, non è riuscito a convincere il tycoon della bontà della riforma.

I dettagli del nuovo piano sanitario non sono ancora stati svelati e verranno annunciati quando sarà confermata la nomina del nuovo Ministro della Sanità, nemico giurato di ObamacareTom Price. Il nuovo ministro è una vera e propria volpe che fa da guardia al pollaio, dal momento che da molti anni studia il modo per superare e mettere da parte la riforma.

Tuttavia l’impresa rimane ardua. L’Obamacare ha garantito una copertura sanitaria a 13 milioni di cittadini che prima non l’avevano e risulterebbe comunque problematico togliere ai nuovi beneficiari la copertura sanitaria fin qui ottenuta. Non è chiaro con quale altra riforma verrebbe sostituita e, sopra ogni cosa, c’è sempre l’ostacolo del Congresso. Bisogna convincerlo e bisogna superarlo.

Economia

Dal punto di vista economico il quadro è molto complesso. Perfino chi giudica troppo semplicistica l’equazione tra Trump e protezionismo, dovrà ammettere che tutti i segnali tendono in quella direzione. Si vorranno con tutta probabilità sostenere le esportazioni da un lato e disincentivare le importazioni dall’altro. Qualcuno sembra quasi averlo capito in anticipo: è il caso di Fiat Chrysler e Ford, che annunciano nuovi investimenti negli Usa subito dopo le dichiarazioni minacciose di Trump di aumentare le tasse a chi non investirà negli Stati Uniti e lo farà altrove.

Tra le novità in campo economico ci sarebbe anche l’abolizione del Dodd-Frank Act, la riforma di Wall Street voluta da Obama per regolare la finanza statunitense e allo stesso tempo tutelare il consumatore e il sistema economico statunitense. La riforma dovrebbe impedire nuove crisi e promuovere maggiore trasparenza, ma Donald Trump non vuole mantenerla. Sarà sostituita, attenendosi alle sue parole, con politiche che incoraggiano la crescita economica e la creazione di posti di lavoro. Anche qui le modalità e i dettagli della riforma sostitutiva sono poco chiari.

La realtà e il paradosso

Molto difficile fare previsioni su ciò che farà e come si comporterà Trump. Certo è che chi non vuole ridurre la politica della nuova amministrazione in un estremo desiderio di protezionismo, dovrà comunque accettare che la percezione è quella. Addirittura Xi Jinping, il leader cinese, ha dichiarato pochi giorni fa a Davos: “È vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla. Dobbiamo dire no al protezionismo. Perseguirlo è come chiudersi in una stanza buia”. Il riferimento sembra proprio essere a Trump.

Lanciando una provocazione: sarà l’America a sostenere il protezionismo e la Cina a proteggere invece la globalizzazione?

Simone Stellato