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THE AMERICAN BREXIT IS COMING

James Stavridis | Foreign Policy | 6 Ottobre 2016

In una recente riunione alla Casa Bianca, il presidente Barack Obama ha riunito un cast eclettico di personaggi: il Ceo di IBM, una delle più grandi aziende del mondo; un trio di politici di entrambi i partiti, tra cui il sindaco di Atlanta e i governatori di Louisiana e Ohio; un ex segretario del Tesoro; un recente sindaco di New York City, il preside di una scuola di specializzazione delle relazioni internazionali e l’ex comandante supremo alleato (che sono io, James Stavridis). Nonostante fossimo personaggi molto divergenti, tutti nella stanza eravamo d’accordo su una cosa: il valore del libero scambio a livello mondiale e la particolare urgenza e necessità per la Trans-Pacific Partnership (TPP).

Washington ha trascorso sette anni a negoziare questo accordo massiccio (circa 6.000 pagine e 30 capitoli), firmato a febbraio che consentirebbe di livellare il campo di gioco in termini di commercio, condizioni di lavoro e flusso delle merci tra una decina di nazioni. L’accordo sul tavolo ha un’ultima possibilità di passaggio dopo le elezioni di novembre. Entrambi i candidati alla presidenza hanno promesso di rifiutare o di rinegoziare completamente l’accordo a causa delle preoccupazioni sulla competitività interna, e il momento si preannuncia essere la versione americana di un Brexit dalla regione del Pacifico. In termini geopolitici la Brexit è stata un errore grave per la Gran Bretagna e sarebbe altrettanto grave per gli Stati Uniti lasciare il TPP sul tavolo e effettivamente allontanarsi da una posizione di leadership in Asia.

Il caso per il TPP ha una logica geopolitica interessante. Si tratta di un accordo che la Cina avrà grande difficoltà ad accettare, in quanto porrebbe Pechino fuori da un circolo virtuoso di alleati, partner e amici su entrambi i lati del Pacifico. Il trattato porta così insieme non solo Giappone, Australia, Malesia, Vietnam e altri partner asiatici, ma anche Cile, Messico, Canada e Perù. Il membro mancante è la Corea del Sud, ma nel tempo i sudcoreani vorranno essere parte dell’accordo.

Ciò che è particolarmente interessante per il TPP, tuttavia, è l’argomento geopolitico a suo favore. Tre punti fondamentali sono particolarmente salienti: Pechino intende chiedere in sostanza l’intero Mar Cinese Meridionale come sue acque territoriali, sulla base di argomenti storici improponibili sonoramente respinti dai tribunali internazionali; la Cina intende chiaramente essere l’attore dominante in Asia; in qualità di leader di quella che sarebbe la più grande zona di libero scambio in tutto il mondo, gli Stati Uniti continueranno ad esercitare una vera leadership in questa regione cruciale.

Mentre la Cina è al di fuori del TPP, l’appartenenza a questo club esclusivo non farà che aumentare di valore nel prossimo decennio. Dobbiamo evitare di ripetere l’errore della Brexit nel Pacifico. Il chiaro vincitore, se gli Stati Uniti rifiutano la Trans-Pacific Partnership, sarà la Cina, con un sempre più autoritario presidente Xi Jinping sempre più forte in oriente.

Questo è un momento di vulnerabilità reale per molte nazioni asiatiche. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte sta guardando questa potenziale Brexit degli Stati Uniti dall’Asia e già si parla di aumentare i legami militari con la Cina. Il Vietnam, storicamente diffidente nei confronti del suo vicino del nord, discute spesso della sua vulnerabilità con i leader degli Stati Uniti. Il Giappone è scosso dalle attività cinesi intorno alle isole Senkaku, e anche la Corea del Sud – che mantiene forti legami con la Cina – è preoccupata per la riluttanza apparente di Pechino di tenere a freno il comportamento del suo stato cliente, la Corea del Nord. Un fallimento degli Stati Uniti nel mantenere una forte presenza economica nella regione – evidenziato dal TPP – avrà effetti negativi significativi sulla nostra posizione politica e diplomatica nel corso del tempo.

Sintesi tradotta di Giada Martinucci

Articolo originale: The American Brexit Is Coming – Foreign Policy

SAUDI ARABIA AND ITS TOXIC RELATIONSHIP WITH AMERICA

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Roula Khalaf | Financial Times | 5 Ottobre 2016

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Sintesi tradotta

Poche settimane dopo le atrocità dell’11 settembre, sono stato in Arabia Saudita, a caccia di uomini arrabbiati. Per le strade di Riyadh, ce n’erano molti che esprimevano ammirazione nei confronti di Osama bin Laden, il capo saudita di al-Qaeda che aveva inviato 19 dirottatori – 15 dei quali sauditi – che hanno causato l’incidente aereo contro il World Trade Center e il Pentagono.

Ma mentre bin Laden era, con mio grande shock, una specie di celebrità per la sua  audace ostilità verso l’alleato americano del regime, i sauditi vivevano anche una sorta di negazione. Sembravano convinti che non poteva essere responsabile del massacro di migliaia di americani innocenti. La negazione era molto più evidente nei circoli governativi. Ben presto la monarchia assoluta, il suo sistema educativo altamente religioso e il suo slam wahhabita è stato posto sotto esame. Le richieste occidentali di riforme radicali sono diventate standard negli scambi diplomatici con Riyadh. Mi sono ricordato del voto schiacciante nel 2001 del Congresso degli Stati Uniti per ignorare il veto presidenziale di un disegno di legge che consentisse alle famiglie delle vittime dell’11 settembre di citare in giudizio l’Arabia Saudita per presunta complicità. Nessuna prova evidente del coinvolgimento ufficiale saudita è stata finora rivelata.

Quanto poco sembra essere cambiata la situazione in 15 anni. Nonostante i numerosi sforzi per guarire le fratture, il “rapporto speciale” tra l’America e l’Arabia Saudita non è mai stato recuperato. Ci sono ancora alcuni benefici che derivano dall’alleanza.

L’Arabia Saudita è uno dei pochi paesi che possono ancora essere descritti come stabili in una regione dove scoppiano rivolte e falliscono gli stati. Eppure gli interessi degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita sono costantemente divergenti. Hanno preso posizioni contrastanti sulle più grandi crisi del Medio Oriente, che vanno dalle rivolte arabe per l’accordo nucleare iraniano e, in misura minore, la guerra civile siriana. Mentre gli Stati Uniti vedono l’atteggiamento saudita verso l’Iran come inflessibile, i sauditi considerano le aperture americane nei confronti di Teheran come ingenue.

La tensione nei rapporti Usa-Arabia è stata evidente anche nella guerra contro il terrorismo. È vero, l’Isis minaccia la monarchia saudita, ma la sua ideologia e alcune delle sue pratiche sono vicine agli insegnamenti dei religiosi sauditi radicali. In Arabia Saudita, gli Stati Uniti sono ora l’inaffidabile alleato; per gli Stati Uniti, i sauditi sono un fattore destabilizzante nella regione.

Un alto funzionario saudita ha descritto una volta il rapporto Usa-Arabia come un “matrimonio cattolico”: un legame che non può mai essere spezzato. Dopo gli attacchi dell’11 settembre è stata una unione disfunzionale, in cui la coppia riconosce che il matrimonio è finito, ma non può concordare i termini della separazione.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Saudi Arabia and its toxic relationship with America – Financial Times

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IL LEADER DEL ‘’VISEGRAD’’: VIKTOR ORBAN

“Vittoria di Pirro” – Perdere un battaglia politica, pur con il 98% dei consensi, è possibile? E se è possibile, si può davvero considerare come una sconfitta? Il caso ungherese è in tal senso emblematico: infatti i cittadini magiari sono stati chiamati alle urne domenica 2 Ottobre per la consultazione popolare sulle tanto contestate e mal digerite quote per la ripartizione dei rifugiati in Europa, e la stragrande maggioranza dei votanti ha espresso –  in maniera piuttosto scontata – il proprio rifiuto per il sistema di ricollocamento dei migranti. Ma il totale dei votanti (43%) non ha raggiunto il fatidico quorum del 50%+1, rendendo non valido de iure il referendum e depotenziandone de facto la rilevanza politica. Il grande promotore del referendum Viktor Orban, leader del partito nazional-conservatore “Fidesz”, sin da domenica ha sottolineato che la consultazione avrebbe avuto effetti politici, anche senza il raggiungimento del quorum. Per Orban si tratta di un  vero e proprio braccio di ferro con l’Unione Europea, e il premier magiaro non è disposto ad arretrare di un solo centimetro nei confronti delle politiche dettate da Bruxelles. I filo-europeisti tirano un bel sospiro di sollievo, ma il risultato elettorale di domenica sembra un argine di contenimento più che una risposta concreta alle continue pressioni e provocazioni politiche da parte di Orban, che è disposto ad una nuova e immediata revisione della costituzione (dopo quella portata a termine nel 2011), pur di ribaltare l’esito non soddisfacente del referendum del 2 Ottobre. Per Orban è stata quindi una disfatta in termini assoluti? Per l’Unione Europea non sembra invece l’ennesima ‘’vittoria di Pirro’’?

Orban e il “Visegrad”– Il gruppo del “Visegrad” è un’alleanza politica siglata nei primi anni ’90 tra Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, presso la località ungherese di Visegrad dove già nel 1335 si era tenuto un incontro storico tra i sovrani Carlo I d’Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni I di Boemia. Accanto alle evidenti suggestioni storiche, lo scopo dell’incontro era favorire e promuovere il processo d’integrazione europea degli stati post-comunisti citati in precedenza. I membri del “Visegrad” entrarono ufficialmente nell’Unione Europea nel Maggio del 2004. Il tanto agognato ingresso nell’U.E. fu considerato da questi ultimi non soltanto come una forma di risarcimento per essere stati condannati all’interminabile giogo comunista, ma una sorta di passepartout” per essere traghettati nel sogno europeo e a quel processo storico-politico che Francis Fukuyama chiamò come Fine della Storia”, ovvero il trionfo assoluto del modello liberal-democratico, il simbolo della civiltà occidentale nel secondo ‘900. Dalla pubblicazione del saggio di Fukuyama sono trascorsi più di 20 anni, e la tesi del noto politologo americano è stata più volte smentita.

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Nel caso specifico, non stupisce affatto che il vero trascinatore del gruppo “Visegrad”, Viktor Orban, abbia messo addirittura in discussione la forma democratico-liberale dei paesi europei, etichettandola come residuo dell’ideologia occidentale. Il marcato nazionalismo di Orban, coadiuvato dall’esperto leader polacco Jaroslaw Kaczynski, non deve gettare fumo negli occhi sulla visione politica e strategica del premier ungherese. Orban sta certamente sfruttando le gravissime indecisioni di Bruxelles sul tema dei rifugiati: numeri alla mano si parla di appena 1300 rifugiati da ricollocare sul territorio ungherese. Il suo voltafaccia da liberal-progressista a “difensore” del conservatorismo europeo lo ha portato a sottolineare l’importanza della centralità della tradizione cristiana nella cultura europea. Questa mossa è dettata tuttavia dal grande pragmatismo politico che lo contraddistingue. Oltre a queste cifre peculiari, Orban si è reso tuttavia portavoce di un nuovo ed alternativo progetto all’interno del processo d’integrazione europea. Il piano dei paesi del “Visegrad”, esposto da Orban in un documento di tre pagine durante il summit europeo di Bratislava del Settembre scorso, esprime con forza la volontà di rafforzare la legittimità democratica dell’Unione Europea: “Le attuali sfide dimostrano che la stessa Unione può essere forte solo se i Paesi e i loro cittadini hanno un ruolo influente nel processo decisionale”. In sostanza il “Visegrad” chiede un rafforzamento del ruolo dei singoli parlamenti nazionali. La replica del Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz non si è fatta attendere: quest’ultimo ha definito tale proposta come una ri-nazionalizzazione delle politiche europee. Lo scontro è appena cominciato.

 Gian Marco Sperelli

WHY SYRIAS’S BASHAR AL-ASSAD IS STILL IN POWER

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Zoe Hu | Al Jazeera

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Sintesi tradotta

Gli artifici retorici hanno consentito ad Assad di trascurare le riforme politiche e di coltivare il supporto con l’elite benestante. Nel gennaio 2011, i cittadini di tutto l’Egitto e la Tunisia hanno dato il via a dimostrazioni contro i loro governi. Le loro richieste di cambiamento sono esplose in una indignazione collettiva che, in Tunisia, ha rapidamente portato all’esilio del presidente.  Prima che iniziasse l’anno della famosa primavera, le agitazioni popolari scuotevano alcuni dei regimi più radicati nella regione. Ma tutto questo non aveva ancora toccato la Siria.
In un’intervista con il Wall Street Journal, il presidente siriano Bashar al-Assad ha riconosciuto il volume crescente di rivolte nei paesi vicini, ma ha rapidamente risposto : “La Siria è stabile”, ha detto. Prima di essere denunciato a livello internazionale come criminale di guerra, Assad una volta rappresentava il cambiamento per la Siria. La sua ascesa al potere nel 2000, ha segnato la fine di un lungo governo, notoriamente brutale, di suo padre, Hafez.

Samer Abboud, professore associato presso l’Arcadia University che ha scritto molto sulla Siria, ha detto che questa era la rappresentazione comune del governo di Assad. “Ci sono un paio di narrazioni dominanti veramente semplicistiche nel modo in cui inquadrano la presidenza di Assad”, ha detto Abboud. “In questa teoria, c’è una vecchia guardia [dei politici] e Assad ha rappresentato la nuova guardia che doveva prenderli in consegna”. La vecchia guardia, presumibilmente composta da politici della generazione del padre di Assad, è diventata una comoda fonte di colpa quando le riforme attese del presidente non si sono realizzate. I media occidentali hanno cominciato a speculare che la loro resistenza era paralizzata dall’autorità di Assad. Il suo governo ha effettuato le stesse tattiche di intimidazione di suo padre, facendo uso di processi iniqui, una legge sulla stampa corazzata e forze di sicurezza notoriamente crudeli per mantenere il controllo. Una nuova cricca di imprenditori ha iniziato a formarsi nell’ambito delle politiche neoliberiste di Assad. Hanno assunto il controllo delle maggiori industrie di telecomunicazioni, dell’energia e delle costruzioni.

Nel 2011, il Financial Times ha stimato che il cugino di Assad, Remi Makhlouf, detenga fino al 60 per cento dell’economia nazionale. Anche se le narrazioni multimediali spesso sostengono che il sostegno ad Assad venga dalla sua setta alawita, oggi molti dei sostenitori principali del regime risiedono in questa generazione di tecnocrati – alcuni dei quali sunniti – che hanno trovato la prosperità economica sotto il suo regime. Molti di loro avevano visto anche i loro mezzi di sussistenza migliorare sotto Assad, e non avevano alcun interesse a cambiare lo status quo, anche quando è iniziata la rivolta.

Non appena la rivolta si è trasformata in conflitto, Assad ha iniziato a sfruttare un nuovo racconto popolare per mantenere il sostegno. Si è rimposto come il presunto protettore delle minoranze della Siria. Molti drusi, cristiani e altre minoranze in Siria hanno constatato che l’opposizione non riuscisse a garantire la loro sicurezza.  Mentre gruppi come lo Stato Islamico dell’Iraq e il Levante (ISIL, noto anche come ISIS) cominciavano ad aumentare il potere, il regime di Assad ha alimentato quei sentimenti, presentandosi come l’unico alleato sicuro. Questa tattica si è rivelata efficace a causa della storia della Siria, fatta di tensioni settarie, e per la posizione di Assad come un leader della minoranza.

Assad è diventato un punto focale della speculazione nella guerra civile siriana. Con l’avvento di ISIL, Assad beneficia di un’immagine finale come il cosiddetto “male minore”. Nel confronto pubblico tra Assad e gruppi estremisti di opposizione come ISIL, Assad può fare appello all’Occidente come una presenza disposta a sedersi al tavolo della politica internazionale.

La guerra civile siriana probabilmente continuerà per molto tempo,  i commentatori temono che la comunità internazionale si rivolgerà ad Assad come sua ultima risorsa. Questa possibilità sembra trovare la sua incarnazione nel ministro degli esteri britannico Boris Johnson, che sembra guardare positivamente al governo siriano nonostante consideri Assad un tiranno. La guerra civile è diventata frammentata su entrambi i lati, con milizie pro-regime che guadagnando autonomia
nelle comunità in cui vivono. “Ottenere la fedeltà è molto difficile”, ha detto Landis. “E noi vediamo che l’identità nazionale non è stata abbastanza forte da produrre una forma legittima di governo e di Stato di diritto. Ricostruire uno stato centralizzato è estremamente difficile con la quantità di sangue che è stato versato in Siria oggi”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Why Syria’s Bashar al-Assad is still in power – Al Jazeera

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SYRIA CONFLICT: US SUSPENDS TALKS WITH RUSSIA

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BBC | 4 Ottobre 2016

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The US has said it is suspending talks with Russia over Syria, accusing Moscow of having “failed to live up” to its commitments under a ceasefire deal. Washington blamed Russia and the Syrian government for intensifying their attacks against civilians. Last week, the US warned it would halt the talks unless Moscow stops bombing the city of Aleppo. Russia said it regretted the US move, accusing it of shifting the blame for the collapse of last month’s truce. Aleppo, Syria’s largest city in the north, has come under heavy aerial bombardment since the end of the ceasefire two weeks ago. Hundreds of people, including children, have died since government forces launched an offensive to take full control of Aleppo after the week-long truce lapsed. Some 250,000 people are trapped in eastern Aleppo. In a statement, state department spokesman John Kirby said: “The United States is suspending its participation in bilateral channels with Russia that were established to sustain the cessation of hostilities“. Unfortunately, Russia failed to live up to its own commitments… and was also either unwilling or unable to ensure Syrian regime adherence to the arrangements to which Moscow agreed. Moscow strongly denies involvement of its own or Syrian planes in the deadly aid convoy strike, and says the incident was caused by fire on the ground and not by an air strike. In response to the US suspension of the talks, Russian foreign ministry spokeswoman Maria Zakharova said: “We regret this decision by Washington”. Washington simply did not fulfil the key condition of the agreement to improve the humanitarian condition around Aleppo.

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Traduzione

Gli Stati Uniti stanno sospendendo i colloqui con la Russia sulla Siria, accusando Mosca di non avere tenuto fede ai suoi impegni rispetto all’accordo di cessare il fuoco.

Washington ha accusato la Russia e il governo siriano per aver intensificato i loro attacchi contro i civili. La scorsa settimana, gli Stati Uniti avevano avvertito che avrebbero bloccato i colloqui se Mosca non avesse smesso di  bombardare la città di Aleppo.

La Russia si è detta rammaricata per la mossa degli Stati Uniti, accusati di spostare la responsabilità per il crollo della tregua del mese scorso. Aleppo, la città più grande nel nord della Siria, è stata oggetto di pesanti bombardamenti aerei a partire dalla fine del cessate il fuoco di due settimane fa.

Centinaia di persone, compresi i bambini, sono morti da quando le forze governative hanno lanciato un’offensiva per prendere il pieno controllo di Aleppo dopo il decadimento della tregua . Circa 250.000 persone sono intrappolate ad Aleppo.

In una dichiarazione, il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby ha dichiarato: “Gli Stati Uniti stanno sospendendo la partecipazione nei canali bilaterali con la Russia stabiliti per sostenere la cessazione delle ostilità. Purtroppo, la Russia non è riuscita a tener fede ai propri impegni… Non è stata in grado di assicurare l’adesione del regime siriano alle intese concordate con Mosca”.

Mosca nega con forza il coinvolgimento russo o siriano rispetto all’incidente mortale che ha coinvolto il convoglio con aiuti umanitari, sostenendo che l’incidente sia stato causato da terra e non da un attacco aereo. In risposta alla sospensione dei colloqui da parte degli Stati Uniti, il Ministro degli Esteri russo ha dichiarato: “Ci rammarichiamo per questa decisione da Washington”. “Washington semplicemente non soddisfaceva le condizioni chiave della convenzione per migliorare la condizione umanitaria intorno Aleppo”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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Syria conflict: US suspends talks with Russia – BBC

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STATI UNITI E ARABIA SAUDITA: IL LEGAME SUL FILO DEL RASOIO

Il Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA) è legge. I parenti delle vittime dell’11 settembre 2001 sono ora autorizzati a fare causa ai paesi stranieri che ritengono essere direttamente coinvolti negli attentati terroristici sul suolo americano. Ed ecco che poche ore dopo, la vedova Stephanie Ross DeSimone lancia la prima azione legale: l’11 settembre, incinta di sua figlia, perde suo marito Patrick Dunn, comandante della marina militare che si trovava al Pentagono. L’accusa è diretta all’Arabia Saudita, sospettata di aver fornito supporto logistico e sostegno materiale al progetto di Bin Laden.

La prima volta non si scorda mai – La legge è stata definitivamente approvata il 28 settembre dalla maggioranza dei due terzi del Congresso, necessaria per superare il veto del presidente Obama. Ebbene sì: Obama infatti solo cinque giorni prima aveva bloccato la legge. Il Congresso però, per la prima volta in otto anni, ha deciso di opporsi al veto del presidente e questo ha generato non poche polemiche. È il primo veto su dodici della presidenza Obama ad essere respinto. Josh Earnest, il portavoce della Casa Bianca, ha dichiarato: “È la cosa più imbarazzante che il Congresso abbia fatto negli ultimi decenni”.

8408203919_051464909f_kRischi e conseguenze – Ricordiamo che quindici dei diciannove attentatori dell’11 settembre erano sauditi e questo ha generato da subito forti sospetti riguardo a un coinvolgimento diretto di Riad negli attentati dell’11 settembre. Proprio per questo Obama aveva tentato di impedire in tutti i modi che la legge Jasta fosse approvata: il quadro dei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita è infatti già molto delicato. Si teme che rapporti diplomatici incrinati già da tempo, siano definitivamente compromessi da un provvedimento così ambiguo. Inoltre secondo Obama la legge esporrebbe maggiormente funzionari americani, diplomatici e aziende a processi fuori dagli Stati Uniti. Infine, l’Arabia Saudita è uno dei maggiori detentori di titoli di Stato americani e, secondo quanto riportato dal New York Times pochi mesi fa, avrebbe utilizzato il ruolo di creditore per far pressione su Washington e minacciare una vendita generalizzata di titoli proprio nel caso in cui fosse stata approvata questa legge.

Vecchi amici – In questo complesso scenario di rapporti fra paesi è intervenuto anche Erdogan, che ha dimostrato ancora una volta come i rapporti tra Ankara e Riad divengano nel tempo sempre più solidi. Il presidente turco ha dichiarato come l’apertura di un procedimento giudiziario contro l’Arabia Saudita sia inopportuna e contro il principio della responsabilità individuale in caso di crimine.

L’umanità e la diplomazia – Si può dire che la legge ha prodotto una vera e propria serie di reazioni a catena, denotando tra l’altro l’atteggiamento americano di forte ambiguità riguardo ai rapporti con l’Arabia Saudita. I sospetti di un coinvolgimento diretto di quest’ultima su quegli attentati che hanno portato alla morte di più di tremila persone sono stati da sempre molto forti ma non ci sono state mai prove sufficienti che lo dimostrassero. Quello che si può dire con certezza è che da una parte si può considerare il lato umano della vicenda, con una moglie che per sete di giustizia fa addirittura qualcosa di così grande e probabilmente fuori dalla sua portata. E dall’altro lato c’è il desiderio di lasciare tutto così com’è, per non turbare nessun rapporto con gli altri paesi, in un silenzio diplomatico che a volte sembra davvero assordante.

Simone Stellato

FIRST HELMAND, THEN AFGHANISTAN

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Sune Engel Rasmussen | Foreign Policy | 21 Settembre 2016

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Sintesi tradotta

Qualunque cosa stiano facendo, non sembra funzionare. I combattimenti in Helmand hanno sempre alti e bassi, ma dal 2001 i talebani non hanno mai potuto circondare Lashkar Gah. I talebani hanno anche quasi completamente occupato diversi distretti della provincia che sono stati saldamente nelle mani del governo per un decennio o più.

Nella prima metà del 2016, il governo afgano ha perso il controllo di quasi il 5 per cento del suo territorio, secondo l’Ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), un “cane da guardia” del governo degli Stati Uniti. Le sue forze controllano il 65,6 per cento dei distretti in tutto il paese – il che significa che hanno perso il controllo dei 19 distretti in pochi mesi. Recentemente, il più grande canale di notizie afgana, Tolo News, ha riferito che gli attacchi degli insorti in Afghanistan sono aumentati del 28 per cento da giugno a luglio.

Ma è Helmand che contiene il più grande valore simbolico per gli Stati Uniti. La provincia sta arrivando a incarnare uno dei più grandi fallimenti di Barak Obama come comandante in capo.

Obama ha inviato migliaia di marines statunitensi a Helmand nel 2010 come parte di un tentativo di girare intorno al corso della guerra più lunga degli Stati Uniti. Nessun altro luogo in Afghanistan mostra più chiaramente perché la scelta strategica di Obama ha avuto poche possibilità.

“Una mattina, le forze governative sono venute e ci hanno detto di lasciare. Poi hanno iniziato a combattere dalla nostra casa”.

“Le forze governative sono ladri”, dice Ghulam Mohammad, 55 anni, che accusa la polizia di aver rubato le sue pecore e tacchini. “Al momento, i talebani ci trattano bene, ma non so per il futuro”.

I civili in Helmand che sostengono il governo concordano quasi all’unanimità che il ritiro delle truppe da combattimento americane e britanniche alla fine del 2014 è arrivato troppo presto. Molti vogliono che gli Stati Uniti assumano un ruolo più forte a Helmand.

Altri incolpano gli Stati Uniti di aver invitato l’arrivo di militanti islamici in una provincia in cui la violenza era tradizionalmente derivazione di rivalità tribali di lunga data.

Rahmatullah, 40, da Bolan. “A volte, anche se vi è un solo talebano in un villaggio, si bombardano e uccidono civili… Che cosa vogliono da noi? Devono lasciarci soli”. Piange senza sosta, raccontando di suo figlio, un poliziotto in Khanashin. “Quando i talebani hanno attaccato, è scomparso”, dice. “Era il mio unico figlio, e ha sostenuto la famiglia”.

Poco dopo il sorgere del sole, l’eco dei colpi ritmici e metallici dei picconi richiamano l’attenzione a un uomo che scava tra la ghiaia. Hanno trovato Abdul Hakim, il giovane ragazzo.

L’arbitrarietà della morte di Abdul Hakim è sintomatica di un conflitto che uccide e ferisce più civili che mai.

“Non sappiamo cosa accadrà. Preghiamo Dio che i combattimenti non si diffondano a Lashkar Gah “, dice Habibullah, l’anziano. “Questo ragazzo innocente fu martirizzato”, grida un mullah al gruppo assemblato in cerchio attorno a lui. “A volte Dio ci mette alla prova. A volte ci troviamo di fronte ad una situazione come questa in cui qualcuno dalla nostra famiglia viene ucciso”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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First Helmand, Then Afghanistan – Foreign Policy

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IL PUNTO SULLA LIBIA

“Who do I call if I call Europe?”: Così negli anni ’70 Henry Kissinger, allora Segretario di Stato Usa, manifestava la frustrazione di non poter avere nel Vecchio Continente un interlocutore unico e affidabile a livello diplomatico. Oggi, a provare a chiamare la Libia, non si sa quale numero comporre, e quando anche se ne trovi uno, probabilmente sarà occupato in un’altra chiamata. Da quando, due anni fa, la seconda guerra civile ha spento ogni speranza di una stabilizzazione dell’area, non c’è un esecutivo che possa vantare un controllo effettivo sul paese. Ma cerchiamo di ripercorrere insieme i punti più critici.

Risiko – Due oggi sono i personaggi chiave dello scenario libico: Khalifa Haftar e Fayez al-Sarraj. Percorsi e personalità che non si sono mai incrociati, e che pure hanno fatto entrambi tappa nel regime di Muhammar Gheddafi. Haftar, prima di trasferirsi in America per ben 20 anni, ne era stato uno dei comandanti nella guerra con il Ciad; al-Sarraj aveva ricoperto alcuni incarichi ministeriali. Poi nel 2011 le strade si dividono. Haftar torna in patria ed entra nello Stato Maggiore del nuovo governo Islamista, per poi dichiararne la sospensione e dare inizio con i suoi uomini alla lotta alle milizie jihadiste nel paese. Da febbraio 2015 è Capo di Stato maggiore del governo di Tobruk.

Esattamente un anno fa al-Sarraj viene incaricato dall’ONU di formare un governo di unità nazionale che ottenga il voto favorevole dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk. Ma la lotta ad un nemico comune, le milizie dell’ISIS arroccate nelle città di Derna e Sirte, non basta a cementare tra le due parti un’alleanza abbastanza solida per prospettare un governo unico. Il parlamento di Tobruk non viene riconosciuto dalla comunità internazionale, con alcune significative eccezioni. In primis l’Egitto di Al-Sisi, alleato del generale Haftar nella lotta contro le milizie islamiche di Derna. Più velatamente poi c’è la Russia di Putin, che in questi giorni ha smentito le notizie circolate nei media internazionali di aiuti militari forniti agli uomini di Haftar.

Jihad libica – Se lo scacchiere delle forze schierate contro i fondamentalisti è di difficile lettura, quello delle forze jihadiste, se possibile, è molto più intricato. L’ISIS ne costituisce la parte più massiccia: ad ingrossarne le fila, molti degli ex lealisti di Gheddafi. È riuscito a conquistare roccaforti del calibro di Sirte e a difenderle con pochi uomini (donne comprese) infliggendo gravi perdite al nemico. Ma non è l’unica pedina in gioco: ai miliziani fedeli al Califfo si aggiungono diverse altre formazioni, alcune legate ad Al Qaeda, altre formate da ex ribelli in conflitto con Haftar, come Ansar al-Sharia, nata nel 2012.

La situazione oggi – Gli accordi firmati in Marocco a Skhirat nel dicembre 2015 sancivano la nascita del nuovo governo di unità nazionale, insediatosi a fine marzo del 2016, senza però ottenere la fiducia del parlamento di Tobruk. Haftar è un personaggio scomodo e gran parte della coalizione occidentale ne farebbe volentieri a meno. Ma ad oggi non si può cercare una soluzione di unità senza di lui per almeno tre validi motivi. Perché esercita un enorme influenza sulla Camera dei Rappresentanti, perché dispone di una milizia di almeno 20.000 uomini e del controllo della Cirenaica, e ultimo, ma non per importanza, perché da inizio settembre ha occupato quattro porti petroliferi cruciali per l’esportazione del greggio, togliendoli alla gestione del governo di unità nazionale. Esportazione che dalla caduta di Gheddafi è caduta vertiginosamente (da più di un milione e mezzo di barili a circa 200.000) e che ora il generale promette di far ripartire.

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Sarraj ha annunciato ripercussioni. Ma la credibilità del suo governo non gli permette di usare il pugno duro. Le sue forze militari sono attaccate alla spina del supporto occidentale. Per cacciare da Sirte l’ISIS ci sono voluti mesi e mesi di guerriglia estenuante, per di più in superiorità numerica e con l’aiuto dei raid americani: oggi i miliziani controllano ancora un quartiere della città con un pugno di cecchini.

In un’intervista al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat Sarraj ha dichiarato di non voler precludere nessuno dal nuovo governo e di avere avuto un incontro con Haftar. Punto di attrito in particolare il ruolo dell’esercito nella formazione del nuovo esecutivo. Il generale ha risposto dal canto suo che il paese non riconoscerà parlamenti al di fuori di quello di Tobruk e che alla Libia serve un leader di alta esperienza militare. Il progetto di una nuova costituzione sembra ora pura utopia. Quel che è certo è che se la Libia ricadesse in una nuova estenuante guerra civile i primi a trarne vantaggio sarebbero i miliziani dell’ISIS. Tra Sirte e la Sicilia ci sono poco meno di 200 miglia marine: non sorprende che la stabilità politica ed economica dello scacchiere libico sia un’assoluta priorità per l’Unione Europea.

Francesco Bechis

IT’S NO COLD WAR, BUT VLADIMIR PUTIN RELISHES HIS ROLE AS DISRUPTER

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David E. Sanger | The New York Times | 29 Settembre 2016

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Una escalation di attacchi aerei in Siria; attacchi informatici sofisticati, apparentemente allo scopo di influenzare le elezioni americane; nuove prove di complicità riguardo l’abbattimento di un aereo civile. Il comportamento della Russia nelle ultime settimane ha echi di alcuni dei momenti più brutti della guerra fredda, un periodo di battaglie per procura concluso nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica. Il presidente Obama, reduce da un incontro con il presidente Vladimir Putin questo mese, ha chiesto se il leader russo viva con una “costante tendenza al conflitto a basso grado”. Il suo riferimento era rivolto all’Ucraina, ma avrebbe potuto essere rivolto a qualsiasi arena in cui Putin ha mostrato il suo nuovo ruolo di grande distruttore di piani americani in tutto il mondo.

“Mi sembra che abbiamo la risposta di Putin”, ha dichiarato Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations e autore del libro “Un mondo nel caos”. “È risolta in senso affermativo. Il conflitto di basso grado è la sua costante. E la domanda è come, direttamente o indirettamente, introduciamo i costi”. Nessuno di questi conflitti ha, infatti, un costo elevato per Putin. Il cyberpower, in particolare, sembra fatto su misura per un paese che si trovi nelle circostanze in cui si trova la Russia ora.

Il problema più grande nel confronto con i funzionari dell’intelligence americana, però, è se il presidente russo abbia o meno  uno schema. Finora, la loro conclusione è che le mosse di Putin siano in gran parte tattica, destinata a sostenere la sua immagine internazionale, in un momento di tensione interna. Da un anno, la Casa Bianca ha sostenuto che questi scontri crescenti non costituiscano una nuova guerra fredda. Non c’è una lotta ideologica in corso. Nessuno brandisce le armi nucleari. La Siria è un disastro umanitario di portata inimmaginabile, ma non è una minaccia strategica fondamentale per gli interessi americani. L’accordo in Ucraina è sospeso: la Russia convenientemente ignora molti degli impegni firmati e ha negato il coinvolgimento nell’abbattimento due anni fa di un jet Malaysia Airlines che uccise 298 persone.

Le attività di intelligence sono state così concentrate negli ultimi 15 anni sul contro-terrorismo che gli obiettivi tradizionali hanno perso di interesse. Forse ci sono stati alcuni errori di valutazione. Era più di un anno fa quando il signor Obama disse che la Russia si trovava in un “pantano” in Siria; si può ancora dire, ma finora la guerra aerea di Putin ha dichiaratamente appoggiato Assad, anche se ad un costo umano terribile, come dimostra la situazione nella città di Aleppo – diventata “baratro spietato di una catastrofe umanitaria”.

Finora, però, Putin ha mostrato una certa cautela. Mentre  ha cercato di intimidire i paesi della NATO con sorvoli di bombardieri, sottomarini nucleari e le esercitazioni militari vicino ai confini di Estonia e Lettonia, è stato attento a rimanere dalla sua parte dei confini.

“Queste sono cose che si verificano in zone grigie con tattiche da zona grigia”, ha detto Robert Kagan, storico presso la Brookings Institution che ha scritto sul ritorno del conflitto geopolitico. La domanda che gli Stati Uniti dovranno affrontare, ha aggiunto, è: “Siamo disposti anche noi a operare nella zona grigia?”.

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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci

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It’s No Cold War, but Vladimir Putin Relishes His Role as Disrupter – The New York Times

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L’EUROPA DEI MURI

Europa di Charlie, Europa di Orlando, Europa del Bataclan, di Dakka, della Brexit e oramai, Europa dei muri.

Verrà innalzato a Calais, nel nord della Francia, il muro anti migranti eretto a tutela del passaggio verso la Gran Bretagna. Dopo forse troppi “je suis”, l’Europa si vela di cemento nella speranza di celare la fragilità della propria identità storica dietro un chilometro di pietra.

Verrebbe da chiamarla, questa Europa, “l’Europa blindata”, coperta dalla stessa rabbia che infiammò l’Oriana, all’indomani dell’11 settembre, ma le mura innalzate allora erano di uomini stretti non tanto nel ricordo quanto nell’affetto ad una cultura dichiarata ed evidentemente sotto attacco.

Corsi e ricorsi, direbbe qualcuno, eppure no. No. Questo non è mai accaduto. Il mondo ha già difeso erigendo mura. Lo sanno bene quei berlinesi dell’est, gli ungheresi e gli sloveni, gli italiani dei monarchi e degli imperatori, la Russia nascosta del dopoguerra. Appena un chilometro e poi il nulla, un’idea abbozzata di difesa, senza identità e senza forza. La nostra Europa difende col vuoto, un vuoto di ideale.

Il nuovo rapporto annuale dell’UNHCR riporta un dato senza precedenti, 65.3 milioni di persone in fuga dalle loro case a fine del 2015, un dato in aumento rispetto ai 59.5 milioni di un anno prima. Ciò implica, come riporta l’UNHCR, che “con una popolazione mondiale di 7.349 miliardi di persone, 1 persona su 113 è oggi un richiedente asilo, sfollato interno o rifugiato”.

Il dato italiano è riportato daIla IOM secondo la quale, fino al 30 giugno 2016 sono sbarcati in Italia 78487 migranti, contro i 70354 sbarcati nello stesso periodo del 2015.

Scappano da guerre, conflitti, violenze e paura. Scappano inseguendo la speranza che il sogno europeo ancora esista.

È strano ricordare oggi che l’Europa unita nasce proprio dall’orrore della guerra e dalla fuga dalle violenze quando, a partire dal 1946, gli europei erano determinati a impedire il ripetersi delle devastazioni susseguite alla seconda guerra mondiale.

Nostra patria Europa, la chiamava De Gasperi, “I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche della loro crescita, debbono elevarsi anche a un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati. Lo sforzo di mediazione e di equità che è compito necessario dell’Autorità europea le darà un nimbo di dignità arbitrale che si irradierà al di là delle sue giuridiche attribuzioni e ravviverà le speranze di tutti i popoli liberi”.

Nata da un ideale, l’Europa di oggi si scontra con la paura e l’incertezza. La paura dei migranti, la sfiducia verso i vertici europei. Agli albori del sogno, nei primi del 2000, quasi il 60% degli italiani esprimeva fiducia verso le istituzioni comunitarie, oggi quella stessa fiducia è calata al 27%. Alla sfiducia sembra attualmente non esserci risposta: lo prova il fatto che gli accordi di Schengen siano in bilico, visto che in Italia il 48% della popolazione vorrebbe ripristinare controlli permanenti alle frontiere e un altro 35% lo farebbe solo in circostanze particolari, mentre appena il 15% manterrebbe gli accordi intatti.

La storia è scossa dall’attualità che si impone con nuove crisi e nuovi scenari, i nuovi muri cristallizzano le distanze tra l’Europa e il suo sogno, tra il presente e quella remota memoria dell’ideale che nella storia ha fatto dello scontro un’occasione e del dibattito una strada.

Giada Martemucci