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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

GUANTANAMO: L’AMMINISTRAZIONE OBAMA TRA LUCI E OMBRE

Il campo di prigionia di Guantanamo è una struttura di detenzione statunitense, organizzata sulla base dei più elevati modelli di sicurezza interna, ubicata all’interno della base navale di “Gitmo”, acronimo di Guantanamo, sull’isola di Cuba. Il Governo degli Stati Uniti, successivamente agli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001, decise di edificare questo campo di prigionia per la detenzione dei prigionieri, in massima parte composti da cittadini afghani, ritenuti responsabili della summenzionata attività terroristica.

La chiusura di questo istituto detentivo, all’interno del quale – secondo una sentenza del 29 Giugno 2006 della Corte Suprema degli Stati Uniti – erano state commesse palesi violazioni del Codice di Giustizia Militare degli Stati Uniti per le modalità di detenzione dei detenuti, era stato uno dei perni fondamentali della campagna elettorale del 2008 del futuro presidente Barack Obama. Il 22 gennaio del 2009, nel suo secondo giorno di Governo, il neoeletto presidente firmò un ordine esecutivo presidenziale che impose l’ordine di smantellamento del carcere, non della base militare navale, entro la fine dell’anno.

Il partito repubblicano si pose in netta contrapposizione rispetto ai nuovi provvedimenti proposti relativamente all’Affordable Care Act ed alla riduzione dell’intervento militare in Iraq ed in Afghanistan. Questo durissimo “Aventino” del partito di opposizione determinò, anche sulla base delle previsioni nefaste per gli ingentissimi costi di gestione per la chiusura del campo, il voto contrario del Senato, che con 80 voti sfavorevoli e 6 favorevoli respinse il progetto per definire la fine del carcere di Gitmo.

Nel dicembre del 2015, dopo aver definitivamente accantonato l’idea del completo disfacimento del campo di detenzione, il presidente Obama aveva accarezzato l’idea di trasferire le 55 persone presenti all’interno della struttura cubana, nella base di Fort Leavenworth in Kansas. Le esigenze di natura economica, sommate a quelle di public national security enfatizzate dal famoso aforisma del partito repubblicano “non si può chiudere una prigione che protegge la sicurezza nazionale”, ancora una volta hanno procrastinato la chiusura della prigione della base navale di Cuba.

Al momento dell’insediamento del presidente Obama i detenuti erano 242, attualmente sono 55, mentre se la nuova amministrazione dovesse dare il suo placet al nullaosta per ulteriori 19 detenuti ne potrebbero rimanere unicamente 36. D’altro canto nonostante il fatto che durante la campagna elettorale del 2008 l’ex candidato avesse pubblicamente biasimato l’operato delle commissioni militari, nella riforma presentata nel 2009 contenuta all’interno del “Military Commission Act” non sarebbero stati introdotti correttivi sostanziali contro il reato di tortura. Questa tecnica militare per ottenere informazioni, seconda la difesa degli avvocati dei detenuti di Gitmo, sarebbe diventata un parametro di condotta standard all’interno della celeberrima prigione. Inoltre il mutamento dello status giuridico-fattuale dei reclusi da semplici detainees, elaborato dall’amministrazione Bush, a quello di “belligeranti irregolari” non avrebbe comportato un effettivo e sostanziale miglioramento dei diritti di difesa dei detenuti, i quali non sono minimamente paragonabili a quelli garantiti dai 4 protocolli addizionali del 1977 alla Convenzione di Ginevra stipulata nel 1949.

La prossima amministrazione repubblicana dovrà esprimersi sulla sua chiusura definitiva, oppure implementare nuovamente questa struttura controversa, la quale ha ispirato una gigantesca “letteratura” di dissenso.

Gabriele Mele

L’EREDITA’ DI OBAMA IN POLITICA ESTERA

Il 20 gennaio sarà ricordato, con ogni probabilità, come uno più discussi insediamenti della storia politica americana: a Washington, infatti, Donald Trump giurerà come 45esimo Presidente degli Stati Uniti. Il presidente più improbabile, almeno stando a tutti i pronostici della vigilia, prenderà il posto di un Presidente altrettanto storico, Barack Obama, il primo inquilino afroamericano della Casa Bianca. La curiosità rispetto a “l’America di Trump” è molta, anche perché in tanti sono pronti a misurare la distanza effettiva che il tycoon newyorchese metterà tra sé e l’amministrazione uscente.  Il tema della politica estera è particolarmente delicato e l’eredità che Obama lascia a Trump non è delle più facili. Il famoso motto obamiano “Yes, we can”  ha influenzato molto la politica estera americana degli ultimi 8 anni, sposandosi con una visione multilaterale delle relazioni tra USA e resto del mondo. Un approccio decisamente distante dall’idea trumpiana del “Make America Great Again”. Obama lascia dietro di sé un rinnovato interesse verso il Pacifico, un discusso accordo con l’Iran e il disimpegno militare americano, sia formale che sostanziale, da molti teatri in cui i marines di George W. Bush erano stati protagonisti. 

London Summit – Aprile 2009

Proprio come reazione contraria all’interventismo di Bush Jr., Obama iniziò nel 2009 a Il Cairo una piccola rivoluzione nelle relazioni internazionali statunitensi, ispirando tutta la sua azione al multilateralismo (per Barack quasi un’ossessione) e al rapido disimpegno militare. Obama era, e forse è, convinto che la pesante presenza degli Stati Uniti all’estero fosse dannosa per gli interessi americani. Partendo da questa valutazione ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, nella speranza di poter riguadagnare la fiducia di alcuni paesi, in particolare quelli islamici, che avevano mal digerito la presenza statunitense in Medio Oriente. Il risultato è stato una politica che ha minimizzato la fiducia nell’intervento militare, mentre ha massimizzato quella nella cooperazione e nel multilateralismo. Non è dunque un caso che nel 2013 il National Security Strategy, il documento più importante che l’esecutivo Americano elabora annualmente sul tema della sicurezza nazionale, ricordi come: «The United States must prepare for a multilateral world where, while retaining our military, economic, and cultural preeminence, we may be challenged by both allies and adversaries. Therefore, Americans must adopt the view from within and without that we are a nation “first among equals” to reflect the trends of demographics, global finance, and military power». La visione obamiana ha così enfatizzato l’applicazione di quella che lui stesso definì nel discorso sullo stato dell’unione del 2015 “smarter kind of American leadership”, in grado unire la forza militare ad una robusta diplomazia dove il potere americano si fonde in quello di una grande coalizione. In quest’ottica la Presidenza Obama ha provato a guardare all’area del Pacifico, nel tentativo di rafforzare i legami con gli storici alleati: Giappone, Corea del Sud e Filippine fra tutti. Il rafforzamento dei rapporti con questi stati ha visto protagonista, nel primo mandato di presidenza Obama, il Segretario di Stato Hillary Clinton, la quale attraverso l’idea dell’America’s Pacific Century ha delineato l’importanza di una “matura architettura economica nella zona del Pacifico” in grado di promuove un sistema sicuro, prospero e fidato dove gli Stati Uniti avrebbero giocato un ruolo da protagonisti. Ciò, ovviamente, ha richiesto la stabilizzazione dei rapporti con la Cina, vista dall’amministrazione Obama in termini più collaborativi che antagonisti anche al costo di rinunciare al riconoscimento di Taiwan, favorendo una One China policy. Gli sforzi riconciliatori con il governo di Pechino, però, vanno ricondotti nel più grande quadro delle relazioni multilaterali che hanno cercato di isolare la Russia di Putin, in particolare in seguito al fallimento della politica del reset e all’invasione russa della Crimea.

Credits | Al Jazeera English – Gigi Ibrahim

Anche in Medio Oriente l’amministrazione Obama ha cercato di allargare il credo multilaterale, aprendosi ad una collaborazione più attiva con l’Iran. L’accordo con Rouhani, forse il più innovativo prodotto del multilateralismo di Obama, tende ad eliminare progressivamente le sanzioni economiche imposte all’Iran dai paesi occidentali, mentre l’Iran, dal canto suo, accetta di limitare il programma nucleare permettendo alcuni periodici controlli alle sue installazioni. Tutto ciò potrebbe condurre Teheran verso una zona d’influenza occidentale, promuovendo la politica moderata del governo Rouhani e condannando il pericoloso estremismo del predecessore Ahmadinejad.

Il multilateralismo obamiano, però, non ha retto alla prova dei fatti in molti altri scenari. Le primavere arabe hanno messo a nudo le difficoltà della coalizione prospettata dal Presidente uscente. La dimostrazione plastica si è avuta in particolare in Libia dove, in seguito alla caduta di Gheddafi, la politica americana non è stata in grado di ricostruire lo stato libico lasciato in balia di signori della guerra e gruppi paramilitari. Anche le situazioni in Iraq e Siria non hanno avuto sviluppi del tutto positivi. Il repentino ritiro delle truppe e l’immobilismo nei confronti del regime di Bashar al-Assad hanno posto le basi per la creazione di un vuoto di potere unico nella regione. Vuoto furbescamente sfruttato dal califfo al-Baghdadi e dall’autoproclamatosi Stato Islamico.

L’operato di Obama in politica estera potrebbe essere stato, dunque, un’arma a doppio taglio nella storia statunitense: se da una parte il Presidente uscente ha cercato, e trovato, la normalizzazione e stabilizzazione dei rapporti – in un’ottica multilaterale – con Cina e Iran, dall’altra l’ostilità con la potente Russia di Putin, il deterioramento delle relazioni con Israele e l’incertezza nei paesi arabi potrebbero giocare un peso piuttosto forte.

Ora la palla passa a Donald Trump. Il nuovo presidente ha già preannunciato un cambio di rotta sostanziale, lasciando intendere che saremo chiamati ad assistere a più di qualche mossa a sorpresa. Con Trump le previsioni sono impossibili ma è probabile che nel medio periodo avremo comunque un grande sconfitto: il multilateralismo obamiano.

Nicola Bressan

DINASTIA TRUDEAU: PADRE E FIGLIO A CONFRONTO 

La famiglia Trudeau ha rappresentato una componente fondamentale dello scenario politico canadese del secondo dopoguerra a partire da James Sinclair, nonno materno del futuro Primo Ministro Justin, il quale ricoprì la carica di Ministro della Pesca tra il 1952 ed il 1957, durante il governo presieduto da Louis St-Laurent.

I due membri di maggiore spicco del più celeberrimo nucleo familiare canadese sono stati caratterizzati da una comune passione per la professione accademica. Difatti il padre ricoprì una cattedra di diritto costituzionale tra il 1961 ed il 1965 presso l’Universitè de Montreal ed il figlio insegnò tra il 1998 ed il 2002 matematica e francese in numerosi istituti presso Vancouver. Questo comune “background” costituisce un elemento imprescindibile per comprendere pienamente le straordinarie capacità carismatiche, empatiche ed aggregative che hanno determinato questo nuovo fenomeno di popolarità denominato “Trudeaumania”, che ancora oggi non è stato minimamente intaccato.

Entrambi, alla guida del Partito Liberale, hanno sostenuto politiche all’avanguardia, da molti considerate maggiormente progressiste rispetto a quelle teorizzate dal Partito Democratico Canadese. Pierre-Elliott Trudeau, da Ministro della Giustizia durante la legislatura del Primo Ministro Lester Pearson, nel 1967 divenne il promotore della riforma del diritto di famiglia relativamente al divorzio, ed ai diritti per le coppie omosessuali.

Il suo delfino naturale Justin Trudeau, dopo la sorprendente vittoria ai danni del conservatore Harper nell’ottobre del 2015, ha condotto una politica “copernicana” rispetto alla precedente amministrazione, di apertura nei confronti delle minoranze indigene, dei profughi siriani ed infine recentemente rendendo estremamente più fluida e celere la procedura per ottenere il visto da parte dei cittadini messicani.

D’altro canto il padre in precedenza era stato chiamato a prendere decisioni particolarmente complesse nel corso dei suoi vari mandati, come ad esempio l’Implementation of War Measures Act nel 1970. Questo provvedimento d’emergenza, che andò a rafforzare la sicurezza nazionale, venne deciso dopo il rapimento e l’uccisione del Ministro del Lavoro e dell’immigrazione Pierre Laporte da parte del gruppo terrorista “Front de liberation du Quebec”.

I due leader del Partito Liberale hanno sempre sostenuto con forza la piena realizzazione del multiculturalismo, tanto che Trudeau sr. introdusse nel 1982 il Ministero per le Politiche Multiculturali, e della compiuta integrazione, come testimoniato dalla nomina da parte del giovane Trudeau di un membro della comunità Sikh a presiedere il Ministero della Difesa.

D’altro canto sul piano interno il tratto distintivo di entrambi è stato sempre contrassegnato da una netta contrapposizione nei confronti delle forti spinte autonomiste del partito francofono del Quebec. Il padre sostenne veementemente la campagna per il “no” al referendum sull’indipendenza della medesima regione nel 1980.

L’astro nascente della politica canadese, la cui ascesa venne profetizzata da Nixon nel 1972 durante un incontro istituzionale, non sembra incontrare alcun tipo di declino alla sua popolarità. Nei prossimi anni ad ogni modo, di fronte all’avanzamento dei movimenti populisti che sembrano ormai aver intaccato l’establishment nord-americano ed europeo, il giovane Trudeau potrebbe essere costretto ad intraprendere politiche maggiormente autoritarie e conservatrici per non perdere una parte consistente del suo capitale politico relativamente all’elettorato della cosiddetta “middle class”.

Gabriele Mele

LA CORSA PER L’ELISEO

Sarà François Fillon il candidato per la presidenza della Repubblica del partito nazional-popolare francese, Les Républicains”. L’elettorato moderato francese ha scelto lui come avversario di Marine Le Pen, leader indiscussa del Front National”, per le elezioni presidenziali che si terranno nella primavera del 2017. Saranno loro a contendersi con ogni probabilità la corsa per l’Eliseo, se si considera la totale assenza di candidati credibili nel partito socialista e la presidenza disastrosa di Hollande, tra le più impopolari della storia della Quinta Repubblica francese.

Fillon ha vinto nettamente le primarie del partito, surclassando avversari molto più quotati -almeno per i sondaggisti- come Alain Juppé, il delfino di Chirac negli anni ’90, e l’ex Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. Con la débâcle di Sarkozy forse si chiude un’epoca tra le fila dell’ ex partito gollista, tuttavia queste votazioni ci consegnano un nuovo leader come Fillon, che altro non è che una creatura politica dello stesso Sarkozy.

Primo ministro sotto la presidenza di Sarkozy (2007-2012), Fillon poco alla volta si è allontanato dal sarkozysmo, si è fatto largo tra le correnti e ha messo in un angolo la leadership del partito capeggiata dell’ex-presidente del partito Jean-François Copé. Intanto il partito nel 2015 aveva cambiato il proprio nome da “Unione per un movimento popolare” a quello di “I Repubblicani”. E Fillon in questa svolta si è inserito perfettamente, riportando di fatto in auge l’eredità politica e storica del repubblicanesimo di de Gaulle.

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Con Fillon la figura del “Generale” non soltanto viene ripescata dai libri di storia, ma torna ad essere al centro del dibattito politico, soprattutto nel confronto tra la Francia e gli altri Stati europei. Il taglio della spesa pubblica, la razionalizzazione degli interventi pubblici, la riorganizzazione della pubblica amministrazione, il recupero di un rapporto dialettico con l’Unione Europea e il rifiuto di acquiescenza alle sue politiche rappresentano il programma elettorale di un politico del quale tutto si può dire tranne che non sia un liberal-conservatore dall’indole nazionalista in continuità con la lezione del Generale, modernizzata e nei toni adeguata ai tempi. 

Qui la domanda sorge spontanea: con un’ipotetica presidenza di Fillon tornerebbe in voga l’espressione di de Gaulle Europa delle patrie”, quindi l’idea di un’Europa confederale? Questa suggestione potrebbe mettere in crisi Marine Le Pen, che è stata la paladina del nazionalismo francese negli ultimi 5 anni mostrando una conclamata diffidenza e ostilità nei confronti di Bruxelles. 

Questa retorica potrebbe pagarla a caro prezzo durante il ballottaggio per le presidenziali, che la vedrà quasi sicuramente impegnata ad affrontare Fillon. Quest’ultimo avrebbe la strada spianata conquistando anche i voti di buona parte della sinistra moderata, a differenza di quanto potrebbe accadere in Austria domenica prossima, dove un candidato anonimo e indecifrabile come Alexander Van der Bellen avrà un agguerrito e folcloristico avversario come il nazionalista Norbert Hofer.

Forse l’esempio di François Fillon potrebbe fare scuola e tornare utile a molti partiti europei.

Gian Marco Sperelli

CHINA IN A CHANGING WORLD

Durante la sessione che lo ha visto eletto come nuovo Presidente dell’Assemblea Parlamentare della NATO, svoltasi tra il 19 ed il 20 Novembre scorso ad Istanbul, l’On. Paolo Alli ha presentato al consesso un rapporto dal titolo “China in a Changing World”. Approvato all’unanimità dalla Commissione Politica, offre un’ampia panoramica sui possibili sviluppi futuri del colosso cinese rilevanti per gli Stati Membri dell’Alleanza Atlantica.

All’interno di uno scenario dove le sfide cercano di essere trasformate in opportunità, la visione del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Commissione Militare Centrale, viene descritta come principalmente proiettata verso una ricerca di stabilità interna, necessaria a garantire al Governo da lui guidato il tempo utile a varare quelle riforme necessarie per stabilizzare un paese caratterizzato da profondi e radicati squilibri economici e sociali.

Nonostante un tasso di crescita ancora molto maggiore rispetto ai dati provenienti dall’Europa, l’innegabile rallentamento di un’economia ancora fin troppo legata al credito pubblico delle aziende a conduzione statale (SOEs) non manca di destare serie preoccupazioni. Infatti tale politica economica, associata ai rischi derivanti dalle iniquità prodotte dall’esclusivo sviluppo delle aree costiere dello Stato, dalla presenza di circa 280 milioni di lavoratori migranti con basso accesso all’istruzione e senza accesso al welfare (che prima o poi dovranno rientrare in patria) e dal rapido invecchiamento della società (dovuto anche alla “politica del figlio unico”),  potrebbe concorrere sul lungo termine a far collassare su se stessa quella che è attualmente la seconda più grande economia del mondo sottoposta ai peggiori risultati degli ultimi 25 anni.

Iniziativa in grado di comporre unitariamente questi problemi e dalle enormi potenzialità economiche e politiche è la “Belt and Road initiative”.

Concepita come una moderna restaurazione della Via della Seta -comprendente sia una rotta marittima che una terrestre- questo ambizioso progetto viene ritenuto idoneo a sfogare la sovra-produzione cinese, soprattutto nel settore manifatturiero e siderurgico, grazie agli investimenti necessari alla costruzione di strade, rotaie e porti previsti al fine di connettere direttamente la Cina con la regione del Mediterraneo.
In grado di alterare gli equilibri geopolitici e militari grazie alla sfera di influenza che innegabilmente si genererebbe attorno questa imponente rotta commerciale, si stima che potrebbero essere fino a 60 i paesi coinvolti nel progetto, portando i commentatori cinesi a paragonare l’iniziativa, sia per le sue potenzialità che per i suoi effetti, al Piano Marshall di occidentale memoria.

Attenta ai suoi rapporti internazionali, Pechino sta divenendo progressivamente sempre più ambiziosa anche nella sua politica estera: dal 2015 il Renminbi è stato incluso nel paniere delle riserve monetarie del Fondo Monetario Internazionale (assieme al Dollaro, l’Euro, la Sterlina e lo Yen), offrendo al governo cinese un marchio di approvazione della comunità internazionale da sfruttare ad uso e consumo interno.

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Ancora più rilevante (e forse esplicativo delle reali intenzioni del governo cinese) è poi l’atteggiamento descritto rispetto una delle questioni calde del momento: il conflitto ucraino.
Seppur non abbia riconosciuto l’annessione della Crimea alla Russia, allo stesso tempo la Cina ben si è guardata dal condannare le azioni di Mosca. Alcuni osservatori hanno spiegato tale ambiguità rilevando similitudini tra i fatti avvenuti in Ucraina e quelli avvenuti nei mari meridionali ed orientali della Cina: infatti il governo di Pechino, nonostante la condanna subita nel luglio 2016 ad opera della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja nell’ambito della normativa internazionale UNCLOS, da anni continua a reclamare ed imporre la propria sovranità regionale per mezzo di varie operazioni aggressive atte ad escludere illecitamente i diritti degli altri Stati costieri della zona e comprendenti la costruzione di isole artificiali a scopo militare, continuando al tempo stesso le sue operazioni economiche nell’area (Stimati in 3,5 triliardi di dollari il valore degli scambi commerciali annuali passanti nell’area), mostrando così una chiara volontà egemone.

Con commerci che raggiungono i 300 miliardi di dollari offrendo 2 milioni di posti di lavoro cinese, altro rilevante rapporto descritto è quello con l’Africa ove la Cina, ormai da anni, possiede grandi interessi commerciali (soprattutto nella parte orientale del continente) finalizzati soprattutto all’ottenimento di materie prime chiave.
Già largamente partecipe alle missioni di Pace dell’Onu compiute in questa area, l’evoluzione della politica estera cinese è rilevabile qui anche nella relativa volontà di protezione dei propri interessi: sempre più agli investimenti economici sta venendo affiancata una tutela militare indiretta, nei pressi degli stessi.
Importante esempio di questo può essere ravvisato nel pronto annuncio da parte del Governo di Gibuti, susseguente quello di partecipazione dello stesso alla “Via della Seta Marittima”, della concessione di un avamposto militare cinese nel proprio territorio al fine di favorire le operazioni di anti-pirateria in grado di tutelare la rotta commerciale.

Altro ambito dalle straordinarie implicazioni al quale il governo presieduto da Xi Jinping si sta progressivamente interessando è quello relativo all’Artico. Territorio ricchissimo di risorse minerarie ed energetiche, nell’ultimo periodo sempre più governi si sono rivelati attenti alle enormi possibilità derivanti dall’apertura delle nuove rotte commerciali settentrionali, createsi a causa dello scongelamento dei ghiacci, capaci di ridurre enormemente i tempi di navigazione, e quindi di collegamento, con l’occidente.
Nonostante sia priva di sbocchi diretti sul Mare Artico, l’accesso allo stato di Osservatore Permanente del Consiglio Artico della Cina è da leggere come una chiara volontà di partecipazione alla discussione in atto con una chiara e dichiarata prospettiva volta ad istituire relazioni “win-win” tra tutti i players coinvolti.
Dette rotte, in combinato disposto con le già citate rotte commerciali di futura costituzione, potrebbero in ogni caso posizionare di fatto il colosso cinese come soggetto imprescindibile nell’ambito della competizione commerciale globale e questo, di certo, non passa inosservato.

Il rapporto si conclude con la valutazione che tutti questi elementi hanno numerose implicazioni, dirette ed indirette, per gli Alleati ed i partner NATO, sia dal punto di vista individuale che collettivo.
Nonostante la Cina sia l’unico Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a non avere formali regole di ingaggio diplomatico con l’Alleanza Atlantica, molte sono innegabilmente le sfide comuni: anti-pirateria, anti terrorismo, sviluppo della legge internazionale (UNCLOS su tutte) e stabilizzazione della regione sono solo alcuni degli ambiti nei quali NATO e Cina condividono l’interesse ad un comune sviluppo e nei quali potrebbero trovare reciproco giovamento.

Tutte queste valutazioni (e le altre descritte nel Draft) pongono con chiarezza la necessità, in questo mondo sempre più interconnesso ed interdipendente, di far evolvere un rapporto fin troppo trascurato rispetto all’importanza dei players in gioco, le cui conseguenze potrebbero avere un grande peso.

Un rapporto in grado di descrivere le sfide poste dal governo cinese che, sul lungo termine, potrebbero avere effetti decisamente non trascurabili sui partner dell’Alleanza Atlantica a causa, ad esempio, delle modificazioni delle sfere di influenza nel Medio Oriente e nell’Africa in conseguenza delle nuove rotte commerciali previste dalla “Belt and Road initiative” o rispetto agli equilibri regionali nel Mare della Cina.

Quel che è certo è che, se quanto descritto dal rapporto diventerà realtà, i prossimi secoli rischieranno di vedere la comparsa, con ancor maggior decisione, di una nuova potenza egemone non ascrivibile ai due tradizionali blocchi (U.S.A. e Russia) che, nella nostra storia recente passata, avevano occupato tutti gli spazi apicali della dialettica internazionale e che si erano dimostrati gli unici in grado di influenzare vaste aree con la loro politica. Gli squilibri derivanti da questa possibile perdita a favore di un nuovo soggetto, la Cina guidata da un leader dalla chiara ed incisiva visione globale (e che sta accumulando un’enorme quantità di potere esclusivamente nelle proprie mani), sono tuttavia ancora non del tutto prevedibili.

Valerio Gentili

Leggi il Draft completo.

IL SOGNO DI ERDOGAN

Se la figura storica più rilevante della storia turca nel ‘900 è senza dubbio quella di Atatürk, la figura politica più importante- e anche più controversa- del nuovo secolo è certamente quella di Erdoğan. Da circa 14 anni è il leader incontrastato della politica nazionale turca. Il sogno erdoganiano di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale neo-ottomana sta procedendo ad un ritmo costante, ma tale processo ha subito un’improvvisa accelerazione nell’ultimo biennio.

 Il 28 Agosto 2014 Erdoğan viene eletto con il 52% dei consensi come dodicesimo Presidente della Turchia, nelle prime elezioni presidenziali della storia della nazione, visto che fino a quel momento l’elezione del Presidente spettava al parlamento. Si tratta di un tassello fondamentale nello stravolgimento politico istituzionale del paese, e soprattutto dell’affermazione personalistica della politica erdoganiana. Da repubblica laica e parlamentare- così come era stata plasmata dal padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatürk- a repubblica presidenziale dai forti connotati religiosi, questo è in fondo il nuovo disegno istituzionale della Turchia di Erdoğan. Tuttavia con le elezioni politiche del 2015 si presenta un ostacolo nei progetti del presidente turco. Nelle consultazioni di quell’anno, con la guida di Selahattin Demirtaş il Partito democratico del Popolo (Hdp)- formazione politica filocurda- conquista il 12,7 % dei voti, supera la soglia del dieci % ed entra nel parlamento per la prima volta nella storia del paese, diventando la principale forza di opposizione al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdoğan. Il Partito democratico del Popolo rappresenta il braccio politico della minoranza curda, presente in particolar modo nel sud-est della Turchia, se si considera che il tanto vituperato Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare e braccio armato dei Curdi) è costretto a portare avanti le proprie attività in clandestinità, in quanto osteggiato dal regime di Erdoğan perché ritenuto un movimento terroristico. Il partito di Demirtaş dal 2015 ha cercato di raccogliere a livello nazionale l’eredità culturale del Partito Repubblicano Popolare, formazione politica di tradizione kemalista, che fino a quel momento era stato l’unico partito d’opposizione al regime, peraltro con scarsi risultati.

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Ma nel pieno delle epurazioni erdoganiane, dopo il fallito golpe del Luglio del 2016, l’élite del partito filocurdo viene colpita da una serie di arresti nella notte del 4 novembre, con l’accusa di essere complici del Pkk. Tra gli arrestati ci sono i leader dell’Hdp, il già citato Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ. La strana coincidenza in questi ultimi avvenimenti è che il governo turco circa due settimane prima aveva abolito l’immunità parlamentare, spianandosi di fatto la strada per una repressione immediata contro l’opposizione curda. In questo contesto proseguono le “purghe” erdoganiane, che il regime vuol far passare come una sorta di riforma o snellimento della pubblica amministrazione, dopo il colpo di stato fallito clamorosamente da parte delle alte sfere dell’esercito.

A poche ore dalla vittoria inaspettata di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, il primo ministro turco Binali Yildirim congratulandosi con il nuovo presidente ha ribadito la richiesta di estradizione del magnate e imam Fethullah Gülen, ritenuto la mente del golpe in Turchia, esprimendo inoltre l’auspicio che gli Stati Uniti mostreranno la dovuta sensibilità rispetto al problema del terrorismo in Turchia. Erdoğan sembra davvero ostinato nel perseguire il suo progetto ambiziosissimo di diventare il nuovo “Mustafa Kemal” rovesciato. A qualunque costo e con qualsiasi mezzo.

Gian Marco Sperelli

AFGHANS WEIGH IN ON US PRESIDENTIAL CANDIDATES

D. Parvaz | Al Jazeera | 8 Novembre 2016

Kabul, Afghanistan – L’esito delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti ha un impatto di vasta portata, e nella capitale dell’Afghanistan alcuni hanno idee precise su chi vorrebbero vedere in carica: il candidato repubblicano Donald Trump o il candidato democratico Hillary Clinton.

Questo è il paese dove la guerra degli Stati Uniti è stata una partita lunga iniziata dal 2001. È dove i droni statunitensi e gli attacchi aerei della NATO hanno ucciso gli obiettivi di al-Qaeda e i civili allo stesso modo. È anche il luogo dove un ritiro delle truppe degli Stati Uniti ha determinato un aumento attacchi dei talebani e l’aumento delle vittime civili.

Per gli afghani, ciò che gli americani decidono dall’altra parte del mondo potrebbe avere conseguenze di vita o di morte.

“Purtroppo, ci sembra aver comunque perso in questa elezione. Nessuno dei due candidati sembra avere un piano per l’Afghanistan”, ha detto Bashir Ahmad Qasani, che copre la politica per la prima TV dell’Afghanistan. La vicinanza del voto sta creando nervosismi, soprattutto in riferimento ad alcune delle affermazioni di Trump – come il suo voler impedire ai musulmani di entrare negli Stati Uniti. “La signora Clinton sarà una scelta migliore, perché lei capisce i problemi delle donne in tutto il mondo”, ha detto Hellai Amiri, 35. “E qui, in Afghanistan, abbiamo un sacco di problemi – con la sicurezza, nei luoghi di lavoro, a casa, nella società”.

“La conoscenza di Hillary Clinton dell’Afghanistan e della regione è un bene per noi, quindi, avrebbe a che fare con qualcosa con cui lei è stata impegnata un certo numero di anni. Più di due decenni. Il suo interesse per l’Afghanistan è cominciato quando i talebani erano al potere e con i problemi delle donne”.

Tuttavia, questo tipo di esperienza, ha detto Moradian, “può avere un proprio svantaggio”. “Ciò significa rafforzare lo status quo e come al solito non è quello di cui l’Afghanistan ha bisogno. Abbiamo bisogno di nuove idee”.

“Con Trump arriva la crudezza, e l’Afghanistan è una specie di vaso di Pandora”, ha detto Moradian, aggiungendo che i cambiamenti dovrebbero avvenire a Washington.

Trump manca di esperienza politica, ha detto, ma ha aggiunto: “La politica internazionale è come il mondo delle imprese. Non ha alcuna regola, è pieno di concorrenza e di pugnalate alle spalle. E Trump ha esperienza nel mondo aziendale. Tutti si impegnano nel doppio gioco, e Trump ha il potenziale per giocare a quel gioco “.

I democratici, ha detto, hanno permesso di farsi manipolare da tutti nella politica globale, gli Stati Uniti sono stati pugnalati alle spalle dai talebani, dai signori della guerra afghani, da parte di Teheran, da parte di Mosca, da tutti.”

Il suo un consiglio per il futuro presidente degli Stati Uniti: “Riconsiderare gli amici – quelli in Afghanistan e quelli della regione”.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Articolo originale

ERDOGAN: SYRIAN KURD FORCES USED TO TAKE RAQQA ‘NAIVE’

Al Jazeera | 8 Novembre 2016

ll presidente della Turchia ha detto lunedì che è “ingenuo” usare  i combattenti curdi siriani per riprendere Raqqa, roccaforte di ISIS. “Nessuno al mondo può sostenere questo atteggiamento ingenuo, attaccare Daesh con un’altra organizzazione terroristica”, ha detto Recep Tayyip Erdogan. Erdogan ha chiamato i gruppi curdi siriani che combattono contro ISIL “un ramo laterale” del Partito dei lavoratori del Kurdistan della Turchia (PKK), e ha criticato gli Stati Uniti per il supporto di tali gruppi.

“L’uso di forze non arabe per liberare Raqqa non contribuirà alla pace”, ha aggiunto il vice primo ministro della Turchia Numan Kurtulmus.

“La legittimità non può essere garantita con la partecipazione delle organizzazioni terroristiche armate. Si richiede la partecipazione di stati legittimi e le loro forze armate”, ha aggiunto il reporter di Al Jazeera Mohammed Adow, riferendo da Gaziantep sul confine della Turchia con la Siria.

La Turchia ha lanciato un’operazione all’interno della Siria nel mese di agosto a fianco delle forze ribelli alleate che sono riuscite a conquistare Jarabulus e l’importante città di Dabiq, strappandola all’Isis. Uno degli obiettivi dell’operazione è anche verificare l’avanzamento dei curdi siriani; le forze turche hanno effettuato attacchi aerei contro le posizioni curdi nel nord della Siria.

Traduzione e sintesi di Giada Martemucci

Articolo originale

LE ELEZIONI AI TEMPI DEGLI HACKER

“Bisogna aspettarsi di tutto in politica, dove tutto è permesso, fuorché lasciarsi cogliere di sorpresa”. Questa frase sembra cucita su misura per l’abito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma anche per un abito molto più grande e generale, come quello della politica dei nostri tempi. Un’epoca segnata dalla minaccia degli hacker.

11 luglio. Attacco hacker alla portaerei americana Ronald Reagan. La rivelazione è di FireEye, una società americana di sicurezza informatica. Il giorno prima della sentenza della Corte Arbitrale dell’Aia, che condannerà di fatto l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, alcuni funzionari di governo vengono inondati da mail infette mentre si trovano a bordo della portaerei statunitense. Secondo gli esperti (pur non avendo prove certe) l’attacco proviene dalla Cina, la quale cercava in questo modo di carpire informazioni sulle manovre e sugli spostamenti americani. La notizia verrà riportata solo il 21 ottobre dal Financial Times.

21 ottobre. Attacco hacker sulla costa orientale degli Stati Uniti. Netflix, Twitter, Spotify, Cnn, New York Times, eBay, Visa sono soltanto alcuni dei siti internet che sono rimasti inaccessibili per ore. Dyn, colosso del web hosting (ovvero traduce i nomi in indirizzi IP) statunitense, è stato sovraccaricato da informazioni inutili. Sembra siano stati tre gli attacchi hacker durante la giornata, ma i motivi non sono ancora chiari.

La cyber-guerra fredda. Non c’è dubbio: è un’espressione rischiosa quella che si sta sentendo sempre di più in questi giorni. Come definire però altrimenti il conflitto tra gli Stati Uniti e la Russia di queste ore?

In questa campagna elettorale la Russia non ha certo nascosto di vedere di buon occhio l’elezione di Donald Trump e già da tempo si sono verificati molti cyber-attacchi diretti a destabilizzare le elezioni presidenziali; non è dunque un’eventualità impossibile quella di assistere a un attacco hacker da parte dei russi proprio il giorno del voto. Di conseguenza Obama, tramite il suo vice Joe Biden, ha fatto sapere che hacker del Pentagono sono riusciti a far già breccia nei sistemi di sicurezza del Cremlino e se si dovesse verificare un cyber-attacco diretto contro gli Stati Uniti da parte della Russia nel giorno delle elezioni, Obama risponderebbe con la stessa moneta.

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Le email di Hillary Clinton. Inoltre, tutti ne abbiamo sentito parlare negli ultimi mesi, la campagna elettorale americana si è infervorata in seguito allo scandalo riguardo alle email di Hillary Clinton mentre era Segretario di Stato. Proprio negli ultimi giorni Assange, fondatore di WikiLeaks, rilancia le sue accuse contro il candidato democratico: “La Clinton ha voluto la guerra in Libia. E lo si può vedere chiaramente dalle sue email”.

Lo scandalo emailgate va avanti da mesi con uno scambio di accuse tra l’FBI, rea di perseguire oltremodo la candidata democratica, e Hillary, sulla quale si vuole fugare qualsiasi dubbio. Pare che proprio in queste ore James Comey, numero uno dell’FBI, abbia dichiarato che le conclusioni sulle recenti email siano le stesse del cinque luglio scorso: Hillary Clinton non verrà incriminata.

Etica e governo. Oltre tutti questi casi particolari, si potrebbe tentare di fare un discorso più approfondito riguardo all’hackeraggio. Le stime sulle perdite a causa di questo fenomeno nell’ultimo anno ammontano a circa 315 miliardi di euro e la diffusione della tecnologia in tutto il pianeta fa in modo che sempre più governi, chi più, chi meno, abbiano a che a fare con gli hacker.

Ma un uomo fin dove può arrivare per far valere le proprie ragioni? Che limiti e qual è la libertà che deve considerare un hacker per la diffusione di informazioni segrete? Sono domande a cui è difficile dare una risposta: probabilmente gli hacker da un lato aumentano la preoccupazione dei governi, che temono di essere “scoperti” da un momento all’altro, e dall’altra parte sono semplicemente un incentivo all’onestà.

Si ritorna fondamentalmente al tema della verità: è giusto dirla, ma può essere anche molto pericoloso. Addirittura alcune volte dire la verità può risultare uno sforzo inutile, soprattutto se non c’è nessuno che vuole sentirla.

Simone Stellato

MOSUL NEIGHBORS WAKE UP TO A DAY WITHOUT ISIS

Tim Arango | The New York Times | 2 Novembre 2016

Per la prima volta in più di due anni, i residenti della parte orientale di Mosul hanno goduto di una giornata senza lo Stato islamico. Alcuni uomini fumavano sigarette, mentre altri le avevano nascoste dietro le orecchie. Stavano celebrando la vittoria delle forze irachene sullo Stato Islamico nella loro area, assaporando alcuni dei piccoli piaceri proibiti in più di due anni di governo militante.

“Siamo molto, molto felici”, ha detto un uomo, Qais Hassan, 46 anni, circondato da soldati. “Ora abbiamo la nostra libertà”. Lo Stato Islamico, ha detto, “ci ha chiesto di incrementare la religione. Ma loro non avevano nulla a che fare con la religione”.

I soldati iracheni hanno visto in prima persona ciò che era la vita a Mosul sotto il dominio dello Stato Islamico imposto nel 2014. Ma hanno anche intravisto alcune delle sfide che ci attendono, spingendo contemporaneamente la lotta verso il centro della città e andando verso l’instaurazione di un’autorità governativa. Nel quartiere recentemente liberato, le truppe antiterrorismo – la maggior forza di combattimento professionale dell’Iraq – cercavano di essere attenti a non alienare i civili. Questa non è l’unica battaglia che sarà combattuta e molti hanno paura di attacchi e vendette nelle aree liberate. Un rapporto di Amnesty International pubblicato mercoledì ha affermato che una milizia tribale che ha partecipato all’offensiva ha torturato i detenuti nei villaggi liberati vicino Mosul.

I cittadini di Mosul non aspettano altro che potersi di nuovo sentire cittadini iracheni. “L’amore per il paese è più grande dell’amore per la religione”, ha detto Hassan, cittadino di Mosul. “Ora lo abbiamo capito”. Il signor Sharif, suo amico, ha detto: “Ora, sì, siamo con l’esercito iracheno, con la legge, con l’Iraq”. Con le forze irachene ora all’interno della città, l’attenzione si concentrerà presto sulla questione politica, cioè se i politici, dopo la battaglia, riusciranno a riunire le comunità di Mosul – sunniti, sciiti, cristiani, yazidi e altri – come parte attiva per riunificare il paese. Nella lunga storia dell’Iraq, le conseguenze politiche delle guerre hanno solitamente portato a conseguenze peggiori.

“Credo che i politici abbiano imparato una lezione con Mosul”, ha dichiarato in una recente intervista al New York Times Brig. Gen. Abdul-Wahab al-Saadi, comandante di una delle forze speciali: “Devono fare il loro lavoro”.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

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