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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

ROUEN E LA SPERANZA DI RITROVARE LA NOSTRA IDENTITA’

 

Colpire una chiesa per colpire l’Occidente. I terroristi islamisti hanno capito (e risolto) questa equazione. Quelli che sembrano averla intesa meno sono gli stessi occidentali, frastornati dai bisogni contingenti del momento che non solo dimenticano le proprie radici, ma non riconoscono neppure la propria identità di occidentali.

Ed è su questo campo che i terroristi islamici possono fare più danni, non solo uccidendo un parroco, ma attaccando un mondo avanzato, forte nelle sue innovazioni e nelle sue libertà, ma debole e timoroso nella propria identità. Una prateria sterminata da colonizzare, da intimorire a colpi di pistole, pugnali e video, dove chi vi abita da generazioni ha abbandonato la pretesa di esprimere una cultura forte, capace di dare risposte comunitarie ma ha deciso di incassare, con inerzia, i colpi di un fondamentalismo che non punta a vincere la partita con lo sterminio, ma con la paura.

E ci sta riuscendo.

Ma quale può essere la risposta da mettere in campo, rispetto a questa minoranza di diffusori di odio, che tengono in ostaggio la tranquillità del mondo?

Per prima cosa capire che sono i malesseri sociali che stanno producendo la propagazione dei sentimenti di radicalizzazione. È ormai chiaro che l’ISIS punta a destabilizzare il nostro mondo principalmente tramutando i problemi di una difficile integrazione di migranti di prima e seconda generazione in Europa, in opportunità per raggiungere il promesso Paradiso. Occorre quindi non lasciare che questa corruzione delle menti possa realizzarsi, dapprima monitorando le periferie delle città che, soprattutto nei paesi ad alto tasso di immigrazione, stanno tramutandosi sempre più in ghetti, incentivando l’integrazione attraverso l’apertura durante tutto il giorno di scuole, di costruzione di nuove biblioteche e luoghi di incontro e scambio, di attività sociali che tengano impegnati e coinvolgano tutti i “nuovi cittadini”.

Poi occorre rafforzare una propria identità (nazionale, europea e occidentale), ponendo una barriera a chi non riconosca i fondamenti valoriali come l’uguaglianza di diritti tra uomo e donna, verso coloro che non rinunciano all’uso della forza e della violenza per regolare le proprie dispute, nei confronti di chi si dimostra intollerante verso le leggi e i culti differenti rispetto ai propri.

È solo grazie a una ricetta che punti, nel nostro Occidente, ad una effettiva integrazione di migranti e cittadini di prima e seconda generazione assieme al rafforzamento della nostra identità che il radicalismo alle porte delle (o dentro le) nostre case potrà essere sconfitto. Altrimenti dovremmo abituarci a vivere nel regime del terrore, dove la principale vittoria dei terroristi – come ricorda lo studioso Adriano Frinchi – non sarà quella di sgozzare un prete, ma quella di trovare una chiesa con solo due fedeli in preghiera.

Virgilio Falco

ULTIMA CHIAMATA PER IL VECCHIO CONTINENTE

La ripetizione del ballottaggio presidenziale in Austria e il referendum sulla ripartizione dei profughi in Ungheria rappresentano un banco di prova decisivo per il futuro dell’Unione Europea. Ma da Bruxelles non sembrano poi così preoccupati, forse ancora troppo presi dalla ‘’Brexit’’.

Il terremoto provocato dall’esito, quanto mai inaspettato, del referendum sulla Brexit ci consegna uno scenario politico europeo a dir poco drammatico. Come amava ripetere Ortega y Gasset, quasi un secolo fa, l’Europa è ancora la soluzione? C’è tempo per salvare il progetto federalista europeo, oppure siamo arrivati alle battute finali di questo miracolo incompiuto? I catastrofisti fiutano il possibile e imminente crollo dell’unità politica europea; chi invece si considera tuttora sostenitore del progetto di integrazione dei paesi del vecchio Continente, il più delle volte liquida le forze anti-europeiste, ritenendole genericamente populiste. Il tempo a disposizione per un cambio di rotta è ormai scaduto: il 2 Ottobre in Austria si ripeterà il ballottaggio per le elezioni presidenziali tra il candidato nazionalista del Partito della Libertà Hofer e l’anonimo e indecifrabile candidato dei Verdi Alexander Van der Bellen; nello stesso giorno in Ungheria avrà luogo il referendum sul ricollocamento obbligatorio dei profughi e in questo modo i cittadini magiari potranno esprimersi direttamente sulla linea politica sostenuta da Bruxelles.

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Il rischio concreto è lo sgretolamento dell’Unione Europea, e la causa principale è la paura degli immigrati che stanno invadendo gli stati della ‘’Mitteleuropa’’: se dovesse passare la “linea del no” in Ungheria e Hofer vincesse le presidenziali in Austria, sarebbe una sconfitta su tutti i fronti per Bruxelles. Se il populismo, incarnato in questi due casi da Norbert Hofer e Viktor Orban, non è una soluzione politica praticabile, lo si deve almeno accettare come sintomo palese di un malessere collettivo che si continua evidentemente a sottovalutare. Gridare al lupo populista serve soltanto a spingere elettori delusi e disaffezionati dai partiti tradizionali nelle braccia dei movimenti anti-sistema.

In Ungheria Viktor Orbàn, leader del partito Fidesz-Unione civica ungherese, è il padrone assoluto dal 2010 della scena politica: fautore di una linea di governo sempre più marcatamente nazionalista ed isolazionista, contraria quindi ad ogni forma di integrazione dei profughi provenienti dal Medio-Oriente, non mostra alcun timore reverenziale nei confronti di Bruxelles. Ormai Orbàn gode di un consenso quasi assoluto nel proprio paese, quindi il referendum di Ottobre appare come una vera e propria investitura plebiscitaria di quest’ultimo, per sferrare il colpo decisivo ad una UE inerme e paralizzata. D’altro canto, in Austria la situazione risulta ancora più “tragicomica”: la vittoria di strettissima misura di Van der Bellen al ballottaggio contro un outsider come Hofer è stata annullata con una sentenza della Corte Costituzionale austriaca, per le molte irregolarità riscontrate nello scrutinio dei voti per corrispondenza. Tutto ciò gioca a favore di Norbert Hofer, che si appresta a vincere piuttosto facilmente la ripetizione del ballottaggio. A nulla servirà lo sforzo dei partiti tradizionali (Partito Popolare austriaco e Partito Socialdemocratico d’Austria) di sostenere il più pacato Van der Bellen: Hofer ha infatti conquistato l’endorsement del popolo austriaco, stanco della mancanza di leadership della classe politica tradizionale. Gli eventi in Austria e in Ungheria rappresentano un “aut aut” per l’Europa intera. Il populismo si è insediato come attore protagonista all’interno dei nostri sistemi democratici. Ignorare questo dato concreto, rappresenterebbe il seppuku europeo.

Gianmarco Sperelli

SANAFIR E TIRAN, LE ISOLE DELLA DISCORDIA

È fresca di poche ore la decisione della Corte permanente Onu di arbitrato sulla Legge del Mare, secondo la quale le pretese cinesi su alcune isole del Mar cinese meridionale sono ingiustificate: il giudizio della Corte, che le cataloga come scogli (riducendo quindi la porzione di mare appartenente al paese che ne ha la sovranità), manda dunque un forte messaggio all’espansionismo aggressivo del gigante asiatico, che ovviamente rifiuta il pronunciamento.

Se però, all’Europa, questo sviluppo interessa indirettamente, ha una rilevanza ben maggiore un’altra decisione di una Corte amministrativa, quella egiziana, in merito ad una “questione insulare”.

Premessa: il 9 Aprile scorso, in occasione della visita al Cairo del re saudita Salman, il Governo egiziano ha annunciato un accordo con la monarchia del golfo, a coronamento di una trattativa di – stando alle dichiarazioni governative – ben sei anni. Oggetto dell’affare una quindicina di intese in materia di sviluppo ed energia, per un valore totale di svariati miliardi di dollari (tra i 16 e i 22, a seconda delle fonti) a disposizione del Governo di al-Sisi. Tra questi, quello che ha destato più scalpore è stata la cessione ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir, importanti per la loro posizione strategica situata all’ingresso del Golfo di Aqaba.

10562347213_633dcfe9e0_oEd ecco il fatto: l’operazione ha scatenato violentissime proteste popolari, represse con la forza dai militari e a cui sono seguiti più di 150 arresti, che denunciavano come illegittima la decisione unilaterale di ridisegnare i confini nazionali. Proprio su questo punto, un gruppo di avvocati ha fatto causa al Governo, motivando come incostituzionale l’operazione di al-Sisi: l’articolo 151 della Costituzione egiziana, infatti, stabilisce che ogni azione riguardante i confini nazionali debba passare dal Parlamento, oltre al fatto che è necessario un referendum popolare prima di qualsiasi decisione finale.

Ebbene, a grande sorpresa, la Corte Amministrativa del Consiglio di Stato ha dato ragione, il 21 Giugno, agli avvocati, annullando l’accordo: “L’accordo egiziano-saudita per ridisegnare i confini marittimi e le sue conseguenze circa il posizionamento di Tiran e Sanafir in acque saudite sono annullati. Le due isole restano all’interno dei territori egiziani e dei confini statali egiziani. Nelle due isole continuerà a vigere sovranità egiziana. È proibito cambiarne lo status in qualsiasi modo e per qualsiasi altro paese”.

Una presa di posizione netta, di fronte alla quale il Governo ha annunciato ricorso: in un comunicato del Primo Ministro si dice che verranno presentati tutti i documenti che dimostrano come le isole, disabitate, non appartengano all’Egitto, bensì alla stessa Arabia Saudita, che richiese tuttavia un intervento di militari egiziani nel 1950, in seguito al quale la monarchia saudita non si riappropriò mai del possesso fisico delle isole. Tesi tutta da dimostrare, dal punto di vista giuridico.

Ciò che interessa qui, invece, è dare un giudizio geopolitico, che consideri due dati: l’accordo e l’annullamento dello stesso.

In merito al primo, è doveroso far notare che tale cessione è spiegabile nel quadro dell’assestamento del mondo sunnita: l’attivismo saudita, rinnovato con l’ambizioso National Transformation Program, ha bisogno di espandere il controllo sugli alleati, e la drammatica necessità economica egiziana va a nozze con tale progetto. Da qui, l’ingente investimento in cambio di un hub strategico sia per la costruzione del “King Salman Bridge”, che collegherebbe l’Arabia con Sharm-el-Sheik, sia per il controllo del golfo di Aqaba, cruciale via commerciale; inoltre, tale controllo permette di aprire o meno le rotte verso la giordana Aqaba e l’israeliana Eilat: da registrare, a tal proposito, le dichiarazioni di Hanegbi, membro del partito israeliano Likud, che ha affermato che “noi abbiamo un interesse nell’approfondire la cooperazione con l’asse sunnita, che sta combattendo contro l’asse radicale guidato dall’Iran (quello sciita, ndr)”.

14088417459_b08bcf751a_oPer quanto riguarda il secondo, invece, desta sorpresa un tale atto di forza contro al-Sisi, soprattutto per la sua “pubblicità”. Se confermato, metterà il Presidente egiziano in grosse difficoltà sia da un punto di vista diplomatico, perdendo credibilità con l’alleato saudita, sia interno, in quanto la legge egiziana prevede l’ergastolo per gli ufficiali che negoziano con paesi esteri danneggiando l’interesse nazionale – motivo per cui l’accordo è stato firmato dal Primo Ministro: certo, sarebbe comunque un duro colpo alla “legittimità” di al-Sisi.

Se invece sarà l’accordo ad essere confermato, esso dovrà passare dal Parlamento, dove l’ampio supporto ad al-Sisi non lascia adito a dubbi circa una sua ratifica. Certo, in tal caso al-Sisi sarebbe ricordato come Awaad, protagonista di una canzone appartenente alla tradizione popolare egiziana, degno della vergogna collettiva per aver venduto la propria terra.

Giovanni Gazzoli

IL SUD SUDAN RICADE NEL SANGUE

Il paese più giovane del mondo, nato solo 5 anni fa dopo una lunghissima lotta per l’indipendenza, non ha mai davvero visto sorgere il sole.

Il 9 luglio si erano fatti i preparativi per una modesta festa d’indipendenza. Ad agosto sarebbe passato solo un anno dall’armistizio che aveva posto fine, nell’estate del 2015, ad una lunga guerra civile che aveva lasciato sul campo più di 50.000 mortimilioni di sfollati e quasi 4 milioni di denutriti. Ma era l’epoca delle primavere arabe ed il sangue sudanese scorreva all’ombra dei media internazionali.

Nel gennaio del 2011 si spegnevano le ultime manifestazioni per lo storico referendum popolare che sanciva l’indipendenza del Sudan del Sud, con capitale Juba, dalla capitale del Nord, Karthoum, centro del governo di quello che sarebbe divenuto il Sudan del Nord. Il distacco aveva avuto luogo per via quasi consensuale, culmine di una situazione insostenibile, con il Sudan del Sud relegato tra i paesi più poveri al mondo, anche e soprattutto per il monopolio della rete di oleodotti da parte di Karthoum che privava la regione meridionale della risorsa che tutt’oggi costituisce il 99 % dell’export.

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Ma nel 2013, solo due anni dopo la tregua che aveva dato vita al 193° Stato delle Nazioni Unite, il pomo della discordia era caduto tra i due leader del paese, il presidente Salva Kiir ed il vicepresidente Riek Machar, rappresentanti di due etnie in conflitto, rispettivamente quella Dinka e la Nuer.

Di qui una nuova guerra fratricida per il potere, senza risparmiare le popolazioni civili, trucidate a seconda dell’etnia di appartenenza. L’armistizio di agosto aveva tutte le premesse per essere un castello di carte pronto a crollare al primo soffio. Machar era tornato in città con le sue truppe riacquistando il ruolo precedente e si cominciava a parlare di governo di unità nazionale, per portar fuori il paese neonato da una crisi che aveva avuto conseguenze devastanti sull’economia e sulla sussistenza della popolazione. La convivenza pacifica tra le diverse fazioni nella capitale è rimasta però sulla carta.

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Pochi giorni fa la gente di Juba ha risentito l’eco di un incubo che sembrava un po’ più lontano: spari, granate, elicotteri, fumo ovunque. E se l’ufficialità della riapertura delle ostilità non è ancora arrivata dai due leader, che anzi hanno annunciato lunedì un cessate il fuoco, si contano già 300 morti, tra cui 2 caschi blu cinesi dell’ONU abbattuti da un colpo di mortaio e diversi attacchi a sedi di ONG.

Una riapertura del conflitto avrebbe ripercussioni che vanno ben oltre la lotta civile interna al paese. Alle due fazioni infatti corrispondono alleanze che travalicano i confini del Sudan, in particolare l’Uganda per Kiir e l’Etiopia a protezione di Machar e del Sudan del Nord, da sempre vicino alle milizie rivoluzionarie: l’Africa Centrale rischierebbe di divenire una polveriera dalle conseguenze incerte. Nel frattempo, assieme alle speranze di vivere in un paese verso una transizione democratica e dalle enormi risorse economiche, hanno abbandonato Juba, su un aereo diretto verso il Vecchio Continente, 126 italiani ed altri cittadini UE che avevano chiesto aiuto.

Francesco Bechis

IL SUMMIT DI VARSAVIA

Si è chiuso a Varsavia il vertice NATO svoltosi nelle due giornate dell’8 e del 9 luglio. Accolto tra le proteste di gruppi di pacifisti, è stato l’ultimo del Presidente Obama, il primo dell’era post Brexit ed il più grande per partecipazione che si sia mai riunito.

Un summit che possiamo definire di ”consolidamento”, declinabile sia nella prospettiva dei propositi futuri dell’alleanza, sia in quella dei rapporti all’interno della ”piattaforma NATO”, nell’accezione data dal Segretario Generale Stoltenberg all’indomani del referendum inglese dello scorso 23 giugno.

Molti i temi trattati ed oggetto di dichiarazioni, ecco i principali.

L’Europa

Primo tra gli argomenti affrontati, la ”questione europea” ha animato il dibattito della prima giornata.
Firmando una dichiarazione congiunta, il Segretario Generale della NATO Stoltenberg, il Presidente del Consiglio Europeo Tusk ed il Presidente della Commissione Europea Junker hanno dichiarato la volontà, ”alla luce delle sfide in comune” considerate come ”senza precedenti”, di ”fare un passo avanti” nei loro impegni e nei loro rapporti con “un nuovo livello di ambizione”. Sette le priorità considerate strategiche dal documento:

  1. Migliorare le capacità di affrontare le minacce ibride (minacce capaci di utilizzare mezzi non convenzionali ed in grado di adattare le proprie azioni in base ai propri obiettivi);
  2. Aumentare la cooperazione nelle operazioni marittime e riguardanti il fenomeno dell’immigrazione;
  3. Aumentare la coordinazione in tema di cyber-security;
  4. Sviluppare capacità di difesa efficaci e complementari tra i membri dell’UE e membri della NATO;
  5. Favorire lo sviluppo dell’industria e della ricerca in ambito di difesa;
  6. Aumentare le esercitazioni coordinate (riguardanti anche le ”minacce ibride”);
  7. Aumentare le capacità di difesa e migliorare la resilienza delle infrastrutture civili dei paesi partner dell’est e del sud in base alle singole esigenze.

Una ”decisione storica”, le cui risorse necessarie, sia in termini politici che in termini economici, sembrano essere garantite dai firmatari della stessa e la cui prima azione concreta potrebbe essere il lancio della nuova operazione marittima nel Mediterraneo, nota come ”Sea Guardian”, che lavorerà a stretto contatto con l’operazione ”Sophia”, già messa in atto dall’UE.

Riguardo il tema ”post-Brexit”, già durante l’incontro tra i rappresentati dell’Unione Europea e il Presidente degli Stati Uniti svoltosi prima dell’inizio del Summit, il Primo Ministro Cameron ha concretamente risposto ai dubbi avanzati nei giorni precedenti dall’amministrazione americana uscente sul ruolo futuro del Regno Unito nell’alleanza atlantica, annunciando – oltre alla volontà di mantenere il tetto della spesa militare al di sopra del 2% del PIL – lo schieramento di ulteriori 650 militari sul fronte orientale. Altra notivà è stata l’annuncio del nuovo quartier generale della NATO, che avrà sede a Bruxelles, dove si terrà il vertice del prossimo anno.

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Russia

Proseguendo nella strategia della ”deterrenza e dialogo”, le dichiarazioni del vertice hanno seguito il duplice approccio adottato dall’alleanza:

  • Sul versante della deterrenza è stato approvato il dispiegamento, previsto dal possimo anno, di quattro battaglioni multinazionali composti da mille uomini ciascuno e schierati nell’est Europa, affinché risulti chiaro che “un attacco ad uno di questi paesi sarà considerato un attacco contro tutta la Nato” in piena attuazione dell’art. 5 del Patto Atlantico. Inoltre la messa in funzione delle difese antimissile non sembra essere messa in discussione, nonostante le continue reazioni russe.
  • Sul versante del dialogo sono state fissate dai 5 paesi leader dell’alleanza – USA, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania – le condizioni affinché le sanzioni economiche verso Mosca possano essere revocate: l’adempimento di tutti gli obblighi previsti dal Protocollo di Minsk siglato nel 2014.

A supporto di questo approccio molti Stati – prima fra tutti la Francia, ma anche Germania ed Italia – hanno preferito riconoscere nella Russia un partner – di certo colpevole nella sua politica estera – piuttosto che una minaccia, invitandosi reciprocamente ad evitare di favorire un nuovo isolazionismo del Cremlino che, a sua volta, ha fatto trapelare segnali di apertura vedendo ”grandi spazi di collaborazione”, a patto che la NATO abbandoni ”l’assurda retorica” sulla minaccia Russa.

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Partenariato

Come normale per il vertice più grande per partecipazione che vi sia mai stato, grande spazio è stato dato ai partner dell’alleanza.

Il ministro degli affari esteri della Georgia ha riaffermato la volontà del suo paese di raggiungere lo status di membro della NATO, definendola come una priorità del proprio paese. Dopo un aggiornamento sulle sfide da affrontare e sui progressi raggiunti, l’alleanza ha guardato con favore agli sviluppi in campo democratico ed economico compiuti dalla Georgia, ribadendo il pieno supporto al mantenimento dell’integrità territoriale e della sovranità del paese ed incoraggiandolo a proseguire nel percorso di riforma. Importante esame sarà quello delle prossime elezioni parlamentari che si terranno ad ottobre, che si aspettano essere compiute nel rispetto dei più alti standard democratici.

Decise le dichiarazioni riguardanti l’Ucraina, paese che ormai dal 2014 detiene con la NATO un rapporto – sia sul piano politico sia su quello strategico – senza precedenti e che non nasconde l’interesse futuro a divenire un membro dell’alleanza. I ”significativi contributi” alle operazioni degli Alleati, basate sulle ”decisioni prese in Galles”, hanno portato l’alleanza ad esaminare i passi necessari ad inserire gli interessi ucraini nei programmi per il partenariato. In questo senso può essere letta la dichiarazione del presidente ucraino Poroshenko, con cui ha istituito una commissione con lo scopo di ”assicurare il coordinamento delle iniziative di integrazione dell’Ucraina nell’area euro-atlantica” al fine di perseguire il percorso di adesione alla NATO nel modo più adeguato possibile.
Deciso il messaggio inviato alla Russia, accusata di aver violato la legge internazionale ”minando la sovranità, il territorio e la sicurezza dell’Ucraina”. Al Cremlino è stato intimato – richiamando la dichiarazione della commissione NATO-Ucraina del summit del 2014 – di cessare ”la sua illegale ed illegittima autodichiarata” annessione della penisola di Crimea, ”che non riconosciamo e non riconosceremo”, mostrando la ferrea volontà dell’alleanza di non retrocedere nel percorso intrapreso.

Il Montenegro, ormai prossimo a divenire il 29° membro firmatario del Patto Atlantico, era presente come osservatore ai lavori del Summit. Verosimilmente, entro l’estate del 2017, tutte le firme degli Stati membri necessarie a perfezionare l’atto di ratifica saranno raccolte, portando così a compimento il processo di adesione.

Tema rilevante oggetto di dichiarazione è stato l’impegno dell’alleanza in Afghanistan. Considerato un partner strategico in grado di favorire la stabilità regionale, l’alleanza ha mostrato la sua determinazione nel voler continuare a favorire il processo di integrazione dei processi democratici all’interno del paese. Durante la seconda giornata, il Segretario Generale Stoltenberg ha annunciato che l’impegno della NATO nella regione sarà prorogato oltre il 2016 e che l’Italia – assieme a Germania e Turchia – assumerà un ruolo guida nell’operazione. Richiesta accolta con favore dal Presidente del Consiglio italiano Renzi, che si è dichiarato soddisfatto dei risultati raggiunti dal Vertice.

In conclusione è stato un vertice che, a fronte di una grande volontà politica desiderosa di affrontare le sfide del tempo presente in maniera decisiva, non ha saputo mettere completamente a tacere le voci riguardanti ”l’assenza di leadership” contestata alla UE che si è potuta peraltro notare nelle diverse opinioni espresse sui rapporti con la Russia.
Summit che però non ha deluso le aspettative e che, in attesa delle prossime elezioni americane, ha saputo sia valorizzare il ruolo futuro della ”piattaforma NATO” come luogo privilegiato di dialogo tra le forze occidentali, sia dare una ferma risposta dal punto di vista militare tramite il netto dispiegamento di forze nei territori orientali, nel Mar Nero, oltre alla prospettiva già accennata sulla previsione di una nuova missione navale nel Mediterraneo.
Interessante, oltre le reazioni degli altri attori principali della scena mondiale, sarà vedere come proseguiranno i rapporti tra i firmatari delle varie dichiarazioni politiche nei prossimi mesi e se, a queste, sarà dato seguito concreto o meno.

Valerio Gentili

IL TTIP E’ SOLO UNA METAFORA

Il Ttip è il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ovvero un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Il trattato è in fase di negoziazione fra la Casa Bianca e Bruxelles, che stanno lavorando dal 2013 per raggiungere l’intesa finale. Il Ttip, la cui sigla sta precisamente per Transatlantic Trade and Investment Partnership, prevede la piena integrazione dei due mercati: la volontà è quella di favorire la crescita economica e maggiori flussi di investimenti per i paesi partecipanti.

Dall’altra parte ci sono gli scettici, che invitano a considerare il Ttip da un altro punto di vista. E proprio secondo loro il mercato che si verrebbe a creare non beneficerebbe affatto degli effetti dell’accordo; anzi accrescerebbe soltanto il potere delle multinazionali e avrebbe impatti negativi sul controllo dei mercati da parte dei governi, tanto che sono già partite le campagne di attivisti che vogliono fermare il Ttip e riconoscersi in slogan del tipo: “Le persone prima dei profitti”. E proprio gli scettici in questi giorni hanno motivo quantomeno di sorridere: la Brexit infatti ha messo in serio pericolo la realizzazione dell’accordo. Cerchiamo di capire il perché.

Gli inglesi erano certamente tra i maggiori sostenitori del Ttip. Ma dopo l’uscita di scena di Londra dall’Unione Europea, saranno Parigi e Berlino a condurre le trattative con Washington ed è qui che la situazione diviene quanto mai complessa. I francesi infatti non stravedono per questo accordo, ed è lo stesso premier Valls ad ammettere che il Ttip non fa gli interessi dell’Europa e a dichiarare che la Francia vigilerà perché non si realizzi un accordo di questo tipo. Chi invece ha sempre sostenuto il Ttip è l’Italia, che spinge per la realizzazione dell’accordo: il nostro Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda richiede a gran voce il Ttip per i suoi benefici e per le grandi opportunità che secondo lui garantirebbe. In questi giorni però, anche lui ha ammesso che il Ttip di questo passo non ci sarà a causa dei tempi dei negoziati troppo lunghi.

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Il problema pare infatti essere quello della finestra d’opportunità: il mandato di Obama scadrà a breve e, se anche il prossimo presidente degli Stati Uniti vorrà un accordo di questo tipo (diciamo che, per usare un eufemismo, sembra non essere una priorità dei due prossimi candidati alla Casa Bianca), bisognerà comunque ricominciare da capo con le trattative. Calcolando poi anche che dal 2017 inizierà in Europa una nuova tornata di elezioni che coinvolgerà a partire dall’anno successivo Italia e Germania, sembra che per il Ttip se ne dovrà riparlare pessimisticamente nel 2020. Fra pochi giorni ci sarà il quattordicesimo incontro tra le parti, diverse nella volontà americana di mettere alle strette l’Europa fino all’ultimo da una parte, ie nel lento e progressivo smussamento europeo per piccoli passi dall’altra.

Siamo alle solite: chi teme il populismo e chi teme l’isolazionismo, chi spinge per l’unificazione e chi per un distacco “nazionalista”. Metaforicamente parlando, visto che gli scettici fanno leva proprio su questo punto, siamo al confronto tra la massa e l’individuo. Chi non vuole il Ttip vuole liberarsi dalle multinazionali, dal potere lobbistico e dalla pressione che esercitano sulla politica. La schiavitù e l’appiattimento delle coscienze che si contrappongono alla volontà di migliorarsi da soli, nel sogno di “costruire se stessi”: ma il Ttip sembra essere un treno senza possibilità di sosta intermedia. Prevede solo due possibili arrivi: un paradiso infernale o un inferno paradisiaco.

La verità infatti è che qui come non mai, le due cose vanno di pari passo. Si potrebbe dire che il miglioramento economico, nell’ipotetico caso in cui ci fosse, sia direttamente proporzionale all’accrescimento del potere delle multinazionali. Invece in un’ottica diametralmente opposta, ovvero di fallimento dell’accordo, le multinazionali perderebbero almeno una parte del loro potere. È solo un’ipotesi, come lo sono gli studi che dimostrano gli effetti positivi e quelli negativi del Ttip e che pretendono di dimostrare l’indimostrabile.

Quello che si può dire senza problemi è solo questo: non c’è trattativa peggiore di quella che comincia solo per essere conclusa.

Simone Stellato

LA CORSA PER L’ARTICO

La ‘’Polar Rush’’ si sta svolgendo sotto traccia. Gli interessi in gioco, specialmente sul lungo periodo, sono altissimi. I paesi che si stanno muovendo maggiormente in questa direzione sono Russia e Cina, che intendono assicurarsi una posizione di vantaggio sia per lo sfruttamento delle risorse energetiche presenti nell’Artico che per il controllo delle nuove rotte mercantili, che si stanno aprendo a causa dello scioglimento dei ghiacci. La Russia, in quanto membro del Consiglio Artico, è attratta in misura sempre crescente dalle risorse naturali della regione e dalla possibile estensione dello spazio geopolitico a suo favore nel nostro pianeta. Non è un caso che stia incrementando e rafforzando le basi di soccorso, in particolare nella vasta penisola siberiana dello Yamal, per le navi container che dovrebbero andare a rifornire partner commerciali come il Giappone, risparmiando in tal modo almeno il 40% del tempo rispetto alle ormai consolidate rotte a sud. La Cina del resto, pur non facendo parte del Consiglio Artico, ma partecipando ad esso come osservatore esterno, ha preso la decisione di costruire un’ambasciata a Reykjavìk, capitale della repubblica islandese, in grado di ospitare fino a 500 persone, a dimostrazione del fatto che gli obiettivi politici cinesi sono sempre più grandi in quest’area.

Si può già prevedere nel futuro prossimo una completa militarizzazione della regione artica? Certamente chi sta investendo oggi in questa zona, avrà innumerevoli vantaggi geostrategici ed economici nei prossimi 10-15 anni. Si tratta di una politica che non darà frutti nell’immediato, ma soltanto nel medio-lungo periodo. Quindi non appare strano che la Groenlandia cominci ad avanzare sempre più frequentemente richieste indipendentiste nei confronti della Danimarca, comprendendo che il progressivo scioglimento dei ghiacciai faciliterà le attività di estrazione mineraria. Rimangono invece ancora in disparte e poco interessati nei riguardi dell’Artico gli Stati Uniti, nonostante facciano parte del Consiglio Artico come membro fondatore dal 1991. Probabilmente ancora per poco, se si considerano le mire egemoniche sulla regione da parte della Russia di Putin.

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L’Europa, dal canto suo, non può permettersi di restare indietro in un’area dal così grande potenziale economico e strategico. Una nazione che ha dimostrato negli ultimi anni un vivo interesse per gli sviluppi politici della regione artica, è l’Italia: il nostro paese è stato infatti nominato nel 2013 come osservatore permanente nel Consiglio Artico. Si tratta per l’Italia di un importante riconoscimento, alla luce del grande impegno italiano nella regione sia in ambito scientifico – è da tener presente la costruzione di piattaforme osservative come la Climate Change Tower a Ny Alesund nelle isole norvegesi Svalbard – sia nel campo economico grazie agli investimenti dell’Eni in programmi di estrazione in Russia e Norvegia. Da pochi mesi l’Eni ha dato il via alle attività della piattaforma galleggiante “Goliat” al largo della Norvegia, in grado di arrivare ad estrarre fino a 100 mila barili al giorno, confermandosi in quell’area come uno dei leader nel settore energetico. Colossi come Eni e Fincantieri si spendono anche per il miglioramento delle condizioni di sicurezza dei trasporti marittimi (Oilspill) e per la riduzione dell’impatto ambientale in un ecosistema particolarmente fragile a causa del riscaldamento globale. Questo insieme di cose altro non è che la base su cui costruire una importante e fruttuosa collaborazione con i paesi dell’Artico. Infatti non è un caso che alla fine del 2015 sia stato pubblicato per conto del Ministero degli Affari esteri un importante documento dal titolo “Verso una strategia italiana per l’Artico: linee guida nazionali”, e contemporaneamente il deputato e Vice Presidente dell’assemblea parlamentare Nato Paolo Alli abbia presentato alla commissione Affari Esteri della Camera una proposta di indagine conoscitiva sull’Artico. Condurre e creare gruppi di collaborazione e di amicizia con i parlamenti islandesi e norvegesi, risulta una strategia vincente se si ha la volontà concreta di perseguire una politica comune nell’Artico.

Gian Marco Sperelli

NATO, VERSO IL VERTICE DI VARSAVIA: QUALI LE SFIDE?

L’8 e 9 luglio si terrà a Varsavia il prossimo vertice NATO. Atteso da molti, vari saranno gli argomenti in agenda: la situazione dell’Europa dell’est ed il rapporto con la Russia, le minacce provenienti dal terrorismo, la riforma delle partnership politiche dell’alleanza ed il suo allargamento ed il dibattito sulle future strategie in tema di nucleare, cyber-security difesa antimissile. Altro tema di grande rilevanza potrebbe essere quello attinente alle crisi nel Mediterraneo.

Dopo le rassicurazioni agli alleati orientali avvenute (anche) grazie al più grande dispiegamento di forze verificatosi negli ultimi anni per mezzo delle esercitazioni “Anakonda 16” e “Baltops 16” di inizio mese, l’incontro si pone l’obiettivo principale, secondo fonti privilegiate, di passare dalla fase di deterrenza alla fase di dialogo con l’ex partner russo, proseguendo sul solco della strategia decisa al Summit del 2014 in Galles. Stoltenberg ha già fatto sapere che proporrà un nuovo Consiglio NATO-Russia subito dopo Varsavia.

Innegabile è infatti il clima di diffidenza e tensione, alimentato da motivazioni storiche, tra i paesi della c.d. “Nuova Europa” e la Russia. Clima che ormai da qualche anno ha reso lo scenario di conflitto armato non più inimmaginabile.

Su questa linea la richiesta di pochi giorni fa alla NATO del comandante dell’esercito estone, Generale Riho Terras, di inviare al Cremlino un segnale “che lo costringa a credere all’articolo 5, al fine di eliminare con fermezza la possibilità di un’azione militare contro i Paesi Baltici”.
Dal lato opposto però non sono mancate voci che hanno mosso critiche alla recente strategia della NATO, vedendo in essa una provocazione gratuita verso la Russia. Queste, provenienti per lo più dai paesi del centro-sud dell’Europa, hanno constatato che -per quanto colpevole- la Russia sia più un partner che un nemico e che in questa “Terza guerra mondiale a pezzi”. Ben altre minacce meritano la prioritaria attenzione, come quella proveniente dal terrorismo di matrice religiosa che continua a mietere vittime nel mondo.
Sul fronte Is infatti, nonostante le rassicuranti notizie giunte dall’Iraq dovute dalla conquista di Falluja, la situazione nel Nord Africa, probabile prossimo scenario di conflitto, resta ancora molta complessa, considerando che:

  • gli Stati Uniti, sempre più proiettati sulle sfide dell’oceano pacifico, da tempo sembrano procedere ad un progressivo disimpegno nel mediterraneo e, di certo, non prenderanno decisioni rilevanti di politica estera sino alla conclusione delle prossime elezioni presidenziali;
  • l’Europa, in piena crisi politica post Brexit, risulta ancora troppo divisa sulle singole priorità da perseguire e nei modi per farlo per pervenire ad un piano unitario realmente incisivo per affrontare la crisi dei migranti che attenta alla sua stabilità e credibilità;
  • la Turchia, nonostante sia talvolta apparsa come uno Stato concentrato esclusivamente sui propri interessi, sia di politica interna che di politica regionale – declinabili in una svolta “neo-ottomana” -, resta un alleato fondamentale. Da segnalare le recenti ed apparentemente contraddittorie dichiarazioni del ministro degli Affari esteri turco, con le quali Cavusoglu, prima ha immaginato un’apertura alla Russia – i rapporti tra i due Stati si sono molto distesi dopo la lettera di scuse di Erdogan a Putin che ha chiuso il contrasto apertosi con l’abbattimento del caccia russo nel novembre 2015 – per utilizzo della base di Incirlik, disponibile per “chiunque voglia cooperare” alla battaglia contro l’Is, salvo poi smentire.

nato

Tema rilevante sarà quindi quello della Cooperazione. Su questo fronte, indipendentemente da una reale prospettiva di ingresso, la NATO da sempre concorre attivamente ad avere rapporti positivi e prolifici con i propri partner strategici. Tra questi ad esempio l’Ucraina che, reduce dal 92 seminario Rose-Roth, ha iniziato un progressivo avvicinamento alla sfera di influenza atlantica.

Sul versante balcanico invece il Montenegro nel maggio 2016 ha firmato il protocollo di accesso all’alleanza atlantica -penultimo passo del processo di adesione – divenendo così, salvo sorprese, il 29 paese a farne parte, contribuendo ad un consolidamento dell’area, seguendo la via intrapresa da Albania e Croazia che nel 2009 firmaro il Patto Atlantico.

Queste decisioni ci segnalano che il processo di allargamento della NATO non è terminato e che dunque, in futuro, altri paesi potrebbero fare il loro ingresso nell’alleanza. La constatazione che due soggetti primari del diritto internazionali non dialoghino se non a parità di forza e la conseguente logica della deterrenza, hanno portato ad un incremento delle questioni politiche riguardanti gli armamenti. Nonostante la tragica ed inesorabile cultura pacifista che da decenni accompagna l’occidente – cosa che ha portato, oltre che il ridimensionamento della spesa militare degli stati membri al di sotto del 2% del PIL, la sottovalutazione della possibilità di un conflitto militare – sempre più nel mondo si respira un clima da rinnovata guerra fredda.

Problematico sin dalle precedenti elezioni russe, incentrate sul riarmo militare, il sistema di difesa dai missili balistici intercontinentali (Icbm) da sempre destra preoccupazioni a Putin che, nonostante le rassicurazioni ricevute, resta convinto che tali sistemi siano una minaccia per la Russia e che abbiano effetti di squilibrio sulla deterrenza nucleare.

Gli Stati Uniti, proseguendo nella loro strategia dichiarata di difesa dalle minacce provenienti da oriente, hanno recentemente inaugurato il sito dell’Aegis Ashore in Romania, preparandosi ad aggiungerne entro il 2018 uno analogo in Polonia. Questi, assieme ai sistemi navali ed alle basi presenti in Turchia, completeranno la linea di difesa dagli Icbm provenienti dall’est dell’area euro-atlantica.

Temi collegati saranno quelli legati alla lotta al cyberterrorismo, minaccia sempre più rilevante in un mondo tecnologizzato come il nostro, e quelli legati all’evoluzione delle armi nucleari trasportabili da droni – meno potenti, ma meno eludibili – , siano esse aeree o subacquee e sviluppate -a quanto sembri- da Cina, Russia e Stati Uniti.

Comprensibile quindi il perché si guardi con molto interesse al prossimo vertice di Varsavia, nonostante verosimilmente si tratterà di un incontro diretto al consolidamento delle politiche già intraprese e, tutt’al più, di programmazione sul breve-medio termine, proseguendo sul solco già tracciato in precedenza.

Interessante piuttosto sarà vedere a quali sfide si darà maggior risalto e se l’alleanza atlantica riuscirà a porsi verso queste con un’unica prospettiva, affrontandole così in maniera coesa, unitaria e decisa.

Valerio Gentili

NEL REGIME DI AL SISI NON C’E’ SPAZIO PER I DIRITTI UMANI

È di pochi giorni fa la notizia della condanna a 40 anni di carcere dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi. Per la precisione di 25 anni (coincidenti, in Egitto, con l’ergastolo) per essere il capo di un’associazione terroristica (il partito dei Fratelli Musulmani, messo fuori legge nel 2013 con la rivoluzione militare) ed altri 15 per aver rubato documenti segreti per la sicurezza di Stato.

La notizia non ha fatto breccia, come tante altre, sull’opinione pubblica occidentale. Si tratta infatti dell’ennesima prova, se ancora di prove ci fosse bisogno, del vuoto che ha lasciato la primavera araba in Egitto, dove la democrazia non ha mai trovato terreno dai tempi della decolonizzazione. A dire il vero Morsi era stato il primo presidente eletto con libere elezioni, rovesciato da un colpo di stato militare che ha portato il generale Al Sisi al potere nel luglio di tre anni fa. La condanna all’ergastolo è solo l’ultima di una serie: sul capo di Morsi pendeva già, tra le altre, una condanna a morte, poi rovesciata in appello.

La continua violazione dei diritti umani da parte dell’Egitto ha drammaticamente occupato le prime pagine dei giornali in questi ultimi mesi. Il caso del povero Giulio Regeni, ricercatore italiano trovato ucciso il 3 febbraio dopo aver subito torture di ogni genere nella periferia del Cairo, ha posto davanti agli occhi dell’opinione pubblica la vera faccia del regime di Al Sisi. Migliaia di sparizioni forzate e di condanne a morte ogni anno, la connivenza nei confronti dei trafficanti di migranti, i reiterati crimini commessi dalle forze di polizia sulla popolazione civile e la continua censura dei media sono solo alcuni tasselli di un puzzle che non può più essere ignorato. Qualora venisse accertata la responsabilità dell’Egitto per l’assassinio di Giulio Regeni risulterebbero evidenti le gravi violazioni di norme internazionali e dei diritti umani. Tra queste la più odiosa ed ignobile di tutte: il crimine di tortura. Dal 2001 il Comitato Internazionale contro la Tortura, nato dalla Convenzione ONU del 1984, non riceve più rapporti dall’Egitto, così come il Comitato sui diritti umani. Le continue richieste da parte di organi internazionali di inviare osservatori nel paese sono tutt’oggi senza risposta. E lontano ancora dall’essere risolto rimane il caso Regeni. Ad oggi l’unica consolazione, dal valore simbolico, è la risoluzione di marzo del Parlamento Europeo, che il 15 giugno ha voluto ascoltare in aula i due genitori della vittima.

Президент_Республики_Египет_Абдельфаттах_Сиси

Il rapporto dell’ufficio di presidenza dell’Assemblea parlamentare della NATO sulla visita al Cairo di inizio aprile dipinge un paese dalle mille contraddizioni, legato da più fila al mondo occidentale e al tempo stesso pedina strategica per gli equilibri in medio oriente. Oggi l’Egitto partecipa indirettamente alla coalizione anti-ISIS in Siria ed in Iraq, fornendo supporto militare e logistico. Trova nell’Arabia Saudita e negli Emirati Arabi uniti i suoi alleati di primo piano, che con la conclusione recente di un enorme piano di cooperazione economica gli forniscono aiuti per oltre 50 miliardi di dollari. Il più grave pericolo a cui gli egiziani devono far fronte è quello del terrorismo di matrice islamica. Diverse sono infatti le minacce provenienti dal Califfato Nero che toccano in prima persona lo stato egiziano. In particolare la soluzione della crisi libica è di assoluta priorità: Al Sisi si è reso disponibile ad appoggiare un governo di unità nazionale insieme all’Italia, riconoscendo fin da subito Tobruk come unico esecutivo legittimo del paese.

L’Italia d’altra parte si presenta come il primo partner egiziano del Vecchio Continente, leader in particolare nel settore energetico grazie ad una presenza radicata da anni di EDISON ed ENI. La scoperta, da parte di quest’ultima, di un immenso giacimento di gas sulle coste egiziane apre a nuovi scenari, con l’Egitto che potrebbe ridurre notevolmente la dipendenza estera nel settore energetico.

Il caso di Giulio Regeni ha però notevolmente incrinato i rapporti diplomatici tra i due paesi, mettendo a rischio la cooperazione economica. In un’intervista a Mario Calabresi per “La Stampa” Al Sisi si è detto sincero amico degli italiani ed ha promesso l’impegno del team investigativo egiziano per assicurare alla giustizia i colpevoli. Ma la notizia della condanna a vita dell’ex presidente e il quadro del rispetto dei diritti umani che emerge dall’Egitto, così come la netta dipendenza degli organi giudiziari dall’esecutivo e i continui depistaggi per nascondere la verità e intralciare il lavoro della procura di Roma dimostrano che il caso del ricercatore friulano non è isolato e non lasciano sperare in una collaborazione utile.

Francesco Bechis

92° SEMINARIO ROSE-ROTH TRA L’ASSEMBLEA PARLAMENTARE NATO ED IL CONSIGLIO UCRAINO

Tra gli strumenti di cui la NATO dispone per raggiungere i propri obiettivi merita speciale menzione il programma di cooperazione Rose-Roth. Fondato nel 1990 dall’allora Presidente della Assemblea parlamentare NATO Charlie Rose e dal Senatore Bill Roth, in origine aveva l’obiettivo di assistere i paesi partner dell’area sovietica nei processi di transizione democratica e nelle riforme economico/politiche necessarie dopo la caduta del Muro di Berlino ed il diradarsi della cortina di ferro.

Successivamente mirato principalmente all’area dei Balcani e sud-caucasica, oggi il programma include molti paesi dell’area non-Nato con il fine di condividere informazioni, buone pratiche e soprattutto per promuovere il principio del ”controllo democratico delle forze armate” provvedendo così allo sviluppo di politiche militari sostenibili. In questi paesi, a tal fine, ogni 2 o 3 anni vengono organizzati dei seminari aventi come tema le maggiori problematiche di sicurezza locale e le varie istanze regionali, in collaborazione con i parlamenti nazionali e con degli esperti indipendenti.

Fin dalla sua nascita il programma è stato fortemente finanziato dalla US AID, dal Geneva Centre for the Democratic Control of the Armed Forces (DCAF), dalla NATO, e da vari Stati.

Il 15 giugno scorso a Kiev si è tenuto il 92° seminario Rose-Roth tra l’Assemblea Parlamentare della NATO ed il Consiglio ucraino, svoltosi sotto le crescenti spinte Atlantiche di integrità territoriale dell’Ucraina e diretto verso un nuovo ed auspicato assetto geopolitico ad est dell’Europa: gli strascichi della Guerra del Donbass infatti sono ancora troppo evidenti. Le forze politiche locali infatti, tuttora profondamente separate, non sono riuscite a superare la strutturale dipendenza dalle industrie russe a causa dell’incapacità di fare le riforme necessarie a stabilizzare il paese: l’aumento del prezzo di mercato del Gas fino a picchi dell’80%, a fronte di un aumento salariale del 5%, ne è stato solo l’ultimo esempio.

NATO_Parliamentary_Assembly_logoUlteriore motivo di tensione regionale è la politica estera aggressiva attuata da Putin che, incurante degli avvertimenti del segretario generale della NATO Stoltenberg, continua a sostenere i ribelli in vari modi e a rafforzare la presenza militare in Crimea, annessa illegittimamente alla Federazione russa nel 2014, ove ha sede la flotta navale sul Mar Nero di Mosca.

In questo contesto le parti, decise ad aumentare la cooperazione nell’attuazione dei programmi di riforma – la cui relativa sessione è stata presieduta dal Vice-Presidente dell’Assemblea atlantica Paolo Alli – hanno firmato un nuovo importante accordo avente ad oggetto le forniture militari e la loro manutenzione ”con lo scopo di diversificare le fonti per il supporto logistico delle forze armate ucraine” e quindi ”annullarne la dipendenza dall’industria militare russa” come dichiarato nel comunicato ufficiale diffuso della rappresentanza di Kiev nella NATO a seguito dell’incontro.

Nonostante voci americane ed europee contrarie ad una prossima espansione delle forze atlantiche, preoccupate per una eventuale escalation regionale a causa dell’impossibilità di pervenire ad un accordo unanime con la Russia, il sostegno all’Ucraina da parte dell’alleanza guidata da Stoltenberg non sembra essere in discussione ma, anzi, sembra progressivamente aumentare. In questo senso corre anche l’ipotesi, sempre più concreta, di una partecipazione delle forze armate ucraine nella flotta atlantica nel Mar Nero, centro geo-strategico che sta acquisendo con il passare del tempo sempre più importanza nello scacchiere internazionale.

Su questo e su molti altri temi grande importanza avrà il prossimo Summit NATO a Varsavia, previsto per l’8 ed il 9 luglio prossimi, che avrà proprio ad oggetto la presenza militare nel centro-est dell’Europa e le risposte atlantiche alle spinte egemoni ormai quasi ”neo-zaristiche” della federazione russa.

Summit che, svolgendosi in questo clima di nuova ”Guerra Fredda”, avrà certamente la necessità di mantenere soddisfatte le istanze di sicurezza provenienti dai paesi della ”Nuova Europa”, più esposti rispetto ad altri alle minacce del Cremlino, ma che verosimilmente non potrà produrre rilevanti novità soprattutto a causa dalla pendenza delle elezioni americane, oltre che per gli interessi particolari dei paesi europei appartenenti all’Alleanza, ancora fin troppo contrastanti.

Valerio Gentili