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Democrazia e Libertà

L’AMICO RITROVATO? PROVE D’INTESA TRA USA E ARABIA SAUDITA DOPO IL GRANDE GELO

La scorsa settimana è stata un misto di emozioni positive e negative che hanno tenuto molto impegnata la stampa italiana. È stato un viavai di notizie che meritavano attenzione, ma che hanno fatto passare inosservato un evento che – per le dinamiche della politica internazionale – può significare molto.

È stata, infatti, la settimana del viaggio negli Stati Uniti del Principe Mohammed bin Salman al-Saud, ossia l’uomo che, de facto nel presente e de jure in un futuro prossimo, guida uno degli stati più importanti nel panorama politico mondiale, l’Arabia Saudita. Visita che cade in un momento delicato: se è vero che USA e AS sono storici alleati, è pur vero che il rapporto si è incrinato negli ultimi anni, rischiando di compromettere il già precario equilibrio mediorientale.

Casus belli, metaforicamente parlando, è la strategia americana che punta a disimpegnarsi dal ginepraio mediorientale, avendo Obama ridefinito il pivot della politica estera statunitense nel Pacifico, ponte di collegamento con il vero mondo che – con la sua vertiginosa ascesa – minaccia la leadership degli USA, ossia la Cina; disimpegno reso possibile soprattutto dagli sviluppi tecnologici in tema di shale gas, che hanno permesso agli USA di non dover più dipendere dal petrolio mediorientale. Il che significa inevitabilmente un abbandono dell’annoso (e mediaticamente fortemente dispendioso) coinvolgimento in Medio Oriente, lasciando scoperte le potenze alleate (in primis proprio l’Arabia Saudita) che vedono così le rivali avvantaggiate, in particolare l’Iran (peraltro spalleggiato dalla Russia).

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il raggiungimento dell’accordo nucleare tra USA e – quasi fosse una beffa – proprio l’Iran, che è così uscito dall’isolamento internazionale in cui era relegato: questo fatto ne ha sancito il ritorno sulla scena politica, ed ha inferto un ulteriore duro colpo all’Arabia Saudita. Quest’ultima si è ritrovata improvvisamente a dover contare esclusivamente sulle proprie forze, come dimostra l’intervento militare in Yemen. A questo, si aggiungono diversi scenari minori – le cosiddette proxy wars – in cui si propaga la rivalità saudita-iraniana: basti pensare alla Siria, dove l’Iran (con la Russia) sostiene Assad, mentre l’Arabia Saudita finanzia i ribelli al regime.

Insomma, l’Arabia Saudita si è quasi sentita tradita dagli USA, a maggior ragione per il grave danno economico subito in seguito all’accordo nucleare: l’Iran, riabilitato a commerciare petrolio, ha subito iniziato una guerra economica che ha inferto gravissimi danni all’economia saudita.

Ebbene, il rischio di un relegamento politico-economico per l’Arabia ha imposto alla famiglia reale un cambio di passo, soprattutto nella riorganizzazione dell’economia del paese: proprio Mohammed si è imposto come promotore di un progetto, Vision 2030, che mira a rendere indipendente la Monarchia dal mercato petrolifero, obiettivo raggiungibile mediante una diversificazione dell’economia e un massiccio investimento finanziario in quote di società ad alto sviluppo.

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È proprio questa la motivazione ufficiale della visita negli USA: il Principe, infatti, ha visitato la Silicon Valley, patria indiscussa delle società ad alto rendimento, nonché Wall Street, centro della finanza mondiale.

Tuttavia, la mera motivazione economica appare insufficiente, tanto più se si evidenzia che il Principe ha incontrato, nella mattinata di venerdì, il Presidente Obama alla Casa Bianca. Un incontro passato sotto silenzio, e di cui la stessa comunicazione governativa offre (senza particolare pubblicità) uno stringato e asettico comunicato che parla di “opportunità per discutere questioni di reciproca preoccupazione”. Ovviamente “closed press”.

Varie le tematiche sul piatto: da ISIS, alla Siria, passando per l’Iran e Vision 2030. Piccoli pezzi di un puzzle più grande, la cui sana (o meno) composizione influenzerà non solo gli interessi degli attori coinvolti in prima persona nella regione mediorientale, ma anche di coloro che ne vivono ai margini, Unione Europea in primis. Di certo, gli sviluppi dei prossimi mesi – se letti alla luce di questo importante viaggio – renderanno chiaro cosa ci aspetta.

Giovanni Gazzoli

LA BREXIT SI TINGE DI SANGUE: L’OMICIDIO DI JO COX E’ UNA TRAGEDIA EUROPEA

Il tragico destino di Jo Cox si è consumato il 16 Giugno 2016 ad una settimana esatta dal referendum, che segnerà il futuro della Gran Bretagna nell’Unione Europea. La deputata laburista, fervente sostenitrice del No al referendum, è stata prima accoltellata e poi freddata con un colpo d’arma da fuoco da un ultranazionalista del movimento pro-Brexit “Britain first”. Inutile dire che il movimento abbia cercato di correre subito ai ripari: ”I media stanno cercando disperatamente di coinvolgerci in questo fatto. Britain first chiaramente non è coinvolto e mai incoraggerebbe un comportamento di questo tipo”. Il dibattito politico sulle conseguenze di un’ipotetica uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si è infiammato ulteriormente, con l’innescarsi -soprattutto sul web- da parte del fronte pro-Brexit, di teorie complottiste e cospirazioniste, dopo la morte della Cox.

Si tratta di un duro colpo per i promotori della Brexit, a partire dall’ex sindaco conservatore di Londra, nonché principale avversario del premier Cameron, Boris Johnson, per arrivare a Nigel Farage, leader controverso del partito Ukip e vero trascinatore del comitato pro-Brexit. La morte della Cox elimina uno dei volti nuovi del Labour Party dall’agone politico. Ex dirigente dell’associazione umanitaria Oxfam, la Cox si è battuta per un modello di integrazione sostenibile e fruttuoso degli immigrati in Gran Bretagna dopo lo scoppio della guerra civile siriana e delle “Primavere arabe” in nord Africa. Pochi mesi fa l’elezione di Sadiq Khan, esponente del partito laburista, a sindaco di Londra ha assunto un valore simbolico importante: per la prima volta un candidato di religione islamica viene eletto come primo cittadino della capitale inglese. Come Jo Cox , Sadiq Khan ha fatto dell’ integrazione e della lotta per i diritti umani il vessillo della propria battaglia politica. Questi due eventi mostrano chiaramente le due anime culturali e identitarie del Regno Unito, e se da un lato abbiamo il multiculturalismo britannico eredità -gradita o meno- dell’impero di Sua Maestà, dall’altro continua a reclamare spazio l’indipendentismo o particolarismo britannico all’interno del vacillante “concerto europeo”.

24600489394_35b53e4822_bA prescindere il risultato del referendum, due riflessioni risultano lampanti: la Gran Bretagna con il suo atteggiamento sta di fatto alimentando le spinte centrifughe e secessioniste dei popoli europei, e non è un caso che proprio la leader del Front National Marine Le Pen guardi con tanta attesa e trepidazione all’esito di Brexit; il secondo punto su cui interrogarsi è la profonda contraddizione che sostiene tutto il movimento pro-Brexit: infatti lo Ukip ha ottenuto grandi consensi grazie alla sua capacità di alimentare paure collettive legate all’immigrazione e alla crisi economica dell’eurozona, ma è qui che viene a crollare il castello di carte costruito dagli euroscettici. La Gran Bretagna si è autoesclusa sia dalla moneta unica sia dalla zona Schengen, quindi è stata interessata in minor misura dalla crisi del sistema comunitario. C’è da ricordare inoltre che lo stesso David Cameron a Febbraio ha strappato un accordo importante con L’Ue, per favorire la permanenza del Regno Unito in Europa: si è visto infatti riconfermato il diritto di sottrarsi ad una ever closer union. Molti in questi giorni stanno riscoprendo le ormai celebri parole di Winston Churchill, datate 1946,: “Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa”. Si dimentica ,tuttavia, che quelle parole furono dettate più per pragmatismo politico che per uno spiccato europeismo. Settant’ anni dopo il particolarismo britannico riemerge più forte di prima, e forse, l’uscita di Londra dall’Ue, ci consegnerà un’ Europa sicuramente più sola. Tuttavia, la stessa Gran Bretagna non smetterebbe di essere influenzata dalla legislazione europea che tanto rifiuta. Gli stessi rapporti con gli Stati Uniti ne risentirebbero. C’è da vedere come andranno a finire le presidenziali in America tra Trump e Clinton, ma lo scossone si sta già avvertendo.

Gianmarco Sperelli

STRAGE ORLANGO: QUANDO IL TERRORISMO SI MISCHIA ALLA DISCRIMINAZIONE E ALL’INDIFFERENZA

Orlando, Florida. È la notte tra l’11 e il 12 giugno. Sono circa le 02:02 (ora locale) quando Omar Mateen imbracciando un fucile semiautomatico entra nel locale frequentato da gay “Pulse” e comincia a sparare. Venti minuti dopo l’uomo, mentre continua ad uccidere, chiama il 911 e giura fedeltà allo Stato Islamico. Alcuni agenti alle 05:00 inoltrate fanno irruzione nel locale e di lì a poco riescono ad uccidere il killer. Alla fine della nottata si contano 50 morti (compreso l’attentatore) e 53 feriti.

Una strage è sempre colma di interrogativi e questa, se possibile, lo è ancora di più. Nella questione stavolta s’intrecciano fili che sembrano paradossalmente scorrere su due binari paralleli. La pista terrorismo da un lato e quella omofoba dall’altro, da una parte l’odio per l’America e per il suo famigerato tentativo di esportazione della democrazia e dall’altra l’odio per la diversità. Il padre di Mateen ha dichiarato come suo figlio fosse omofobo, ma non un terrorista e ha dichiarato come suo figlio sia stato lui sì “usato e ucciso dai terroristi” (proprio il padre sembra essere un sostenitore dei talebani in Afghanistan). Sulla moglie dell’uomo invece proprio in queste ore stanno avanzando ombre inquietanti, in quanto è possibile che fosse a conoscenza delle intenzioni del marito. In soggetti così particolari è sempre complicato comprendere quanto la religione, l’integrazione nella società, la famiglia o altre componenti abbiano influito su una decisione così tragica, ma quello che è certo è che l’uomo era già stato segnalato all’Fbi dopo gli attentati di Boston del 2013. Mateen sognava il martirio ed è emerso in questi giorni successivi alla strage come guardasse video di propaganda dell’Isis e sognasse un Afghanistan libero dai bombardamenti americani. Proprio alcune testimonianze all’interno del locale hanno riferito che la volontà di Mateen era che gli Stati Uniti smettessero di bombardare il suo paese d’origine.

Inoltre l’opinione pubblica e la politica si scontrano su uno dei temi scottanti proprio durante questa campagna elettorale per le elezioni che contrappone Hillary Clinton e Donald Trump: la reperibilità delle armi. A quante stragi e a quante follie dovremo ancora assistere perché ci si convinca che una tale diffusione delle armi porti solo a queste tragedie? È stata proprio quella facilità a procurarsi un’arma che ha portato alcune persone a rinchiudersi nei bagni del locale nell’ultimo, umano, tentativo di salvare la propria vita, o forse dignità. Quella notte di festa, che ricorda quella del Bataclan di Parigi del 13 novembre scorso, si è trasformata in una notte di sangue. L’America ogni giorno si risveglia più vulnerabile.

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E le domande di fronte a una tale tragedia insensata sono infinite. Quanto è difficile muoversi in mezzo a tutti questi moventi? Quante domande frullano nella testa di chi assiste per la prima volta all’annuncio di una notizia del genere? Quanto conta il senso di appartenenza in chi compie un atto così… definitivo? Ma soprattutto: perché? Le conclusioni sono amare: non ci sono risposte soddisfacenti, non ci sono e non ci saranno mai studi scientifici che dimostreranno quanto conti una certa cosa rispetto a un’altra. Quello che possiamo fare è cercare di partire da noi, dalla nostra società e tentare di non guardare sempre a “loro” agli “altri”: perché questa ennesima strage non prova nient’altro che alla fine chi ci rimette è sempre l’uomo.

Ma la cosa sconcertante che questa strage ci fa notare, ancor più di altre, è che per ogni attentato che passa è come se noi… ci annoiassimo. Quando le stragi si susseguono una dopo l’altra, la prima viene condivisa in tutto il mondo sia dalla politica che dal popolo, la seconda attecchisce di meno sulle nostre coscienze, la terza ancora meno e così via. E l’abitudine sopravviene sulla paura, le consuetudini sulle lacrime, e la società viziata in cui viviamo continua a nutrirsi delle sue stesse colpe, autoalimentandosi. E quello che si scopre, purtroppo, è che non c’è umanità nella massa che piange i morti. Chissà se stavolta dire “je suis gay” risulta più difficile che dire “je suis Charlie”.

Simone Stellato