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L’eredità di Alcide De Gasperi
vive, dopo 70 anni, in tutti
gli italiani che gli devono
Democrazia e Libertà

I partiti politici nel tempo presente

Voto, Partiti Politici, Opinio Lab

di Pietro Di Grazia, Federico Micari, Marta Romano e Vanessa Wahling

Introduzione

Da quando è nato il concetto di “rappresentanza” nel senso moderno del termine, si è immediatamente affiancato quello di “crisi”, specialmente nell’esercizio di analisi dei sistemi democratici. La crisi della rappresentanza, infatti, può essere considerata come l’altra faccia della medaglia di un sistema democratico, repubblicano, dove la sovranità popolare è esercitata per lo più selezionando, appunto, i propri rappresentanti. Un modello complesso, che necessita sempre di continui studi e aggiornamenti, non identificabile come il migliore in assoluto ma, certamente, il migliore allo stato attuale in termini di compromesso tra efficienza e legittimità.

In Italia, la nascita della Repubblica ha coinciso con l’affermazione strutturale del pluralismo partitico, attorno al quale si è costituito l’asse della nostra democrazia così come l’abbiamo conosciuta. Raggruppamenti di individui, ognuno dei quali ha incarnato idealità, finalità e visioni di sistema differenti, che concorrevano all’elaborazione di un indirizzo politico complessivo del modello-paese. Un cantiere in costruzione secondo le prospettive stabilite dalla Carta costituzionale. I partiti sono stati delle piattaforme intermedie, spesso burocratizzate, che hanno identificato le istanze sociali della cittadinanza per poi sintetizzarle in Parlamento, luogo cruciale per la ricomposizione dell’interesse collettivo. “Parti” di un tutto, di una unità italiana che si ritrovava, al netto delle proprie differenze, plasticamente nelle Camere parlamentari. Non sfugge, quindi, la funzione determinante che essi hanno avuto nei processi di formazione e di filtro delle classi dirigenti. Individui che, grazie alle pesanti strutture interne da cui venivano continuamente esaminati, hanno potuto affrontare le imponenti sfide sistemiche con una cultura ancorata alle proprie tradizioni e alle esigenze della propria base. I partiti politici erano contenitori del popolo e catalizzatori dei conflitti sociali su livelli democratici. Realtà politico-culturali a confronto come rimedio alla disarticolazione sociale.

Gli effetti della crisi partitica

Tante ragioni (tra le quali si possono elencare le crisi economiche che si sono succedute, la fine delle ideologie, i fenomeni di corruzione, la ristrutturazione del capitalismo tradizionale e l’avvento massiccio del capitalismo finanziario, i fenomeni della globalizzazione non sorretti da una politica internazionale condivisa, gli indecisi processi di secolarizzazione) hanno indebolito il sistema partitocratico e aumentato un antico sentimento anti-partitico. Il risultato è stato non una sparizione, ma un cambiamento del partito nel senso novecentesco verso una trasformazione in “cacth-all party”, caratterizzato dai fenomeni della disintermediazione. Non più un rapporto intermedio con una struttura interna articolata, ma un rapporto diretto tra leader e base. Un partito liquido per una società liquida, che cambiava antropologicamente le proprie esigenze.

Alcune delle dirette conseguenze di questa metamorfosi sono state l’imperversare di fenomeni movimentisti (non necessariamente organizzati in modo spontaneo) e la mitizzazione della “società civile”, con annesse piattaforme politiche non sempre adeguatamente pronte alle difficoltà moderne.

 Con l’indebolimento dei partiti come contenitori in cui discutere, condividere e preparare una visione dell’indirizzo nazionale, si è registrato un rafforzamento di gruppi di interesse, economici e non, non più mitigati da partiti forti e radicati con cui interloquire, ma costretti a relazionarsi con soggetti nuovi, più simili a grandi comitati elettorali. A questo scenario si aggiungono le leggi elettorali che hanno favorito il proliferare delle liste bloccate, che hanno imposto una classe dirigente selezionata più dai leader che dalle strutture intermedie, aumentando il rischio di scarsa formazione del personale politico. Al contrario, i gruppi di interesse si caratterizzano per essere ben strutturati e per l’alta formazione dei propri membri, che difendono i propri obiettivi secondo un modello di “antagonismo” diverso da quello politico, che resta più classicamente conflittuale. Il conflitto sociale prevede un interesse di parte che ambisce a coincidere con quello nazionale e che, posto a confronto con altre visioni, viene mediato e sintetizzato verso una formula di governo. L’antagonismo, invece, punta alla difesa di un interesse particolare che, il più delle volte, è distante da quello collettivo.

In questo quadro, la disarticolazione partitica si manifesta come lo specchio di una frammentazione societaria ben più ampia, che incontra nei social un alleato importante. La comunicazione istantanea di internet favorisce il rapporto tra leader e base, ma non tra partito e base. Si indeboliscono ulteriormente le già fragili realtà intermedie, con la conseguenza che una leadership, ancorché forte, può perdere consenso alla prima battuta di arresto. E se il progetto politico si identifica col consenso del proprio leader, senza una struttura alle spalle, la battuta d’arresto può significare la scomparsa di tutta la prospettiva politica. Progetti che nascono e che muoiono a colpi di tweet. Non solo. L’assenza di strutture intermedie, di luoghi in cui discutere di cultura, di tradizioni, di prospettive future, di sogni e di modi con cui cambiare la propria società, indebolisce non solo l’identità del partito, ma soprattutto l’identità dei singoli, che è la prima cellula della più ampia identità collettiva.

Da dove ripartire

Se si riconosce il principio secondo cui non può esistere una democrazia rappresentativa senza dei soggetti pubblici cui delegare le proprie scelte, appare difficile immaginare la Repubblica parlamentare italiana senza partiti. Diventerebbe un esercizio accademico ai limiti dell’improponibilità. Occorre allora domandarsi che tipo di corpi intermedi sarebbe utile costruire, o ri-costruire, per gestire al meglio il rapporto tra masse e potere, tra cittadinanza e istituzioni. Che tipo di partiti, dunque.

Il punto di partenza di un soggetto che desidera contribuire alla determinazione dell’indirizzo pubblico del paese dovrebbe essere quello dell’ideale. La ricostruzione di una identità, di una speranza in base alla quale impegnarsi per il bene comune è la condizione essenziale per fare politica. O la politica ambisce al cambiamento della realtà data, o non ha senso di esistere. Il rapporto, quindi, tra cultura e politica, tra cultura e democrazia è fondamentale e prende in causa anche il ruolo degli intellettuali nel richiamo ai valori condivisi da ogni singola comunità.

L’altro elemento su cui dover intervenire è la riduzione della visione puramente plebiscitaria dei partiti. Ricucire un rapporto con gli iscritti, o con i simpatizzanti di un’area, serve a ristabilire il confronto tra i membri, a creare quindi una consapevolezza politica continua del cittadino, che può formarsi e migliorare solo dallo scambio di opinioni. Presupposto che vale sia nella dinamica interna al partito, che all’esterno con altri soggetti di estrazione diversa.

Naturalmente il recupero di luoghi di dibattito implica anche una maggiore considerazione degli iscritti stessi. A una democrazia interna partecipativa, infatti, occorre affiancare degli strumenti affinché vi siano anche alcuni elementi di democrazia deliberativa. È giusto che gli iscritti siano chiamati a dare il proprio parere su chi organizza la loro comunità interna? È giusto che siano chiamati a riflettere su alcuni argomenti di politica pubblica incidendo, nei limiti del possibile, insieme alle classi dirigenti, sulle tematiche analizzate? Valorizzare l’intelligenza collettiva non può non essere un obiettivo nell’era dell’interconnessione costante.

Una struttura partitica, quindi, meno rigida rispetto a quella conosciuta nel ‘900, ma ugualmente in grado di porsi come argine alla frammentazione sociale attraverso regole precise e percorsi di formazione permanente.

Anche il rapporto con i social deve essere posto al centro della questione. Se da un lato internet consente di arrivare a tutti e, come dimostrano le esperienze di alcuni parlamenti delle democrazie occidentali, può essere messo a servizio delle strutture politiche per avvicinare gli individui, dall’altro non può sostituirsi al presidio territoriale. Internet è e deve essere considerato come una risorsa capace di abbattere le frontiere, ma deve accompagnarsi a un lavoro di crescita di cittadini consapevoli, informati, che ambiscono a impegnarsi fisicamente nel proprio territorio. L’elemento corporeo resta imprescindibile per qualunque soggetto politico.

Conclusione

La piattaforma che in questo breve documento si immagina, dunque, prende spunto dalla migliore esperienza partitica italiana, nel tentativo di recuperare ciò che di positivo è stato seminato e di aggiornarlo alla realtà contemporanea. Un partito politico, dunque, da intendere come luogo della passione civile, organizzata e permanente, che contribuisca in modo determinante alla mediazione del bisogno come momento cruciale per la vita della società civile. Un soggetto prioritario, ma non esclusivo, nel processo di intermediazione tra cittadino e Stato. Imparare dalle proprie tradizioni, evitando di gettare “il bambino con l’acqua sporca”, consente di guardare all’avvenire con maggiore solidità nei punti di riferimento. Il passato, naturalmente, non può e non deve tornare, ma non sarebbe sbagliato immaginare un futuro dal cuore antico, pronto ad abbracciare la modernità.

Bibliografia parziale

  1. Calise M., Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari, 2010.
  2. Calise M., La Terza Repubblica, Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari, 2006.
  3. Campati A., La “democrazia immediata”: prospettive a confronto, in “Gli Annali X” di “Teoria Politica”, Marcial Pons, Madrid, 2020.
  4. Floridia A., Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito democratico, Castelvecchi, Roma, 2019.
  5. Galli G., I partiti italiani 1943/2000, Rizzoli, Milano, 2001.
  6. Ignazi P., Partiti politici in Italia. Da Forza Italia al Partito Democratico, il Mulino, Bologna, 2008.
  7. Ignazi P. Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Laterza, Roma-Bari, 2012.
  8. Mastropaolo A., Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000.
  9. Pasquino G., Strumenti della democrazia, il Mulino, Bologna, 2007.

Urbinati N. Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza, Roma

Festa della Repubblica, festeggiamo consapevoli: cosa significa essere cittadini di una repubblica democratica fondata sul lavoro

Liberata l’Italia dalle forze nazifasciste e finita la guerra civile che ne è conseguita, per il nostro Paese si trattava di rifarsi la pelle ed aprire una nuova era. L’appuntamento con la storia è segnato in data 2 giugno 1946, quando per la prima volta gli italiani e tutte le italiane saranno chiamati e chiamate a votare la forma di stato da dare al Paese e a comporre l’Assemblea Costituente che avrà il compito di redigere la nuova costituzione. Il risultato che oggi festeggiamo ha visto il 54% dei votanti preferire la repubblica alla monarchia, sebbene non siano mancate polemiche da parte dei più convinti sostenitori monarchici che denunciavano brogli elettorali e azioni di depistaggio. Fatto sta che il “re di maggio” Umberto II di Savoia, ultimo re d’Italia, sarà costretto a fuggire a Calais in Portogallo, il democristiano Alcide De Gasperi assumerà il ruolo di Capo provvisorio dello Stato, fino a quando l’Assemblea Costituente non convergerà sul nome di Enrico de Nicola, il quale verrà a sua volta succeduto da Luigi Einaudi, il primo Presidente della Repubblica eletto con le regole della Costituzione dal primo parlamento repubblicano così come emerso a seguito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

I risultati storico – giuridici di quel giorno furono recepiti dai nostri padri costituenti all’art.1 di apertura della nostra Costituzione. E’ questa l’occasione più puntuale che mai per capire a fondo che cosa significa essere cittadini di una repubblica democratica che si dice fondata sul lavoro ed esercitare la sovranità assegnatoci “nelle forme e nei modi stabiliti dalla Costituzione”.

Con il primo inciso viene ad essere recepito il risultato referendario, la forma di stato repubblicana, e la sua svolta storica, la democrazia. Essere in una repubblica non significa avere semplicemente un presidente della repubblica al posto del re; secondo la giurisprudenza costituzionale dietro l’espressione “repubblica” si celano tutti i grandi principi supremi inespressi che sorreggono il nostro ordinamento e la sua civiltà democratica. Al giorno d’oggi possiamo renderci conto di diverse repubbliche che molto democratiche non sono, pensiamo soltanto alle derive autocrati in Turchia, Bielorussia, Egitto; degli esempi per dire che si tratta di repubbliche de jure ma autocrazie se non dittature de facto. La repubblica e la democrazia nel nostro ordinamento rappresentano un tutt’uno inscindibile, la res publica rimane sulla carta se al metodo pluralista attraverso cui deve ordinatamente dipanarsi il dibattito politico, si annidano concentrazioni di potere o prendono forma monopartitismi autoreferenziali.

Alla repubblica democratica si decide poi di dare una caratteristica e di fondarla sul “lavoro”. Quali tra le alternative al lavoro quelle più prospettabili: la famiglia, la persona, l’uguaglianza? La scelta sul lavoro è assieme al concetto di democrazia un rovesciamento in positivo del precedente regime fascista e rifiuta due concezioni di comunità. La prima, quella retrograda assolutistica, che coerentemente se avesse fondato su qualcosa  la sua forma di stato  lo avrebbe forse fatto sul privilegio, sul diritto di nascita che avrebbe permesso di ereditare ai “soliti noti” il governo e le redini della società. Noi invece ci fondiamo sul lavoro per superare quell’altra visione di lavoro fascista che non ci piace, che non lo riconosce tanto come sviluppo morale della persona e delle sue capacità di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art.4 Cost.), quanto come servigio del lavoratore in favore del regime e per l’esaltazione della nazione.

Col secondo comma viene individuato il titolare della sovranità, dopo che l’Italia è detta repubblica democratica la sovranità è attribuita al popolo. E’ però interessante soffermarsi sulle declinazioni di questa sovranità, che trova un limite ben radicato nelle forme e nei modi stabiliti dalla Costituzione.

Non è irragionevole farsi venire un dubbio, cioè se sia veramente tale un sovrano che deve esercitare la sua sovranità con dei limiti. Probabilmente all’articolo primo i nostri padri costituenti vorrebbero dirci tra le righe qualcosa di più profondo.

La sovranità statale nasceva sciolta da vincoli, le monarchie assolute vedevano all’apice della struttura di stato i loro sovrani che esercitavano il potere sciolti da ogni tipo di vincolo terreno. Nei primi decenni del Novecento passeranno alla storia le forme di stato totalitarie, che concentreranno i poteri di governo nella figura totalizzante dei propri dittatori. Pensare che la forma di stato repubblicana sia speculare alle due e collochi come sovrano assoluto il suo popolo anziché un ministro di stato è fraintendere. Il concetto di sovranità non è infatti rivolto ad un’entità individuabile ma consiste nell’esercizio di funzioni, riconosciute al popolo, e che devono esercitarsi entro delle coordinate giuridico – costituzionali. Per cui, il cittadino è sovrano nell’esercitare i suoi diritti di voto ed eleggere i propri rappresentanti in Parlamento nelle tornate elettorali, ma non lo è di manomettere quel patto di popolo che si è siglato il 2 giugno 1946. Alcuni limiti sono valicabili, altri dimostrano di poter sospendere la sovranità di cui il popolo è portatore. La Costituzione non potrebbe mai considerarsi perpetua, gli uomini che l’hanno pensata lo hanno fatto inserendo delle norme programmatiche per il futuro ma è impensabile che potessero prevedere che cosa sarebbe potuto accadere fino ai giorni nostri. I mutamenti del tempo e il passare delle generazioni devono quindi esigere degli adeguamenti al testo così come pensato nel 1948; un modo legittimo per farlo c’è e la rigidità della nostra Carta impone che lo si faccia per il tramite di un procedimento aggravato ex art.138 Cost. a cui aderisca la quasi totalità delle forze politiche in campo. La Costituzione è la nostra casa comune, non è tollerato che il governo di turno possa intestarsela con la sola maggioranza semplice, è necessario un consenso allargato andandosi al di là delle ordinarie dialettiche tra maggioranza e opposizione solite di un procedimento di legge.

Quanto è invalicabile invece è tutto ciò che possiamo correttamente individuare nell’inciso dopo la virgola che limita la sovranità nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione. E qui ci torna utile la definizione che abbiamo dato di repubblica, una scelta sulla nostra forma di stato, certo, ma anche un’opzione gravida di una serie di principi, valori, condizioni in grado di concretizzarla in una democrazia. Che la forma di stato repubblicana non sia modificabile ce lo dice l’art.139 Cost.: la nostra Carta fondamentale dopo averci detto che cosa si può modificare e come farlo, ci dice cosa non lo è. Se però abbiamo inteso che i concetti di repubblica e democrazia devono necessariamente coesistere, deduciamo che altrettanto immodificabili sono quei principi sottaciuti che stanno dietro la scelta repubblicana e che fanno della nostra forma di stato una democrazia di nome e di fatto. Valori che riposano in larga parte nell’alveo dei “Principi fondamentali” della nostra Carta dagli artt.1-12, per cui sarebbe impensabile, per farne un esempio, escogitare una via costituzionale che appaghi un’insofferente ondata di popolo che vorrebbe privare il Parlamento dell’esclusivo potere di stabilire i casi in cui limitare la libertà personale e magari riconoscere una siffatta facoltà ai giudici. L’esempio inverosimile ci serve per dire che nell’ipotesi paventata un principio supremo del nostro ordinamento (la separazione dei poteri) sarebbe violato, ed urgerebbe al più presto un ripristino della democraticità del sistema.

Dire che queste operazioni non si possono fare, significa affermare che non sono regolate entro i canoni della legalità. Il popolo sovrano non trova un modo giuridicizzato per mangiarsi la repubblica o sbarazzarsi di uno fra i suoi principi più supremi: per la prima l’art.139 lo vieta espressamente, per i secondi sarebbe attentata quella nozione lata di repubblica con tutte le sue sottomanifestazioni. Un impasse da cui però si deve uscire può venire a crearsi: il popolo decide di

non demordere e insistere con l’autoattribuirsi queste spettanze. Nell’ipotesi non esisterebbe alcuna norma che tratterrebbe il “furor di popolo”, e nessuno potrebbe concretamente impedirgli questi strappi, ma l’unica via che gli è possibile é quanto di più eversivo le storie dei popoli possano conoscere nelle rivoluzioni. Possiamo vederla anche da un altro punto di vista, il fatto di avere un articolo 139 così importante di per sé non ci preserva dagli atti di violenza, di strappo e di eversione della legalità costituzionale.

E’ per questo motivo che quando si discute di sovranità in termini costituzionali bisogna sempre ragionare in termini giuridici, giuridicamente il popolo non può essere chiamato a prendere questo tipo di decisioni perché certe decisioni le ha già prese la Costituzione. L’idea di sovranità ascritta ad un’entità individuata o individuabile è dunque passatista, il popolo è sovrano ma il suo potere è un insieme di funzioni che non gli danno la possibilità di sopraelevarsi alla protezione ineludibile dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Probabilmente quello che i nostri padri costituenti tra le righe ci dicono è che la titolarità della sovranità sia nella Costituzione.