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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

UNESCO APPROVES NEW JERUSALEM RESOLUTION

Al Jazeera | 27 Ottobre 2016

Il comitato per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO ha approvato una nuova risoluzione sullo stato di conservazione della Città Vecchia di Gerusalemme. Durante lo scrutinio segreto di mercoledì, l’organismo culturale delle Nazioni Unite ha deciso di mantenere l’area del muro, luogo sacro per musulmani, cristiani ed ebrei, sulla lista del patrimonio mondiale in pericolo.

Essa ha anche criticato Israele per il suo continuo rifiuto di far accedere gli esperti del corpo nei luoghi santi di Gerusalemme per determinare il loro stato di conservazione.

Il documento si riferisce al sito di Gerusalemme solo con il suo nome arabo.

I musulmani lo chiamano al-Haram al-Sharif, in arabo “il Nobile Santuario”: il sito comprende la moschea di al-Aqsa e la cupola dorata. Il palestinese Saeb Erekat ha detto che il voto di UNESCO mirava a ribadire l’importanza di Gerusalemme per il cristianesimo, ebraismo e islam.

“Si chiede il rispetto dello status quo dei suoi luoghi di culto, tra cui il composto di al-Aqsa, che continua ad essere minacciato dalle sistematiche azioni provocatorie del governo israeliano e di gruppi ebraici estremisti”, ha detto Erekat.

La risoluzione è stata approvata da 21 paesi membri del Comitato del Patrimonio Mondiale. Dieci paesi hanno votato a favore, due contro, otto si sono astenuti e uno era assente.

Makram Queisi, l’ambasciatore giordano all’Unesco, ha detto che il Comitato per il Patrimonio stava cercando di affrontare la questione da un “punto di vista tecnico”.

Israele aveva già sospeso i finanziamenti all’Unesco, quando l’adesione palestinese è stata approvata.

Né Israele, gli USA né la Palestina sono nel Comitato del Patrimonio Mondiale.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha criticato la decisione di mercoledì e ha detto che avrebbe richiamato il suo ambasciatore all’Unesco per ulteriori consultazioni su come procedere.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Articolo originale: UNESCO approves new Jerusalem resolution – Al Jazeera

 

THE THREAT FROM RUSSIA

The Economist | 22 Ottobre 2016

Ogni settimana Vladimir Putin trova nuovi modi per spaventare il mondo. Dal recente trasferimento di missili con capacità nucleare vicino alla Polonia e alla Lituania, all’invio di un gruppo di portaerei lungo il Mare del Nord e il Canale della Manica. Ha minacciato di abbattere qualsiasi aereo americano che attacca le forze del despota siriano, Bashar al-Assad. La tensione aumenta, soprattutto nei rapporti con gli Stati Uniti ma Putin fermamente dichiara: “Se una lotta è inevitabile, si deve colpire per primi”.

E il primo passo per rispondere a tale minaccia è capire che la belligeranza russa è il segno di una malattia cronica. Il Pil russo è cresciuto del 7% l’anno all’inizio del regno di Putin, ma ora l’economia è in calo. Le sanzioni sono in parte responsabili, ma la corruzione e un calo del prezzo del petrolio hanno sicuramente inciso maggiormente. Putin ha cercato di compensare la vulnerabilità dello stato russo con l’aggressività in politica estera, ma a differenza di leader sovietici dopo Stalin, Putin governa da solo.

Obama, che in genere dice sempre le cose giuste, rispetto al “putinismo” sembrava abbastanza duro nel corso di una conferenza stampa di questa settimana; nonostante ciò, Putin ha appreso che egli può sfidare l’America. Le sanzioni occidentali danno al popolo russo un nemico contro cui schierarsi.

Che cosa dovrebbe fare l’Occidente? Il tempo è dalla sua parte. 

Un errore di calcolo sulla politica russa potrebbe portare ad una escalation incontrollata, l’America deve continuare a impegnarsi in colloqui diretti con Putin anche quando l’esperienza è scoraggiante.

I colloqui devono includere il controllo nucleare, nonché il miglioramento delle relazioni militari nella speranza che le armi nucleari possano essere tenute separate dagli altri aspetti come lo erano ai tempi dell’Unione Sovietica.

Un’altra area di controversia sarà la politica della Russia nei confronti degli stati esteri più vicini. La crisi in Ucraina mostra come Putin cercchi di destabilizzare alcuni paesi: il prossimo presidente degli Stati Uniti deve garantire che, contrariamente a quanto il signor Trump ha detto, se la Russia utilizza queste tattiche contro un membro della NATO, come la Lettonia o l’Estonia, sarà trattato come un attacco contro tutti, e un attacco contro un paese membro della NATO solleverà la possibilità per gli altri stati membri di armare il paese attaccato.

Putin alimenta l’idea che l’Occidente è esclusivamente un sistema corrotto, come la Russia, e che il suo sistema politico è altrettanto truccato. L’intento è quello di creare un Occidente diviso, che ha perso la fede nella sua capacità di plasmare il mondo. In risposta l’Occidente dovrebbe mostrare un’unità inattaccabile.

Sintesi tradotta di Giada Martemucci

Qui l’articolo originale

L’AMICIZIA E’ RARA PERCHE’ E’ SCOMODA

La svolta – Rodrigo Duterte, Presidente della Repubblica delle Filippine, ha comunicato da poche ore una decisione in qualche modo storica. In visita di Stato in Cina ha colto l’occasione per annunciare le distanze che intende prendere dallo storico alleato delle Filippine: nientemeno che gli Stati Uniti.

L’occasione – L’opportunità si è presentata la sera del 19 ottobre. Duterte ha incontrato la comunità filippina di Pechino e, sotto gli occhi del vice-premier cinese Zhang Gaoli, ha dichiarato: “È ora di dire addio agli Stati Uniti. Forse andrò anche in Russia a dire a Putin che siamo in tre contro il mondo: Cina, Filippine, Russia”.

Duterte non ha affatto inteso smentirsi il giorno dopo o fare qualche in passo indietro. L’occasione era ghiotta dal momento che il 20 ottobre si riuniva il China-Philippines Economic and Trade Forum: il presidente cinese Xi Jinping e Duterte hanno siglato accordi bilaterali per 13,5 miliardi di dollari. 

L’inversione di rotta – In questa vicenda c’è da fare una distinzione tra due tipi di rotte: quella marittima e quella diplomatica.

La rotta marittima è quella del Mar Cinese Meridionale, una rotta con una storia molto tormentata. La Cina nei mesi scorsi aveva infatti rivendicato alcune isole (in particolare l’arcipelago delle isole Spratly, le cui acque sono ricche di giacimenti petroliferi), ma l’ex Presidente delle Filippine Benigno Aquino aveva osato sfidare la potenza cinese e lo aveva fatto davanti alla Corte Arbitrale dell’Aja. Quest’ultima solo qualche mese fa aveva rigettato le pretese della Cina, dando ragione alle Filippine.

Da allora le relazioni tra i due paesi sono state praticamente inesistenti. Ed è qui che si inserisce la seconda rotta, quella diplomatica. Duterte infatti, di fronte alla possibilità di investimenti concreti, ha invertito la tendenza del suo predecessore Aquino e ha voltato le spalle ad Obama, che aveva sostenuto le Filippine nella contesa con la Cina in un’ottica di contenimento dell’ascesa cinese tra le potenze mondiali.

TRIAD CONNECTION. President Rodrigo R. Duterte shows a copy of a diagram showing the connection of high level drug syndicates operating in the country during a press conference at Malacañang on July 7, 2016. KING RODRIGUEZ/Presidential Photographers Division

Un rapporto tormentato – Per sottolineare ulteriormente cosa significa – per un paese come le Filippine – voltare le spalle agli Stati Uniti, conviene fare qualche passo indietro.

Nel 1898, in seguito alla guerra ispano-americana, gli Stati Uniti evadano assunto formalmente il controllo delle Filippine e solo un anno dopo le tensioni crescenti avevano portato alla guerra filippino-americana, alla quale sarebbe succeduto il dominio americano sulle isole fino al 1946. Il 4 luglio di quell’anno (curiosamente la stessa data dell’Indipendenza americana) si aprì una nuova fase: venne concessa l’autonomia, anche se solo formalmente visto che l’economia delle Filippine era forse ancora più dipendente di prima da quella americana. Per tutta la seconda metà del novecento gli Stati Uniti hanno continuato ad esercitare in parte il loro controllo sulle Filippine (dall’epoca di Marcos fino ad arrivare a quella di Corazon Aquino).

Duterte ha ereditato un paese che in proiezione fa registrare il PIL annuo in crescita del 7% e questi accordi bilaterali erano probabilmente un’occasione che non poteva farsi sfuggire in nessun modo. 

Lo strappo con Washington – La politica di contenimento cinese del secondo mandato Obama passava anche dalle Filippine. La “pax pacifica” era garantita proprio da queste isole e le cinque basi americane sul suo suolo testimoniavano la volontà di costituire l’ultimo baluardo contro il Dragone. 

In queste ore il Presidente delle Filippine sta leggermente mitigando le sue forti dichiarazioni contro Washington, ma alla Grande Sala del Popolo Duterte sembrava deciso a cambiare la storia: “Basta con le ingerenze degli Stati Uniti. Basta con le esercitazioni americane. Non metterò mai più piede negli Stati Uniti, lì sanno solo insultarci. L’America ha perso”.

Simone Stellato

UNA SETTIMANA DI ESCALATION

La situazione è ”piuttosto negativa, probabilmente la peggiore dal 1973”: così l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite Vitaly Churkin ha commentato – durante un’intervista rilasciata ad Associated Press – la settimana di escalation appena conclusasi.
Diverse infatti sono state le tensioni che, proprio perchè appartenenti ad ambiti diversi e quindi in grado di alterare nella loro eventuale sintesi gli equilibri inter-regionali, hanno animato il dibattito mondiale. Queste le principali:

I missili Iskander a Kalingrad – Considerati tra i vettori più sofisticati nello scenario mondiale, la notizia del dispiegamento di missili balistici Iskander (SS-26 stone) nella città di Kalingrad – enclave russa situata tra Lituania e Polonia – ha destato molta preoccupazione tra i paesi NATO. Capaci di trasportare testate nuclearie ed eludere i sistemi anti-missilistici in dotazione, la loro gittata stimata fino ad oltre i 500 km permetterebbe potenzialmente al Cremlino di colpire Berlino, oltre che tenere sotto minaccia di tiro (cosa peraltro già possibile attraverso il confine russo condiviso con le Repubbliche Baltiche) la Polonia e parte della Germania orientale.

Dopo le tensioni provocate dal reiterarsi di violazioni dello spazio aereo ad opera di caccia russi ai danni di Finlandia, Svezia, Estonia, Lettonia e Regno Unito avvenute nei mesi scorsi, questo fatto ha rapidamente riacceso i vecchi e profondi attriti riguardanti lo ”Scudo Spaziale” che perdurano fin dalla amministazione Bush. Da sempre Putin infatti, nonostante oggi il Cremlino releghi la questione ad una ”normale operazione di addestramento militare”, si è sempre dichiarato pronto ad ”implementare certe contromisure” contro i sistemi anti-missilistici NATO capaci di alterare gli equilibri militari.

Le ambiguità di Ankara – Dopo le violente frizioni con l’Europa in seguito al fallito golpe militare dello scorso 15 luglio, dovute ad una supposta ”mancanza di solidarietà” dei leader occidentali verso la Turchia, ed alle ambiguità di Ankara nella gestione della base di Incirlik, il clima sembrava essersi disteso a seguito delle rassicurazioni fornite dal governo turco alla delegazione dell’assemblea parlamentare NATO in visita nel paese.

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In questi giorni, tuttavia, sembra che i sogni egemoni del sempre più ”sultano” Erdogan si siano risvegliati, portandolo ad una nuova brusca sterzata nei suoi rapporti diplomatici sotto diversi fronti. Deciso ad aumentare la produzione interna di energia, è di pochi giorni fa l’annuncio sulla ripresa della realizzazione del Turkish Stream, giunto a seguito dell’incontro avvenuto il 10 ottobre ad Istanbul tra il presidente russo e quello turco; il precedente accordo era stato sospeso lo scorso anno a causa del deteriorarsi delle relazioni tra i due stati a causa dell’abbattimento di un caccia russo sul confine turco-siriano compiuto dalla Turchia.

Secondo il presidente del CdA di Gazprom, ”i primi lavori per la costruzione del gasdotto Turkish Stream inizieranno nel 2018” ed il suo completamento permetterà alla Russia di esportare il suo gas nei paesi dell’Europa occidentale, tra cui Grecia ed Italia, attraverso un canale atto palesemente a bypassare l’Ucraina che, infatti, non vedrà rinnovarsi il proprio contratto per il transito del gas ulteriormente. Il progetto, inoltre, si combina perfettamente con quello ormai già in essere della prima centrale nucleare ad Akkuyu, nella provincia di Mersin, che consentirebbe ad Erdogan di assicurarsi il 10% del fabbisogno nazionale in energia nucleare.

Altro settore nel quale Erdogan e Putin si sono ripromessi di rafforzare la reciproca cooperazione è quello tecnico-militare. Secondo Ntv, dopo aver cancellato nel 2015  l’accordo con la China National Precision Machinery Import & Export Corporation per i missili cinesi HQ-9, la Turchia sarebbe pronta a ricevere un’offerta dalla Russia per la fornitura di sistemi anti-missile da schierare a propria difesa. Una scelta che, pur non alterando irrimediabilmente gli equilibri regionali, consentirebbe da un lato a Mosca di acquisire un cliente membro della NATO in un momento di frizioni e proprio in un ambito oggetto di tensione, dall’altro permetterebbe ad Ankara di ottenere quella ”indipendenza” che a più tratti ha voluto dimostrare.

Come corollario, infine, il nuovo ambasciatore turco in Russia dovrebbe essere Lazip Dirioz, già segretario generale per la pianificazione e la politica di difesa della Nato.

Il dispiegamento delle Forze Nato – Proseguendo nella strategia decisa e dichiarata pubblicamente durante il Vertice di Varsavia, l’Alleanza Atlantica ha iniziato i procedimenti per il dispiegamento per la prima volta nella sua storia dei battaglioni militari nei Paesi Baltici e nella Polonia orientale, come gesto dimostrativo di contenimento verso la Russia sulla scia della strategia ”deterrenza e dialogo”.
Contestualmente, inoltre, è stato ordinato l’aumento dei pattugliamenti aerei e navali al fine di rassicurare quegli alleati che un tempo erano satelliti dell’Urss e che, soprattutto in questi giorni, si dichiarano fortemente preoccupati per le minacce russe. Quattro i battaglioni previsti per un totale di soldati compreso tra le tremila e le quattromila unità, tutti forniti dai vari paesi membri. Tra questi anche i militari italiani (140 uomini), che partiranno nella primavera del 2017 e contribuiranno con il loro esempio agli sforzi che l’alleanza sta compiendo per rassicurare i propri alleati, come dichiarato dal generale Pavel durante la visita nel nostro paese.

Infine, parlando di Russia, il segretario generale Stoltenberg, nonostante si sia dimostrato preoccupato dai continui bombardamenti su Aleppo e dalle continue attività militari provocatorie su larga scala ai confini dei territori NATO, ha dichiarato che la sua responsabilità è quella di ”prevenire la guerra” e ”conservare la pace”. In quest’ottica va dunque letto il dispiegamento delle forze atlantiche, una logica che prevede contemporaneamente sia la fase di difesa dei propri territori e di rassicurazione degli alleati, sia quella della diplomazia con gli altri attori dello scacchiere geopolitico. Una logica consapevole del fatto che purtroppo, come più volte verificatosi nella storia, il dialogo sincero possa esservi solo a parità di condizioni.

Valerio Gentili

DEATH PENALTY ‘NOT ON THE AGENDA’ IN TURKEY

Al Jazeera | 15 Ottobre 2016

Il ministro del lavoro turco ha accusato gli Stati Uniti di essere i registi del tentativo di colpo di stato e di ospitare la presunta mente del golpe, Fethullah Gülen. Anche il presidente turco porta avanti la tesi secondo cui gli Stati Uniti stanno sostenendo il terrorismo appoggiando i curdi in Siria legati al PKK.

Nel frattempo, l’ipotesi della reintroduzione della pena di morte potrebbe incrementare l’attrito nei confronti dell’Unione Europea, a cui la Turchia sta tentando di aderire.

Il vice primo ministro turco Mehmet Simsek discute le relazioni della Turchia con gli Stati Uniti e l’UE, definendo i legami con gli Stati Uniti “forti” e aggiungendo che la Turchia vede “convergenza di valori con l’UE”.

Sintesi di Giada Martemucci

Di seguito il video originale dell’intervista.

AMERICA’S RUSSIA POLICY HAS FAILED

Thomas Graham & Matthew Rojansky | Foreign Policy | 13 Ottobre 2016

Qualsiasi criterio si adotti, è chiaro che la politica di Washington nei confronti della Russia ha fallito. Mentre apparentemente soffre di isolamento diplomatico ed economico, Mosca è riuscita a sfidare una vasta gamma di interessi americani, in particolare in Ucraina, Siria, e nel cyberspazio. Un nuovo approccio nei confronti della Russia dovrebbe quindi essere una priorità sia per il presidente Hillary Clinton, sia per il presidente Donald Trump. Finora, tuttavia, nessuno dei due candidati ha offerto una visione che vada oltre i fallimenti del passato.

Le più comuni reazioni statunitensi verso la Russia – da amministrazioni repubblicane e democratiche attraverso tre decenni – sono sempre state basate sulla speranza che Mosca potesse essere completamente sconfitta o che possa diventare una democrazia. Ma la Russia non è una democrazia. Il prossimo presidente deve accettare il fatto che Mosca non può semplicemente essere sconfitta o contenuta nell’ordine mondiale globalizzato emergente. L’obiettivo del prossimo presidente USA dovrebbe comportare la costruzione di una rete di interazioni, sia cooperative e competitive, che produca l’equilibrio più vantaggioso per i nostri interessi nazionali. Ma soprattutto, invece di partire per sconfiggere o trasformare la Russia, un nuovo approccio degli Stati Uniti dovrebbe trattare con la Russia come è realmente. 

1) Gli Usa devono capire che non si tratta solo di Putin

Il prossimo presidente deve abbandonare i due assiomi che hanno afflitto le politiche di Washington  in Russia negli ultimi 25 anni: il primo, che Mosca si oppone agli Stati Uniti a causa della politica non democratica del Cremlino. In secondo luogo, che le aree di accordo tra i due paesi possono essere portate al di fuori dalle zone di conflitto.

È anche essenziale riconoscere che i problemi dell’America con la Russia non si esauriscono con Putin. Si tratta di geopolitica. Putin rappresenta esattamente secoli di tradizione del pensiero strategico russo, e la sua politica estera gode del sostegno delle elite.

La prossima amministrazione ha bisogno di rompere con i suoi predecessori e rendersi conto che le relazioni con Mosca non possono semplicemente essere compartimenti stagni in settori o di cooperazione o di disaccordo. L’amministrazione di George W. Bush, per esempio, senza successo ha cercato di isolare la cooperazione antiterrorismo conseguente all’11/9 dalla concorrenza con Mosca nello spazio ex sovietico. L’amministrazione di Barack Obama spera di proseguire la cooperazione in materia di sicurezza nucleare. Tutte operazioni fallimentari.

2) La questione Ucraina non deve diventare una nuova guerra fredda

L’aggressione russa contro l’Ucraina è stata il punto di svolta che ha aumentato le tensioni e la sfiducia che definiscono il rapporto Stati Uniti-Russia di oggi. Qualsiasi tipo di progresso diplomatico con il Cremlino dipenderà da come il prossimo presidente degli Stati Uniti interpreterà  le ragioni di Mosca in Ucraina. La NATO ha deciso di ruotare nuove forze attraverso gli Stati baltici. Il sostegno dell’Occidente per la riforma politica ed economica in Ucraina – per aiutare a costruire uno stato democratico competente ed aumentare gli standard di vita – è un’altra parte importante della strategia. Un ritiro russo volontaria dall’Ucraina dipende per ora dall’imperfetto accordo di pace di Minsk II firmato a febbraio 2015 da Francia, Germania, Russia e Ucraina. Anche se Washington non è firmataria dell’accordo, gli Stati Uniti possono aiutare a incentivare Minsk collegando sanzioni specifiche.

3) Avere un dibattito onesto con l’Europa

Nel bene o nel male, Mosca mantiene potere sufficiente per influenzare la sicurezza in Europa. In questo ambito, il compito per il prossimo presidente nella definizione della politica degli Stati Uniti sarà isolare alleati europei contro l’azione russa nel breve termine, ponendo contemporaneamente le basi per un accordo di sicurezza europeo più resistente, con la partecipazione russa, nel lungo periodo.

L’obiettivo più urgente ed immediato della prossima amministrazione dovrebbe essere quello di mantenere l’integrità della NATO come garante della sicurezza europea. Washington deve anche rafforzare le capacità di difesa collettiva della NATO, coordinando gli sforzi e le spese; la leadership degli Stati Uniti in questo campo è essenziale, e la credibilità americana in Europa sarà giudicata non solo da ciò che viene detto e fatto sul continente, ma dalle prestazioni di Washington nella gestione della sicurezza mondiale, come ad esempio in Asia orientale e in Medio Oriente.

4) Premere per di più sul controllo delle armi

Più di 25 anni dopo la guerra fredda, entrambe le parti mantengono le loro forze nucleari in allerta. Ciò significa che la possibilità di una crisi crescente ed uno scambio nucleare è ancora molto reale, anche se la probabilità rimane bassa. La stabilità nei rapporti nucleari Stati Uniti-Russia non è solo uno dei temi più importanti per i due paesi, ma è anche fondamentale per la stabilità tra le altre grandi potenze mondiali.

Inoltre, la Russia, come gli Stati Uniti, è uno dei pochi paesi con la prodezza scientifica e la capacità industriale di militarizzare le nuove tecnologie che possono cambiare l’equilibrio globale del potere. La Russia è il secondo più grande venditore di armi dopo gli Stati Uniti; le vendite russe all’Iran, per esempio, rimangono una delle principali preoccupazioni per Israele, l’Arabia Saudita, la Turchia e il Medio Oriente, mentre la vendita di armi avanzate in Cina allarma Giappone e Corea del Sud e complica gli sforzi degli Stati Uniti per garantire la sicurezza in Asia orientale. 

5) Collaborare con la Russia in Asia

Contenere la Cina è un compito impossibile nel mondo di oggi. Invece, il prossimo presidente dovrebbe perseguire coalizioni flessibili con altre grandi potenze per incanalare le energie cinesi in modo che non mettono in pericolo gli interessi fondamentali dell’America.

La Russia potrebbe essere uno di quei partner se gli Stati Uniti saranno in grado di evitare che il Cremlino si trovi in una posizione di dipendenza di fatto commerciale e strategica su Pechino. Nonostante i suoi tentativi sulla scia delle sanzioni occidentali per ridurre la sua dipendenza dai mercati energetici europei con la costruzione di legami con la Cina, la Russia rimane profondamente preoccupata per la crescente influenza di Pechino lungo i suoi confini.

6) Riconoscere che la Siria è qualcosa di più che la Siria

La crisi siriana richiede urgente attenzione. Piaccia o no, gli Stati Uniti non hanno alcuna altra possibilità che continuare a cercare di lavorare con la Russia. Mosca ha i mezzi per mantenere il suo dispiegamento militare in Siria per un periodo prolungato, e potenze regionali come l’Iran, e forse anche la Turchia, sostengono la sua continua presenza. 

Le discussioni con Mosca sulla Siria non avranno una maggiore possibilità di successo a meno che non includano una nuova disponibilità a discutere il rapporto più ampio con la Russia, in Europa. Nelle sue dichiarazioni e proposte, Mosca ha di fatto legato la situazione in Siria alla crisi Ucraina e al più grande problema della sicurezza europea, ma Washington ha finora rifiutato di riconoscere questo legame. Solo riconoscendo che i collegamenti tra le varie sfide regionali poste dalla Russia sono reali, il prossimo presidente potrà estrarre un equilibrio favorevole per gli interessi degli Stati Uniti.

7) Mostrare le promesse dell’America

Come nella guerra fredda, c’è un elemento ideologico nella concorrenza Stati Uniti-Russia di oggi. Tuttavia, invece di difendere la lotta di classe comunista, Mosca è focalizzata sulla diminuzione della credibilità americana. La Russia sarà rafforzata dal fallimento delle iniziative economiche e politiche degli Stati Uniti.

Come il prossimo presidente degli Stati Uniti affronterà i ben noti problemi nazionali e globali di ricchezza e disuguaglianza, il pluralismo culturale, la migrazione, l’insicurezza delle risorse, e il cambiamento climatico, determinerà il grado in cui gli Stati Uniti saranno vulnerabili alla propaganda russa.

La guerra fredda si è conclusa perché i russi hanno visto gli Stati Uniti come una società di successo e prospera, il cui modello speravano di emulare. Al contrario, il deterioramento di oggi nei rapporti è stato acuito dai fallimenti americani in Iraq e in Afghanistan e dalle conseguenze ancora persistenti della crisi finanziaria globale del 2008-2009, che hanno frantumato la fede dei russi nel modello americano per lo sviluppo economico. Un’aura di rinnovato successo e crescente potere condurrà verso il ripristino degli Stati Uniti come un partner interessante, e forse alla fine come un leader. 

Traduzione di Giada Martemucci

Articolo originale: America’s Russia Policy Has Failed – Foreign Policy

THE WAY AHEAD

Barack Obama | The Economist | 8 Ottobre 2016

Dovunque io vada in questi giorni, che io mi trovi a casa o fuori, mi fanno tutti la stessa domanda: cosa sta accadendo al sistema politico americano? Come è possibile che un paese che ha beneficiato – forse più di tanti altri – dall’immigrazione, dal mercato, dall’innovazione tecnologica, sviluppare improvvisamente una sorta di protezionismo contro l’immigrazione e contro l’innovazione? Perché alcuni dell’estrema destra e dell’estrema sinistra hanno abbracciato un crudo populismo che promette un ritorno al passato che non solo non è possibile restaurare, ma che per la maggior parte degli americani non esiste più?

È vero che una certa ansia dovuta alla globalizzazione, al cambiamento in sé, ha preso piede in America come in gran parte del mondo. Una paura che spesso si manifesta attraverso lo scetticismo nei confronti degli organi internazionali, come ha dimostrato la recente esperienza inglese della Brexit, oltre che la crescita dei partiti populisti in tutto il mondo. Gran parte di questo malcontento è dovuto a paure che non hanno radici economiche, o meglio, parte di questo malcontento è dovuto a eventi economici di lunga durata quali decenni di crisi, di declino della crescita della produttività e la disuguaglianza sociale in aumento.  La globalizzazione e l’automazione hanno indebolito la posizione dei lavoratori e la loro capacità di garantire un salario decente. Troppi fisici e ingegneri potenziali trascorrono la loro carriera a spostare denaro in giro per il settore finanziario, invece di applicare i loro talenti per l’innovazione nell’economia reale. 

Ma in mezzo a questa comprensibile frustrazione, in gran parte alimentata da politici che sembra vogliano peggiorare il problema invece di migliorarlo, è importante ricordare che il capitalismo è stato il più grande pilota di prosperità e di opportunità che il mondo abbia mai conosciuto.

Nel corso degli ultimi 25 anni, la percentuale di persone che vivono in estrema povertà è sceso da quasi il 40% al di sotto del 10%, i guadagni sono stati molti e sarebbero stati impossibili senza la spinta data dalla globalizzazione. Questo è il paradosso che definisce il nostro mondo di oggi. Il mondo è più prospero che mai, eppure ancora le nostre società sono segnate da incertezza e disagio.

Siamo davanti a  una scelta: ritirarci in vecchie economie chiuse oppure spingerci oltre, riconoscendo la disuguaglianza che può venire con la globalizzazione, impegnandoci a far funzionare l’economia globale perchè sia prospera per tutti senza distinzioni. Il profitto può essere una forza potente per il bene comune; gli economisti hanno da tempo riconosciuto che i mercati, lasciati a se stessi, possono fallire. Un capitalismo delineato da pochi e inspiegabile per molti è una minaccia per tutti, senza fiducia il capitalismo e i mercati non possono continuare a fornire i guadagni che hanno portato nei secoli passati.

La presidenza è una corsa a staffetta, che richiede a ciascuno di noi di fare la nostra parte per portare il Paese più vicino alle sue più alte aspirazioni. Quindi partendo da qui, dove si dirigerà il mio successore? L’economia non è un’astrazione, non può essere ridisegnata all’improvviso senza che ci siano conseguenze reali per le persone. Al contrario ripristinare la fiducia in un’economia in cui gli americani laboriosi hanno modo di crescere, implica affrontare quattro sfide principali: stimolare la crescita della produttività, lottare contro la crescente disuguaglianza, garantire che tutti coloro che vogliono un lavoro possano ottenerne uno e costruire un’economia resiliente che funga da innesco per la crescita futura. Le recenti innovazioni tecnologiche hanno radicalmente cambiato la vita delle persone ma non hanno ancora aumentato la crescita della produttività. Negli ultimi dieci anni, l’America ha goduto della crescita della produttività più veloce del G7, ma la crescita è rallentata in quasi tutte le economie avanzate.

Una delle principali fonti del recente rallentamento della produttività è stata una carenza di investimenti pubblici e privati causati, in parte, dai postumi dalla crisi finanziaria, ma anche da vincoli autoimposti: un’ideologia anti-tasse che rifiuta virtualmente tutte le fonti di nuovi finanziamenti pubblici; un blocco sul deficit e un sistema politico eccessivamente partitico. Visti i benefici economici derivanti dalle esportazioni, io continuerei a spingere il Congresso ad approvare la Trans-Pacific Partnership per concludere il partenariato transatlantico con l’UE. Questi accordi, e il rafforzamento delle strutture commerciali, livelleranno il campo di gioco per i lavoratori e le imprese. Come Abraham Lincoln ha detto: “Mentre noi non proponiamo alcuna guerra sul capitale, noi desideriamo permettere all’uomo più umile la stessa probabilità di arricchirsi che hanno tutti gli altri”. Questo è il problema, con l’aumento della disuguaglianza diminuisce la mobilità verso l’alto. 

Un’economia di successo dipende anche opportunità significative a disposizione di tutti coloro che vogliono un posto di lavoro. La crisi finanziaria ha dolorosamente sottolineato la necessità di una economia più resistente, che cresce in modo sostenibile, senza saccheggiare il futuro al servizio del presente. Non dovrebbero più esserci dubbi che un libero mercato prospera solo quando ci sono delle regole per proteggerlo da un malfunzionamento sistemico e quando è garantita una concorrenza leale.

L’America dovrebbe anche fare di più per prepararsi a shock negativi prima che si verifichino. Con i tassi di interesse bassi di oggi, la politica fiscale deve svolgere un ruolo più importante nella lotta contro le recessioni future; la politica monetaria non dovrebbe sopportare tutto il peso della stabilizzazione della nostra economia.

La buona economia può essere accompagnata purtroppo da cattiva politica. I miei successori non dovrebbero lottare per ottenere misure di emergenza in un momento di bisogno, dovrebbero invece garantire il supporto alle famiglie più colpite dalla crisi. Il sistema politico degli Stati Uniti può essere frustrante. Mi creda, lo so. Ma è stata la fonte di più di due secoli di progresso economico e sociale. Il progresso degli ultimi otto anni dovrebbe anche dare al mondo un certo grado di speranza. Nonostante tutti i tipi di divisione e discordia, una seconda Grande Depressione è stata impedita. È tempo di scrivere il nostro nuovo futuro. Deve essere un futuro di una crescita economica che non sia solo sostenibile, ma condivisa. Per raggiungerlo, l’America deve impegnarsi a lavorare con tutte le nazioni per costruire economie più forti e più prospere per tutti i nostri cittadini per le generazioni a venire.

Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

Articolo originale: B. Obama – The way ahead – The Economist

UKRAINE IS GOING TO BE A BIG PROBLEM FOR THE NEXT U.S. PRESIDENT

Mark Pfeifle | Foreign Policy | 7 Ottobre 2016

L’Ucraina sembra scomparsa dalla coscienza nazionale americana, come altri – anche più recenti e molto più spettacolari – fiaschi di politica estera (Siria, Libia e lo stato islamico).

La maggior parte degli americani ha del tutto dimenticato l’invasione russa della Crimea nel 2014, e almeno un candidato presidenziale americano sembra disposto a perdonare tutto. Tuttavia, i russi occupano ancora la Crimea, e i ribelli filo-russi, supportati da militari russi, controllano gran parte di due province orientali del paese: Donetsk e Lugansk. La Russia sta inoltre implementando una massiccia forza militare lungo i confini dell’Ucraina.

I politici filo-russi, come Alexander Medvedchuk e il primo ministro russo Dmitry Medvedev, occupano ancora posizioni di potere a Kiev, e inoltre c’è la corruzione, del tipo più sistemico e onnipresente, che l’amministrazione Obama ha individuato come una delle principali minacce per lo stato ucraino. 

Ma la stessa amministrazione Obama preferisce una combinazione prudente di sanzioni economiche contro la Russia e il sostegno economico per il governo ucraino a Kiev. Un delicato approccio “carota-e-bastone” che non ha funzionato, e la questione Ucraina rischia così di peggiorare la crisi dei rapporti tra Mosca e Washington.

Dalla sua indipendenza dall’ex Unione Sovietica, nel 1991, l’Ucraina è una cleptocrazia. La sua storia politica è particolarissima, con un leader eletto dal popolo cacciato dal paese in una rivolta popolare, un altro sospettato di omicidio, e il terzo accusato per le istituzioni indebolite e le opportunità perdute.

Tra i milioni di documenti trapelati dallo studio legale Mossack Fonseca lo scorso aprile, è comparso anche il presidente Petro Poroshenko, occupato nella registrazione di conti offshore mentre le sue truppe si stavano ritirando da una delle più sanguinose sconfitte della guerra.

Poroshenko è il leader più ricco d’Europa secondo Forbes, e nonostante le sue promesse di “incorporare nuove tradizioni” e di svendere i suoi beni, a conti fatti non ha venduto nulla. In realtà, egli è stato l’unico dei ricchi uomini d’affari ucraini a vedere il suo valore netto effettivamente aumentare nel 2015, a 858.000.000 $. Ha cancellato la linea sottile che una volta esisteva tra affari e politica in Ucraina. Ora, però, l’acquisizione post-elettorale di Leshchenko di abitazioni di lusso ha attirato l’attenzione dell’Agenzia anticorruzione dell’Ucraina, un organo di indagine istituito sotto la spinta degli Stati Uniti.

Recenti studi hanno rivelato che le spese di Leshchenko per partecipare ai forum internazionali sono stati pagati dall’oligarca Viktor Pinchuk, contribuente della Fondazione Clinton con 8,6 milioni di dollari.

Nel frattempo, il prossimo Presidente troverà sicuramente l’Ucraina assediata da tutti i lati da truppe russe e ribelli filo-russi, con in aggiunta la corruzione dilagante che sta distruggendo l’Ucraina dall’interno. Il nuovo Presidente dovrà imparare a distinguere i veri riformatori dell’Ucraina da chi ha fatto crociate contro la corruzione in favore di un business redditizio, ed essere in grado di distinguere l’azione reale da parole vuote. In caso contrario, i due decenni e mezzo dell’esperimento dell’indipendenza ucraina potranno evaporare completamente.

Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

Qui il link all’articolo originale

PERCHE’ LA STRATEGIA DI PUTIN SUL PETROLIO PASSA PER LA PACE CON RIAD

Il Foglio | 10 Ottobre 2016

La guerra del petrolio sembra ormai in una fase di tregua grazie all’accordo tra Mosca e Riad sul taglio della produzione. Il mercato dei combustibili fossili rappresenta una grande opportunità per due paesi quali la Russia e l’Arabia Saudita, attualmente in grave crisi economica.

Lunedì il benchmark del mercato ha toccato i massimi dal 2015, a 53,45 dollari al barile, dopo che il presidente russo Vladimir Putin si è detto pronto a congelare o tagliare la produzione in linea con quanto deciso dall’Opec ad Algeri. L’accordo di Algeri dovrà passare l’esame degli altri grandi produttori che non fanno parte del Cartello, in particolare gli Stati Uniti.

Il mercato deve fare i conti con l’Iran, che non sembra intenzionato a tagliare la produzione. Mosca potrebbe quindi rivelarsi l’intermediario ideale tra Teheran e i sauditi, approfittando anche di un allontanamento tra Washington e Riad che pare destinato ad allargarsi.

Sintesi di Giada Martemucci

Articolo originale: Perché la strategia di Putin sul petrolio passa per la pace con Riad

TIENI STRETTI GLI AMICI E ANCOR PIU’ STRETTI I NEMICI

Se è vero che la politica è questione di compromessi e opportunismo, allora Putin non smette di dimostrare di esserne un fine intenditore.

Per un grande attore, gli USA, che dal Medio Oriente si sta progressivamente ritirando, ce n’è infatti un altro, appunto lo “Zar” Vladimir, che espande i suoi tentacoli. A dimostrazione di ciò, lunedì è riuscito nell’impresa di stringere importanti accordi economici con la Turchia, ossia lo stato che in Siria è suo avversario e che solo un anno fa aveva abbattuto un suo jet militare. Insomma, non proprio amici per la pelle.

Eppure, l’operazione è molto importante: Erdogan ha ospitato il suo omologo russo per un meeting in cui discutere di accordi commerciali e alleanze militari. In particolare, è stata confermata la costruzione di TurkStream, un gasdotto che attraverso il Mar Nero unisca la Russia e la Turchia, fungendo sia da fornitore che soddisfi la domanda interna turca, sia da via del gas per l’Europa che tagli fuori la critica Ucraina.

In cambio, Putin ha annunciato che Mosca avrebbe revocato il divieto ad importare alcuni alimenti dalla Turchia, restrizione imposta a seguito proprio dell’incidente dell’anno scorso: in particolare, il Presidente russo ha specificato che si tratta di prodotti agricoli (per lo più agrumi), valutando i benefici in 500 milioni di dollari. Inoltre, si è parlato anche del progetto della centrale nucleare di Akkuyu, per la cui implementazione la Russia sta investendo nella formazione di oltre 200 studenti turchi. Insomma, si va verso una normalizzazione dei rapporti, quasi paradossale vista la radicale differenza sul teatro siriano.

Ed è proprio questa la notizia più importante, che spesso sfugge: in politica internazionale non ci sono posizioni fisse e statiche, ma opportunità da cogliere, finestre che si aprono e nelle quali infilarsi cogliendo l’attimo. Infatti, in seguito al golpe e contro-golpe turco, la (de facto) dittatura di Erdogan ha dato uno strattone al rapporto con l’Occidente: sia con l’Unione Europea, che ha congelato le trattative per far entrare la Turchia nel consesso europeo, sia con la NATO, tanto che addirittura Erdogan aveva minacciato di cingere d’assedio una base statunitense.

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Putin ha colto l’attimo, sapendo accantonare le divergenze siriane per dare seguito allo strattone e flirtare con un paese che formalmente giace nell’alveo occidentale.

E proprio lo scenario siriano potrebbe permettere a Putin di raggiungere, tramite l’aiuto turco, lo scettro di dominus politico dell’area. Come ha fatto intendere nella conferenza stampa post-meeting, vuole sfruttare questa partnership per oltrepassare gli USA, che si oppongono alle sue proposte in merito: “Condividiamo l’opinione che debba essere fatto di tutto per portare ad Aleppo gli aiuti umanitari. Il problema è garantirne la sicurezza. Ho informato il nostro partner turco che abbiamo proposto ai colleghi americani di fare tutto quanto in nostro potere per ritirare le truppe siriane e le forze di opposizione da Castello Road, che può e deve essere usata per consegnare gli aiuti ad Aleppo, e perciò le provocazioni – tra cui gli strike sui convogli umanitari – non avverranno più. I nostri partner americani hanno però rifiutato di farlo. Sono impossibilitati o nolenti a farlo, per qualche ragione”. Il successivo endorsement (condiviso) a De Mistura chiude il cerchio.

Certo, c’è anche la contro-narrativa, che parla di un veto russo in Consiglio di Sicurezza ONU alla proposta di risoluzione francese di imporre il cessate il fuoco, segno del fatto che la volontà russa di arrivare ad un accordo non può prescindere dalla soddisfazione delle proprie aspirazioni.

Del resto, diceva Mandela, “il compromesso è l’arte della leadership e i compromessi si fanno con gli avversari, non con gli amici”: Putin sembra averlo bene in mente, e la controparte? Il tentennamento di Hollande a riceverlo a Parigi, lascia dei dubbi a riguardo.

Giovanni Gazzoli

Aggiornamento: il Presidente russo Putin ha effettivamente annunciato la cancellazione del viaggio a Parigi a seguito delle dichiarazioni di Hollande. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha dichiarato: “Il Presidente Putin ha affermato che è pronto a recarsi a Parigi qualora il Presidente Hollande si trovi a proprio agio con ciò. Pertanto, aspetterà fino all’avvento di tale rassicurante momento”.